Ricorso ai sensi dell'art. 127 della Costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri (c.f. 80188230587), rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato (c.f. 80224030587), presso i cui uffici domicilia in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12 (fax 0696514000 - PEC ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it); Contro la Regione Lombardia (c.f. 80050050154), in persona del Presidente della regione in carica pro tempore per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli articoli 5, 13, 17, 25 della legge della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8, recante: «Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021» pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 21, del 28 maggio 2021, Supplemento. 1.- La legge regionale della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8 e' stata emanata in applicazione della previsione di cui alla l.r. 8 luglio 2014, n. 19 recante «Disposizioni per la razionalizzazione di interventi regionali negli ambiti istituzionale, economico, sanitario e territoriale» come modificata dalla l.r. n. 9/2019, la quale, all'art. 1, comma 3, secondo periodo, prevede che il Presidente della Giunta regionale presenti al Consiglio regionale, due volte l'anno, un progetto di legge di revisione normativa ordinamentale «che puo' contenere esclusivamente circoscritte e limitate modifiche, puntuali integrazioni o specifiche sostituzioni di disposizioni legislative, con esclusione di disposizioni che operano interventi di revisione organica e complessiva di materie o di settori di legislazione regionale». 2.- Con deliberazione assunta nella seduta del 22 luglio 2021 il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare gli articoli 5, 13, 17 e 25 della citata l.r. n. 8/2021, ravvisando negli stessi diversi profili di illegittimita' costituzionale. Le predette norme dispongono, in particolare, quanto segue: 1. l'art. 5 modifica l'art. 23 della l.r. n. 6 del 2015, concernente «Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana», aggiungendo al comma 4 di tale disposizione, dopo l'espressione «caschi di protezione», le seguenti parole: «guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione»; 2. l'art. 13 modifica l'art. 22 della l.r. n. 26 del 1993, recante «Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attivita' venatoria», aggiungendo, al comma 7 di quest'ultimo, dopo le parole «sul posto di caccia», le seguenti parole: «dopo gli abbattimenti o l'avvenuto recupero»; 3. l'art. 17 apporta le seguenti modifiche all'art. 26 della citata legge regionale n. 26/1993: a) al comma 1 dopo le parole «muniti di anellini inamovibili» sono inserite le seguenti: «in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo»; b) i commi 5-bis e 5-quater sono abrogati; 4. L'art. 25 modifica l'art. 48 della l.r. n. 26/1993, sostituendo, al comma 6-bis di quest'ultimo, le parole «L'attivita' di vigilanza e controllo e' svolta» con le seguenti: «L'attivita' di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1-bis e 3 dell'art. 26 e' svolta verificando unicamente la presenza dell'anellino sull'esemplare e deve essere effettuata». Le predette norme della legge regionale n. 8 del 2021 vengono impugnate per i seguenti Motivi I - Illegittimita' dell'art. 5 l.r. Lombardia n. 8 del 2021 per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, anche in relazione articoli 5 e 6 della legge 7 marzo 1986, n. 65; 19 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132; art. 4, comma 1, legge n. 110/1975, nel testo modificato dal decreto legislativo n. 208/2010. 3.- Come si e' evidenziato in premessa, l'art. 5 della l.r. n. 8 del 2021 reca modifiche all'art. 23 della l.r. 1° aprile 2015, n. 6, concernente «Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana». Quest'ultimo disciplina, nell'ambito delle dotazioni per il servizio di polizia locale, organizzato e gestito dagli enti locali in ambito regionale, gli strumenti di autotutela con i quali possono essere equipaggiati gli operatori di tale servizio: tra essi, il comma 4 dell'art. 23 prevedeva gia' la dotazione di manette, giubbotti antitaglio, giubbotti antiproiettile, cuscini per il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) e caschi di protezione; a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 5 della l.r. in esame, a tali dispositivi si aggiungono ora: «guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione». 