IL TRIBUNALE ORDINARIO DI GENOVA 
                            Prima Sezione 
 
riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei Magistrati: 
    dott. Mario Tuttobene, Presidente; 
    dott. Maria Cristina Scarzella, giudice; 
    dott. Francesca Lippi, giudice relatore; 
a scioglimento della riserva decorrente dal 7 luglio 2020 e all'esito
della Camera  di  consiglio  tenutasi  in  data  17  luglio  2020  ha
pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte
costituzionale, nel procedimento ex art. 22  decreto  legislativo  n.
150/2011 promosso da M. L. rappresentato e difeso  dall'avv.to  Carlo
Iavicoli nei confronti di Ministero dell'interno Ufficio territoriale
di  Governo  -  Prefettura   di   Genova   rappresentati   e   difesi
all'Avvocatura Distrettuale dello Stato. 
    Sui   fatti   dedotti   e   sulle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate da Marco L. 
    M. L. e' stato eletto sindaco del Comune di C. in occasione delle
consultazioni elettorali amministrative tenutesi nella primavera  del
2017 e ha assunto la carica a partire  dall'11  giugno  dello  stesso
anno. 
    Con sentenza emessa in data 30 maggio 2019 il Tribunale di Genova
lo ha condannato alla pena di anni tre di  reclusione  in  ordine  al
reato di peculato per fatti commessi nel periodo dal  2010  al  2015,
nel quale ha rivestito la carica di consigliere regionale in Liguria. 
    Con provvedimento prot. n. 0040237 del 31 maggio 2019 il Prefetto
di Genova, avuta la comunicazione della sentenza non  definitiva  del
Tribunale di Genova, ha sospeso di  diritto  L.  ai  sensi  dell'art.
11,comma 1, lettera a) e comma 5, del decreto legislativo 31 dicembre
2012, n. 2351 dalla carica di sindaco del Comune di . 
    Nel presente giudizio L. ha rivolto al Tribunale le  domande  che
vengono qui di seguito trascritte: 
        «Piaccia  al  Tribunale  ecc.mo,  ogni   contraria   istanza,
eccezione, deduzione e/o difesa, respinta e disattesa: 
          in    via    principale:    disapplicare,     in     quanto
costituzionalmente  illegittimo,  ai  sensi  dell'art.  5,  legge  n.
2248/1865 all. E, e comunque privare di ogni giuridica efficacia,  il
provvedimento prot. n. 0040237 in data 31 maggio  2019  del  prefetto
titolare dell'Ufficio territoriale del Governo di Genova con il quale
l'attore L. M. stato sospeso: ai sensi dell'art. 11, comma 1, lettera
«a» e comma 4, decreto legislativo 31 dicembre 2012,  n.  235,  dalla
carica di sindaco del Comune di , con ogni conseguente pronuncia; 
          in via alternativa o subordinata: a)  -  preso  atto  della
questione di legittimita' costituzionale sollevata dall'attore L. M.,
ai sensi dell'art. 1 legge costituzionale 9 febbraio  1948,  n.  1  e
art. 23, primo comma, legge  11  marzo  1953,  n.  87,  in  relazione
all'art. 11, comma 1, lettera «a» e comma 4, decreto  legislativo  31
dicembre 2012, n. 235, con riguardo agli  articoli  3, comma  1,  25,
comma 2, 24, comma 1 e 2, 27, comma 2,  51, comma  1,  113, comma  1,
Costituzione, nonche' in relazione al principio di  ragionevolezza  e
di tutela dell'affidamento ed in relazione agli  articoli  6-7  CEDU,
ritenuta la stessa questione rilevante al fine  del  decidere  e  non
manifestamente infondata, disporre con ordinanza, ai sensi del citato
art. 23, secondo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87,  la  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale sospendendo conseguentemente  il
presente giudizio fino alla  pronuncia,  da  parte  della  stessa  in
ordine alla sollevata questione, con ogni conseguente  provvedimento;
b)  -  all'esito  della   pronuncia   della   Corte   costituzionale,
disapplicare ai sensi dell'art. 5,  legge  n.  2248/1895  all.  E,  e
comunque privare di ogni giuridica efficacia, il provvedimento  prot.
n. 0040237 in data 31 maggio 2019 del prefetto titolare  dell'Ufficio
territoriale del Governo di Genova con il quale  l'attore  L.  M.  e'
stato sospeso, ai sensi dell'art. 11, comma 1,  lettera  «a»  - comma
4 decreto legislativo 31  dicembre  2012  n.  235,  dalla  carica  di
sindaco del Comune di   con ogni conseguenziale pronuncia. 
