IL TRIBUNALE DI LECCO Il Tribunale di Lecco, in composizione monocratica, in persona del dott. Enrico Manzi; Visti gli atti del procedimento penale in atto nei confronti di B.L., nato in (...) il (...) C.U.I. (...), domiciliato ai sensi dell'art. 161, comma 4 del codice di procedura penale (inidoneita' del domicilio) presso lo studio legale del difensore d'ufficio Libero Assente; Difeso d'ufficio dall'avv. Daniela Usuelli del Foro di Lecco; Imputato del reato p. e p. dall'art. 337 del codice penale perche', in stato di ubriachezza, a bordo del treno (...) Milano Porta Garibaldi-Lecco, usava minaccia per opporsi ai pubblici ufficiali sovrintendente capo D. M. G. e assistente capo D. S. P., in servizio presso la (...) mentre compivano un atto d'ufficio consistito nel procedere alla sua identificazione in quanto segnalato dal capotreno quale soggetto privo del titolo di viaggio che aveva azionato il freno d'emergenza a treno fermo, proferendo al loro indirizzo le seguenti parole «state attenti che mi costa un euro sapere dove abitate... se non mi fate scendere adesso vi spacco la faccia adesso vi prendo a calci»; In (...) il (...). 1. Svolgimento del processo. Il pubblico ministero ha promosso l'azione penale contro B.L. disponendo il rinvio a giudizio con citazione diretta per il reato di cui all'art. 337 del codice penale, commesso in (...) in data (...). Il fatto risulta descritto compiutamente nel capo di imputazione. La difesa, facendo presente che era sua intenzione chiedere il proscioglimento dell'imputato ex art. 469, comma 1-bis del codice di procedura penale, ravvisando nel caso in giudizio una ipotesi di particolare tenuita', ha contestualmente sollevato eccezione di legittimita' costituzionale dell'art. 131-bis del codice penale nella parte in cui vieta di riconoscere tale causa di non punibilita' per il reato per cui si procede. 2. I fatti per cui si procede - la rilevanza della questione sollevata dalla difesa. Il caso in giudizio e' descritto compiutamente nel capo di imputazione: l'imputato, sottoposto a identificazione da parte degli agenti della Polfer perche' stava viaggiando privo di biglietto e aveva azionato il freno di emergenza, apostrofava gli operanti con le minacce indicate nel capo di imputazione. Alle minacce non seguivano violenze fisiche. L'imputato era in stato di ubriachezza ed e' stato successivamente identificato mediante accompagnamento coattivo all'ufficio della Polfer di (...), ove veniva sottoposto ad accertamento dattiloscopico con il sistema AFIS. Agli atti e' stato acquisito il certificato penale da cui risulta che e' incensurato. In merito alla qualificazione giuridica dei fatti si osserva che la stessa appare corretta e non si ravvisano cause di giustificazione. Gli agenti della Polfer erano in divisa e deve quindi escludersi ogni dubbio in ordine alla consapevolezza di minacciare dei pubblici ufficiali in servizio. L'imputato era presumibilmente ubriaco, ma questa circostanza, come e' noto, non esclude la responsabilita' penale ex art. 92 del codice penale. In relazione agli altri requisiti da valutare ai fini della applicabilita' dell'art. 131-bis del codice penale si osserva quanto segue: 1. Per quanto riguarda le modalita' della condotta, si tratta di un comportamento certamente illecito, ma che non denota particolari professionalita' criminali: l'imputato era ubriaco e aveva quindi una percezione alterata di quanto stava accadendo; egli ha agito d'impulso e comunque non ha dato alcun seguito alle minacce, limitandosi, cioe', a una pura reazione verbale, senza ricorrere a gesti violenti; 2. Il danno e/o il pericolo in concreto arrecati sono stati praticamente nulli: l'imputato e' stato quasi subito identificato tramite le impronte digitali e pertanto l'azione amministrativa degli agenti, del resto perfettamente legittima, e' comunque giunta allo scopo per cui era stata esercitata; 3. Il comportamento dell'imputato non ha ritardato la circolazione dei treni in quanto non e' stato contestato il reato di cui all'art. 340 del codice penale; 4. Non sussiste alcuno dei casi generali di «non tenuita'» di cui all'art. 131-bis, comma II del codice penale: non ha agito per motivi abietti o futili, o con crudelta', anche in danno di animali; non ha adoperato sevizie; non ha profittato delle condizioni di minorata difesa delle vittime; non ha cagionato, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni delle pp.oo; 5. L'imputato e' incensurato; il suo comportamento non puo' pertanto essere definito come «abituale»; 6. Non sussiste alcuno dei casi di «abitualita'» specificati e definiti dall'art. 131-bis, comma III del codice penale: in particolare l'azione commessa ai danni degli agenti non e' stata plurima, ne' reiterata, ne' abituale. Alla