4.- La disciplina dell'armamento e degli altri strumenti operativi in dotazione alla polizia locale e' recata dagli articoli 5 e 6 della legge 7 marzo 1986, n. 65 («Legge quadro sull'ordinamento della polizia municipale»). Attraverso tali disposizioni il legislatore statale ha operato una summa divisio tra «armamento» vero e proprio ed altri «mezzi e strumenti operativi» di cui la polizia locale puo' essere provvista. In particolare - compatibilmente con l'art. 117, comma 2, lettera d) della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva a legiferare in materia di armi - il citato art. 5 della legge statale prevede, al comma 5, che gli appartenenti ai Corpi e Servizi di Polizia locale sono legittimati a portare, previo conseguimento della qualifica di agente di p.s., le armi ricevute in dotazione in relazione al tipo di servizio da espletare, senza bisogno di munirsi della licenza richiesta ai privati, nel territorio di appartenenza e negli altri casi di missioni nella circoscrizione di altri enti locali, specificamente individuati all'art. 4. La disposizione de qua, peraltro, fa rinvio (art. 5, comma 5) ad un apposito regolamento approvato con decreto del Ministro dell'interno, sentita l'Associazione nazionale dei comuni d'Italia, per la disciplina, tra l'altro, della tipologia e del numero delle armi in dotazione a tale personale, oltre che del relativo accesso ai poligoni di tiro per l'addestramento al loro uso: regolamento approvato con decreto ministeriale 4 marzo 1987, n. 145, recante «Norme concernenti l'armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali e' conferita la qualita' di agente di pubblica sicurezza». Il successivo art. 6 della legge statale rimette, invece, alle regioni la possibilita' di dettare normazione sul versante degli altri strumenti operativi, diversi da quelli la cui destinazione naturale sia l'offesa alla persona (come, ad esempio, gli strumenti di autotutela, quali caschi, guanti, etc.). Invero, nello specifico, tale disposizione, dopo aver chiarito - al comma 1 - che la potesta' delle regioni in materia di polizia locale deve essere esercitata nel rispetto delle norme e dei principi stabiliti dalla stessa legge n. 65 del 1986, precisa - al comma 2 - che le regioni stesse provvedono, con legge, a disciplinare, tra l'altro (n. 5), «le caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi» in dotazione ai Corpi o ai servizi, fatto salvo quanto stabilito dal citato art. 5, comma 5, della stessa legge. Tale riparto di competenze trova conferma nella sentenza n. 167 del 2010, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 9/2009, che identificava una serie di servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale avrebbero dovuto essere muniti di armi. In proposito, la Consulta ha evidenziato che «emerge, con chiarezza, quindi, che la particolare tipologia di servizi ai quali gli agenti ed ufficiali di polizia locale sono adibiti costituisce uno dei presupposti giustificativi dell'attribuzione, da parte della normativa statale, della possibilita' per i medesimi di portare le armi. Pertanto, la norma regionale, enumerando esplicitamente ed autonomamente taluni servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono portare le armi, interviene a disciplinare casi e modi di uso delle armi, invadendo la competenza statale esclusiva di cui all'art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione». 5.- Sulla scorta di quanto evidenziato, pare doversi ritenere che alcune delle previsioni introdotte dalla novella contenuta nella norma regionale in esame invadono il perimetro di materia riservato alla potesta' legislativa esclusiva dello Stato dal citato art. 117, comma 2, lettera d) della Costituzione. E' il caso, in particolare, della possibilita', prevista dall'art. 5 della l.r. n. 8/2021, di dotare la polizia locale di «dissuasori di stordimento a contatto». Tale espressione sembra, infatti, far riferimento a dispositivi rientranti nella categoria delle «armi comuni ad impulso elettrico», di cui all'art. 19 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132. In giurisprudenza e' stato chiarito come lo storditore elettrico debba a tutti gli effetti essere considerato un'«arma comune», in quanto strumento naturalmente destinato ad offendere l'eventuale aggressore (cfr. sul punto, Cassazione Pen., Sez. I, 9 giugno 2004, n. 25912 e Cassazione Pen., Sez. II, 21 novembre 2016, n. 49325). Pertanto, alla luce delle considerazioni esposte, l'attribuzione di tale tipologia di apparati alla polizia locale non puo' che risultare preclusa al legislatore regionale, a meno di sconfinare nella citata riserva di legge statale in materia di armi prevista dall'art. 117, comma 2, lettera d). 