    In ogni caso, con vittoria di spese e competenze di giudizio». 
    L. ha quindi chiesto, in via principale,  la  disapplicazione  ex
art. 5 legge n. 2248/1865 All. «E» del provvedimento prefettizio e in
ogni caso la declaratoria di inefficacia per illegittimita' e in  via
alternativa o subordinata, per il caso che il Tribunale non ritenesse
di immediata applicabilita' il principio di gerarchia delle fonti, ha
proposto eccezione di  incostituzionalita'  dell'art.  11,  comma  1,
lettera «a» e comma 4, decreto legislativo n. 235/2012 per  contrasto
con diversi principi costituzionali. 
    In particolare ha  denunciato  la  violazione  del  principio  di
presunzione di non colpevolezza di  cui  all'art.  27, comma  2 della
Costituzione sostenendo che, contrariamente a quanto  ritenuto  dalla
Corte costituzionale con la pronuncia n. 236/2015,  la  misura  della
sospensione abbia carattere sanzionatorio, sia per essere conseguenza
di una condanna penale  non  definitiva  che  per  il  suo  carattere
afflittivo,    consistente    nella    limitazione     dell'esercizio
dell'elettorato   passivo,   diritto   personalissimo   ed   assoluto
costituzionalmente garantito. 
    Dalla  natura  sanzionatoria  della  sospensione  deriverebbe  la
violazione dell'art. 27, comma 2, della Costituzione,  in  quanto  la
misura viene applicata automaticamente sulla base di una  presunzione
legale di colpevolezza conseguente ad una pronuncia di  condanna  non
definitiva e per un periodo di tempo prestabilito. 
    Sempre per la natura vincolata del provvedimento prefettizio,  la
disciplina  della  sospensione,  secondo  l'attore,  si  porrebbe  in
contrasto con il diritto inviolabile di difesa di  cui  all'art.  24,
comma 1 e 2, della Costituzione, il diritto di  impugnabilita'  degli
atti della pubblica amministrazione di cui  all'art.  113,  comma  1,
della Costituzione, nonche' con il diritto ad un equo processo di cui
all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberata' fondamentali (CEDU). 
    L'istituto della sospensione sarebbe inoltre in contrasto con  il
principio di ragionevolezza per quanto riguarda il bilanciamento  tra
la  finalita'  di  tutela  perseguita   e   il   sacrificio   imposto
all'interessato. La sospensione infatti si applica  anche  per  fatti
non necessariamente concernenti la carica  pubblica,  comportando  ia
privazione per diciotto mesi del diritto costituzionale di elettorato
passivo, con conseguente lesione  dell'immagine  pubblica  e  privata
dell'interessato,  sulla  base  di  una  illegittima  presunzione  di
colpevolezza, senza possibilita' di «ripristino» di detta privazione,
nemmeno in caso di successiva assoluzione. 
    Inoltre nel caso  specie,  essendo  i  fatti  per  cui  e'  stata
pronunciata la condanna non  definitiva  anteriori  alla  entrata  in
vigore del decreto legislativo - n. 235/2012 ed anteriori anche  alla
candidatura  ed  alla  assunzione  della  carica   di   sindaco,   si
configurerebbe la violazione del principio di irretroattivita'  della
legge penale di cui  all'art.  25,  comma  2,  della  Costituzione  e
dell'art. 7 CEDU. 
    La misura della sospensione contrasterebbe anche con il principio
di eguaglianza ex art. 3,  comma  1,  della  Costituzione  in  quanto
situazioni analoghe sono disciplinate in maniera diversa senza alcuna
giustificabile ragione, posto che il candidato sindaco condannato con
sentenza non definitiva per il reato di cui all'art.  314  del codice
penale,  anteriormente  alla  candidatura  ed  alla  elezione,   puo'
esercitare il proprio diritto di elettorato  passivo,  mentre  se  la
stessa condanna interviene nel periodo di esercizio della sua  carica
ex art. 11, comma 1, del medesimo  decreto  legislativo  n.  235/2012
opera automaticamente la sospensione dalla carica. 
