TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA Sezione civile Settore lavoro Il giudice del lavoro Dario Bernardi a scioglimento della riserva assunta in data di ieri, pronuncia la seguente Ordinanza di rimessione della questione della legittimita' costituzionale del 18, settimo comma, legge n. 300/1970 (statuto dei lavoratori). Motivi 1 - Fatto e processo a quo. Con ricorso CSF Europe S.r.l. proponeva opposizione ai sensi dell'art. 1, comma 51 della legge n. 92/2012 avverso l'ordinanza che, a conclusione della prima fase del c.d. rito Fornero, aveva disposto la reintegra di Maurizio Patrizi, licenziato tre volte nel giro di alcuni mesi, una delle quali per giustificato motivo oggettivo, le altre per giusta causa. In particolare: 1. il primo e' un licenziamento per giusta causa: procedimento disciplinare iniziato con missiva del 9 ottobre 2018, sanzione comminata con missiva del 22 ottobre 2018; 2. il secondo e' un licenziamento per giustificato motivo oggettivo: procedura iniziata con la comunicazione preliminare del 12 ottobre 2018; licenziamento comminato con missiva del 22 novembre 2018; 3. il terzo e' ancora un licenziamento per giusta causa: procedimento disciplinare iniziato con missiva del 28 gennaio 2019; sanzione comminata con missiva del 12 febbraio 2019. In questa sede di opposizione CSF Europe S.r.l. concludeva domandando «Si chiede che l'ill.mo Tribunale -Giudice del lavoro- adito competente per la fase di opposizione ex art. 1, comma 51°- 57°, legge n. 92/2012, contrariis rejectis e previa ogni declaratoria meglio vista, voglia, in riforma della ordinanza opposta, - respingere siccome infondate in fatto e in diritto le domande proposte nella precedente fase dal ricorrente nei confronti della CFS Europe S.p.a. e, pertanto, rigettare il ricorso e le domande tutte, anche successivamente proposte; condannare conseguentemente il sig. Maurizio Patrizi alla restituzione in favore della CFS Europe S.p.a. della somma a lui corrisposta, come documentato in atti, in esecuzione della ordinanza qui opposta, provvisoriamente esecutiva, ovvero per i titoli ad essa conseguenti per un totale di euro 94.495,10 (pari a un lordo di euro 128.355,00) oltre a quelle che dovesse ulteriormente corrispondere per lo stesso titolo, ovvero della diversa somma e del diverso titolo che eventualmente risultera' dovuto, con i conguagli fra le diverse poste che dovessero necessitare, con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo; nel caso di accoglimento di taluna domanda dell'odierno opposto, voglia comunque (salvo gravame) limitarla ai minimi indennitari». CSF Europe S.r.l. precisava nell'atto di non impugnare le statuizioni contenute nell'ordinanza opposta relativamente alle decisioni sui due licenziamenti per giusta causa ritenuti in prime cure illegittimi, con la conseguenza che l'oggetto attuale del giudizio rimane esclusivamente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Maurizio Patrizi si costituiva con memoria proponendo una domanda riconvenzionale, anche in punto di esatta determinazione dell'indennita' allo stesso spettante in seguito all'esercizio dell'opzione in luogo della effettiva reintegra («...condannare CFS al pagamento della somma di euro 8.977,50 a titolo integrazione per la opzione esercitata dal sig. Patrizi alla reintegra nel posto di lavoro»). 2 - L'oggetto del giudizio di costituzionalita': la norma. L'oggetto dell'ordinanza di rimessione e' l'attuale versione dell'art. 18, settimo comma, legge n. 300/1970, nella parte in cui tale disposizione regolamenta la massima tutela prevista in ipotesi di licenziamento per giusta causa che venga ritenuto dal giudice viziato nella maniera piu' conclamata possibile. La norma prevede, infatti, che il giudice possa «[Puo'] altresi' applicare la predetta disciplina [ossia quella di cui al quarto comma dell'art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». 3 - I parametri. Si ritiene che tale disposizione ordinaria sia in contrasto con alcuni parametri costituzionali. In particolare si tratta delle seguenti disposizioni: art. 3, primo comma della Costituzione, con riferimento all'art. 18, quarto comma, legge n. 300/1970; art. 41, primo comma, della Costituzione; art. 24 della Costituzione; art. 111, secondo comma della Costituzione. Come si avra' modo di illustrare in seguito, alcuni dei profili problematici della disposizione qui in oggetto coinvolgono piu' parametri e, operando in modo incrociato, determinano, al contempo, una lesione di due o piu' norme costituzionali (p.e. articoli 24 e 3, primo comma; articoli 24 e 111, secondo comma, della Costituzione). 4 - La questione. Si dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo comma, legge n. 300/1970 laddove prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O., «possa» e non «debba» applicare la tutela di cui al quarto comma dell'art. 18, ossia la tutela reintegratoria attenuata, in alternativa a quella di cui al quinto comma (risarcitoria). La questione si pone con riferimento all'art. 3, primo comma della Costituzione, all'art. 41 della Costituzione, all'art. 24 della Costituzione e all'art. 111, secondo comma della Costituzione. In sintesi si dubita che, gia' per il solo fatto di porsi il problema della reintegrabilita' o meno del lavoratore in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ordine al quale si e' accertata in giudizio la manifesta insussistenza del fatto, si violi la Suprema Carta in quanto: si tratterebbero in modo ingiustificatamente differenziato (a livello di tutele) situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l'infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il G.M.O.); tale differenza di tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell'altro