6.- D'altra parte, il citato art. 19 del decreto-legge n. 113/2018 ha previsto la possibilita' di avviare la sperimentazione di armi comuni ad impulso elettrico nell'ambito dei Corpi e Servizi di polizia locale dei Comuni capoluogo di provincia e per quelli con popolazione superiore a centomila abitanti. A tale sperimentazione, tuttavia, potra' essere dato corso soltanto una volta approvate, da parte della Conferenza unificata, le linee generali in materia di formazione del personale e tutela della salute, di cui al citato art. 19. In un secondo momento, con l'adozione del decreto ministeriale previsto dal comma 1-bis del medesimo art. 19, la dotazione sperimentale delle armi in parola sara', altresi', consentita alle polizie locali di comuni con un numero di abitanti inferiore ai centomila. Anche sotto tale profilo, dunque, la norma regionale in esame appare invasiva della competenza del legislatore statale, avendo disciplinato la possibilita' di utilizzo dei dispositivi in questione, da parte degli operatori della polizia locale in ambito regionale, al di fuori della procedura prevista dal ridetto art. 19, la quale, in ogni caso, sarebbe destinata ad autorizzare il predetto utilizzo meramente a titolo sperimentale. 7.- L'altro caso in cui l'ordinamento giuridico statale fa riferimento agli strumenti di dissuasione mediante stordimento deve individuarsi nelle disposizioni del decreto legislativo n. 204 del 2010, le quali ne proibiscono il porto, introducendo, a tal fine, una previsione ad hoc nell'art. 4, comma 1, legge n. 110/1975 (cfr. anche art. 49, regio decreto n. 635/1940). Anche tale previsione conferma, quindi, le conclusioni circa la illegittimita' della norma regionale di cui all'art. 5 citato, allorche' interviene in un ambito riservato al legislatore statale, al di fuori del perimetro delle norme di legge con le quali quest'ultimo ha esercitato la predetta competenza legislativa. 8.- Infine, anche qualora i «dissuasori di stordimento a contatto» non fossero qualificabili come arma ad impulso elettrico, giacche' inidonei al lancio di dardi o freccette, essi non sarebbero comunque annoverabili nella categoria degli «strumenti di tutela», ma piuttosto in quella delle armi proprie, perche' la loro destinazione primaria, ancorche' a scopo difensivo, non potrebbe che essere l'offesa alla persona, atteso che il loro effetto e' quello di porre una persona, con diverso gradiente di intensita', in stato di momentanea incapacita'. 9.- Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, per concludere sul punto, la disposizione regionale in esame merita censura in quanto viola l'art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di armi e si pone in contrasto con le norme statali sopra citate, con le quali la suddetta competenza e' stata esercitata, anche con specifico riguardo ai dispositivi scrutinati nel presente motivo di ricorso. 10.- Le altre disposizioni della legge regionale in esame, menzionate in epigrafe, appaiono costituzionalmente illegittime, in quanto contrastanti con gli standard di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema posti dal legislatore statale nell'esercizio della competenza esclusiva ex art. 117, comma 2, lettera s), della Costituzione, avuto particolare riguardo alla vigente normativa in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio dettata dalla legge quadro 11 febbraio 1992, n. 157 (recante «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), ritenuta da codesta ecc.ma Corte disciplina contenente il nucleo minimo di salvaguardia, il cui rispetto deve essere assicurato sull'intero territorio nazionale (sent. Corte costituzionale n. 21/2021). Piu' specificamente, la giurisprudenza della Corte ha affermato che «spetta allo Stato, nell'esercizio della potesta' legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, e dell'ecosistema, prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, stabilire standard minimi e uniformi di tutela della fauna, ponendo regole che possono essere modificate dalle regioni, nell'esercizio della loro potesta' legislativa in materia di caccia, esclusivamente nella direzione dell'innalzamento del livello di tutela» (sentenze n. 303 del 2103, n. 278, n. 116 e n. 106 del 2012). II - Illegittimita' dell'art. 13 l.r. Lombardia n. 8/2021 per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, anche in relazione all'art. 12, comma 12-bis, legge n. 157/1992. 