    Infine, la sospensione, in quanto  fondata  su  una  sentenza  di
condanna non definitiva lederebbe sia il  legittimo  affidamento  del
soggetto  che   riveste   un   ruolo   istituzionale   a   proseguire
nell'incarico   ricoperto   costituente   espressione   del   diritto
costituzionale di elettorato passivo, sia la tutela  dell'affidamento
di coloro che hanno esercitato  legittimamente  il  loro  diritto  di
elettorato attivo mediante il quale un candidato e' stato eletto. 
    Secondo le difese svolte  nel  presente  giudizio  dal  Ministero
dell'interno e dalla Prefettura, invece, tutte le doglianze  espresse
dall'attore non sono meritevoli di  accoglimento  in  quanto  fondate
sulla natura sanzionatoria della misura di sospensione  prevista  dal
richiamato  art.  11,  che  deve  essere  esclusa  sulla   base   del
consolidato orientamento  della  Corte  costituzionale  di  cui  alle
sentenze numero 236/2015 e 276/2016 e 36/2019. 
    La Corte, infatti, investita in piu' occasioni della  valutazione
di eventuali profili di illegittimita' costituzionale della normativa
in  oggetto,  ha   affermato   costantemente   che   la   sospensione
«costituisce una misura cautelare diretta ad evitare che  coloro  che
sono stati condannati anche in via  non  definitiva  per  determinati
reati gravi  o  comunque  offensivi  della  pubblica  amministrazione
rivestano cariche amministrative, mettendo cosi in pericolo  il  buon
andamento dell'amministrazione stessa e la sua onorabilita', e  anche
in questi casi  il  bilanciamento  operato  dal  legislatore  fra  il
menzionato interesse pubblico  e  gli  altri  interessi,  pubblici  e
privati, in gioco, non appare irragionevole.» La Corte ha escluso che
«le  misure  della  incompatibilita',   della   decadenza   e   della
sospensione  abbiano  carattere  sanzionatorio»  rappresentando  solo
«conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per  l'accesso
alle cariche amministrative e della PA»  trattandosi  la  sospensione
«di  mera  anticipazione  dell'effetto  interdittivo  derivatone  dal
giudicato, anch'esso parimenti non diretto a finalita'  punitive».  E
ancora: «la sospensione  della  carica  prevista  nella  disposizione
all'esame di questa Corte e' limitata  a  diciotto  mesi,  decorsi  i
quali la sospensione viene meno» e  pertanto  «risulta  assente  quel
connotato di speciale gravita' necessario perche' la misura  che  non
presenta finalita' deterrente e punitiva possa essere assimilata, sul
piano della sua afflittivita', a una sanzione penale o a una sanzione
amministrativa.» 
    La natura latu  sensu  cautelare  dell'istituto  era  gia'  stata
riconosciuta dalla Consulta con riferimento alla disciplina contenuta
nell'art. 15 comma 4-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55. 
    Secondo i convenuti non coglie nel  segno  la  tesi  secondo  cui
l'art. 11 del decreto legislativo n. 235 del  2012  costituirebbe  un
vulnus al diritto alla difesa in quanto non e'  vero  che  contro  la
misura sospensiva non sia dato strumento giurisdizionale, tanto  meno
in  sede  di  urgenza.  La  legge  infatti  non  sottrae  al   vaglio
giurisdizionale   il   provvedimento,   ma   semplicemente    sottrae
all'amministrazione  la  scelta  dell'applicazione  della  misura   a
carattere vincolato. 
    Anche la doglianza relativa all'asserita violazione del principio
di irretroattivita' della sanzione penale sarebbe  infondata  perche'
si basa sull'assunto erroneo della natura sanzionatoria della misura.
In ordine alla violazione dell'art. 7 CEDU  la  Corte  asserisce  che
«dal quadro delle garanzie apprestate dalla  CEDU  come  interpretate
dalla  Corte  di  Strasburgo non  e'   ricavabile   un   vincolo   ad
assoggettare  una   misura   amministrativa   cautelare,   quale   la
sospensione dalle cariche elettive in  conseguenza  di  una  condanna
penale non definitiva, al  divieto  convenzionale  di  retroattivita'
della legge penale» (Corte costituzionale n. 276/2016). 
    Infine non sarebbe ravvisabile la  violazione  del  principio  di
uguaglianza in quanto in entrambe le ipotesi prospettate dall'attore,
opererebbe - in ogni caso  -  la  misura  della  sospensione  di  cui
all'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012, in ossequio alla sua
indiscutibile natura cautelare (il candidato condannato con  sentenza
non definitiva gia' al tempo della candidatura, se  eletto,  dovrebbe
essere subito sospeso per 18 mesi ai sensi del  richiamato  art.  11,
lettera a), decreto legislativo n. 235/2012). 