l'atto esplosivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso (art. 3, primo comma); si verrebbe a conferire al giudice un potere di scelta di tipo squisitamente imprenditoriale, ossia ed essenzialmente, il potere di comminare un nuovo ed autonomo atto espulsivo in relazione ad un lavoratore che avrebbe dimostrato di essere stato illegittimamente licenziato e che andrebbe, altrimenti, reintegrato nel posto di lavoro (art. 41 della Costituzione); si verrebbe a pregiudicare il diritto di agire in giudizio del lavoratore, posto che lo stesso si troverebbe esposto all'esercizio di una facolta' giudiziale totalmente discrezionale (quella di decidere se espellere un lavoratore che, avendo dimostrato la pretestuosita' del licenziamento, andrebbe altrimenti reintegrato), senza essere posto nella facolta' di difendersi e dovendo subire, proprio nel momento della tutela dei propri diritti (avendo egli dimostrato di essere stato licenziato manifestamente ingiustamente), il potenziale arbitrio (nella migliore delle ipotesi l'esercizio di un potere imprenditorial-giudiziale) di chi dovrebbe tutelarlo (reintegrandolo); non vi sarebbe un giusto processo (cio' che richiede l'esistenza di un giudice terzo, ossia «non parte») facendo assumere al giudice il ruolo dell'imprenditore, chiedendogli di adottare un'opzione di gestione dell'impresa, qual e' un atto espulsivo, in alternativa alla altrimenti dovuto reintegra; 5 - Rilevanza della questione. La questione e' rilevante in quanto la norma censurata viene in diretta ed immediata applicazione nel caso di specie, posto che il giudizio a quo verte su un licenziamento per G.M.O. in relazione al quale, laddove fosse accertata (come peraltro avvenuto nella prima fase del rito legge n. 92/2012, art. 1, commi 47 ss.) la illegittimita' per (manifesta) inesistenza del fatto, dovrebbe essere applicato il potere discrezionale giudiziale di scegliere se reintegrare o meno il lavoratore (e, dunque, se applicare il quarto o il quinto comma dell'art. 18). La data di assunzione del ricorrente (anno 2001, anteriore al 7 marzo 2015) e i requisiti dimensionali dell'impresa (con circa cinquanta dipendenti in media) importano l'applicazione dell'art. 18, legge n. 300/1970 (che, infatti, non e' in contestazione tra le parti e non e' stata oggetto di specifico motivo di opposizione). Va, inoltre, evidenziato che, nel caso di specie, il lavoratore, all'esito della prima fase per lui vittoriosa del giudizio ex legge n. 92/2012, art. 1, commi 47 ss., avendo egli ottenuto la reintegra, ha esercitato il diritto di optare per l'indennizzo monetario (quindici mensilita'), trasformando la reintegra in un risarcimento del danno. Non si puo' qui ritenere che l'esercizio di tale opzione valga, in senso contrario, a privare di rilevanza la questione nel giudizio a quo, posto che, comunque, anche la scelta tra l'applicazione della tutela del quinto e quella del quarto comma «indennitarizzata» dalla scelta del lavoratore, conduce a conseguenze diverse in punto di quantum risarcitorio e, dunque, conserva, comunque, una specifica e decisiva rilevanza. Infatti, solo applicando il quarto comma al risarcimento ordinario andrebbe aggiunto il quid pluris di risarcimento proprio della monetizzazione della reintegra, altrimenti non spettante nell'ipotesi del quinto comma. Evidentemente, nemmeno puo' rilevare in senso ostativo alla rilevanza della questione la circostanza che la tutela del quarto comma sia stata gia' concessa all'esito della prima fase, posto che l'esito della fase che si conclude con sentenza del Tribunale puo' bene essere di segno opposto rispetto a quella che si conclude con ordinanza, potendo tale giudizio avere la stessa estensione oggettiva del giudizio di prime cure ed essendo nello stesso, pertanto, pienamente (ed anzi doverosamente) riesaminabile la questione della scelta dell'applicazione del quarto o del quinto comma ai sensi del comma 7 dell'art. 18. Come visto, CFS Europe S.r.l. ha impugnato la statuizione relativa al licenziamento per G.M.O., che residua quale oggetto del giudizio a quo. La questione di legittimita' costituzionale, pertanto, e' sicuramente rilevante nel giudizio a quo. 6 - L'impossibilita' di una interpretazione adeguatrice. La norma di legge (settimo comma) e' chiara e inequivoca sul punto, prevedendo espressamente un potere discrezionale in capo al giudice (il giudice "Puo' altresi' applicare la predetta disciplina [ossia quella di cui al quarto comma dell'art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo). L'interprete deve, inoltre, tenere conto che, in ipotesi di licenziamento per giusta causa del quale si accerta l'insussistenza del fatto, il legislatore prevede al quarto comma l'obbligatorieta' della sanzione della reintegra, quale unica tutela prevista per il lavoratore in ipotesi in cui si accerti in giudizio che il fatto imputatogli dal datore di lavoro non sussista. Il quarto comma, infatti, testualmente recita «Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ... annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma». Deve muoversi dalla premessa che il legislatore ha voluto creare (si tratta della peculiarita' della riforma dell'art. 18 di cui alla legge n. 92/2012) una serie di diversi rimedi per diversi vizi del licenziamento, prevedendo varie e diversificate tutele, talvolta reintegratorie, talvolta risarcitorie e, tra queste, diverse graduazioni dell'entita' del risarcimento del danno. E nel fare questo ha espressamente differenziato la tutela per il GMO da quella per la GC. Prevedendo, come appena evidenziato, una facolta' di reintegra per il primo caso e un obbligo di reintegra nel secondo caso. A fronte di tale dato letterale