11.- Orbene, l'art. 13 della l.r. n. 8/2021, recante «Modifica all'art. 22 della l.r. n. 26 del 1993», aggiungendo al comma 7 di tale disposizione, dopo le parole «sul posto di caccia», le seguenti parole: «dopo gli abbattimenti o l'avvenuto recupero», e cosi' prevedendo che i capi di selvaggina debbano essere annotati sul tesserino venatorio anche una volta avvenuta l'attivita' di recupero, anziche' dopo l'abbattimento, si pone in contrasto con l'art. 12, comma 12-bis, della citata legge n. 157 del 1992, ai sensi del quale: «La fauna selvatica stanziale e migratoria abbattuta deve essere annotata sul tesserino venatorio di cui al comma 12 subito dopo l'abbattimento». Come noto, in precedenza la Corte costituzionale, con sentenza n. 291/2019, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1, lettera j), della l.r. Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17, nella parte in cui aveva sostituito le parole «dopo gli abbattimenti accertati» con le parole «dopo gli abbattimenti e l'avvenuto recupero». Nell'ambito della suddetta pronuncia, codesta ecc.ma Corte, nell'attribuire al tesserino venatorio funzione abilitativa e di controllo per la verifica della selvaggina cacciata e il rispetto del regime della caccia controllata (v. gia' sentenza n. 90 del 2013), ha, altresi', posto in rilievo che attraverso le annotazioni presenti sul tesserino «sono acquisiti gli elementi di conoscenza della consistenza numerica della fauna selvatica, necessari a predisporre le misure di salvaguardia, in special modo quelle riguardanti le specie piu' vulnerabili». L'attendibilita' dei dati raccolti risulta, inoltre, maggiormente garantita nel momento in cui siffatto adempimento viene effettuato in maniera tempestiva, da cio' derivando la necessita' che l'annotazione sul tesserino venatorio debba essere effettuata subito dopo l'abbattimento, sia per la fauna selvatica stanziale che per quella migratoria. Al riguardo occorre evidenziare che la richiamata previsione di cui all'art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157/1992, si pone nel solco della procedura d'infrazione allora avviata nei confronti della Repubblica italiana (caso EU Pilot 6955/14/EN VI), in merito all'attivita' di monitoraggio del prelievo venatorio, in relazione al quale era stata riscontrata l'esistenza di una variegata legislazione regionale, che consentiva di differire, con riferimento alle sole specie migratorie, l'annotazione degli abbattimenti al termine della giornata di caccia. Secondo la Commissione europea, dunque, l'assenza di una regolamentazione omogenea generava difficolta' nell'espletamento dei controlli da parte delle autorita' competenti e il tempo trascorso tra l'abbattimento e l'annotazione rendeva inattendibili i dati raccolti. Pertanto, l'aggiunta del comma 12-bis all'art. 12 della legge n. 157 del 1992 si e' resa necessaria per la chiusura della ricordata procedura e per garantire una raccolta piu' puntuale delle informazioni, derivante dalla contestualita' dell'annotazione, in funzione dell'efficace programmazione del prelievo faunistico. Ne consegue che la finalita' di tutela delle specie, sottesa all'art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157 del 1992, motiva l'inclusione della norma nell'ambito delle prescrizioni statali costituenti soglie minime di protezione ambientale (Corte costituzionale, sentenza n. 249 del 2019), non derogabili neppure nell'esercizio della competenza regionale in materia di caccia, salva la possibilita' di prescrivere livelli di tutela ambientale piu' elevati di quelli previsti dallo Stato (Corte costituzionale, sentenze n. 174 e n. 74 del 2017, n. 278 del 2012, n. 104 del 2008 e n. 378 del 2007). Nella prospettiva di tutela della sopravvivenza della fauna selvatica, l'obbligo di