Sulla giurisdizione del giudice  ordinario  e  sulla  competenza  per
territorio del Tribunale di Genova. 
    Le S.U. della Corte di Cassazione hanno  costantemente  enunciato
il principio di  diritto  secondo  cui  «in  materia  di  contenzioso
elettorale, amministrativo sono  devolute  al  giudice  ordinario  le
controversie   concernenti   l'ineleggibilita',   la   decadenza    e
l'incompatibilita',  in  quanto  volte  alla   tutela   del   diritto
soggettivo  perfetto  inerente   all'elettorato   passivo,   ne'   la
giurisdizione del giudice ordinario incontra  limitazioni  o  deroghe
per il caso in cui la questione  di  eleggibilita'  venga  introdotta
mediante impugnazione del provvedimento di decadenza,  perche'  anche
in tale ipotesi la decisione verte  non  sull'annullamento  dell'atto
amministrativo,  bensi'  sul  diritto  soggettivo  perfetto  inerente
l'elettorato attivo o passivo» (cfr Cassazione,  S.U.  n.  5574/2012,
Cassazione, S.U. n. 11646/2003; Cassazione, S.U.8469/2004). 
    Inoltre con la sentenza n.  11131/15  resa  a  sezioni  unite  la
Suprema  Corte,  risolvendo  il  conflitto   con   la   giurisdizione
amministrativa, adita in prima battuta, ha rilevato che «in  tema  di
enti pubblici locali la sospensione dalla  carica  elettiva  a  norma
dell'art. 11  del  decreto  legislativo  31  dicembre  2012,  n.  235
consegue  direttamente  ed  esclusivamente   alla   condanna   penale
dell'eletto  in  quanto  il  decreto  prefettizio  che   accerta   la
sussistenza  della  causa  di  sospensione   e'   provvedimento   non
discrezionale ma vincolato. Ha ritenuto pertanto  che  l'impugnazione
della sospensione rientri nella giurisdizione ordinaria a tutela  del
diritto soggettivo di elettorato passivo, che non si esaurisce con la
partecipazione all'elezione, ma si  estende  allo  svolgimento  della
funzione elettiva». 
    Quanto alla competenza del Tribunale di Genova essa  e'  radicata
in virtu' dell'art. 25 codice di procedura civile, essendo  convenuta
in giudizio una amministrazione dello Stato, oltre che per  il  fatto
che la controversia ha ad oggetto il diritto di elettorato passivo di
organi di amministrazione locale operanti nell'ambito del circondario
del Tribunale di Genova (art. 82, primo comma, decreto del Presidente
della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570). 
Sull'interesse attuale e concreto del ricorrente. 
    Il ricorrente e' portatore di un interesse attuale e concreto  ex
art. 100 del codice di procedura civile ad ottenere una sentenza  che
accerti  il  diritto  di  elettorato  passivo,   diritto   soggettivo
costituzionalmente garantito ex art. 51, comma 1, della Costituzione,
in quanto riveste tuttora la carica di  sindaco,  pur  essendo  stato
temporaneamente  sospeso  per  il  periodo  di  diciotto  mesi  dalle
funzioni per effetto del provvedimento prefettizio  emesso  ai  sensi
dell'art.  11,  comma  1,  lettera  «a»,  e  comma  4,  del   decreto
legislativo n. 235/2012 di cui chiede la disapplicazione  e  denuncia
l'illegittimita' costituzionale. 
Sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni di
legittimita' costituzionale. 
    L'art. 1 della legge costituzionale n.  1  del  1948,  stabilisce
che: «La questione di legittimita' costituzionale di una legge  o  di
un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio  o
sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e ritenuta  dal
giudice  non  manifestamente  infondata,  e'   rimessa   alla   Corte
costituzionale per la sua decisione». 
    Detta disposizione si salda con quella dell'art. 23  della  legge
n. 87  del  1953,  la  quale,  con  terminologia  letteralmente  piu'
restrittiva, prevede che:  «Nel  corso  di  un  giudizio  dinanzi  ad
un'autorita' giurisdizionale una delle parti o il pubblico  ministero
possono sollevare questione di legittimita'  costituzionale  mediante
apposita istanza». 