insopprimibile, la sola interpretazione adeguatrice sarebbe una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo, opzione ermeneutica incompatibile con il modello accentrato di verifica di costituzionalita' di cui alla Suprema Carta. Anche la Corte di cassazione ha ritenuto impossibile (peraltro proprio in relazione alla locuzione in oggetto) procedere ad interpretazioni che prescindano dal dato letterale, in quanto sostanzialmente abrogatrici della norma di legge in esame («7.2. Il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevede, inoltre, che il giudice che ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro. Nello schema legislativo e' previsto, infatti, che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti «Puo'» essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione nel posto di lavoro (comma 4 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970) oppure il risarcimento del danno (comma 5 della medesima norma), e la soluzione esegetica da privilegiare non puo' prescindere dal tenore lessicale della non potendosi condividere interpretazioni (cfr. Cassazione n. 17528 del 2017) che privino di significato il dato letterale» (Cassazione n. 10435/2018). La stessa giurisprudenza di legittimita' maggioritaria ha, conseguentemente, ritenuto di dare un contenuto alla disposizione in questione, individuando - in assenza di criteri applicativi interni alla disposizione - un vero e proprio statuto al quale il giudice di merito deve fare riferimento ed imponendo, pertanto, a quest'ultimo l'utilizzo del potere discrezionale previsto dalla disposizione in questione («L'applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale. La legge non fornisce nessuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio piu' severo o a quello meno rigoroso ma dovendo, la scelta di tale alternativa, essere motivata dal giudice, si impone all'interprete lo sforzo esegetico di individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale possa essere esercitato. Il criterio che consenta al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore puo' essere desunto dai principi generali forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosita' al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 del codice civile, applicabile anche ai casi di responsabilita' contrattuale, cfr. Cassazione n. 15726 del 2010, Cassazione n. 4925 del 2006, Cassazione n. 2569 del 2001, Cassazione n. 582 del 1973) ovvero di diminuire l'ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 del codice civile). Il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosita' di ripristinare il rapporto di lavoro puo' consentire, dunque, al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria»: Cassazione n. 10435/2018). L'orientamento in questione e' stato confermato dalle successive Cassazioni n. 2930/2019 («L'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo insussistente trova infatti inquadramento, rispetto ai rapporti di lavoro cui trova applicazione il vigente testo dell'art. 18, legge n. 300/1970, in due diverse fattispecie. Esse sono caratterizzate, l'una, dalla semplice non ricorrenza degli "estremi del predetto giustificato motivo obiettivo" e, l'altra, dalla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento", che ha l'effetto, ove ricorrente, di rimettere al giudice la decisione in ordine all'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4 cit., sulla base di una valutazione discrezionale ("puo'") da svolgere (Cassazione 2 maggio 2018, n. 10435) in forza dei principi generali in tema di tutela in forma specifica e non eccessiva onerosita' della stessa (art. 2058 del codice civile) ed applicandosi altrimenti, pur nel palesarsi del vizio di maggiore gravita', la sola tutela indennitaria di cui al comma 5. Il predetto quadro normativo e' stato del tutto ignorato dalla Corte d'appello e da cio' deriva l'accoglimento dei motivi ora in esame, con rinnessione al giudice del rinvio della corrispondente valutazione differenziale. Tale valutazione, completandosi il ragionamento sopra svolto, dovra' peraltro muovere dalla ragione di illegittimita' del licenziamento consistente nell'insussistenza dei motivi addotti con l'atto di recesso, in quanto come si e' detto giuridicamente prevalente ed assorbente, mentre ogni ulteriore profilo fattuale non potra' che rilevare quale mero elemento di contesto, al fine di verificare complessivamente, con accertamento demandato al giudice del merito, se ricorrano i presupposti di «evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento» e di «chiara pretestuosita' del recesso» (cosi' sempre Cassazione n. 10435/2018) che consentano eventualmente di addivenire, subordinatamente all'ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosita' del rimedio, alla tutela (anche) reintegratoria; applicandosi altrimenti la sola tutela risarcitoria di cui al comma 5 del citato art. 18") e, seppure a livello di obiter dictum, Cassazione n. 32159/2018 ("La "manifesta insussistenza" va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice puo' applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro (Cassazione n. 10435 del 2018)». L'orientamento contrario, che appare numericamente minoritario, e' stato sostenuto da alcuni precedenti di Cassazione (n. 7167/2019, secondo la quale «5. Ne consegue che l'espressione "puo' altresi' applicare", che compare al principio della disposizione in esame, non assegna al giudice un margine ulteriore di discrezionalita' (tra casi reputati meritevoli della piu' severa sanzione per la loro estrema gravita' e casi che, pur rivelandosi compresi anch'essi nell'identico e comune ambito di eccezione, non siano considerati tali), posto che, ove il fatto sia caratterizzato