luce di tutti questi elementi si ritiene che la richiesta della difesa, ai fini del proscioglimento dell'imputato ex art. 469 del codice di procedura penale, sia rilevante in quanto, sulla base delle considerazioni fin qui esposte, vi sarebbero fondati motivi per ritenere il reato commesso dall'imputato non punibile per «particolare tenuita'». Cio' detto, non e' possibile provvedere in tal senso stante il divieto tassativo contenuto nell'art. 131-bis del codice penale che inibisce il riconoscimento della causa di non punibilita' per il reato di cui all'art. 337 del codice penale. Va anche aggiunto che la ultimissima versione dell'art. 131-bis del codice penale (come modificato dal decreto-legge n. 130/2020) non e' comunque applicabile nel caso in giudizio, in quanto gli agenti di Polfer erano da qualificare come agenti di pubblica sicurezza nell'esercizio delle loro funzioni. La questione sollevata dalla difesa, pertanto, e' rilevante. Per le ragioni che ora si esporranno si ritiene che sia anche non manifestamente infondata. 3. La non manifesta infondatezza della questione sollevata. L'art. 131-bis del codice penale, come e' noto, e' stato introdotto nell'ordinamento penale per effetto dell'art. 1 del decreto legislativo n. 28/2015. Con tale norma e' stata inserita nel nostro sistema penale una speciale causa di non punibilita' che si applica per i responsabili di reati «minori», quelli per i quali e' prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, qualora l'offesa sia di «particolare tenuita'» in relazione a: a. modalita' della condotta; b. esiguita' del danno o del pericolo, entrambe valutate secondo i parametri di cui all'art. 133 del codice penale e sempre che la condotta del responsabile non sia «abituale», secondo i criteri fissati dal terzo comma della norma. Nella sua prima versione la norma non era applicabile nelle situazioni specificate al secondo comma: quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudelta', anche in danno di animali; quando ha adoperato sevizie; quando ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'eta' della stessa; quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. Nel 2019, per effetto della conversione in legge del decreto-legge n. 53/2019, con effetto dal 10 agosto 2019, sono stati aggiunti i seguenti casi di esclusione della causa di non punibilita' (art. 16 del decreto-legge): quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive; nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato e' commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni (esclusi quindi i reati di violenza, resistenza o oltraggio nei confronti di un incaricato di pubblico servizio). Recentissimamente, con il decreto-legge n. 130/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 173/2020 (art. 7), la seconda di tali esclusioni e' stata modificata nel senso di non rendere applicabile l'art. 131-bis del codice penale: «nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato e' commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni, e nell'ipotesi di cui all'art. 343». In merito alla natura di tale specifica causa di non punibilita' pare opportuno richiamare l'inquadramento che ne e' stato fatto dalla S.C. con la nota sentenza delle SS.UU. n. 13681/2016. Secondo la Corte «il legislatore ha limitato il campo d'applicazione del nuovo istituto in relazione alla gravita' del reato, desunta dalla pena edittale massima ed alla non abitualita' del comportamento» perche' la causa di non punibilita' in questione «persegue finalita' connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio [...]. Lo scopo primario e' quello di espungere dal circuito penale fatti marginali che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessita' di impegnare i complessi meccanismi del processo». Tale norma, ovviamente, deve essere applicata dal giudice con estrema prudenza e attenzione. Nel Tribunale di Lecco e nei tribunali piu' vicini sul piano territoriale, anche di grandi dimensioni, si e' adottata una sorta di «giurisprudenza» comune per individuare come fatto di particolare tenuita', nei reati contro il patrimonio, quelli in cui il profitto non supera l'ammontare di 100 euro. Il legislatore, come si e' gia' detto, fin dalla prima versione dell'art. 131-bis del codice penale, ha fissato dei limiti di legge alla discrezionalita' del giudice dettando dei parametri generali in cui ha vietato la applicazione della causa di non punibilita'. Tali parametri, in questa originaria versione, erano solo di carattere generale e non riguardavano, se non indirettamente, specifiche fattispecie di reato. Questa impostazione, del resto, si armonizzava con la scelta del legislatore di applicare la causa di non punibilita' a