    In base ad esse il giudice puo' sollevare questione relativamente
a una disposizione di legge solo e nei limiti in cui essa deve essere
applicata in una controversia concreta. 
    La necessaria applicabilita' dell'atto sindacato costituisce  una
logica, diretta derivazione del carattere incidentale  del  controllo
di  costituzionalita'.  Se  non  si  richiedesse  l'applicazione  nel
giudizio a  quo  della  disposizione  asseritamente  illegittima,  il
giudice potrebbe formulare questioni di costituzionalita'  del  tutto
sganciate dalle vicende applicative della legge e,  dunque,  astratte
od ipotetiche; la rilevanza e' cio' che assicura la concretezza della
questione e instaura un legame fra il giudizio  costituzionale  e  il
giudizio a quo. 
    Gli interessi tutelati nei due distinti ed autonomi  procedimenti
(giudizio costituzionale e  giudizio  a  quo)  devono  quindi  essere
diversi e non sovrapponibili. 
    Nel giudizio a quo si fa valere l'interesse soggettivo e concreto
delle parti a ottenere  un  bene  della  vita  o  a  non  subire  una
limitazione  della  propria  liberta'  per  effetto  di   una   legge
incostituzionale;  nel   giudizio   costituzionale   si   salvaguarda
l'interesse obiettivo dell'ordinamento alla legalita' costituzionale. 
    Il giudice a quo deve quindi accertare ai sensi dell'art. 1 della
legge costituzionale n. 1/1948 e dell'art. 23, comma 2,  della  legge
n. 87/1953 la sussistenza dei due presupposti per  la  proponibilita'
della questione: la rilevanza e la non manifesta infondatezza. 
    Per  il  carattere  incidentale  del  giudizio  di   legittimita'
costituzionale  la  rilevanza  della  questione  ricorre  quando   il
giudizio a quo non puo' essere definito se prima non viene risolto il
dubbio di legittimita' costituzionale che investe la disposizione  di
legge che deve essere applicata. 
    Solo in seconda battuta il giudice a quo deve  accertare  che  la
questione non sia manifestamente infondata e deve quindi valutare  la
serieta' e la non pretestuosita' della proposta questione, escludendo
anche  che  non  sia  esperibile  nei  confronti  della  disposizione
contestata una interpretazione conforme a Costituzione. 
    Nel caso in esame, sul profilo della rilevanza della questione di
legittimita' costituzionale, si osserva che  l'art.  11  del  decreto
legislativo n. 235/2012  prevede  la  sospensione  di  diritto  dalla
carica di sindaco, provvedimento in relazione al  quale  il  Collegio
ritiene che non si possa  procedere  alla  disapplicazione  dell'atto
amministrativo, cosi come richiesto dall'attore in via principale  ex
art. 5 legge n. 2248/1865 (legge sul contenzioso amministrativo)  che
presuppone la  non  conformita'  a  legge  dell'atto  amministrativo,
ipotesi che nel  caso  di  specie  certamente  non  ricorre,  essendo
pacifico che il ricorrente  ha  riportato  una  condanna  peri  reati
indicati dall'art. 10 del decreto legislativo n. 235/2012 e si  trova
dunque nelle condizioni previste dall'art. 11 per la  sospensione  di
diritto dalla carica di sindaco. 
    Inoltre, sempre sotto il profilo della rilevanza della  questione
di legittimita' costituzionale, il  Collegio  ritiene  di  non  poter
addivenire   alla    soluzione    della    controversia    attraverso
un'interpretazione   adeguatrice   o   costituzionalmente   orientata
dell'art. 11 del decreto legislativo n. 235/2012, posto che  i  dubbi
prospettati dalla difesa del ricorrente  e  rilevati  dal  Tribunale,
anche alla luce delle pronunce gia' rese dalla Corte  costituzionale,
non possono essere superati sul piano ermeneutico. 
    La disapplicazione del provvedimento prefettizio non puo'  quindi
prescindere  dal  giudizio  di  costituzionalita'  sull'art.  11  del
decreto legislativo n. 235/2012. 
    Quanto  al  presupposto  della  non  manifesta  fondatezza  della
questione di  legittimita'  costituzionale  si  evidenzia,  in  primo
luogo, che con l'ordinanza n. 64  del  27  dicembre  2019  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 25 del 17 giugno  2020  il  Tribunale  di
Genova ha promosso incidente  di  costituzionalita'  con  riferimento
all'art. 8 del decreto legislativo n.  235/2012  - che,  analogamente
all'art.  11,  prevede  la  sospensione  di  diritto  dalle   cariche
regionali - e che la citata ordinanza richiama alcuni  dei  parametri
costituzionali che vengono in rilievo nel presente procedimento. 