dalla "manifesta insussistenza", e' unica, e soltanto applicabile, la protezione del lavoratore rappresentata dalla disciplina di cui al comma 4»), ma non appare suscettibile di essere seguito, in quanto propone una interpretazione essenzialmente abrogativa di un testuale elemento normativo. L'esistenza di tale ultimo orientamento non esclude - a parere di chi scrive - l'ammissibilita' della presente questione di legittimita' costituzionale. Escludendo, infatti, la possibilita' di rimettere alla Corte tale questione, il giudice sarebbe chiamato a conferire alla norma due interpretazioni possibili, entrambe tuttavia ritenute incostituzionali. La prima, applicando l'orientamento maggioritario della S.C., lo porterebbe a quel giudizio discrezionale sulla reintegra che si ritiene in contrasto con gli articoli 3, 41 e 24 della Costituzione La seconda, «abrogando» il «puo'» di cui al settimo comma, lo porterebbe al diretto contrasto con il sistema di garanzie previsto dal titolo VI, sezione I della Carta costituzionale ed in particolare con il sistema accentrato di controllo di costituzionalita' ispirato al modello kelseniano. Non si e', pertanto, in presenza di una pluralita' di orientamenti interpretativi tutti parimenti sostenibili, dai quali sceglierne uno non in contrasto con la Costituzione (cio' che, effettivamente, importerebbe l'inammissibilita' di una q.l.c.). Un'ultima notazione in punto di interpretazione adeguatrice. La norma, come visto, nasce «in bianco», ossia del tutto priva di criteri applicativi. E, come visto, parte della giurisprudenza della S.C. ha tentato di applicare criteri generali al fine di disciplinare tale disposizione ed il potere che la stessa prevede. Nel fare cio', tale giurisprudenza, a parere di chi scrive, ha essenzialmente introdotto, all'interno di una fattispecie di accertamento giudiziale su di un atto di autonomia privata (il licenziamento), la facolta' per il giudice di comminare un ulteriore licenziamento per G.M.O. sulla base di fatti diversi da quelli (pretestuosi) posti a fondamento del licenziamento impugnato e ad esso addirittura sopravvenuti. Puo' ritenersi che tale interpretazione - mediante il richiamo ai principi generali in tema di risarcimento in forma specifica - fosse l'unica praticabile. Con la conseguenza che non sussiste la possibilita' di una ulteriore interpretazione adeguatrice della disposizione, sotto il punto di vista dei criteri ai quali il giudice deve rifarsi nell'esercizio del potere di scegliere se reintegrare o meno. Resta evidente il fatto che anche laddove tale interpretazione (come detto, probabilmente l'unica possibile) dovesse essere abbandonata, per le conseguenze alle quali la stessa giunge, l'assenza di criteri normativi interni all'art. 18, settimo comma varrebbe comunque ad importare l'incostituzionalita' della disposizione la quale andrebbe a conferire un vero e proprio potere imprenditoriale al giudice, il potere di licenziare, per giunta completamente sganciato da ogni criterio applicativo, introducendo cosi' una sorta di licenziamento giudiziale ad nutum (si tratterebbe, dunque, di un potere di gestione imprenditoriale addirittura maggiore rispetto a quello riservato dalla legge all'imprenditore stesso). Le considerazioni che seguono, pertanto, saranno da riferire non solo all'art. 18, settimo comma nella versione datane dall'indirizzo maggioritario della S.C., ma ad ogni possibile interpretazione che dovesse essere adottata in relazione a tale disposizione. Peraltro, con riferimento al vizio di cui all'art. 3, primo comma della Costituzione, e' del tutto irrilevante che i criteri ermeneutici siano previsti dalla norma o che siano stati introdotti in via interpretativa dalla giurisprudenza, posto che quello che rileva e' esclusivamente la irragionevole disparita' di trattamento di due situazioni uguali (licenziamento del tutto ingiustificato, sia esso stato intimato per G.C. o per G.M.O.). Analogamente, per le violazioni dell'art. 24 e 111, secondo comma della Costituzione, e' del tutto irrilevante quali criteri il giudice debba prendere in considerazione per esercitare tale potere discrezionale, posto che vengono in discussione ragioni ed esigenze di difesa in giudizio e di giusto processo in relazione al meccanismo di cui al settimo comma dell'art. 18. 7 - La non manifesta infondatezza della questione. 1° Vizio: contrasto con art. 3, primo comma della costituzione. Tertium comparationis: art. 18, quarto comma statuto dei lavoratori, ossia la disciplina prevista per il licenziamento per giusta causa. Ai sensi di tale disposizione: «Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perche' il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attivita' lavorative, nonche' quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennita' risarcitoria non puo' essere superiore a dodici mensilita' della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attivita' lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attivita' lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennita' sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma». Tale disposizione va, dunque, confrontata con quella qui in esame, ai sensi della quale il giudice «Puo' altresi' applicare la predetta disciplina [ossia quella di cui al quarto comma dell'art. 18, ossia la tutela reale attenuata] nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». Il confronto permette di evidenziare un trattamento irragionevolmente discriminatorio tra situazioni identiche. Si tratta in entrambi i casi di fattispecie estintive per volonta' datoriale. Si tratta di due regimi sanzionatori entrambi relativi all'ipotesi di accertamento in giudizio