annotazione non puo' che investire l'abbattimento dell'esemplare, inteso come evento effettivamente realizzatosi, a nulla rilevando la materiale apprensione del capo. Pertanto, la norma censurata, che subordina le annotazioni sul tesserino venatorio al preventivo recupero dell'animale, contrasta con la ratio sottesa alla disciplina normativa statale e abbassa la soglia di protezione da essa stabilita, cosi' violando l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nell'esercizio della competenza legislativa esclusiva prevista dal quale la suddetta soglia deve essere fissata. III - Illegittimita' dell'art. 17, comma 1, lettera a), l.r. Lombardia n. 8/2021 per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, anche in relazione all'art. 5, comma 7, legge n. 157/1992. 12.- L'art. 17 l.r. n. 8/2021, nel modificare l'art. 26 della l.r. n. 26 del 1993, dispone quanto segue: «1. All'art. 26 della legge regionale 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attivita' venatoria), sono apportate le seguenti modifiche: a) al comma 1 dopo le parole «muniti di anellini inamovibili» sono inserite le seguenti: «in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo»; b) i commi 5-bis e 5-quater sono abrogati». In particolare, con la modifica di cui all'anzidetta lettera a) del comma 1, dell'articolo citato, viene consentito l'impiego di una fascetta inamovibile per l'identificazione dei richiami vivi, anche al posto dell'unico contrassegno ammesso dalla normativa statale, ossia l'anello inamovibile numerato. La disposizione si pone, pertanto, in contrasto con l'art. 5, comma 7, della legge n. 157/1992, a mente del quale, «E' vietato l'uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia». Al riguardo occorre precisare che l'anello inamovibile di dimensioni correlate al tarso di ogni specie di volatile costituisce tecnicamente l'unica forma di contrassegno che consente di distinguere legittimi richiami vivi di allevamento da marcature apposte in maniera fraudolenta ad esemplari catturati illecitamente in natura; l'anello puo', infatti, essere apposto solo nei primi giorni di vita degli esemplari, rimanendo inamovibile alla crescita dell'animale nei giorni successivi; diversamente, una fascetta potrebbe essere apposta ad esemplari adulti di illecita provenienza, ragion per cui le disposizioni statali non contemplano tale tipologia di contrassegno. La tassativita' dell'utilizzo dell'anello identificativo inamovibile e la esclusivita' in capo allo Stato nella determinazione degli «standard minimi e uniformi» in materia di tutela della fauna e' stata ribadita anche dalla sentenza n. 441 depositata il 22 dicembre 2006, con la quale la Corte costituzionale ha precisato che l'adozione di deroghe regionali contrasta con la finalita' di tutela della fauna selvatica e, dunque, con la necessita' di garantire un adeguato sistema di controlli, in ossequio a quanto previsto dall'art. 5 della legge n. 157/1992. Nel caso di specie, la norma regionale, nel fare riferimento a «ogni altro materiale idoneo», prevede, in maniera palesemente illegittima, la possibilita' per la regione di determinare la sussistenza di una non meglio identificata idoneita' dei materiali, senza tuttavia precisare quale sia la procedura e quali siano i parametri e i criteri che consentano di pervenire a tale conclusione. Si ritiene, altresi', sul punto, che la modifica normativa introdotta con la disposizione in esame non offra garanzie riguardo alla inamovibilita' e, di conseguenza, alla verifica della liceita' della nascita del soggetto in ambiente controllato, in quanto la proposta utilizzazione di «anelli in materiale plastico o altro materiale idoneo», non garantirebbe la certezza che il soggetto detenuto ai fini di richiamo sia realmente frutto di nascita in cattivita', in quanto l'anellino potrebbe essere «calzato» anche da soggetti adulti di provenienza non accertata. Il materiale plastico, contrariamente al metallo, potrebbe, difatti, essere allargato e modificato facilmente, consentendo di applicate al tarso di un soggetto di cattura anellini deformati e utilizzabili in modo illegale. Inoltre, la plastica non offre le garanzie del metallo in quanto e' soggetta a deformarsi nel tempo, consentendo anche la modifica della stampigliatura dei dati dell'allevatore, dell'anno di nascita, del soggetto e numero progressivo. Per tali ragioni gli anelli in metallo offrono maggiori garanzie di quelli in plastica, che non sono ammessi dai regolamenti internazionali e dalla Confederazione ornitologica mondiale per mostre e fiere ornitologiche. Dal momento che le associazioni ornitologiche hanno approvato e riconosciuto contrassegni metallici che vengono utilizzati da tutti gli allevatori autorizzati dalle regioni italiane, ai sensi della legge n. 157/1992 e di vigenti leggi regionali, deve ritenersi che i medesimi anellini siano idonei e non sostituibili con altri materiali che non potrebbero garantire il riconoscimento dei soggetti nati in cattivita'. In definitiva, e per concludere sul punto, la disposizione regionale in esame viola l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, introducendo disposizioni che, in contrasto con l'art. 5, comma 7, della legge n. 157/1992, volto a stabilire standard minimi e uniformi di tutela della fauna, in applicazione della riserva di competenza legislativa esclusiva statale fissata dalla norma costituzionale, fissano regole in materia di caccia che abbassano il predetto livello di tutela. IV - Illegittimita' dell'art. 17, comma 1, lettera b), l.r. Lombardia n. 8/2021 per violazione dell'art. 117, primo comma e secondo comma, lettera s), della Costituzione. 13.- Lo stesso art. 17 l.r. n. 8/2021, nell'abrogare (lettera b del comma 1) i commi 5-bis e 5-quater dell'art. 26, l.r. n. 26/1993, determina la soppressione della banca dati dei richiami vivi istituita da quest'ultima norma presso la Giunta regionale. A tale riguardo si evidenzia che, nel dicembre del 2010, la Commissione europea ebbe ad avviare la procedura EU PILOT 1611 /1 0/ENVI nei confronti dell'Italia per non corretta applicazione della Direttiva Uccelli 2009/147 CE in materia di cattura richiami vivi, seguita, nel 2014 dalla costituzione di messa in mora (in data 20 febbraio 2014) dello Stato italiano. Proprio a seguito dell'apertura del suddetto caso EU Pilot 1611 /1 0/ENVI, fu costituita la banca dati dei richiami vivi, essendo in tale contesto emersa la necessita' per le regioni di dotarsi di siffatto strumento compendiante i dati dei richiami vivi detenuti dai cacciatori, al fine di soddisfare il requisito delle condizioni rigidamente controllate, previsto dall'art. 9, comma 1, della direttiva 2009/147/CE. Nel merito, infatti, era stata contestata alla Repubblica italiana la violazione dell'art. 8, in combinato con l'allegato IV art. 8 della Direttiva Uccelli con riferimento alla caccia, la cattura o l'uccisione di uccelli nel quadro della medesima direttiva, che prescrive agli Stati membri di vietare il ricorso a qualsiasi mezzo, impianto o metodo di cattura o di uccisione in massa o non selettiva o che possa portare localmente all'estinzione di una specie, in particolare di quelli elencati all'allegato IV, lettera a). Tale violazione si configurava anche in ragione del fatto che le disposizioni oggetto della procedura erano state adottate senza che fossero rispettate le condizioni previste dall'art. 9 (deroghe). Dunque l'introduzione, nella legislazione regionale lombarda, del comma 5-bis, dell'art. 26, l.r. n. 26/1993, prevista dalla l.r. 3 aprile 2014, n 14, aveva stabilito la costituzione della banca dati regionale dei richiami vivi di cattura e allevamento appartenenti alle specie di cui all'art. 4 della legge n. 157/1992, detenuti dai cacciatori «al fine di garantire le condizioni previste dall'art. 9, comma 1, lettera c) della Direttiva 200911 47/CE». E' pertanto evidente che, attraverso l'abrogazione della suddetta banca dati, la regione ha contravvenuto al formale impegno a suo tempo assunto al fine di ottenere l'archiviazione della citata procedura PILOT, violando l'art. 117, primo comma, della Costituzione, nonche', ancora una volta, l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Carta costituzionale. V - Illegittimita' dell'art. 25, l.r. lombardia n. 8/2021 per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, anche in relazione agli articoli 5, comma 7, 27 e 28, legge n. 157/1992. 14.- L'art. 25 della l.r. n. 8/2021, recante «Modifica all'art. 48 della l.r. n. 26 del 1993», dispone quanto segue: «1. All'art. 48 della legge regionale 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attivita' venatoria) e' apportata la seguente modifica: a) al comma 6-bis le parole «L'attivita' di vigilanza e controllo e' svolta» sono sostituite dalle seguenti: «L'attivita' di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1-bis e 3 dell'art. 26 e' svolta verificando unicamente la presenza dell'anellino sull'esemplare e deve essere effettuata». Cosi' disponendo, la modifica introdotta dalla norma in esame riduce fortemente l'ambito della funzione di vigilanza e controllo in materia faunistico-venatoria, svolta dagli agenti di vigilanza sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo. In base al precedente testo del comma 6-bis dello stesso art. 48, infatti, prima della modifica, la suddetta attivita' era esercitata, in generale, «nel massimo rispetto del benessere animale e senza pratiche invasive o manipolazioni che possano arrecare danni alla salute dei volatili». Invece ora, a seguito della modifica, la norma prevede che il controllo e la vigilanza si svolgano verificando unicamente la presenza dell'anellino sull'esemplare di uccello da richiamo. La modifica si pone in evidente contrasto con la normativa nazionale di settore, stabilendo una oggettiva limitazione alla possibilita', per il personale di vigilanza, di espletare compiutamente la propria attivita' di pubblico interesse finalizzata al controllo sul rispetto delle norme vigenti nello Stato. In particolare, ai sensi dell'art. 5, comma 7 della legge n. 157/1992, «E' vietato l'uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia». L'eventuale violazione a siffatto precetto normativo, trova una precisa collocazione sanzionatoria di natura penale, nell'art. 30, lettera h), della medesima legge. La giurisprudenza di legittimita' si e' gia' piu' volte espressa sull'illiceita' di comportamenti idonei a rendere non identificabili i richiami vivi. In particolare, con la sentenza n. 7949/2013 del 19 febbraio 2013 (Udienza del 20 settembre 2012), la Terza Sezione penale della Corte di cassazione ha riconosciuto il reato di uso di mezzi di caccia vietati, nel caso di richiami vivi non identificabili tramite anello inamovibile. Con la successiva sentenza n. 33152 del 25 novembre 2020, la V Sezione penale della Corte di cassazione ha, altresi', precisato che ricorrerebbe il reato di cui all'art. 468, comma 2, del codice penale qualora venisse posta in essere una contraffazione degli anelli identificativi dei richiami, laddove espressamente destinati alla funzione di pubblica attestazione (e' questo il caso degli anelli inamovibili rilasciati dalla pubblica amministrazione competente per scongiurare l'uso fraudolento di richiami vivi provento di illecite catture in natura), senza nulla rilevare in merito al sequestro di richiami vivi con anelli danneggiati ad opera del personale di vigilanza operante. Cio' posto, la modifica apportata dal legislatore regionale, limitando la funzione dell'agente accertatore e costringendolo a verificare «unicamente la presenza dell'anellino», senza consentire in alcun modo di maneggiare l'animale, impedisce di verificare sia la sussistenza del requisito della inamovibilita' dell'anello, sia la numerazione che sullo stesso deve, essere indicata. Tali limiti comportano, dunque, la mancata sussistenza dell'ulteriore requisito della identificabilita', con conseguenti riflessi (in termini impeditivi) sull'espletamento dell'attivita' di vigilanza, in uno degli ambiti che ha riscontrato il maggior numero di irregolarita' in sede europea (cfr. caso EU Pilot 1611 /1 0/ENVI). In ragione di cio', il divieto di verifica sugli anellini inamovibili e' da ritenersi in contrasto con i compiti di vigilanza venatoria stabiliti dagli articoli 27 e 28 della legge n. 157/1992, in cui risultano ricompresi anche quelli sugli anelli inamovibili dei richiami vivi, riducendo i livelli minimi di tutela ambientale in materia. Alla luce di quanto fin qui rappresentato e del quadro normativo eurounitario e statale in cui si colloca la tutela delle specie oggetto della disposizione censurata, si rileva il contrasto della norma regionale con il secondo comma, lettera s), dell'art. 117 della Costituzione, poiche' tendente a ridurre in peius il livello di tutela della fauna selvatica stabilito dalla legislazione nazionale, invadendo illegittimamente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, esercitata con le menzionate disposizioni della legge n. 157/1992.