    Al riguardo osserva il Collegio che peraltro  non  sia  possibile
ricorrere allo strumento della «sospensione impropria»  del  presente
procedimento in attesa dell'esito dei giudizio  di  costituzionalita'
sull'art. 8 della legge citata in quanto l'eventuale declaratoria  di
illegittimita' di tale disposizione non potrebbe produrre effetti nel
presente giudizio nel quale viene in rilievo l'art. 11. 
    Tanto  premesso,  riguardo   alle   questioni   di   legittimita'
prospettate per violazione degli articoli 27 comma 2, 3 comma  1,  25
comma 2 della  Costituzione  sul  presupposto  che  la  misura  della
sospensione dalla carica elettiva abbia natura sanzionatoria, ritiene
il Collegio che i congrui precedenti della Consulta debbano portare a
valutare come manifestamente infondati i dubbi di incostituzionalita'
dedotti dalla parte ricorrente con riferimento ai predetti  parametri
costituzionali. 
    In particolare si rileva che  la  giurisprudenza  costituzionale,
conformemente alla  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo,  ha
chiarito che i provvedimenti di sospensione conseguenti alle condanne
penali riportate per determinati reati non hanno natura sanzionatoria
e svolgono una funzione meramente cautelare, operante ex lege,  volta
ad evitare la permanenza in cariche pubbliche di rilievo di  soggetti
fortemente indiziati di gravi condotte delittuose ovvero riconosciuti
responsabili delle stesse. 
    Le  misure  della  incandidabilita',  della  decadenza  e   della
sospensione dalla  carica  non  costituirebbero  sanzioni  o  effetti
penali della  condanna,  ma  «l'espressione  del  venir  meno  di  un
requisito soggettivo per l'accesso  alle  cariche  elettive»  che  il
legislatore puo' disciplinare discrezionalmente sulla base  dell'art.
51 della Costituzione (cfr le pronunce della Corte costituzionale  n.
236/2015 e n. 276/2016). 
    Al contrario, ritiene il Collegio che  siano  non  manifestamente
infondate, con riferimento all'art. 1l  del  decreto  legislativo  n.
235/2012, le questioni di illegittimita' costituzionale che sono gia'
prospettate in parte da codesto Tribunale nell'ordinanza n. 64 del 27
dicembre 2019 per le ragioni che sono qui di seguito illustrate. 
Questione di legittimita' dell'art. 11 in relazione agli articoli  24
e 113 della Costituzione. 
    Come gia'  evidenziato  l'art.  11  del  decreto  legislativo  n.
235/2012 introduce l'automatica sospensione dalla carica  di  sindaco
come conseguenza  della  condanna  per  determinati  reati,  elencati
all'art. 10 del medesimo  decreto  legislativo,  e  quindi  prescinde
dalla valutazione della gravita' del fatto accertato in sede penale e
dal criterio di proporzionalita' della misura applicata rispetto alla
fattispecie concreta. 
    La Corte costituzionale ha riconosciuto  l'esistenza  di  ragioni
pubbliche sufficienti a giustificare la disciplina introdotta con  la
legge Severino, nata come misura anti-corruzione e volta  a  tutelare
la trasparenza e il buon andamento della pubblica amministrazione. 
    Cionondimeno il  rigido  automatismo  della  struttura  normativa
introdotta con il  decreto  legislativo  n.  235/2012  che  considera
esclusivamente il rapporto tra la permanenza in una carica elettiva e
l'intervenuta  condanna  penale   per   determinati   reati   - senza
possibilita'  per   il   soggetto   interessato   di   sindacare   il
provvedimento di sospensione  e  decadenza  sotto  il  profilo  della
proporzionalita'  - si  pone  in  contrasto  con  l'art.   24   della
Costituzione, in quanto  e'  fortemente  limitativo  del  diritto  di
difesa. 
    La normativa in questione considera infatti de iure  «pericolosa»
la permanenza in carica del condannato in ragione  della  valutazione
fatta ex ante dal legislatore e  considera  il  condannato  «indegno»
della carica elettiva, circostanze entrambe che  contrastano  con  la
ritenuta natura cautelare e  non  sanzionatoria  della  misura  della
sospensione. 