dell'inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento. Dunque, due licenziamenti in ordine ai quali e' stato accertato che manca del tutto il fondamento, la ragione giustificativa. Nel caso del GMO, inoltre, l'accertamento dell'inesistenza del fatto e' processualmente aggravata dalla necessita' di un metro di valutazione delle prove secondo il parametro della «manifesta insussistenza» (in luogo del piu' favorevole regime valevole in tema di giusta causa, secondo il metro di giudizio della preponderanza probatoria propria del rito civile), cio' che permette di qualificare l'iniziativa datoriale come del tutto pretestuosa («In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ricorre l'ipotesi della "manifesta insussistenza del fatto", di cui al comma 7 dell'art. 18, st. lav., come novellato dalla legge n. 92 del 2012, allorche' il nesso causale tra il riassetto organizzativo e la soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato sia eliso da una condotta datoriale obiettivamente e palesemente artificiosa ...»: Cassazione n. 7167/2019). Tra un licenziamento per G.M.O. fondato su un fatto (manifestamente) inesistente e un licenziamento per G.C. fondato su un fatto (semplicemente) inesistente non vi e' una differenza ontologica, naturalistica. E' solo la volonta' del datore di lavoro a qualificare un licenziamento per G.C. o per G.M.O. E tale mera e insindacabile (alla fonte) volonta' datoriale non puo' fondare la differenza di trattamento tra due licenziamenti entrambi fondati su fatti accertati come inesistenti. Qui la norma di legge ha errato nel porre a fondamento di una distinzione estremamente rilevante in punto della tutela del lavoratore, non gia' una determinata tipologia di vizio, oppure il dato proveniente da un accertamento oggettivo compiuto dal giudice, bensi' una mera qualifica, una etichetta, che solo il datore di lavoro puo' apporre al proprio atto. Tale etichetta diventerebbe intangibile, anche ex post, se nemmeno l'accertamento da parte del giudice che il motivo oggettivo posto a fondamento dell'atto espulsivo era pretestuoso, fosse in grado di riavvicinare (alla foce), le tutele previste per il licenziamento per G.M.O. alle tutele previste per il licenziamento per G.C. Non puo', dunque, essere (come al contrario avviene nell'attuale sistema dei commi quarto e settimo dell'art. 18) che la qualifica del licenziamento come per giustificato motivo oggettivo ad opera del datore di lavoro, anche nella prospettiva ex post dell'accertamento dell'inesistenza del motivo fondante lo stesso, possa continuare comunque a regolarne gli effetti, importando una diversa disciplina, rispetto ai licenziamenti per giusta causa. Ne consegue che un licenziamento di cui si e' accertata in giudizio l'insussistenza del fatto fondante e' semplicemente un licenziamento privo di giustificazione, a prescindere dal motivo formale (giusta causa o giustificato motivo che sia) addotto dal datore di lavoro per giustificarlo. Ne consegue, ancora, che l'accertamento dell'insussistenza del fatto deve condurre ad una considerazione unitaria del fenomeno del licenziamento dal punto di vista sanzionatorio, senza possibilita' di discriminare tra GC e GMO, altrimenti sarebbe la semplice qualificazione data dal datore di lavoro al momento del licenziamento a importare la scelta (da parte del datore di lavoro) della tutela esperibile in favore del lavoratore, scelta che va rimessa esclusivamente alla legge (e che, ovviamente, deve essere la stessa per vizi identici, ossia per licenziamenti il cui fatto costitutivo sia stato dimostrato come del tutto infondato). Nel sistema attuale, al contrario, l'art. 18, settimo comma prevede che sia sufficiente la qualifica data dal datore di lavoro al proprio atto unilaterale espulsivo, per determinare di per se' - in base alla legge che si assume incostituzionale - e a parita' di inesistenza dei presupposti legittimanti il licenziamento, un trattamento sanzionatorio deteriore (rispetto a quello previsto per la G.C.) per il lavoratore, trattamento che si realizzata mediante l'applicazione di una serie di ostacoli alla sanzione restitutoria altrimenti applicabile in favore del lavoratore. Con la conseguenza che risulta previsto dalla stessa disposizione normativa un meccanismo elusivo, un escamotage, volto a penalizzare ingiustificatamente le ipotesi di reintegra e che si impernia sulla mera qualifica datoriale circa la natura di G.M.O. del licenziamento. Il potere discrezionale di scelta tra reintegra e indennizzo risulta ancora meno giustificato se si guarda al fatto che, in alternativa alla reintegra che gli spetta, il lavoratore puo' optare (e spesso opta, potendo farlo addirittura con la stessa proposizione del ricorso introduttivo) per una tutela solo monetaria (opzione per quindici mensilita'). Rendendo cosi' del tutto omogeneo, anche dal punto di vista della forma risarcitoria, la tutela del quarto e del quinto comma dell'art. 18, richiamati dal settimo comma quali alternative da disporsi discrezionalmente ad opera del giudice. Sempre il riferimento all'opzione (peraltro nel caso di specie puntualmente esercitata dal lavoratore successivamente alla prima fase) e alla conseguente conversione dell'obbligazione restitutoria in monetaria, rende evidente l'inapplicabilita' di criteri applicativi (in relazione al potere discrezionale di reintegra) quale l'eccessiva onerosita' della reintegra, considerato come l'esercizio dell'opzione vale a rendere potenzialmente e astrattamente equivalente (salve le singole quantificazioni giudiziali all'interno delle forbici edittali) dal punto di vista monetario la tutela del quinto comma (nel massimo ventiquattro mensilita') rispetto a quella del quarto (retribuzione dalla data del licenziamento