tutte indistintamente le figure di reato, senza indicazioni di esclusioni per singole fattispecie, ravvisando in tutte le ipotesi in cui sia prevista la tutela penale di un bene giuridico, un campo di situazioni in cui il «peso» del processo appare inadeguato alla reale pericolosita' sociale dei comportamenti tenuti. La riforma ha consentito in questi anni di evitare il «costo sociale» del processo per la repressione di condotte marginali in cui il «danno» provocato dall'imputato e inferiore al costo del processo in termini di impiego di energie, personale, tempo e strutture, liberando l'attivita' del giudice penale per finalita' piu' rilevanti. In questa situazione, nel 2019, il legislatore ha deciso di aggiungere due ulteriori limiti alla applicazione dell'art. 131-bis del codice penale inserendo i due casi sopra specificati. Orbene, mentre l'esclusione della causa di non punibilita' alla generalita' dei reati compiuti in occasioni di «manifestazioni sportive» (con tutti i rischi di stabilire in concreto cosa si intenda con questo termine, vista l'ampiezza e la genericita' della definizione), purche' puniti con una pena massima superiore ad anni due e mesi sei di reclusione, ricalca in qualche modo i limiti originari previsti dalla norma, la esclusione «diretta» per tre specifiche figure di reato, quelle di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis del codice penale, appare assolutamente illogica e censurabile sul piano costituzionale per violazione dell'art. 3 della Costituzione. Sul punto si espongono le seguenti argomentazioni. Violazione del principio di uguaglianza. La nuova formulazione dell'art. 131-bis del codice penale crea una disparita' di trattamento fra gli imputati dei reati di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis del codice penale (limitatamente al caso in cui il soggetto offeso sia un pubblico ufficiale) e gli imputati di tutte le altre figure di reato, nei limiti dell'art. 131-bis del codice penale, primo comma e con le ulteriori limitazioni di cui ai commi II e III della norma, escludendo l'applicazione della norma, per quelle specifiche fattispecie di reato, a prescindere da ogni ulteriore considerazione. Mentre per tutti i reati, anche quelli non «bagatellari» come l'abuso d'ufficio, la applicazione della norma non e' vietata di principio, ma e' affidata ad un vaglio di valutazioni indicate nei commi II e III, in questi specifici reati - e solo per questi - si inibisce al giudice ogni valutazione e si impone tout court il divieto di riconoscimento della causa di non punibilita'. Non si dimentica, ovviamente, che nella giurisprudenza della Corte costituzionale si e' attentamente stabilito che rientra nella sfera di discrezionalita' del legislatore stabilire quali comportamenti sottoporre a sanzione penale e quali escludere da tale trattamento, ma la stessa Corte ha precisato che l'esercizio del potere legislativo, seppur autonomo e indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato, e' comunque suscettibile di censure di legittimita' costituzionale nei casi di manifesta irragionevolezza (sentenza n. 207 del 2017). La stessa Corte, con sentenza n. 156/2020, ha ribadito questo concetto estendendo la esimente ai reati per cui non e' stabilito un minimo edittale, ribadendo pertanto la possibilita' di sindacare le scelte del legislatore secondo il criterio della «intrinseca irragionevolezza» (punto 3.6.1 della motivazione). E' dunque possibile sospettare di incostituzionalita' una scelta legislativa qualora la stessa appaia intrinsecamente irragionevole, e cioe', del tutto irrazionale, disarmonica e soprattutto foriera di trattamenti differenziati per situazioni e comportamenti sostanzialmente simili. Con l'introduzione dell'ultima parte del comma II dell'art. 131-bis del codice penale - limitatamente al riferimento agli articoli 336, 337 e 341-bis del codice penale, e' stato inibito al giudice di valutare la sussistenza della causa di non punibilita' per «particolare tenuita'» nei procedimenti finalizzati all'accertamento di questi reati. Questo divieto, letto in un orizzonte che comprende tutto il sistema penale, crea una ingiustificata e irragionevole disparita' rispetto a situazioni analoghe in cui, al contrario, e' possibile ravvisare la causa di non punibilita'. In concreto, si tratta dei seguenti reati: 1. Art. 342 del codice penale che punisce con la sola pena pecuniaria l'oltraggio ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, al cospetto dello stesso: la disparita' di trattamento con l'oltraggio a pubblico ufficiale e' evidente ed e' assolutamente ingiustificabile, soprattutto considerando che fra i «corpi» o le loro rappresentanze vi sono uffici che esercitano funzioni pubbliche di rilevante importanza o prestigio, come puo' essere un consiglio comunale, il consiglio giudiziario e perfino il consiglio regionale in cui i membri hanno il potere di emettere atti con valore di legge regionale; 2. Art. 328 del codice penale che punisce il rifiuto o l'omissione di atti d'ufficio: in questo caso la disparita' di trattamento e' ancora piu' evidente in quanto si consente al pubblico ufficiale che commette il reato di invocare la causa di non punibilita', laddove tale facolta' e' inibita al privato che offenda o usi violenza o minaccia contro lo stesso pubblico ufficiale; 3. Art. 323 del codice penale che punisce l'abuso d'ufficio: anche in questo caso appare francamente assurdo che i comportamenti posti in essere dal pubblico ufficiale possano andare esenti da pena per particolare tenuita', al contrario di quanto stabilito per i comportamenti tenuti dai privati contro i pubblici ufficiali; 4. Art. 353 del codice penale che punisce la turbativa d'asta, almeno nelle ipotesi non aggravate; 5. Lesioni aggravate commesse contro il pubblico ufficiale, al di fuori delle ipotesi di reato connesso con i reati di cui agli articoli 336 e 337 del codice penale. In questo caso l'illogicita' della norma riguarda comportamenti ai danni del pubblico ufficiale: non e' consentito riconoscere la non punibilita' per minacce o violenze senza ricorso a vie di fatto, ma e' invece possibile per lesioni inferte allo stesso soggetto passivo. Altra disparita', inoltre, a bene vedere, riguarda le stesse norme citate dall'art. 131-bis, II comma del codice penale. Appare illogico «proteggere» il pubblico ufficiale da violenze, minacce e ingiurie e non accordare la stessa tutela all'incaricato di pubblico servizio, quale puo' essere, soprattutto in questi tempi di pandemia, un medico del Pronto soccorso i cui compiti sono spesso vitali ed insostituibili per la tutela e la cura delle persone ammalate. La questione oggi in esame riguarda, in realta', il rapporto fra privati e pubblici ufficiali e attiene alla concezione stessa dello stato di diritto in una societa' democratica. La norma che si sospetta di illegittimita', in effetti, pone il pubblico ufficiale su un piano di superiorita' rispetto al privato, attribuendo al primo una tutela rafforzata tipica degli Stati autoritari. Non a caso - lo si ricorda solo per inquadrare storicamente la vicenda - uno dei primi atti compiuti dallo Stato democratico e liberale dopo l'infausta stagione del regime fascista era stato quello di reintrodurre l'istituto della «reazione legittima agli atti arbitrari», gia' presente nel codice penale Zanardelli del 1889 (articoli 192 e 199), cancellata dal codice del 1930 e finalmente reinserita nell'ordinamento per effetto dell'art. 4 del decreto legislativo Lgt. 14 settembre 1944, n. 288 (oggi art. 393-bis del codice penale). A prescindere da queste considerazioni storiche, comunque, appare francamente assurdo e privo di logica intrinseca tutelare una categoria di cittadini in qualche modo «infallibili» solo perche' investiti di un pubblico ufficio, come se lo Stato dovesse anteporre alla signoria della legge e al principio di uguaglianza, un malinteso e antistorico principio di autorita', figlio delle filosofie autoritarie e antidemocratiche che hanno cosi' tragicamente ferito la nostra comunita' nazionale. La stessa Corte costituzionale, del resto, nella storica sentenza n. 341 del 1994, nel dichiarare la illegittimita' dell'art. 341 del codice penale nella parte in cui stabiliva un minimo della pena di sei mesi di reclusione (dodici volte superiore al minimo allora in vigore per la «comune» ingiuria) aveva stigmatizzato la «concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e societa' non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima». Non vi sono quindi ragioni per conservare nella legislazione penale una norma che discrimini - in modo razionale e ragionevole - gli imputati per i delitti di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis del codice penale, impedendo agli stessi di invocare la causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale. Le altre clausole restrittive previste nel comma 2 dell'art. 131-bis del codice penale introducono disposizioni che qualificano come non tenue un certo elemento del fatto storico: la condotta, la gravita' dell'evento (o del pericolo) o la colpevolezza dell'agente; le deroghe introdotte per specifiche norme, invece, violano il principio di uguaglianza perche' incidono in modo irragionevole nel quadro complessivo del sistema penale. Poiche' il presente giudizio riguarda un caso di resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 del codice penale, si limita la questione da sottoporre alla Corte costituzionale a tale norma.