    Si sottolinea a tal proposito  che  per  i  titoli  di  reato  in
relazione ai quali sono previste decadenza  e  correlata  sospensione
non e' consentito al giudice penale - di apprezzarne in  concreto  la
gravita' dei fatti. 
    Invero ad alcune fattispecie minori di peculato e  di  corruzione
(si pensi, quanto al reato di peculato, all'utilizzo di alcuni  fogli
di carta dell'amministrazione per scrivere una lettera  personale  e,
quanto al reato di corruzione impropria, al regalo di modesto  valore
economico da parte di  un  soggetto  beneficiato  da  un  determinato
provvedimento)  non  e'  applicabile  la  causa  di  non  punibilita'
prevista dall'art. 133-bis del codice penale (introdotto dal  decreto
legislativo n. 28 del 2015) in virtu' del quale la  punibilita'  puo'
essere esclusa previo vaglio concreto del giudice  delle  ipotesi  di
lieve entita'. 
    Tale disposizione infatti non e' applicabile  a  reati  con  pena
edittale massima superiore ad anni cinque. 
    Ne consegue che gli autori di condotte di peculato  e  corruzione
lievi,  de  iure  condito,  sono  soggetti  alla  decadenza  e   alla
sospensione da  cariche  politiche  ottenute  anche  con  larghissimo
consenso nella consapevolezza da parte dell'elettorato dell'esistenza
di un procedimento penale e dei fatti in esso ascritti all'eletto. 
    Il risultato  e'  che  anche  in  questi  casi,  in  forza  della
normativa che si intende sottoporre al vaglio  di  costituzionalita',
viene modificata  la  volonta'  dell'elettorato  sulla  base  di  una
valutazione fatta in astratto ex lege, senza che sia esperibile alcun
rimedio  che  consenta  l'apprezzamento   da   parte   dell'Autorita'
giudiziaria del fatto accertato in sede penale. 
    Al riguardo si osserva che la pericolosita' presunta ex  lege  e'
ormai totalmente espulsa sia dal novero delle  misure  cautelari  sia
dallo stesso ambito delle misure di sicurezza personali,  laddove  e'
stato  ritenuto  sulla  base  dei  soli   principi   dell'ordinamento
costituzionale italiano la necessita' assoluta dell'esame in concreto
del caso. 
    L'eccezione attinente alla  mancata  previsione  da  parte  della
legge Severino nel caso in esame da parte dell'art.  11  del  decreto
legislativo  n.  235/12)  della  possibilita'   di   effettuare   una
valutazione di  proporzionalita'  tra  la  condanna  riportata  e  la
sospensione da pronunciarsi non pare quindi manifestamente  infondata
in  relazione  al  diritto  di  azione  sancito  dall'art.  24  della
Costituzione e dall'art. 113 della Costituzione. 
    L'art. 24 dispone che «tutti possono agire  in  giudizio  per  la
tutela dei propri diritti e interessi  legittimi.  La  difesa  e'  un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del  procedimento»,  mentre
l'art. 113 della Costituzione comma l e 2  prevede  che  «contro  gli
atti della pubblica  amministrazione  e'  sempre  ammessa  la  tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi. Tale  tutela
giurisdizionale non puo' essere  esclusa  o  limitata  a  particolari
mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti». 
    Va precisato che la possibilita' ammessa dalla giurisprudenza di'
legittimita' di adire l'Autorita' giudiziaria ordinaria per impugnare
il   provvedimento   sospensivo   non   consente   un'interpretazione
adeguatrice  dell'art.  11  del  decreto  legislativo  n.   235/2012,
nell'ottica di sindacare il provvedimento sospensivo sotto il profilo
della  proporzionalita',   essendo   a   tal   scopo   indispensabile
l'intervento correttivo del giudice delle leggi o del legislatore. 
    La mancanza di  giustiziabilita'  della  sospensione,  anche  per
l'impossibilita' di ottenere tutela giurisdizionale in via  cautelare
allo scopo di riesaminare gli accertamenti del giudice penale, appare
dunque in contrasto con il principio  di  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale  e   si   ritiene   pertanto   che   il   dubbio   di
costituzionalita' dell'art. 1 del decreto legislativo n. 235/2012 per
violazione degli  articoli  24  e  113  della  Costituzione  non  sia
manifestamente infondato e necessiti del vaglio della Corte.