alla pronuncia col limite di dodici mensilita', oltre alle quindici mensilita' dell'opzione). L'esercizio dell'opzione, pertanto, rappresenta, proprio nell'applicazione del criterio discretivo fornito dalla S.C., la cartina al tornasole che conferma l'irragionevolezza del sistema complessivamente adottato, che puo' giungere a differenziare, in ragione di una «eccessiva onerosita' di ripristinare il rapporto di lavoro», due tutele in definitiva parimenti indennitarie, diverse nel solo quantum, ma fondate sullo stesso identico presupposto del licenziamento illegittimo per grave mancanza (insussistenza) del fatto posto a fondamento dello stesso. Non vi puo' essere, infine, argomentazione contraria all'irragionevolezza del trattamento discriminatorio qui in esame, sulla base della discrezionalita' dell'impiego della tutela reintegratoria ad opera legislatore (il tema e' quello della mancanza di copertura costituzionale per la reintegra). Infatti, nel caso di specie si discute di trattamento discriminatorio tra una ipotesi che riconosce la reintegra ed una del tutto identica nei suoi elementi costitutivi, che (per il tramite del giudice) la puo' arrivare a negare. Ne discende che se il legislatore adotta la sanzione della reintegra per alcune ipotesi, deve accettare gli effetti che derivano dall'inoculazione di una tale forma di tutela nel sistema, tra cui proprio la sottoposizione al vaglio costituzionale della creazione di ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche. Nemmeno puo' esserci argomentazione contraria fondata sulla diversita' del G.M.O. rispetto alla G.C., posto che, come detto, tale differenza puo' dirsi sussistente solo in ipotesi in cui tali motivazioni fondanti gli atti espulsivi siano sussistenti; laddove siano risultate (peraltro gravemente nel settimo comma) insussistenti, sono da qualificarsi quali meri atti datoriali illegittimi, indistinguibili tra loro da alcun punto di vista. Qui la violazione dell'art. 3, primo comma della Costituzione (per essere due fenomeni uguali trattati in modo ingiustificatamente diverso) finisce per attingere anche l'art. 24 della Costituzione, posto che il diritto di azione del lavoratore viene ingiustamente sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria, di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla mera insindacabile (nemmeno ex post) volonta' qualificatoria datoriale. Proprio nel momento in cui viene in essere un «licenziamento pretestuoso» (e, dunque allorquando la tutela per chi ha subito tale grave illecito dovrebbe essere massima), il diritto di azione del lavoratore e' ingiustificatamente e gravemente pregiudicato. Con una scelta che, pertanto, non appare rispettosa della Costituzione. Un ultimo profilo, al riguardo, merita di essere evidenziato. Si tratta della disparita' di trattamento sempre tra la fattispecie del licenziamento per G.M.O. e quella del licenziamento per G.C., disparita' veicolata dall'interpretazione (correttiva) data dalla S.C. al fine di fornire i criteri applicativi della facolta' discrezionale di cui al settimo comma dell'art. 18. Infatti, solo per un licenziamento pretestuoso giustificato dal datore di lavoro con un (insussistente) giustificato motivo oggettivo il giudice dovrebbe prendere in considerazione l'art. 2058 del codice civile (come limite alla reintegra), mentre nulla di tutto cio' dovrebbe fare con riferimento ad un licenziamento semplicemente infondato e motivato sulla giusta causa. 2° Vizio: contrasto con art. 41, primo comma della Costituzione. La previsione di un potere discrezionale (reintegrare o non reintegrare), peraltro nell'assoluta mancanza di criteri normativi in base ai quali orientare l'interprete nella scelta se applicare o meno la sanzione della reintegra, concede al giudice un potere essenzialmente assimilabile all'esercizio dell'attivita' di impresa, in violazione dell'art. 41, primo comma della Costituzione, in base al quale l'iniziativa economica privata e' libera. Non vengono qui in rilievo questioni di limiti alla stessa ai sensi dei commi secondo e terzo dell'art. 41 («Non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana» e «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perche' l'attivita' economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»), posto che la disposizione qui censurata, in realta', pone limiti proprio ai limiti all'iniziativa economica privata. Viola l'art. 41, primo comma anche l'eventualita' che i criteri in questione siano forniti in via interpretativa ad opera della giurisprudenza, anche di legittimita'. Infatti ed anzi proprio le indicazioni interpretative fornite dalla S.C. per tentare di colmare il vuoto siderale della disposizione de qua («puo'») inducono vieppiu' a qualificare quanto dalla norma viene richiesto di fare al giudice come un vero e proprio intervento (para)imprenditoriale. Nella sostanza, una volta accertata l'insussistenza manifesta del fatto posto alla base del licenziamento, viene chiesto al giudice di valutare una opzione di gestione dell'impresa: reintegrare il lavoratore, come avrebbe diritto nell'ipotesi del tutto speculare di mancanza di giusta causa, oppure espellerlo dall'azienda. E nel fare cio', si chiede al giudice di procedere (peraltro d'ufficio, posto che le sentenze sopra richiamate di Cassazione hanno cassato sentenze d'appello che avevano pretermesso una tale verifica) ad una valutazione inerente alla struttura organizzativa aziendale («valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa»: sempre Cassazione n. 10435/2018). Esattamente quello che l'art. 3 della legge n. 604/1966 chiama motivo oggettivo di licenziamento («ragioni inerenti all'attivita' produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa»). L'atto espulsivo ulteriore, adottabile dal giudice all'esito del processo decisionale imposto dalla norma («puo'»), conseguentemente, altro non e' che un ulteriore e nuovo licenziamento per giustificato motivo oggettivo («incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa») in piena regola, deciso dal giudice, in luogo della reintegra prevista per altre situazioni identiche. Non risulta, tuttavia, che il giudice possa sindacare le scelte organizzative imprenditoriali. Ne' tantomeno che possa fare scelte organizzative riservate all'imprenditore. Il modello adottato dalla Grundnorm all'art. 41 puo' prevedere esclusivamente che sia il datore di lavoro, nel caso di mutato assetto organizzativo «medio tempore assunto» a potere intimare un nuovo e successivo licenziamento al lavoratore gia' licenziato e reintegrato. Non si vede come e perche' un tale atto, ontologicamente imprenditoriale, dovrebbe obbligatoriamente essere rimesso alla discrezionalita' del giudice, il cui ruolo e', piuttosto, quello di verificare ex post la legittimita' estrinseca delle scelte imprenditoriali (come detto, senza peraltro potervi entrare nel merito). Ne consegue, ad avviso di chi scrive, che e' incostituzionale per contrasto con l'art. 41, primo comma della Costituzione una norma, qual e' quella impugnata, che obbliga il giudice a dovere prendere in considerazione, dopo avere accertato che un licenziamento e' fondato su un fatto inesistente, in luogo della reintegra (che la legge a questo punto prevede, seppure come alternativa), di procedere ad un ulteriore licenziamento, da fondare su valutazioni dello stesso giudice e che, nella peggiore delle ipotesi (lettera della norma) sono del tutto discrezionali (si potrebbe dire «ad nutum»), mentre nella migliore delle ipotesi (orientamento maggioritario della S.C.) vanno prese nel rispetto dell'art. 3 della legge n. 604/1966 ed in particolare concretizzano un ulteriore G.M.O. di licenziamento. Dunque, la disposizione di cui all'art. 18, settimo comma, legge n. 300/1970 viola l'art. 41, primo comma, sia nella versione letterale, sia nella versione reinterpretata dalla S.C. con il riferimento ai criteri di cui all'art. 2058 del codice civile. Sia in ogni altra possibile versione della norma, che non fosse abrogativa dello stesso potere qui in discussione. 3° Vizio: contrasto con l'art. 24 della Costituzione. Alla luce di tutto quanto appena sopra esposto, nella lunga a tortuosa strada che potrebbe portare alla reintegra, un lavoratore ingiustamente licenziato sulla base di un fatto inesistente, semplicemente perche' questo fatto e' stato qualificato dal datore di lavoro come «oggettivo», si troverebbe davanti - dopo avere gia' dimostrato di avere ragione - un'ulteriore avversario: il giudice. Un giudice che, al termine del processo istruito e deciso sull'esistenza o meno della motivazione addotta a fondamento del licenziamento, dovrebbe vestire i panni del datore di lavoro, andare alla ricerca di potenziali ostacoli alla tutela restitutoria e, quindi, valutare se e' il caso o meno - per il migliore funzionamento dell'impresa - di licenziare nuovamente il lavoratore in luogo che reintegrarlo. Tutto questo, peraltro, in uno scenario officioso, nel quale il giudice dovrebbe, autonomamente, instaurare un vero e proprio processo alla reintegra. Si tratta, evidentemente, di un processo (come detto, un possibile nuovo licenziamento per G.M.O.), nel processo. Un processo sul quale le parti possono (come e' anzi la regola in questi casi) non avere speso una sola argomentazione fattuale difensiva sulla questione. Un processo incardinato d'ufficio ad opera non di una parte, bensi' dell'arbitro della contesa. Peraltro, un processo pure potenzialmente complesso, venendo in rilievo questioni organizzative aziendali e che, per complessita' e necessita' di accertamenti, puo' anche superare (anche dal punto di vista della durata, oltre che degli incombenti istruttori) il processo al licenziamento (pretestuoso) per G.M.O. intimato dal datore di lavoro. Riepilogando, un lavoratore, licenziato sulla base di un giustificato motivo oggettivo del tutto pretestuoso (manifestamente infondato) e che cercasse giustizia in Tribunale impugnando uno specifico e determinato licenziamento, si troverebbe esposto - dopo avere dimostrato di avere ragione ed in luogo di essere reintegrato - ad un possibile ulteriore atto espulsivo, comminato dal giudice, e non dall'imprenditore, sulla base di motivi sopravvenuti e dei quali mai, in precedenza, e' stato messo al corrente. Si ritiene, inoltre, che qui proprio la fattispecie sostanziale oggetto di tutela giurisdizionale sia stata dal legislatore fraintesa, nel momento in cui la stessa viene resa spuria, mediante l'introduzione di elementi del tutto nuovi e diversi rispetto a quello che deve essere e restare l'esclusivo oggetto del giudizio, ossia il licenziamento. Su tale secondo «licenziamento» per opera del giudice, difetta all'evidenza il rispetto delle regole procedurali in materia di licenziamento (articoli 6 e 7, legge n. 604/1966), cosi' come difetta l'azionabilita' in giudizio (perlomeno partendo dal 1° grado), essendo la tutela rimessa esclusivamente ai gravami giudiziali (con tutto quanto ne consegue, evidentemente, in termini di diritto di difesa, di preclusioni processuali, di diritto alla prova, di ambito di operativita' del principio di non contestazione, etc.). Dunque, l'iniziativa risolutoria giudiziale, incontra enormi problematiche di compatibilita' con il diritto delle parti ed in particolare del lavoratore, di potere disquisire ed entrare nel merito della stessa, con lesione dell'art. 24 della Costituzione, che al contrario prevede il diritto di tutti a potere agire in giudizio a difesa dei propri diritti, nel caso di specie conculcati da una norma che prevede una iniziativa giudiziale calata dell'alto, nel mezzo di un processo avente un altro oggetto e del tutto imprevista ed imprevedibile nei contenuti. Cio' determina una ulteriore ed evidente questione, incrociata, di lesione dell'art. 3, primo comma della Costituzione, in ragione del fatto che il «licenziamento ad opera del giudice» nell'applicazione del potere discrezionale di cui all'art. 18, settimo comma (e che si e' detto gia' sopra perche' non dovrebbe nemmeno esistere), e' trattato in modo ingiustificatamente differente e deteriore (si pensi, come detto, p.e. all'abolizione del procedimento in tema di G.M.O. e all'abolizione di un grado di giudizio) rispetto ad ogni altro normale licenziamento intimato dal datore di lavoro. Un ulteriore profilo si verrebbe a porre, inoltre, laddove tale «mutamento organizzativo medio tempore intervenuto» e ostativo al licenziamento andasse, nel frangente, a condurre anche ad altri licenziamenti per G.M.O., regolarmente intimati dal datore di lavoro. A questo punto sarebbe evidente la disparita' di trattamento tra il «licenziamento» giudiziale «in corso di causa» per G.M.O. sopravvenuto ex art. 18, settimo comma e gli ordinari ed eventuali licenziamenti comminati dall'imprenditore ed originati dallo stesso «mutamento organizzativo medio tempore intervenuto». Tali ultime argomentazioni, afferiscono sia all'art. 24 della Costituzione (venendo in questione un contrasto con il diritto all'azione), sia all'art. 3, primo comma (posto che la lesione del diritto all'azione e' correlata ad una disparita' di trattamento ingiustificata rispetto al regime di impugnazione e alle tutele previste contro i licenziamenti «ordinari», di iniziativa datoriale). Dunque, nonostante tali argomentazioni siano state spese nel paragrafo dedicato all'art. 24 della Costituzione, le stesse devono aversi come parimenti riferite all'art. 3, primo comma della Costituzione Appare integrare una violazione dell'art. 24 della Costituzione anche la circostanza - gia' esposta in relazione alla violazione dell'art. 3, primo comma della Costituzione - che la norma preveda che cio' che rilevi, al fine di individuare le tutele del lavoratore, sia il mero atto qualificatorio adottato dal datore di lavoro dell'atto di licenziamento. Senza che abbia alcun effetto l'accertamento in giudizio che quella definizione, quella etichetta, data dal datore di lavoro al proprio atto, era del tutto inesistente ed anzi era addirittura pretestuosa. Cio' importa, a modestissimo avviso di chi scrive, una palese violazione dell'art. 24 della Costituzione. La norma, al contrario, per l'ipotesi di accertamento in giudizio dell'inesistenza manifesta del motivo fondante il licenziamento, dovrebbe considerare semplicemente che si e' di fronte ad un atto espulsivo del tutto illegittimo e provvedere, conseguentemente, prescindendo dall'etichetta impiegata (a questo punto si dovrebbe dire pretestuosamente) dal datore di lavoro. E la tutela non potrebbe che essere - ex art. 3, primo comma della Costituzione - la stessa prevista per l'ipotesi identica in cui il giudice accerti che difetta il fatto posto a fondamento di un licenziamento per giusta causa, ossia la reintegra. Qui, dunque, vi e' un incrocio di violazioni di norme costituzionali (art. 24 e 3, primo comma della Costituzione) da parte della disposizione in esame. 4° Vizio: contrasto con l'art. 111, secondo comma della Costituzione. La disposizione costituzionale qui in esame prevede che «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Si ritiene che fare assumere al giudice una decisione innovativa (in quanto esulante dall'ordinaria dinamica della decisione su una fattispecie di licenziamento, che prevede l'impugnazione di un atto datoriale e che dovrebbe essere confinata a tale atto) di espellere o meno un lavoratore che avrebbe altrimenti diritto alla reintegra, avendo dimostrato l'infondatezza manifesta del licenziamento, si ponga in contrasto con la regola del giusto processo. In tal modo, infatti, si viene a richiedere al giudice, nell'ambito di una controversia, di prendere le veci di una delle parti, il datore di lavoro, per assumere in luogo di quest'ultimo una decisione gestoria dell'impresa. Cio' allontana il giudice dal suo ruolo di terzieta', che postula l'alterita' dell'arbitro rispetto ai contendenti. La norma, peraltro, nemmeno detta i criteri ai quali il giudice dovrebbe attenersi, cio' che gli consegna un potere completamente svincolato nei fini, anche superiore a quello che la legge assegna all'imprenditore (e, cosi' facendo, acuisce ancora di piu' il contrasto con l'art. 111, secondo comma della Costituzione, considerato come in tal modo il processo si allontana ancora di piu' dall'aggettivo «giusto»). E se l'orientamento maggioritario della S.C., come sopra descritto, permette di recuperare i criteri informatori della scelta giudiziale, tali criteri vengono ad appalesare vieppiu' le caratteristiche dell'opzione giudiziale («puo'») quale atto datoriale vero e proprio, allontanando anche qui il fenomeno processuale in esame dalle regole del giusto processo (terzieta'). 8 - Conclusioni. Sulla base di tutti i motivi sopra esposti, si chiede pertanto che la Corte costituzionale si pronunci per l'abrogazione del potere-dovere del giudice di comminare - nell'ipotesi di accertamento di manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del G.M.O. e in luogo della reintegra - un ulteriore atto di espulsione del lavoratore dall'azienda, dovendo, sul punto, la disciplina dell'art. 18, settimo comma, prevedere esclusivamente il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore.