IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE 
                        Sezione prima penale 
 
    In  composizione  monocratica,  in  persona  del  Giudice,  dott.
Stefano  Sernia,  sciogliendo  la   riserva   formulata   all'udienza
dibattimentale del giorno 19 ottobre 2021 nel processo nei  confronti
di: 
        M. A., nato a ... il ... , letti gli atti e sentite le parti,
ha pronunziato la seguente ordinanza. 
    Si procede a  giudizio  ordinario  a  seguito  dell'emissione  di
decreto che  ha  disposto  il  giudizio  immediato;  le  parti  hanno
concordato  l'acquisizione  degli  atti  dell'intero  fascicolo   del
pubblico ministero; come l'art. 555,  comma  4  codice  di  procedura
penale  consente,  nella  corrente  lettura  giurisprudenziale  della
norma. 
    Si premette, al fine  di  agevolare  la  lettura  della  presente
compendiosa ordinanza, il sommario degli argomenti trattati. 
    1. -  Gli  esiti  della  perquisizione:  prova  fondamentale  nel
presente processo 
    2. - Il diritto vivente 
    3. - Le questioni di costituzionalita' gia' sollevate - sintesi 
    4. - Le nuove questioni - sintesi 
      4.1 - Il  contrasto  con  gli  articoli  13,  14  e  111  della
Costituzione 
        4.1.a  -  «   ....e   restano   privi   di   ogni   effetto»:
l'inutilizzabilita'  derivata  dalla  perdita  di   efficacia   delle
perquisizioni illegittime 
        4.1.b - Inutilizzabilita' derivata - art. 103 del  codice  di
procedura penale 
      4.2 - Violazione dell'art. 3 della Costituzione 
        4.2.a - l'art. 103  del  codice  di  procedura  penale  quale
«tertium comparationis» 
        4.2.b - gli articoli 271 del codice di procedura penale e 132
comma 3 del codice privacy 
        4.2.c - ulteriori violazioni dell'art. 3 della Costituzione 
      4.3 - Violazione dell'art. 2 della Costituzione:  principio  di
effettivita' 
      4.4 - Violazione dell'art. 24 della Costituzione 
      4.5 - Principio di effettivita' e violazione art. 8 Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali - contrasto con gli articoli 2 e 117 della Costituzione 
      4.6 - Principio di effettivita' e violazione art. 6 Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali - contrasto degli articoli 352 e 125 comma 3 del  codice
di procedura penale con gli articoli 2,  111  comma  6  e  117  della
Costituzione 
      4.6.a - Illegittimita' del sequestro e della  convalida  basati
su fonti non specificate. 
        
1. - Gli esiti della perquisizione: prova fondamentale  nel  presente
processo 
    Le parti non hanno chiesto l'esame dei testi indicati nelle liste
a  suo  tempo  depositate,  e  tutti  i   verbali   divengono   cosi'
utilizzabili  ai  sensi  degli  articoli  511  segg.  del  codice  di
procedura penale. 
    Cio' consente di rilevare che la prova riposa tutta  sugli  esiti
di una perquisizione, domiciliare eseguita dalla polizia  giudiziaria
in forza di propalazioni provenienti da una fonte confidenziale. 
    Il presente processo vede l'imputato accusato del  reato  di  cui
all'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990,  per
aver detenuto presso la propria abitazione sostanza  stupefacente  (1
involucro contenente marijuana del peso di  circa  un  grammo;  altro
involucro contenente circa 219 gr. della stessa  sostanza)  destinata
all'uso non terapeutico di terzi. 
    Non risulta monitorata alcuna attivita' di acquisto o  detenzione
di  sostanze  stupefacenti  da  parte  dell'imputato;  non  vi   sono
intercettazioni o servizi di osservazione  che  documentino  ne'  che
l'imputato frequentasse soggetti noti per rifornire i dettaglianti di
sostanze psicotrope, ne' che egli frequentasse tossicodipendenti  con
modalita' sospette, ne'  che  detenesse  sostanza  stupefacente,  ne'
tanto meno che la cedesse a terzi; anzi, la polizia giudiziaria aveva
proceduto   a   perquisire   due   persone   uscite   dall'abitazione
dell'imputato, rivelatesi esserne il fratello e la madre,  senza  che
essi fossero risultati in possesso  di  sostanze  stupefacenti  o  di
altro   che   potesse   indicarne   la   presenza    nell'abitazione;
ciononostante, la  polizia  giudiziaria  procedette  a  perquisizione
domiciliare ponendo a base  di  tale  atto  l'art.  103  decreto  del
Presidente della Repubblica n.  309/1990,  senza  peraltro  esplicare
quali fossero gli elementi atti a giustificare - come imposto da tale
norma -  il  «fondato  motivo  di  ritenere  che»  potessero  «essere
rinvenute sostanze  stupefacenti  o  psicotrope»  ma,  semplicemente,
apoditticamente affermandone la ricorrenza;  il  pubblico  ministero,
non informato preventivamente sebbene non vi dovessero essere ragioni
di urgenza, provvedeva, ciononostante, pur in assenza di elementi che
gli consentissero l'esercizio del potere costituzionale  di  verifica
della   ricorrenza   dei   presupposti   della   legittimita'   della
perquisizione, a convalidare la stessa,  peraltro  in  forza  di  una
motivazione che, fondata sulla sequestrabilita' di  quanto  rinvenuto
(la sostanza indicata in imputazione) e sulla apodittica affermazione
circa  la  ricorrenza  dei  presupposti  di  legge  per  procedere  a
perquisizione e sequestro, sembrava risolvere la verifica  in  ordine
alla legittimita' della perquisizione in  un  controllo  ex  post  in
ordine alla «fruttuosita'» della stessa in  termini  di  raccolta  di
elementi di prova. 
    Inoltre, l'imputato non risulta aver mai processualmente  ammesso
la detenzione della sostanza  stupefacente,  o  che  essa  sia  stata
rinvenuta nell'abitazione da lui occupata. 
    Concludendo, l'unico elemento di prova a carico dell'imputato  e'
costituito da quanto rinvenuto (la sostanza  stupefacente;  strumenti
necessari al suo confezionamento e pesatura; un cellulare  contenente
messaggistica   relativa   a   contatti   con   presunti    clienti),
nell'abitazione da lui occupata, in occasione della perquisizione ivi
eseguita fuori dei  casi  di  flagranza:  situazione  che  la  stessa
sentenza Corte costituzionale n. 252/2020 ricorda dover ricorrere  ex
ante, dato che  deve  fungere  da  causa  giustificatrice  preventiva
dell'esercizio di poteri riconosciuti alla polizia  giudiziaria  solo
in via eccezionale, come peraltro gia' aveva  statuito  la  Corte  di
cassazione a SS.UU. con la nota sentenza n.  39131  del  24  novembre
2015, che ha precisato che «E'  illegittimo  l'arresto  in  flagranza
operato dalla  polizia  giudiziaria  sulla  base  delle  informazioni
fornite dalla vittima o da terzi nell'immediatezza del fatto, poiche,
in tale ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi flagranza",  la
quale presuppone la immediata ed autonoma percezione, da parte di chi
proceda all'arresto, delle tracce del reato e del  loro  collegamento
inequivocabile con  l'indiziato»;  di  talche'  appare  assolutamente
ovvio che non puo' essere  l'esito  positivo  della  perquisizione  a
fungere da  giustificazione  della  sua  esecuzione  ad  opera  della
polizia giudiziaria. 
    Poiche'  gli  articoli  13  e  14  della  Costituzione  assegnano
all'Autorita' giudiziaria il potere di procedere atti di  limitazione
della liberta'  personale  (nei  quali  ricomprende  le  ispezioni  e
perquisizioni personali) e domiciliare nei casi previsti dalla  legge
e   con   provvedimento   motivato,   quali   forme    di    garanzia
dell'effettivita' di tali liberta' costituzionali; e  riconosce  alla
polizia il potere di procedere ad atti dello stesso genere solo nelle
situazioni di necessita' ed  urgenza  tassativamente  indicate  dalla
legge, prevedendo altresi' che tali  atti  si  intendano  revocati  e
perdono   ogni   efficacia   ove   non   convalidati   dall'autorita'
giudiziaria, il tribunale si e' posto e pone il problema, perche'  di
assoluta rilevanza, ai fini della decisione, della questione relativa
all'utilizzabilita' degli esiti di una perquisizione  eseguita  fuori
dei casi in cui la  legge  ne  attribuisca  il  potere  alla  polizia
giudiziaria, atteso  che  la  perdita  di  efficacia  prevista  dagli
articoli 13 e 124 della Costituzione appare dover  essere  quella  di
natura probatoria, essendosi gli effetti  limitativi  della  liberta'
personale (o domiciliare), propri della perquisizione, esauritisi col
compimento dell'atto, e gli unici altri effetti ipotizzabili, di  cui
la carata  Costituzionale  prevede  l'inefficacia,  non  possono  che
essere quelli probatori. 
    Il veicolo processuale per far valere tale  inefficacia  dovrebbe
essere la categoria dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 codice
di procedura penale, ma la giurisprudenza di legittimita' pressocche'
monoliticamente dominante e' invece di segno contrario, creando  cosi
un diritto vivente contro il quale l'unico rimedio a disposizione del
giudice, per ristabilire il rispetto costituzionale,  anche  in  sede
processuale, dei diritti di liberta'  personale  e  domiciliare,  non
puo' che essere la questione di incostituzionalita' del predetto art.
191 codice di procedura penale, cosi' come interpretato ed  applicato
nel diritto vivente. 
2. - Il diritto vivente 
    Come si e' accennato, la lettura  dell'art.  191  del  codice  di
procedura penale  che  questo  tribunale  ritiene  costituzionalmente
corretta e' pero'  contrastata  dal  diritto  vivente  offerto  dalla
costante giurisprudenza di legittimita', che nega l'inutilizzabilita'
probatoria degli esiti di una perquisizione illegittima. 
    A tal proposito, il remittente ha richiamato, e richiama ancora a
fondamento del diritto vivente che si intende  sottoporre  al  vaglio
della Corte costituzionale con l'eccezione che  si  va  a  sollevare,
l'insegnamento espresso dalle della Corte  di  cassazione  sin  dalla
sentenza 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto la piena utilizzabilita'
probatoria degli esiti delle perquisizioni e sequestri eseguiti dalla
polizia giudiziaria al di fuori dei casi previsti  dalla  legge,  pur
prendendo  le  mosse   da   statuizioni   di   principio   di   segno
apparentemente opposto alle conclusioni finali. 
    In realta', con la suddetta  sentenza,  le  sezioni  unite  della
suprema Corte di cassazione (svolgendo un/argomentazione  di  cui  la
sentenza Corte costituzionale n. 219/2019 non si e'  occupata)  hanno
in primo luogo affermato a  chiare  lettere  che  la  conseguenza  di
un'attivita' di illecita acquisizione della  prova,  nello  specifico
una perquisizione illegittima, non puo'  limitarsi  a  mere  sanzioni
amministrative,  disciplinari  o  penali  nei  confronti  dell'autore
dell'illecito, ma deve  comportare  l'inutilizzabilita'  della  prova
stessa, statuendo che: «non e' certamente difficile  riconoscere  che
allorquando   una   perquisizione   sia   stata   effettuata    senza
l'autorizzazione del  magistrato  e  non  nei  «casi»  e  nei  «modi»
stabiliti  dalla  legge,  cosi  come  disposto  dall'art.  13   della
Costituzione, si e' in presenza di un mezzo di  ricerca  della  prova
che non e' piu' compatibile con la tutela del diritto di liberta' del
cittadino,    estrinsecabile     attraverso     il     riconoscimento
dell'inviolabilita' del domicilio. L'illegittimita' della ricerca  di
una prova, pur quando non assuma le dimensioni dell'illiceita' penale
(cfr.art. 609 del codice  penale),  non  puo'  esaurirsi  nella  mera
ricognizione positiva dell'avvenuta lesione del  diritto  soggettivo,
come   presupposto   per   l'eventuale   applicazione   di   sanzioni
amministrative o penali per colui o per coloro che ne sono stati  gli
autori. La perquisizione, oltre ad essere un atto  di  investigazione
diretta, e' il  mezzo  piu'  idoneo  per  la  ricerca  di  una  prova
preesistente e, quindi, diviene partecipe del complesso  procedimento
acquisitivo della prova, a causa del rapporto strumentale che si pone
tra la ricerca e la scoperta di cia' che  puo'  essere  necessario  o
utile ai fini della indagine nessuna prova,  diversa  da  quelle  che
possono formarsi soltanto nel corso del procedimento, potrebbe essere
acquisita al processo se una sua ricerca non  sia  stata  compiuta  e
questa no abbia avuto esito positivo. 
    Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca  di  una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se'  stessa  sottratta  alla   materiale   possibilita'   di   essere
suscettibile di una diretta utilizzazione  nel  processo  penale,  e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che  avvince  la  ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. 
    Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non  e'
esauribile  nell'area  riduttiva  di   una   mera   consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in  numerose  pronunce  di  questa
Corte prima dell'entrata in vigore  del  nuovo  codice  di  procedura
penale, e com'e' stato, anche in  epoca  successiva,  qualche  volta,
ribadito (cfr. sez. 1 - 17 febbraio 1976 ric. C... ;  sez.  VI  -  23
gennaio 1973 ric. F...; sez. V - 24 novembre 1977 ric. M...; sez.  l-
15 marzo 1984 ric. Z...; sez.VI - 24 aprile 1991 ric. L...;  sez.V  -
12 gennaio 1994 ric.V..., etc):  la  perquisizione  non  e'  soltanto
l'antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo  strumento
giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro.» 
    Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero  che  esista
una distinzione concettuale tra  la  perquisizione,  quale  mezzo  di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di  acquisizione
della  prova,  cio'  non  ha   alcuna   rilevanza   ai   fini   della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che: 
        «la  stessa  utilizzabilita'  della  prova  e'   pur   sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento  acquisitivo
che si sottragga, in ogni  sua  fase,  a  quei  vizi  che,  incidendo
negativamente sull'esercizio di  diritti  soggettivi  irrinunciabili,
non  possono  non  diffondere  i  loro  effetti  sul  risultato  che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito.  Del  resto,  non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso  ordinamento  processuale  ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra  perquisizione
e sequestro: l'art. 252 del codice  di  procedura  penale  impone  il
sequestro delle «cose rinvenute  a  seguito  della  perquisizione»  e
l'art. 103, comma settimo dello stesso codice espressamente  sancisce
l'inutilizzabilita' dei  risultati  delle  perquisizioni  allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle  particolari  garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter  esercitare  congruamente
il diritto di difesa. E non si vede  perche'  a  diverse  ed  opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una  perquisizione  sia  stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano,  in  concreto,  l'attuazione  di  quella  ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13 comma secondo della Costituzione: si tratta  pur  sempre
di un  procedimento  acquisitivo  della  prova  che  reca  l'impronta
ineludibile della subita lesione ad un  diritto  soggettivo,  diritto
che, per la sua rilevanza costituzionale,  reclama  e  giustifica  la
piu' radicale sanzione di cui l'ordinamento  processuale  dispone,  e
cioe' l'inutilizzabilita' della prova cosi' acquisita  in  ogni  fase
del procedimento.» 
    Il prosieguo della statuizione della suprema Corte  si  risolveva
peraltro, ed alquanto sorprendentemente  (considerate  le  premesse),
nella pratica vanificazione della portata  di  tali  principi  appena
enunciati; continuava  infatti  detta  sentenza  affermando  comunque
valido il sequestro, perche' atto dovuto, allorche' avesse ad oggetto
il corpo del reato o cose pertinenti al reato;  pertanto,  di  fatto,
l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini  probatori,
sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi
comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo  ne'  al  corpo
del reato, ne' a cose  pertinenti  al  reato;  affermava  infatti  la
suprema Corte a SSUU: 
        «Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca  della
prova  del  commesso  reato,   allorquando   assume   le   dimensioni
conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a  tutela  dei
diritti  soggettivi  oggetto  di  specifica  tutela  da  parte  della
Costituzione, non puo', in linea  generale,  non  diffondere  i  suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire,  e'  altrettanto  vero  che  allorquando  quella  ricerca,
comunque effettuata, si  sia  conclusa  con  il  rinvenimento  ed  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a  quel  sequestro  si  sia  pervenuti:  in  questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto  di  una  situazione  non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un «atto dovuto»,  la
cui omissione esporrebbe  gli  autori  a  specifiche  responsabilita'
penali,  quali  che  siano   state,   in   concreto,   le   modalita'
propedeutiche e funzionali  che  hanno  consentito  l'esito  positivo
della ricerca compiuta. 
    Va osservato che,  comunque,  le  predette  Sezioni  unite  della
Corte,  affermata  la  legittimita'  del  sequestro,  quale  atto  di
sottrazione  a  terzi  della  disponibilita'  di  una  res,   e   sua
acquisizione  al  processo,  sembravano  voler  lasciare  aperta   la
possibilita'  di  conseguenze  sul  piano  probatorio,  nel  caso  di
perquisizione eseguita fuori dei casi in cui la legge la consentisse,
osservando: 
        «Con cio' non si intende affatto affermare che l'oggetto  del
sequestro, a causa della sua intrinseca  illiceita',  ovvero  per  il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in  relazione  al  reato
commesso,  possa,  per  cio'  solo,  dissolvere  quella   connessione
funzionale   che   lega   la   perquisizione   alla    scoperta    ed
all'acquisizione di  cio'  che  si  cercava,  ma  si  vuole  soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste  dall'art.
253,  comma  primo  del  codice  di  procedura  penale,  gli  aspetti
strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi  del  procedimento
acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di
un obbligo giuridico che trova la sua fonte di  legittimazione  nello
stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale  ed  appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia  giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente  legati
al suo "status", qualunque sia la situazione - legittima o  no  -  in
cui egli si trovi ad operare». 
    Tali   statuizioni   avrebbero   potuto,    quindi,    risolversi
nell'asserzione della  legittimita'  del  sequestro,  ferma  restando
pero' la inutilizzabilita' probatoria della perquisizione, quale atto
di indagine caratterizzato da un preciso contesto spazio temporale di
acquisizione della «res» ed  atto  ad  individuare  una  relazione  -
carica di valenze probatorie - tra di essa ed il soggetto perquisito;
ma le SS.UU., invece,  concludevano  osservando  che  gli  agenti  di
polizia giudiziaria avrebbero poi  potuto  testimoniare  sugli  esiti
della perquisizione, ferma restando l'inutilizzabilita'  di  essa  in
quanto tale (e cioe', par di capire, con inutilizzabilita'  solo  del
verbale che ne documenta modalita', tempo, luoghi e risultato). 
    Da tale arresto delle Sezioni unite ha tratto origine e  sviluppo
una giurisprudenza che si  e'  ancorata,  apparentemente,  unicamente
alla massima tratta dalla predetta sentenza circa la legittimita'  ed
utilizzabilita'   a   fini   probatori   del   sequestro,   rimanendo
apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei  principi  affermati
dalle stesse SS.UU. nella prima - e piu' consistente  -  parte  della
propria statuizione,  e  che  probabilmente  avrebbero  meritato  una
riflessione e sviluppo su possibili ulteriori  esiti  interpretativi:
come,  ad  es.,  quello  che   volesse   limitare   l'utilizzabilita'
probatoria del sequestro alla res in quanto  tale,  cioe'  nella  sua
materiale idoneita' a provare la sussistenza del fatto (si  pensi  al
rinvenimento di un'arma o di sostanza stupefacenti, idonei a  provare
i reati di detenzione illecita di  tali  oggetti)  ed  a  fungere  da
eventuale supporto di tracce di reato (impronte  digitali,  materiale
biologico suscettibile di  comparazione  del  DNA)  aventi  carattere
individualizzante:  interpretazione,  questa,  sostenuta  da   questo
giudice in precedenti procedimenti,  ma  non  condivisa  dai  giudici
competenti per i successivi gradi, che si sono  sempre  rimessi  alla
giurisprudenza che  si  e'  richiamata  e  che  delle  citate  SS.UU.
coglieva, sostanzialmente, solo quanto risultante dal  dispositivo  e
dalla massima. 
    Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' si
e'  monoliticamente   assestata   su   tali   esiti   interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro  conseguente
ad una perquisizione illegittima,  e  la  sua  piena  utilizzabilita'
probatoria; si citano,  a  titolo  di  esempio  e  senza  pretesa  di
esaustivita', ed in assenza di pronunzie di segno contrario,  che  lo
scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire: 
        sez. 3, ordinanza n. 3879  del  14  novembre  1997;  sez.  1,
sentenza n. 2791 del 27 gennaio 1998, sez. 5, sentenza n. 6712 del  7
dicembre 1998, sez. 3, sentenza n. 1228 del 17 marzo  2000,  sez.  4,
sentenza n. 8052 del 2 giugno 2000, sez. 6, sentenza n.  3048  del  3
luglio 2000, sez. 2, sentenza n. 12393 del 10 agosto  2000,  sez.  1,
sentenza n. 45487 del 28 settembre 2001, sez. 1,  sentenza  n.  41449
del 2 ottobre 2001, sez. 1, sentenza n. 497 del 5 dicembre 2002, sez.
5, sentenza n. 1276 del 17 dicembre 2002, sez. 2, sentenza  n.  26685
del 14 maggio 2003, sez. 2, sentenza n. 26683  del  14  maggio  2003,
sez. 1, sentenza n. 18438 del 28 aprile 2006,  sez.  2,  sentenza  n.
40833 del 10 ottobre 2007, sez. 6, sentenza n. 37800  del  23  giugno
2010, sez. 1, sentenza n. 42010 del 28 ottobre 2010, sez. 2, sentenza
n. 31225 del 25 giugno  2014,  sez.  3,  sentenza  n.  19365  del  17
febbraio 2016 (quest'ultima addirittura nel senso della  legittimita'
di  perquisizioni  ordinate  od  eseguite  in  forza  di  sole  fonti
confidenziali), sez. 2, sentenza n. 15784 del 23 dicembre 2016,  sez.
5, sentenza n. 32009 dell'8 marzo 2018. 
3. - Le questioni di costituzionalita' gia' sollevate - Sintesi 
    In merito questo giudicante ha pertanto gia' piu' volte sollevato
questione di illegittimita' costituzionale  (per  contrasto  con  gli
articoli 3, 13, 14, 24, 117 della Costituzione) del  diritto  vivente
formatosi attorno all'art. 191 codice di procedura  penale,  che  non
ritiene inutilizzabili probatoriamente gli esiti delle  perquisizioni
operate dalla polizia giudiziaria fuori dei  casi  in  cui  la  legge
glielo consente, nonostante che: 
        gli  articoli  13  e  14  della  Costituzione   espressamente
prevedano la  perdita  di  ogni  efficacia  (compresa  quindi  quella
probatoria) dei provvedimenti - tra  gli  altri  -  di  perquisizione
operati illegittimamente dalla p.g; 
        venga violato il principio  di  eguaglianza  che  impone  che
situazioni tra di loro  analoghe  siano  oggetto  di  discipline  non
irrazionalmente difformi, atteso che per le  perquisizioni  e'  cosi'
adottata una disciplina meno favorevole per  l'imputato  e  di  minor
tutela dei suoi diritti costituzionali  rispetto  a  quella  prevista
dall'art.   271   codice   di   procedura    penale    che    prevede
l'inutilizzabilita'  probatoria  delle  intercettazioni  illegittime,
nonostante queste ledano un diritto costituzionale, quale quello  del
diritto alla segretezza e riservatezza della corrispondenza, di minor
grado ed importanza rispetto a  quello  della  liberta'  personale  e
domiciliare; 
        L'interpretazione consolidatasi si pone inoltre in  contrasto
con l'art. 8 della  Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo,  e
quindi in contrasto con l'art. 117 della Costituzione che impone allo
Stato italiano  il  rispetto  delle  Convenzioni  internazionali,  in
quanto si risolve nel non adottare efficaci disincentivi  agli  abusi
delle forze di polizia, e di qualsiasi organo dello Stato in  genere,
che, limitando la liberta' della persona, si  risolvano  in  indebite
interferenze  nella  sua  vita  privata  o  nel  suo  domicilio,  non
giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o  repressione  dei
reati (vennero richiamate  le  sentenze  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo 16 marzo 2017, Modestou contro  Grecia,  nonche',  la  piu'
recente sentenza emessa in data 27 settembre 2018 dalla prima sezione
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali nel caso Brazzi contro Italia; 
        infine, si osservava come l'interpretazione divenuta  diritto
vivente ponesse anche gravi problemi quanto a tutela del  diritto  di
difesa, atteso che perquisizioni eseguite dalla  polizia  giudiziaria
fuori dei casi previsti dalla legge, perche' in  forza  di  indizi  o
ragioni mai  concretamente  esplicitati  e  senza  indicazione  delle
specifiche fonti, ne impedisse ogni  verifica  e  controllo  (sia  da
parte del giudice, che della difesa) e quindi anche  la  possibilita'
di dimostrare la possibilita' che fossero state le fonti propalatrici
a  nascondere  le  «res  illicite»  tra  gli  effetti   personali   o
nell'abitazione dell'imputato. 
    La Corte costituzionale ha reiteratamente respinto - dapprima con
la sentenza n. 219/2019, di poi con la  sentenza  n.  252/2020  -  le
eccezioni  sollevate  in  tema   di   inutilizzabilita'   da   questo
giudicante, pur accogliendo  -  con  la  sentenza  n.  252/2020,  per
l'appunto - la  questione  accessoria  relativa  alla  illegittimita'
costituzionale dell'art. 103 decreto del Presidente della  Repubblica
n. 309/1990, nella parte in cui prevede  che  il  pubblico  ministero
possa, dopo aver autorizzato oralmente una perquisizione, omettere un
atto formale (che la Corte ha ritenuto  di  poter  individuare  nella
convalida  della  perquisizione)  di   esposizione   degli   elementi
giustificativi    della    perquisizione;    quanto    al    problema
dell'inutilizzabilita'  delle   prove   acquisite   in   esito   alla
perquisizione illegittima, anche con tale ultima sentenza la Corte ha
ribadito che - come gia' aveva affermato con la sentenza n.  219/2019
- l'eccezione non poteva essere accolta, perche' si  sarebbe  risolta
in una pronunzia fortemente manipolativa,  atteso  che  l'ordinamento
italiano non accoglie la disciplina della inutilizzabilita' derivata,
espressione della c.d. «teoria dei  frutti  dell'albero  avvelenato».
Per tale assorbente ragione, la Corte non aveva considerato le  altre
questioni sollevate, ed  in  particolare  aveva  ritenuto  assorbente
quella relativa al contrasto con l'art. 117  della  Costituzione  per
violazione dell'art. 8 Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  come   vivente
nell'interpretazione  espressa  dalla  Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo. 
4. - Le nuove questioni - Sintesi 
    Ritiene il tribunale di poter e  dover  offrire  nuovi  argomenti
alla Corte, proprio sul tema della  «teoria  del  frutti  dell'albero
avvelenato»,  rinvenendosi   nell'ordinamento   dati   testuali   che
dimostrano, a parere di questa A.G. remittente,  che  tale  istituto,
oltre ad essere implicitamente previsto proprio dagli articoli  13  e
14 Costituzione (nella  parte  in  cui  prevedono  che  gli  atti  di
perquisizione  non  convalidati  perche'  illegittimi  perdano   ogni
efficacia che,  rispetto  ad  atti  conclusisi  -  nei  loro  effetti
limitativi della liberta' personale - col loro compimento,  non  puo'
che essere quella probatoria), conosce  anche  almeno  una  esplicita
applicazione processuale, nell'art. 103 codice  di  procedura  penale
(che  prevede  l'inutilizzabilita'  dei  risultati  delle  ispezioni,
perquisizioni,  sequestri  ed  intercettazioni  eseguite   senza   il
rispetto delle norme  stabilite  da  detto  articolo,  e  che  questo
tribunale ancora non aveva utilizzato come «tertium  comparationis»),
a tutela del diritto costituzionale di difesa; sarebbe poi del  tutto
irrazionale, e quindi in violazione dell'art. 3  della  Costituzione,
un sistema normativo che assicurasse ai  diritti  strumentali  (quali
quello di difesa di  cui  all'art.  24  della  Costituzione  e  nella
disciplina di cui all'art. 103 codice di procedura  penale  per  quel
che qui interessa) una tutela di rango maggiore e piu' efficace  (per
il tramite della sanzione della inutilizzabilita' dei risultati delle
perquisizioni illegittime) di quella invece apprestata a tutela delle
situazioni sostanziali preminenti  quali  il  diritto  alla  liberta'
personale ed alla liberta' domiciliare sanciti dagli articoli 13 e 14
della Costituzione. 
    Il  diritto  vivente  formatosi  sull'art.  1912  del  codice  di
procedura penale risulta poi integrare  una  violazione  dell'art.  2
della Costituzione e del principio  di  effettivita'  delle  garanzie
costituzionali, immanente alla previsione di una  tutela  data  dalla
Costituzione (articoli 2), dalla circostanza che questa sia la  legge
fondamentale dello Stato cui tutti devono osservanza (art. 54,  comma
1 della Costituzione) e che non puo' essere violata  da  altre  leggi
ordinarie (desumi da articoli 134, comma  1  e  136,  comma  1  della
Costituzione); principio di effettivita' che e' poi proprio  (secondo
la giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo)  anche
delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali  (in  primis
la Convenzione europea dei diritti dell'uomo) e  che,  per  quel  che
riguarda il caso presenta,  interessa  gli  articoli  6  ed  8  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, cui lo Stato ha il dovere  Costituzionale  (ex
art. 117 della Costituzione) di prestare osservanza. 
    Appare poi a  questo  giudicante  evidente  che  ogni  disciplina
normativa, ivi compresa quella processuale, la  quale  riconosca,  ad
una  attivita'  illecitamente  compiuta  in  violazione  di   diritti
costituzionali  altrui,  l'idoneita'  a  produrre  effetti  giuridici
favorevoli a chi detta violazione abbia compiuto ed in danno  di  chi
l'abbia   subita,   non   presta   adeguata   garanzia   ai   diritti
costituzionali che pur astrattamente riconosce. 
    A tal proposito va osservato che  gia'  le  sezioni  unite  della
Corte di cassazione, con la richiamata sentenza n. 5021 del 27  marzo
1996, avevano osservato che la garanzia di effettivita' della  tutela
della liberta' personale  e  domiciliare  da  atti  di  perquisizione
indebita non puo' essere garantita solamente  da  una  sterile  presa
d'atto dell'avvenuta  violazione  e  dalla  previsione  di  eventuali
responsabilita' penali o  disciplinari  degli  operatori  di  polizia
giudiziaria, asserendo che: «L'illegittimita' della  ricerca  di  una
prova, pur quando non assuma  le  dimensioni  dell'illiceita'  penale
(cfr art. 609 del codice  penale),  non  puo'  esaurirsi  nella  mera
ricognizione positiva dell'avvenuta lesione del  diritto  soggettivo,
come   presupposto   per   l'eventuale   applicazione   di   sanzioni
amministrative o penali per colui o per coloro che ne sono stati  gli
autori». 
    Va quindi osservato che pero',  di  fatto,  a  parte  la  teorica
responsabilita' disciplinare o penale per  le  perquisizioni  abusive
eventualmente non convalidate, evenienza peraltro piuttosto teorica e
concretamente  rara,  le  forze  di  polizia  possono  contare  sulla
potenziale   fruttuosita'   processuale   di   qualsiasi   atto    di
perquisizione vadano a compiere, legale o illegale che sia,  di  modo
che la Repubblica, in forza del  diritto  vivente  formatosi  attorno
all'art. 191 codice  procedura  penale,  non  appresta  una  efficace
garanzia a tutela dei diritti costituzionali di cui agli articoli  13
e 14 della Costituzione. Cio' integra una palese violazione dell'art.
2 della Costituzione, il quale prevede che  la  Repubblica  non  solo
riconosca,  ma  altresi'  garantisca  i  diritti  inviolabili   della
persona, tra i quali  sicuramente  rientrano  quelli  previsti  dagli
articoli 13 e 14 della Costituzione, i  quali  infatti  espressamente
definiscono i  diritti  di  liberta'  personale  e  domiciliare  come
inviolabili. 
    Ne  consegue  che  le  questioni  gia'   ritenute   dalla   Corte
insuperabilmente assorbite nella ritenuta natura  manipolativa  della
pronuncia richiesta dal remittente, risultano riacquistare  rilevanza
e necessitare di una valutazione di merito. 
    Cio'  vale,  in  particolare,  secondo  questo   tribunale,   con
specifico  riferimento  alla  questione  relativa   alla   violazione
dell'art. 117 della  Costituzione  con  riferimento  alla  violazione
dell'art. 8 Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  quale  interpretato  dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,  la  quale
ripetutamente  ha  affermato  che  le  tutele  nazionali  ai  diritti
tutelati dalla Convenzione debbano essere effettive e tali da rendere
reali  e  praticamente  tutelati,  e  non  meramente  illusori,  tali
diritti.  Tale  questione  va  affrontata  anche  perche'  la   Corte
costituzionale, con la citata sentenza n. 252/2020, ha - ovviamente -
confermato la  particolare  rilevanza  costituzionale  del  controllo
giudiziale sulla legittimita' degli atti di perquisizione,  lasciando
pero' irrisolta la questione relativa alle conseguenze dell'omissione
della   convalida   della   perquisizione,   o   del   suo   rigetto,
sull'utilizzabilita' del materiale probatorio acquisito  grazie  alla
perquisizione non convalidata: conseguenze che, necessariamente, deve
ritenersi che la stessa  Corte  costituzionale  abbia  implicitamente
condiviso debbano esservi, atteso che quella della  inutilizzabilita'
probatoria  degli  esiti  delle  perquisizioni  non  convalidate  era
l'unica ragione di rilevanza della questione  di  incostituzionalita'
individuata dal giudice rimettente e  quindi  idonea  a  radicare  la
cognizione della Corte stessa. 
    Ed invero, sintetizzando cio' che meglio oltre si osservera',  il
tribunale ritiene che l'art. 191 codice di  procedura  penale,  nella
lettura offertane dal diritto  vivente,  sia  in  contrasto  con  gli
articoli 13 e  14  Costituzione,  proprio  perche'  non  accoglie  la
«teoria del frutti dell'albero avvelenato» che, invece, appare essere
espressamente  considerata  dalle  suddette   norme   costituzionali;
tant'e' che, non a caso, il diritto  processuale  penale  ne  prevede
almeno un'ipotesi espressamente disciplinata dall'art. 103 codice  di
procedura   penale,   che   sanziona   proprio    in    termini    di
inutilizzabilita'  ogni  acquisizione  probatoria  (ivi  compresi  «i
risultati delle  ispezioni  e  perquisizioni»)  della  corrispondenza
(tramite sequestro o  anche  solo  presa  di  cognizione  per  quella
consistente in messaggi scritti o telematici; tramite intercettazione
per le  conversazione  telefoniche  o  ambientali)  tra  difensore  e
imputato  compiuta  presso  gli  studi  dei  difensori,  «salvo   che
l'autorita' giudiziaria abbia  fondato  motivo  di  ritenere  che  si
tratti  del  corpo  del  reato»  (valutazione  da   compiersi,   deve
ritenersi,  essendo  una  condizione  di  legittimita'  dell'atto  di
ispezione o perquisizione, ex ante, e non ex post). 
    Questo tribunale ritiene cioe' di dover risollevare la  questione
davanti alla  Corte  costituzionale  prendendo  le  mosse  da  quanto
statuito dalla Corte con la sentenza n.  252/2020,  e  rinvenendo  in
essa nuovi spunti argomentativi, confermati peraltro  dall'esistenza,
nella disciplina dettata dall'art. 103 codice di procedura  penale  -
norma  finora  mai  evocata  da  questo   tribunale   come   «tertium
comparationis»  (pur  essendo  contemplata  nella  motivazione  della
sentenza della Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza  n.  5021
del 27 marzo 1996) - una concreta applicazione del c.d. principio dei
«frutti dell'albero avvelenato», tale da indurre a ritenere che  esso
sia  implicito  al  sistema  processuale,  e   che   sia   necessario
risottoporre alla Corte il tema della  compatibilita'  della  vigente
disciplina dell'art. 191 codice  di  procedura  penale  (nel  diritto
vivente) con quanto statuito dall'art. 8 Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
questione, gia' ripetutamente evocata  da  questo  tribunale  per  il
contrasto con l'art. 117 della Costituzione,  che  la  Corte  con  le
citate  sentenze  non  ha  affrontato   ritenendola   assorbita   dal
prevalente rilievo che la teoria dei «frutti dell'albero  avvelenato»
sarebbe estranea all'ordinamento italiano. 
    Il diritto vivente formatosi sull'art. 191  codice  di  procedura
penale risulta cosi' non solo in contrasto diretto con  gli  articoli
13 e 14 Costituzione, ma  anche  con  l'art.  3  della  Costituzione,
perche' sottopone ad un trattamento palesemente  difforme  da  quello
previsto dall'art. 103 codice di procedura penale, i risultati  delle
perquisizioni operate presso l'abitazione o sulla persona del diretto
interessato in violazione dei suoi primari diritti costituzionali  di
liberta'  personale  e  domiciliare,  mentre  invece   sanziona   con
l'inutilizzabilita' probatoria dei suoi  risultati,  quelle  eseguite
presso il titolare del diritto di difesa  tecnico,  che  e'  tuttavia
diritto strumentale - e quindi accessorio se non addirittura servente
-  rispetto  a  quello  sostanziale  (della  tutela  della   liberta'
dell'imputato, in primis) di cui e' strumento: cosi'  irrazionalmente
offrendo alla tutela del  diritto  principale  una  tutela  inferiore
rispetto a quella garantita al diritto strumentale ed accessorio. 
    Con la presente  ordinanza,  questo  tribunale  intende  pertanto
sottomettere nuovamente alla Corte costituzionale le  questioni  gia'
sollevate, ovviamente utilizzando argomentazioni ulteriori a sostegno
di quelle parziali gia' esaminate dalla Corte costituzionale  con  le
precedenti  pronunzie  (una  delle  quali,  peraltro,   di   parziale
accoglimento),  e  prendendo  peraltro   le   mosse   anche   proprio
dall'ultima di tali  pronunzie;  e'  tuttavia  ovviamente  necessario
ripercorrere l'intero spettro delle  argomentazioni  gia'  sollevate,
atteso che e' la loro sinergia a rendere manifesta,  a  parere  dello
scrivente,  l'illegittimita'  costituzionale  del   diritto   vivente
formatosi attorno all'art. 191  codice  di  procedura  penale,  quale
consolidatosi in  numerosissime  pronunzie  della  suprema  Corte  di
cassazione   costantemente   orientate   a    ritenere    la    piena
utilizzabilita'  degli  esiti  probatori   di   tali   perquisizioni,
cristallizzando nel tempo l'insegnamento ricavato  da  C.  Cassazione
SS.UU. sentenza 5021 del 27  marzo  1996  che,  in  realta',  avrebbe
consentito piu' articolate interpretazioni. 
4.1 - Il contrasto con gli articoli 13, 14 e 111 della Costituzione 
    Il diritto vivente formatosi sull'art. 191  codice  di  procedura
penale non appare, a giudizio di questo giudicante, conforme in primo
luogo agli articoli 13 e 14 della Costituzione. 
    Invero,  l'art.  13  della  Costituzione  (richiamato,  quanto  a
garanzie e forme ivi previste, dall'art.  14  della  Costituzione  in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri eseguite nel  domicilio)
prescrive che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra
i quali  annovera  non  solo  l'arresto  o  il  fermo,  ma  anche  le
perquisizioni e le ispezioni  personali  -  sia  riservato  ad  «atto
motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
dalla legge»; la norma costituzionale introduce quindi una riserva di
legge e di provvedimento (motivato) dell'Autorita'  giudiziaria,  cui
puo' derogarsi solo per casi eccezionali previsti dalla legge, atteso
che la norma prosegue prevedendo che solo  «In  casi  eccezionali  di
necessita'  ed  urgenza,   indicati   tassativamente   dalla   legge,
l'autorita'  di  pubblica  sicurezza  puo'   adottare   provvedimenti
provvisori,  che  devono  essere  comunicati  entro  quarantotto  ore
all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non li  convalida   nelle
successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi  di
ogni efficacia'.». 
    L'art. 14 della Costituzione estende agli atti  di  perquisizione
domiciliare le garanzie dettate per le  perquisizioni  personali,  in
considerazione   della   primaria   importanza    che    la    tutela
dell'inviolabilita'  del  domicilio   assume   quale   strumento   di
protezione della sfera spaziale in cui si svolge l'abituale esercizio
di fondamentali diritti della  persona;  tutela  costituzionalizzata,
per il tramite dell'art. 117 della Costituzione (cfr. sentenze  Corte
costituzionale numeri 348 e 349/2007), anche dall'art. 8 della  Carta
europea dei diritti dell'uomo, che sancisce il diritto della  persona
al rispetto del proprio domicilio -  oltre  che  della  propria  vita
privata e famigliare - anche  dalle  ingerenze  pubbliche,  legittime
solo se previste dalla legge e necessitate da esigenze di  (per  quel
che qui interessa) difesa dell'ordine e prevenzione dei reati. 
    I suddetti  diritti  sono  quindi  assistiti  -  a  sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico  dell'ordinamento  repubblicano
voluto dal legislatore costituzionale come fondato  sulla  tutela  di
quelle  liberta'  individuali  tendenzialmente  negate  o  fortemente
compresse dal precedente regime -  da  un  corredo  di  significative
cautele date  dalla  riserva  di  legge,  dalla  riserva  del  potere
giudiziario,  dall'obbligo  che  quest'ultima   provveda   con   atto
motivato. 
    Solo in casi eccezionali di necessita'  ed  urgenza,  che  spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle forze di polizia, che di  tali  compiti  sono  titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito  un  potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in  caso
di mancata  convalida  da  parte  dell'A.G.  con  provvedimento  che,
sebbene   cio'   non   sia   espressamente   previsto   dalla   norma
costituzionale, deve ritenersi - come peraltro ha concordato anche la
Corte costituzionale con la  sentenza  n.  252/2020,  ritenendo  tale
obbligo implicito nell'art. 13 della Costituzione -  debba  anch'esso
essere motivato, dato che non  vi  e'  ragione  di  ritenere  che  il
legislatore costituzionale, per l'ipotesi di particolare  delicatezza
costituzionale data della convalida (la cui  funzione  e'  verificare
che la polizia giudiziaria non  abbia  agito  in  tali  delicatissime
materie abusando dei propri poteri, fuori dei casi  in  cui  essi  le
sono riconosciuti), abbia voluto  esonerare  l'Autorita'  giudiziaria
dalla necessita' di motivare i propri provvedimenti, che in  tema  di
atti  limitativi  della  liberta'  personale  gli  e'  specificamente
imposta dall'art. 13 comma 2  della  Costituzione  (e  come  peraltro
previsto  gia'  in  via  generale  dall'art.  111,  comma   6   della
Costituzione per tutti i provvedimenti giurisdizionali). 
    Come si e' accennato, tali  garanzie  sono  estese  dall'art.  14
della Costituzione anche al caso  delle  perquisizioni,  ispezioni  e
sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma  opera  alle
garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per  la  tutela
della liberta' personale. 
    Fondamento  comune  alle  eccezioni  sollevate  (e  che  qui   si
reiterano)  da  questo  tribunale  era  ed  e'  quindi  la   ritenuta
necessita' che la disciplina processuale non si ponga d'ostacolo alla
piena operativita' delle garanzie stabilite dagli articoli  13  e  14
della Costituzione a tutela della liberta' personale  e  domiciliare:
garanzie tra le quali va  in  primo  luogo  annoverata  quella  della
perdita di efficacia (ivi compresa quella  probatoria,  che  per  gli
atti di perquisizione, esauritisi  questi  col  loro  compimento,  e'
l'unica efficacia di cui la norma costituzionale possa aver  disposto
la cessazione) degli atti di limitazione della liberta'  personale  e
domiciliare non convalidati nei termini di legge. 
    Tali  garanzie,  a  giudizio  del  remittente,  risultano  invece
frustrate dalla vigente disciplina  delle  inutilizzabilita'  di  cui
all'art. 191 codice di procedura penale, che consente  -  secondo  il
diritto vivente - l'utilizzabilita' probatoria  di  quanto  acquisito
dalla polizia in occasione di una perquisizione  eseguita  fuori  dei
casi in cui la Costituzione lo consenta, o in  assenza  di  convalida
che la  effettiva  ricorrenza  di  tali  condizioni  abbia  realmente
verificato (con le caratteristiche di  effettivita'  implicite  negli
articoli 13 e 14 della Costituzione e nell'art. 8 Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, come  sottolineato  dalla  menzionata  sentenza  Brazzi
contro Italia). 
    Peraltro, la perdita di efficacia probatoria delle  perquisizioni
illegittime (e per tale ragione da non convalidarsi) e' desumibile in
via diretta dagli articoli 13  e  14  della  Costituzione,  ai  quali
potrebbe darsi immediata applicazione se non fosse che la  norma  che
regola   l'istituto   dell'inutilizzabilita'   probatoria   in   sede
processuale, e cioe' l'art. 191 codice di procedura penale, e'  stato
fatto oggetto di una diversa e piu' limitante lettura, in primo luogo
per la ritenuta inesistenza,  nell'ordinamento,  dell'istituto  della
inutilizzabilita' derivata. 
4. 1.a - «....E restano privi di ogni  effetto»:  l'inutilizzabilita'
derivata dalla perdita di efficacia delle perquisizioni illegittime 
    Atteso che gli articoli 13 e 14 della Costituzione prevedono  che
le autorita'  di  polizia  possano  adottare  atti  limitativi  della
liberta' personale, tra  i  quali  e'  ricompresa  la  perquisizione,
nonche'  procedere  a  perquisizione  domiciliare,   solo   in   casi
eccezionali di necessita' ed urgenza  indicati  tassativamente  dalla
legge, deve conseguentemente ritenersi che, al di fuori di tali casi,
la perquisizione eseguita dagli  apparati  di  polizia  sia  illegale
perche' ad essi ne e' vietata l'esecuzione. 
    La legge ordinaria ha individuato tali situazioni eccezionali  di
necessita' ed urgenza, in via generale, nello stato di flagranza  del
reato. Va a tal proposito ricordato (e la Corte  costituzionale  gia'
con le sentenze numeri 219/19 e 252/20 ha condiviso tale assunto) che
dall'art. 382 codice di procedura penale si evince che la  situazione
di flagranza - che legittima in via ordinaria l'esercizio del  potere
di perquisizione in capo alla polizia giudiziaria - e' quella che  si
presenta allorche' la consumazione del reato cade sotto la percezione
degli organi di polizia giudiziaria,  ovvero  questi  scorgono  sulla
persona del reo tracce altamente significative che egli abbia  appena
commesso un delitto (cfr. ad es. quanto statuito dalla nota  sentenza
C. cassazione SS. UU. n. 39131 del 24 novembre 2015, che ha precisato
che «E' illegittimo l'arresto  in  flagranza  operato  dalla  polizia
giudiziaria sulla base delle informazioni fornite dalla vittima o  da
terzi nell'immediatezza del fatto,  poiche',  in  tale  ipotesi,  non
sussiste la condizione di "quasi flagranza", la quale  presuppone  la
immediata  ed  autonoma  percezione,  da   parte   di   chi   proceda
all'arresto,  delle  tracce  del  reato  e  del   loro   collegamento
inequivocabile con l'indiziato») 
    Sicche' cio'  che  viene  trovato  in  possesso  dell'imputato  a
seguito della perquisizione non puo' valere a legittimarla ex ante. 
    Proprio perche' la flagranza e' una situazione  che  deve  essere
percepibile e  il  risultare  ex  ante,  e  cio'  puo'  concretamente
frustrare le esigenze di prevenzione e repressione  dei  delitti,  il
legislatore ha introdotto tramite leggi speciali ulteriori altri casi
in cui all'autorita' di polizia e consentito  procedere  ad  atti  di
perquisizione anche fuori  dei  casi  della  flagranza  di  reato;  i
requisiti di necessita' ed urgenza sono  ancorati  dalla  legge  alla
finalita' di prevenzione e repressione di  particolari  categorie  di
reati ritenute particolarmente gravi, ed alla  ricorrenza  di  indizi
(ad es.: «notizia anche se per indizio» per l'art. 41 Tulps; «fondato
motivo» per l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n.
309 del 1990; «atteggiamento o presenza di persone che, in  relazione
a specifiche e concrete circostanze di luogo o di tempo non  appaiono
giustificabili», quanto all'art. 4 della legge n. 152 del 1975)  che,
pur non consistendo in una  patente  situazione  di  flagranza,  sono
indicative della probabilita' che sulla persona o  nel  domicilio  di
taluno possano rinvenirsi cose di cui la legge vieta il  porto  o  la
detenzione. 
    Come si e' accennato, nel presente processo non sono  indicati  i
concreti elementi sulla cui base la  polizia  ha  ritenuto  di  dover
procedere a perquisizione; e' verosimile che si sia trattato di fonti
confidenziali  o  fonti  anonime,  ma  comunque  se   vanificata   la
possibilita' di operare una verifica circa l'  effettiva  sussistenza
dei presupposti di legittimita' del sequestro di polizia, e  la  loro
ricorrenza non puo' essere  ritenuta  solo  perche'  genericamente  e
fumosamente affermata dalle stesse forze di polizia. 
    La sentenza  n.  252  del  2020  della  Corte  costituzionale  ha
chiarito che le esigenze di tutela della liberta' personale  e  della
liberta' domiciliare poste dagli articoli 13 e 14 della  Costituzione
valgono sia per le perquisizioni repressive  di  polizia  giudiziaria
sia per quelle preventive di polizia di sicurezza, e che pertanto non
e' giustificata alcuna differenza di disciplina quanto a tutela delle
suddette garanzie a seconda che si tratti di perquisizioni dell'uno o
dell'altro tipo. 
    Se cosi' e', deve ritenersi che i divieti di  utilizzabilita'  di
determinate fonti di prova parte  dal  codice  di  procedura  penale,
debbano  trovare  applicazione  anche  nel  caso   di   perquisizioni
disciplinate da leggi speciali; ne consegue che  ovviamente  le  voci
correnti nel pubblico, le fonti confidenziali, gli  scritti  anonimi,
nonche' ogni altra fonte di prova espressamente vietata dalla  legge,
non possono essere poste a fondamento della decisione di procedere  a
perquisizione; e perquisizioni che in forza di  tali  elementi  siano
state decise o disposte, e  comunque  eseguite,  non  possono  quindi
essere convalidate. 
    In relazione a tali perquisizioni, la stessa sentenza ha ribadito
l'importanza  del  controllo  giurisdizionale   circa   il   corretto
esercizio dei poteri che, in via solo e  del  tutto  eccezionale,  la
legge riconosce in materia alle forze di  polizia;  ed  ha  per  tale
ragione ritenuto l'illegittimita' costituzionale dell'art. 103, comma
3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del  1990  nella
parte in cui non prevede che, nel caso in cui  la  perquisizione  sia
stata eseguita su autorizzazione orale del pubblico ministero, questi
non provveda a formalizzare le ragioni dell'atto con un provvedimento
scritto, che  la  Corte  ha  individuato  nell'atto   di   convalida,
statuendo espressamente che esso debba essere motivato, atteso che la
garanzia che la motivazione offre in ordine  all'effettivo  esercizio
da  parte  dell'autorita'  giudiziaria  dei  poteri  di  verifica   e
controllo sull'operato  della  polizia  giudiziaria,  e'  un  momento
essenziale dell'atto di convalida. 
    E tuttavia va ribadito che la convalida e' solo uno dei  passaggi
che realizza il sistema delle garanzie volute dalla Costituzione,  la
principale  delle  quali   e'   la   perdita   di   efficacia   delle
perquisizioni, ispezioni ed  altri  atti  limitativi  della  liberta'
personale compiuti fuori dei casi in cui la legge lo consente. 
    Per  la  precisione,  la  Costituzione  connette  la  perdita  di
efficacia alla  mancanza  della  convalida,  ma  cio'  ovviamente  e'
perche' il costituente ha immaginato che  una  autorita'  giudiziaria
indipendente non avrebbe mai convalidato  un  atto  limitativo  della
liberta' personale o  della  inviolabilita'  del  domicilio  compiuto
dalle forze di  polizia  fuori  dei  casi  in  cui  la  legge  glielo
consentisse. 
    Come si diceva, a tutela del sistema di garanzie cui si e'  fatto
cenno, l'art. 13 della Costituzione,  che  e'  sul  punto  richiamato
anche  dall'art.  14  in  tema  di  disciplina  delle   perquisizioni
domiciliari, prevede che laddove  i  provvedimenti  limitativi  della
liberta' personale o domiciliare compiuti  dalla  polizia  non  siano
comunicati all'autorita' giudiziaria entro quarantott'ore dalla  loro
esecuzione e da detta autorita' convalidati nelle 48 ore  successive,
essi «restano privi di ogni effetto». 
    Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata  non  solo  alla  illegittima
esecuzione di  atti  di  arresto  o  di  fermo,  ma  genericamente  e
complessivamente  al  caso  dell'adozione  dei   «provvedimenti»   di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori  dei  casi  previsti
dalla legge; e -  a  meno  di  voler  affermare  che  il  legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e  scarsa  padronanza
la lingua italiana - i provvedimenti in  questione  non  possono  non
essere che tutti quelli contemplati  dalla  norma  stessa,  e  quindi
anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13  della
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione  che
voglia  limitare  la  previsione  costituzionale  della  «perdita  di
efficacia»  ai  soli   provvedimenti   soppressivi   della   liberta'
personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che  l'art.  13  della
Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva  (i  «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla  polizia  giudiziaria)  che  a  tutti  i
provvedimenti da detta  norma  contemplati  risulta  riferirsi,  come
evincibile  anche  dalla  disciplina  adottata  dall'art.  14   della
Costituzione, che espressamente li richiama  «nominatim»  «ispezioni,
perquisizioni o sequestri»)  prevedendone  l'adattabilita'  da  parte
della polizia giudiziaria «secondo  le  garanzie  prescritte  per  la
tutela della liberta' personale». 
    Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e  di  cui  la  norma  costituzionale  si  e'  preoccupata  di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto  ad  atti  di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti  e  terminati
nella loro esecuzione  (come  e'  necessariamente,  dato  che  ne  e'
prevista la convalida entro 96 ore al massimo dalla loro esecuzione),
e' solo  quella  che  attiene  alla  loro  capacita'  probatoria;  la
sanzione di perdita dell'efficacia equivale quindi  a  quella  -  nel
linguaggio che  il  codice  di  procedura  repubblicano  ha  adottato
quarant'anni  dopo  l'approvazione   della   Costituzione   -   della
inutilizzabilita' introdotta dall'art. 191 codice di procedura penale
per le prove assunte in violazione di un divieto di legge. 
    Il legislatore costituzionale - la  cui  saggezza  e  competenza,
forgiate dalla dura esperienza della grave compressione  dei  diritti
di liberta' della persona e del  domicilio  operati  dalla  dittatura
fascista, non possono essere discussi - ha evidentemente  considerato
che qualsiasi atto di  limitazione  della  liberta'  personale  possa
avere degli effetti  pregiudizievoli  perduranti  nel  tempo,  ed  ha
inteso che essi venissero rimossi; non ha operato alcuna  distinzione
tra i vari atti di  limitazione  della  liberta'  personale,  e  deve
pertanto  ritenersi  che  tra  di  essi  abbia   chiaramente   inteso
comprendere anche gli atti di ispezione e di perquisizione; ed  anche
rispetto a tali  atti  ha  considerato  che  ne  potessero  risultare
effetti pregiudizievoli ed ha voluto  che  questi  cessassero  quando
detti atti fossero stati compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei
limiti previsti dalla legge costituzionale e  dalle  leggi  ordinarie
che ad essa abbiano dato attuazione. 
    Poiche', rispetto ad atti di perquisizione o d'ispezione, l'unico
effetto  che  essi  possano  produrre  dopo  che  ne  e'  cessato  il
compimento, e' quello relativo alla valenza probatoria degli esiti di
tali atti, il tribunale ritiene che dagli  articoli  13  e  14  della
Costituzione si  tragga  la  previsione,  per  via  diretta  e  senza
necessita'   di   mediazione   nella   norma    processuale,    della
inutilizzabilita'  degli  esiti  probatori  degli  atti  di   polizia
compiuti fuori dai casi in cui la legge attribuisce loro il potere di
farlo ed in cui, per tale  ragione,  detti  atti  non  devono  essere
convalidati. 
    Deve  quindi  considerarsi  che  la  valenza  probatoria  di  una
perquisizione consiste nel rinvenimento, indosso all'imputato o nella
sua abitazione, di cose che costituiscono il corpo del reato  o  sono
ad esse pertinenti. La distinzione concettuale tra perquisizione  che
e' mezzo di ricerca della prova, e sequestro del corpo  del  reato  o
cosa pertinente del reato, che  acquisiscono  al  processo  una  cosa
dotata di capacita' probatoria, gia' evidenziata dalle sezioni  unite
della Cassazione nella piu' volte citata sentenza del 2006, non  puo'
razionalmente fungere  da  base  all'utilizzabilita'  probatoria  dei
risultati della perquisizione, che sono appunto dati  dal  sequestro.
Come gia'  le  sezioni  unite  osservavano,  sebbene  concettualmente
distinti,  perquisizione  e  sequestro  formano  un  binomio  il  cui
scioglimento dissolve la prova, atteso che la cosa  in  se',  oggetto
del sequestro, prova al piu'  l'esistenza  di  un  reato,  ma  e'  la
relazione personale con l'imputato,  di  svelata  dagli  esiti  della
perquisizione,  che  permette  di  attribuire   quantomeno   in   via
indiziaria il reato all'imputato stesso. 
    Va  a  tal  proposito  osservato  che  la  perdita  di  efficacia
probatoria, quale inutilizzabilita' derivata  espressamente  prevista
dal legislatore costituzionale,  e'  logicamente  confermata  proprio
dalla sua coerenza con la  descritta  impostazione  circa  la  natura
composta della prova formata dal binomio perquisizione e sequestro. 
    Appare quindi da ritenersi che il legislatore costituzionale  non
abbia a caso parlato di perdita degli effetti anche a proposito della
perquisizione, ma anzi che avesse in mente appunto un meccanismo  che
colpisse di inutilizzabilita'  le  acquisizioni  probatorie  illegali
perche' compiute in  violazione  della  liberta'  personale  o  della
liberta' domiciliare. 
    La giurisprudenza formatasi sull'art. 191 del codice di procedura
penale  scioglie  tale  binomio  senza  coglierne  gli   effetti   di
dissoluzione della prova: poiche' il verbale di  sequestro  documenta
anche le circostanze  proprie  della  perquisizione,  e  su  di  esse
comunque si ammette la deposizione degli  operatori  di  polizia,  si
ritiene che  l'eventuale  inutilizzabilita'  della  perquisizione,  e
comunque la sua illegalita', non riverberino i propri  effetti  sulla
prova offerta dal sequestro. 
    Dal punto di vista delle garanzie  costituzionali,  tale  sistema
appare  irrazionale  e   pertanto   contrario   alla   volonta'   del
costituente.  La  perdita  di  ogni  effetto  dell'atto  di   polizia
illegalmente  compiuto  si  presenta  pertanto  necessariamente  come
previsione di una sanzione di inutilizzabilita' complessiva dell'atto
di acquisizione della prova, che riguarda sia l'atto tramite la quale
la si e' ricercata,  sia  l'atto  col  quale  la  si  e'  appresa  al
processo; e non e' un caso che l'art. 14 della  Costituzione  preveda
la perdita di affetti anche quanto al sequestro, quale conseguenza di
una perquisizione domiciliare illegittima. La circostanza che analoga
previsione non sia stata dettata per la perquisizione  personale  non
appare  particolarmente   significativa   ai   fini   interpretativi,
spiegandosi col fatto che generalmente, per lo meno all'epoca in  cui
la Costituzione venne emanata (ed in cui ben presente  doveva  essere
il  ricordo  delle  perquisizioni  eseguite  dalla  polizia  e  dagli
apparati nei confronti degli oppositori del  precedente  regime  alla
ricerca di documenti ed altri materiali compromettenti), gli atti  di
sequestro a delicata valenza  probatoria  dovevano  essere  frequenti
piu' presso le  abitazioni  che  a  seguito  di  perquisizioni  sulla
persona. 
    Ritiene quindi il  tribunale  che  l'inefficacia  degli  atti  di
perquisizione compiuti dalla polizia giudiziaria fuori  dei  casi  in
cui la legge glielo consente  dia  luogo,  per  diretta  ed  espressa
previsione costituzionale, alla  inutilizzabilita'  probatoria  degli
esiti delle suddette perquisizioni. 
    La  questione  non  e'  pertanto  piu'  solamente  quella   della
incostituzionalita' dell'art. 191  del  codice  di  procedura  penale
nella parte in cui non prevede l'inutilizzabilita' degli esiti  della
perquisizione  illegittimamente  eseguita  dalle  forze  di  polizia,
quanto piuttosto la circostanza che l'art. 191 del  codice  procedura
penale, nella lettura  offertane  sinora  dalla  giurisprudenza,  non
preveda ipotesi di inutilizzabilita' derivata, essendo  stata  questa
la forma di  tutela  che  il  legislatore  costituzionale  ha  inteso
adottare al fine di dare effettivita' alle garanzie di inviolabilita'
della liberta' personale e della liberta' domiciliare. 
    L'art. 191 del codice procedura penale  e'  pertanto  illegittimo
costituzionalmente proprio perche'  letto  nel  senso  che  esso  non
colpisca anche cio' che deriva dall'atto  probatorio  inutilizzabile.
La cosiddetta «teoria del frutto dell'albero avvelenato», se estranea
alla previsione dell'art. 191 codice procedura penale non lo  e'  per
contro  al  tessuto  costituzionale  nell'ordito   delimitato   dagli
articoli 13 e 14 della Costituzione. 
    Il principio di effettivita' delle tutele costituzionali relative
ai diritti fondamentali  della  persona,  di  cui  la  Repubblica  si
impegna a garantire il godimento  (art.  2  della  Costituzione),  la
circostanza che la Costituzione abbia voluto riconoscere dei  diritti
definirli inviolabili e garantire il loro libero esercizio e la  loro
inviolabilita', impone di ritenere che la loro violazione  non  possa
essere per  cosi'  dire  premiata  conservando  l'utilizzabilita'  di
quanto illegalmente acquisito. 
    Ne consegue che l'art. 191 del  codice  di  procedura  penale  e'
illegittimo  proprio  perche'   non   prevede   tra   le   cause   di
inutilizzabilita'  della  prova  anche  quella  di  tipo  derivativo,
allorche' un elemento di prova sia stato acquisito a  seguito  di  un
atto  di  ricerca  e/o  acquisizione   di   altra   prova,   compiuto
illegalmente perche' in violazione di un precetto costituzionale. 
4.1.b - Inutilizzabilita' derivata - art. 103 del codice di procedura
penale. 
    D'altra parte un meccanismo di tal genere, costruito sulla figura
dell'inutilizzabilita' derivata, non e' neanche estraneo  al  sistema
ordinario, atteso che il legislatore l'ha introdotto con  l'art.  103
del codice di procedura  penale,  dettato  in  tema  di  garanzie  di
liberta' del  difensore,  con  specifico  riferimento  agli  atti  di
ispezioni perquisizioni e sequestri alle intercettazioni. 
    La norma in oggetto pone una serie di prescrizioni e divieti  che
vanno osservati nell'eseguire le perquisizioni presso gli  studi  dei
difensori: prima di tutto un obbligo  di  informazione  al  Consiglio
dell'Ordine forense, la cui omissione causa la nullita' dell'atto  di
indagine. Dopodiche' una prescrizione di cautela  con  la  previsione
che  alla  ispezione,  alla  perquisizione  o  al  sequestro  proceda
personalmente  il  giudice   ovvero,   nel   corso   delle   indagini
preliminari, il pubblico ministero in forza di  motivato  decreto  di
autorizzazione del giudice: il che equivale a  dire  che  durante  la
fase delle indagini il pubblico ministero non puo' procedere ad  atti
di perquisizione se non dietro autorizzazione del giudice. Di seguito
e' posto il divieto del sequestro e di ogni forma di controllo  della
corrispondenza tra  imputato  ed  il  proprio  difensore,  in  quanto
riconoscibile dalle prescritte indicazioni di cui all'art.  35  delle
disposizioni di  attuazione;  l'unica  eccezione  e'  quella  in  cui
l'autorita' giudiziaria abbia  fondato  motivo  di  ritenere  che  si
tratti di corpo del reato. 
    Il comma settimo dell'art. 103 del  codice  penale,  infine,  con
norma di garanzia a chiusura del sistema delle cautele che attorniano
le perquisizioni presso gli studi dei  difensori,  stabilisce  che  i
risultati delle ispezioni, delle perquisizioni, dei sequestri,  delle
intercettazioni  di  conversazioni  o  comunicazioni,   eseguiti   in
violazione del disposizioni dettate dai commi precedenti dello stesso
articolo,  non  possono  essere  utilizzati,  e,  se  si  tratta   di
intercettazioni, vi e' anche il divieto della loro trascrizione,  sia
pure sommaria. 
    Orbene, la norma in oggetto e' di particolare  rilievo,  ai  fini
che qui interessano, atteso che espressamente stabilisce non gia'  la
mera inutilizzabilita' dei singoli atti di indagine, ma piuttosto, in
un'ottica di effettivita' massima delle garanzie accessorie al libero
esercizio  del  diritto   di   difesa,   espressamente   dispone   la
inutilizzabilita'  dei  «risultati»   degli   atti   (di   ispezione,
perquisizione, sequestro,  intercettazione)  compiuti  in  violazione
delle forme e dei limiti previsti dai precedenti commi dell'art.  103
codice di procedura penale. 
    Il  legislatore  ha  quindi  disposto   che   l'inutilizzabilita'
probatoria abbia una portata espansiva  ad  ogni  risultato  di  tali
atti, perche' compiuti  in  violazione  delle  cautele  necessarie  a
garantire quella liberta' e riservatezza del rapporto  tra  difensore
ed imputato, necessario a dare effettivita' al diritto di difesa. E',
questa, la stessa logica che sostiene la disposizione degli  articoli
13 e 14 della Costituzione nella parte in cui prevedono che gli  atti
di perquisizione (per quel che qui interessa), ed in genere quelli di
limitazione della liberta' personale e domiciliare, illegali  perche'
compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi  in  cui  la  legge
gliela consente, «restano privi di ogni effetto». 
    Se ne  deduce  che  l'inutilizzabilita'  derivata,  se  non  gia'
contemplata  dall'art.  191  c.p.p.,  non  e'  comunque  un  istituto
estraneo all'ordinamento giuridico, e puo' quindi fungere da  modello
su cui la Corte puo' costruire la pronunzia, che questa A.G.  chiede,
di incostituzionalita' dell'art. 191 del codice di  procedura  penale
nella parte in  cui  non  prevede  la  figura  dell'inutilizzabilita'
derivata, e cioe' che l'inutilizzabilita' di un  atto  di  ricerca  o
acquisizione della prova si  trasmetta  alle  ulteriori  acquisizioni
probatorie che direttamente ne discendano. 
    Occorre poi prestare particolare attenzione a non farsi trarre in
inganno  dalla  circostanza  che  negli  studi  dei   difensori   sia
consentito il sequestro della corrispondenza quando si abbia  ragione
di ritenere che costituisca corpo del reato. 
    In realta' non si tratta affatto di un'ipotesi utile a sanare una
perquisizione illegittima; non  e'  cioe'  un  meccanismo  analogo  a
quello delineato dalla giurisprudenza della Corte di  cassazione  che
sostiene che, anche se la perquisizione e' illegittima, il  sequestro
del corpo di reato e delle cose  pertinenti  al  reato  sia  comunque
valido ed utilizzabile. 
    La disposizione appena considerata si limita a stabilire che,  in
deroga al divieto  del  sequestro  della  corrispondenza  all'interno
degli uffici legali, il sequestro e' comunque possibile se ad esserne
oggetto sia il corpo del reato; la deroga riguarda quindi  unicamente
l'individuazione di cio' che e' suscettibile  di  sequestro,  ma  non
riguarda le forme e cautele poste dall'art. 103 codice  di  procedura
penale al compimento dell'atto. 
    Ne consegue che, se vengono  violate  le  altre  disposizioni  di
garanzia previste dal suddetto art. 103 codice di  procedura  penale,
come  ad  esempio  la  necessita'  che  alla  perquisizione   proceda
direttamente il magistrato e che,  durante  la  fase  delle  indagini
preliminari, vi sia un decreto autorizzativo del giudice, la sanzione
della inutilizzabilita' degli esiti era perquisizione  ricorrera'  lo
stesso, anche se ad essere sequestrato sara' il corpo del reato. 
    Come puo'  vedersi,  pertanto,  puo'  affermarsi  quantomeno  che
l'inutilizzabilita'  derivata  non  e'  un  istituto  sconosciuto  al
diritto processuale  interno,  ed  esso  puo'  utilmente  fungere  da
modello, come gia' detto, su cui la Corte puo' costruire la pronunzia
di incostituzionalita' dell'art. 191 codice di  procedura  penale  in
accoglimento della presente eccezione. 
4.2 - Violazione dell'art. 3 della Costituzione 
    La  disciplina  delle  inutilizzabilita'  offerta  dall'art.  271
codice di procedura penale con riferimento agli esiti (o «risultati»,
volendo utilizzare la  dizione  dell'art.  103  codice  di  procedura
penale) degli  atti  di  perquisizione  illegalmente  compiuti  dalla
polizia giudiziaria, appare poi essere deteriore rispetto a quella in
via generale prevista da altre disposizioni del codice  di  procedura
penale, si' da integrare una irragionevole disparita' di  trattamento
di situazioni assimilabili, sotto il profilo della tutela processuale
dagli   effetti   probatori   delle   loro   violazioni.   La   Corte
costituzionale ha  ritenuto  superata  tale  eccezione,  in  base  al
rilievo assorbente della natura manipolatoria della questione tesa ad
introdurre  nell'ordinamento  la   figura   della   inutilizzabilita'
derivata. 
    Riservando  al  prosieguo  della  motivazione  la  riproposizione
ragionata delle questioni di incostituzionalita' gia'  in  precedenza
articolate con riferimento  all'art.  3  della  Costituzione,  questo
tribunale   deve   cominciare   con   l'osservare   che    l'istituto
dell'inutilizzabilita' derivata introdotto dall'art.  103  codice  di
procedura penale evidenzia anche come il  diritto  vivente  formatosi
sull'art. 191 codice di procedura penale sia offensivo del  principio
di  eguaglianza,  che  impone  di  non   sottoporre   a   trattamenti
irrazionalmente o immotivatamente difformi  situazioni  tra  di  loro
comparabili. 
4.2a - l'art. 103 del  codice  di  procedura  penale  quale  «tertium
comparationis» 
    Si e' gia' osservato come il citato art. 103 codice di  procedura
penale  miri,  attraverso  la  sanzione   dell'inutilizzabilita',   a
consentire la liberta' ed effettivita' dell'esercizio del diritto  di
difesa,   garantendo   all'imputato   la   riservatezza   delle   sue
comunicazioni col difensore, che abbiano ad oggetto la sua  posizione
processuale. 
    Con un meccanismo che appare  peraltro  essere  comune  a  quello
previsto in via generale dall'art. 191 codice di procedura penale,  a
tal fine si nega qualsiasi riconoscimento  all'atto  di  acquisizione
probatoria illegale: per ragioni di coerenza,  perche'  l'ordinamento
non puo' vietare l'atto di acquisizione  probatoria,  tanto  piu'  se
lesivo di  un  diritto  costituzionale,  e  poi  pero'  riconoscergli
efficacia  di  prova,  contraddicendo   se'   stesso;   per   ragioni
«compensative»   o   limitative   del   danno,   per   impedire   che
l'utilizzazione probatoria dell'atto illegale danneggi  ulteriormente
chi lo ha subito; e,  non  da  ultimo,  per  finalita'  che  potremmo
definire    di    «politica    dell'effettivita'    delle    garanzie
costituzionali»,  atteso  che  impedire  l'utilizzazione   probatoria
dell'atto di indagine vietato comporta un forte disincentivo  al  suo
compimento da parte degli organi dell'indagine, cosi' garantendo  per
via indiretta, ma tutt'altro che secondaria, una piu' efficace tutela
di tali diritti. 
    Orbene,  si  e'  gia'  accennato,  nel   paragrafo   4   dedicato
all'esposizione sintetica  delle  nuove  questioni  che  si  vanno  a
sollevare, come sia irrazionale  una  disciplina  che,  da  un  lato,
introduca con l'art. 103 codice di procedura penale,  una  tutela  di
diritti  costituzionalmente  rilevanti,  costruita  nel  negare  ogni
legittimita'  e   validita'   probatoria   -   anche   al   fine   di
disincentivarne il compimento da parte degli  organi  di  indagine  -
agli atti (ed ai loro risultati) di  ricerca  ed  acquisizione  della
prova compiuti in danno di un diritto che, come quello di difesa  che
(per quanto di assoluta importanza), ha comunque natura strumentale e
servente rispetto alla tutela della liberta' personale, e, dall'altro
lato, comporti invece (tramite il diritto vivente  formatosi  attorno
all'art. 191 codice di procedura penale) che la acquisizione di prove
mediante la commissione di atti  illegali  e  direttamente  offensivi
della liberta' personale  o  dell'inviolabilita'  del  domicilio  sia
idonea a produrre comunque effetti probatori pregiudizievoli in danno
del soggetto che li abbia subiti  ed  in  favore  della  parte  della
pubblica accusa che, rispetto alla polizia giudiziaria, si  trovi  in
posizione sovraordinata (art. 109 Cost; articoli da 55 a 59 codice di
procedura penale) e di coincidenza di interesse alla persecuzione dei
rei li abbia commessi. 
    E' quindi manifestamente irrazionale una disciplina che  assicuri
una tutela inferiore, sotto il piano delle garanzie complessive  (ivi
compreso quello dell'effetto «disincentivante» cui si e' fatto cenno)
ai  diritti  costituzionali,  di  tutela  della   persona   e   della
inviolabilita' del domicilio, rispetto a quella apprestata  a  tutela
del diritto di difesa (per la precisazione, quell'aspetto del diritto
di  difesa  che  e'  dato  dalla  liberta'   e   riservatezza   delle
comunicazioni tra l'imputato ed il suo difensore)  che,  rispetto  ai
richiamati  diritti,  ha  natura  strumentale  se   non   addirittura
servente. 
    L'art. 191 del codice  di  procedura  penale,  pertanto,  risulta
costituzionalmente illegittimo,  per  violazione  dell'art.  3  della
Costituzione, nella parte in cui non prevede l'inutilizzabilita'  dei
risultati delle perquisizioni personali  o  domiciliari  illegalmente
eseguite dalla polizia giudiziaria, fuori dei casi in  cui  la  legge
glielo consente, per disparita' di trattamento rispetto al caso delle
perquisizioni presso gli studi dei difensori. 
4.2.b - gli articoli 271 codice di procedura penale  e  132  comma  3
codice privacy 
    Cio'   detto,   e   tornando    all'esame    dei    profili    di
incostituzionalita' dell'interpretazione dominante, questo giudicante
deve rilevare che la  giurisprudenza  formatasi  sulla  scorta  della
citata Corte di cassazione SS.UU. 5021/1996 realizza,  pertanto,  una
violazione dell'art. 3 della Costituzione  anche  nel  raffronto  con
altre ipotesi  di  inutilizzabilita'  specificamente  previste  dalla
legge, in quanto del tutto  irragionevolmente  ed  a  fronte  di  una
palese identita' di ratio (come osservato nel par.  4.2.a),  nega  la
conseguenza dell'inutilizzabilita' di  cui  all'art.  191  codice  di
procedura penale a casi del tutto  sovrapponibili  ad  altri  (e  per
certi  versi  addirittura  meno  gravi)  per   i   quali   la   legge
espressamente la prevede:  basti  pensare,  ad  es.,  non  solo  alle
ipotesi  di  intercettazioni  eseguite  d'iniziativa  dalla   polizia
giudiziaria e quindi in assenza di decreto motivato  dell'A.G.  (caso
sanzionato di inutilizzabilita' dall'art.  271  codice  di  procedura
penale, avente la medesima ratio dell'art. 191  codice  di  procedura
penale e  senz'altro  la  medesima  ratio  dell'art.  103  codice  di
procedura penale e degli articoli 13 e  14  della  Costituzione),  ma
anche al caso dell'acquisizione dei tabulati del traffico  telefonico
eseguito senza provvedimento motivato dell'A.G.  (prima  il  pubblico
ministero, ora il GIP), ipotesi che le stesse  SS.UU.  della  suprema
Corte di  cassazione  hanno  ritenuto  dar  luogo  ad  un'ipotesi  di
inutilizzabilita' della prova perche' acquista in  violazione  di  un
divieto di legge (cfr. sez. U, sentenza n. 21 del 13 luglio 1998). 
4.2.c - ulteriori violazioni dell'art. 3 della Costituzione 
    Sempre in tema di  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione,
appare necessario rilevare come tale norma si atteggi  a  scrigno  in
cui e' racchiuso e riassunto il principio di necessaria  razionalita'
dell'ordinamento dello Stato di diritto disegnato dalla Costituzione;
razionalita'  che   risulta   gravemente   violata   dalla   corrente
interpretazione  circa   la   utilizzabilita'   degli   esiti   delle
perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: 
        a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza  della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ad origine
le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30, commi 3 e  4,  legge
n.  87/1953),  e  la  loro  efficacia   sospendibile   (mediante   la
sospensione del processo che consegue, ex art. 23, comma 2, legge  n.
87/1953, alla proposizione della  questione  di  incostituzionalita')
dal giudice ordinario che ne ravvisi un possibile  contrasto  con  le
norme costituzionali, ma efficacissimi -  e  non  disapplicabili  ne'
discutibili dal Giudice - e  quindi  inattaccabili,  anche  sotto  il
profilo probatorio, gli  atti  di  polizia  giudiziaria  compiuti  in
violazione dei diritti costituzionali del cittadino; 
        b) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di prove che la legge vieta  gia'  solo  in  virtu'  della  loro  non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi  che  hanno   spinto   la   polizia
giudiziaria alla perquisizione (come detto, una ignota ed insondabile
fonte  anonima)  non  consenta  di  verificare   la   genuinita'   ed
affidabilita' della «catena indiziaria» e di  escludere  che  possano
essere stati proprio i terzi autori della propalazione  confidenziale
o anonima, o addirittura - come talora e'  purtroppo  accaduto  -  le
stesse forze  di  polizia,  ad  introdurre  nell'abitazione  la  «res
illicita» costituente supposta prova del reato; 
        c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega  lo  Stato
di  diritto  quale  configurato   dall'art.   97,   comma   3   della
Costituzione, che vuole - con norma generale che  appare  applicabile
anche alle definizione dei poteri dell'A.G. e degli organi di polizia
- l'azione dei pubblici poteri sottomessa al principio di  legalita';
se, come gia' si e' osservato, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i
suoi organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi  di  cui
pur pretendono l'osservanza  da  parte  dei  consociati,  e  se  cio'
comporta non solo l'impegno a non violare  tali  leggi,  ma  anche  a
garantire l'effettivo rispetto dei diritti che tali  leggi  prevedono
ed attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per
di piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di  liberta'
- degli atti  compiuti  dai  pubblici  poteri  in  violazione  di  un
divieto, appare  negare  anche  il  principio  di  legalita'  di  cui
all'art.  97  della  Costituzione,  oltre  ad  attribuire  all'azione
illegale  degli  organi   statuali   una   prevalenza   sui   diritti
costituzionali dei consociati, che appare  realizzare,  sotto  questo
profilo,  una  ulteriore  palese   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione,  in  un  ordinamento  che  vuole  centrali  i   diritti
inviolabili della persona - e quindi quanto  meno  gli  stessi  sullo
stesso piano di quelli della collettivita' e dello Stato - ma finisce
invece per violare tale condizione di pari importanza  per  assegnare
prevalenza all'interesse alla repressione dei reati; 
        d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di prove che la legge vieta  gia'  solo  in  virtu'  della  loro  non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi   che   hanno   spinto   la polizia
giudiziaria alla perquisizione (come detto, una ignota ed insondabile
fonte  anonima)  non  consenta  di  verificare   la   genuinita'   ed
affidabilita' della «catena indiziaria» e di  escludere  che  possano
essere stati proprio i terzi autori della propalazione  confidenziale
o anonima, o addirittura - come talora e'  purtroppo  accaduto  -  le
stesse forze  di  polizia,  ad  introdurre  nell'abitazione  la  «res
illicita» costituente supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi,
sotto  tale  profilo,  anche  un  contrasto  con  l'art.   24   della
Costituzione, per l'evidente limite che la tesi  dell'utilizzabilita'
pone all'esplicazione del diritto di difesa, introducendo nell'ambito
delle prove utilizzabili elementi di cui  sia  di  fatto  impossibile
verificare approfonditamente la genuinita'. 
4.3  -  Violazione  dell'art.  2  della  Costituzione:  Principio  di
effettivita' 
    I  limiti  fissati  dalla  legge  devono  essere  necessariamente
ritenuti, in ragione della previsione costituzionale che li  assiste,
come  invalicabili  e  di  stretta  interpretazione;   sicche'   deve
assolutamente rigettarsi qualsiasi interpretazione che, comunque,  si
risolva in una vanificazione anche solo di fatto  dell'efficacia  dei
limiti posti al  potere  di  perquisizione  ad  opera  della  polizia
giudiziaria o della stessa A.G. (ad es., impedendo la verifica  circa
il rispetto di tali limiti, ivi compreso quello della motivazione del
provvedimento giurisdizionale; o stabilendo l'irrilevanza processuale
di tali violazioni), o nella lesione  -  sia  pure  mediata  -  della
liberta' personale. 
    Questo   tribunale   ritiene   che   consentire   l'utilizzazione
probatoria degli esiti delle perquisizioni  personali  o  domiciliari
eseguite dalla polizia  fuori  dai  casi  in  cui  la  legge  in  via
eccezionale attribuisce loro tale potere (e spesso senza che  vi  sia
una  convalida  motivata  in  maniera  pertinente  agli  atti  e  con
indicazione delle ragioni per cui le forze di polizia versavano nella
condizione eccezionale che riconosceva loro il  potere  di  procedere
all'atto di perquisizione), vale a vanificare  non  solo  la  tutela,
prevista in via generale dagli articoli 13 e 14  della  Costituzione,
della liberta' personale e domiciliare, ma anche quella specifica che
il  legislatore  costituzionale  ha  voluto   introdurre   prevedendo
l'inefficacia degli atti limitativi delle suddette liberta' personale
e domiciliare. 
    Rinunziandosi   alla   remora   offerta    dall'inutilizzabilita'
probatoria dei risultati della perquisizione illegale,  tali  diritti
rimangono quindi oggetto di una tutela parziale ed insufficiente, che
riposa unicamente sull'eventuale remora offerta dalla responsabilita'
penale o disciplinare dell'autore della perquisizione illegale, che -
probabilmente anche per la considerevole  rarita'  dei  casi  in  cui
responsabilita' di tal fatta risultano essere state fatte oggetto  di
una domanda di accertamento giudiziale (ad es., la ricerca sul canale
«sentenze penali Corte  di  cassazione»  sul  sito  Italgiureweb,  al
sintagma «perquisizione illegale» restituisce solo  15  risultati)  -
non esplicano adeguata efficacia dissuasiva, attesa la non  irrisoria
frequenza  -  gia'  solo   nell'esperienza   di   questo   tribunale,
testimoniata  dal  numero  di  casi  in  cui  ha   dovuto   sollevare
l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 191 codice di  procedura
penale - dei casi in cui le forze di polizia  procedono  ad  atti  di
perquisizione fuori dei casi consentiti dalla legge. 
    Il  diritto  vivente  formatosi  sull'art.  191  del  codice   di
procedura penale appare quindi realizzare una negazione radicale  dei
principi  dello   Stato   di   diritto   quale   tratteggiato   dalla
Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della Costituzione (come
gia' si e' osservato), e piu' in particolare sviluppato  dall'art.  2
della Costituzione, in quanto finisce per risolversi nell'assenza  di
effettive  garanzie  contro  violazioni   dei   diritti   inviolabili
dell'uomo, tra  i  quali  appare  senz'altro  rientrare  quello  alla
liberta'  personale,  laddove  invece  il  suddetto  art.   2   della
Costituzione  impone  alla  Repubblica  -  anche  in  adempimento  di
obblighi internazionali, atteso che i diritti di cui all'art. 2 della
Costituzione sono altresi'  oggetto  della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, che, come in piu' occasioni ricordato dalla  Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo,  impone  agli  Stati  aderenti   di
garantirne l'effettivita' - non solo di riconoscere tali diritti,  ma
di garantirli. 
    Ed invero, «riconoscere» un diritto significa  che  l'ordinamento
assegna rilevanza giuridica all'esercizio di una o piu' facolta'  che
costituiscono il contenuto di detto diritto, ed attribuisce il potere
di esercitarlo, liceizzando l'uso di tali facolta' ed assegnando,  di
conseguenza, un diritto  di  azione  a  sua  tutela;  «garantire»  un
diritto significa che lo Stato tale  situazione  giuridica  non  solo
riconosce,  ma  si  impegna  a  tutelare  particolarmente,  oltre  il
contenuto minimo della liceizzazione e del riconoscimento del diritto
di azione,  adottando  invece  anche  le  misure  che  ne  assicurino
l'effettivita' e lo proteggano preventivamente dalla lesione. 
    Tale  particolare  protezione  non  puo'  risiedere  solo   nella
previsione di fattispecie di reato (art. 609 del codice penale per le
perquisizioni ed  ispezioni  personali  illegali;  art.  323  per  le
perquisizioni domiciliari), atteso  che  la  «protezione  penale»  e'
prevista  dallo  Stato/legislatore  anche  a  tutela  di  altri  beni
interessi giuridici dei quali  la  Costituzione  prevede  al  piu'  -
direttamente o indirettamente - il riconoscimento, ma non lo  obbliga
a garantire il rispetto (si pensi al complesso,  ad  es.,  dei  reati
contro la pubblica amministrazione; a quelli di falso  ed  in  genere
contro la fede pubblica; quelli contro la moralita'; quelli contro la
famiglia; alla gran parte delle contravvenzioni). 
    Ne  consegue  che  l'obbligo  costituzionale  di  «garantire»  un
diritto comporta per lo Stato la necessita' di predisporre  strumenti
ulteriori, a difesa dell'effettivita' del diritto, rispetto a  quelli
offerti dalla previsione di sanzioni per chi detto diritto violi:  il
che implica la necessaria adozione di tutte le cautele necessarie non
solo a punire, ma prima di tutto a prevenire, e  cioe'  a  proteggere
tali diritti scoraggiandone la violazione. 
    In verita', la  sanzione  dell'inutilizzabilita'  probatoria  che
discenderebbe dall'art. 191 codice di procedura penale (nella lettura
che risulterebbe  dall'operazione  di  ortopedia  costituzionale  che
questo Giudicante ritiene necessaria e conforme a quanto statuito dai
citati articoli 13 e 14 della Costituzione), nel deprivare di effetti
processuali il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce
la prima e piu' efficace forma di garanzia che uno Stato  di  diritto
possa assicurare ai diritti della persona. 
    Ammettere  invece  che  la  polizia  giudiziaria  possa  -  senza
conseguenze sul piano dell'utilizzabilita' probatoria  dei  risultati
di tali atti - procedere a perquisizione fuori dei casi di  flagranza
e degli altri specifici casi eventualmente previsti dalla legge, o in
forza di elementi vaghi, indeterminati, e  percio'  non  verificabili
dall'A.G.,  o  da  questa  convalidata  con  motivazione   apparente,
apodittica,  incongrua,  equivale  ad  aggirare  le  cautele  che  la
Costituzione ha preposto a garanzia del corretto esercizio dei poteri
dell'A.G., e dell'effettivita' del suo potere di controllo e verifica
sugli  atti  di  polizia  giudiziaria   interferenti   con   liberta'
costituzionalmente garantite. 
    Cio'  comporta  non  solo  una  violazione   del   principio   di
effettivita' di cui all'art.  2  della  Costituzione,  ma  anche  una
violazione del diritto ad un giusto processo di cui agli articoli 111
e 117 della Costituzione  (con  riferimento  all'art.  6  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali),  che  postula  la  possibilita'  per   l'imputato   di
verificare la correttezza del processo e la genuinita' degli elementi
di prova addotti contro di lui. 
4.4 - Violazione dell'art. 24 della Costituzione 
    Cio' si riverbera anche in  una  violazione  dell'art.  24  della
Costituzione, per l'evidente  compromissione  della  possibilita'  di
difendersi dagli esiti probatori di una perquisizione, quando  questa
sia stata eseguita fuori dei casi consentiti dalla legge per non aver
le forze di polizia specificato sulla  base  di  quali  elementi  (in
primo luogo, indicati da chi) essa abbia  agito,  in  un  ordinamento
che, nell'interpretazione dell'art. 191 codice  di  procedura  penale
costituente  diritto  vivente,  non   riconnette   alcuna   rilevanza
probatoria all'assenza di tali requisiti iniziali alla omissione,  da
parte  delle  forze  di  polizia,  dell'indicazione  delle  fonti  di
conoscenza circa la ricorrenza dei requisiti fissati dalla legge  per
procedere  a  perquisizioni  (cosi'  essendo,  ad   es.,   l'imputato
impossibilitato  ad  utilizzare   quegli   elementi   difensivi   che
potrebbero  derivargli  dalla  conoscenza  dell'autore  della   fonte
confidenziale, che potrebbe essergli noto come  soggetto  animato  da
malanimo, e/o in  possesso  delle  chiavi  della  sua  abitazione,  o
comunque in grado di accedervi direttamente o  tramite  terzi,  ecc.,
per lasciarvi la «res» compromettente. 
4.5 - Principio di  effettivita'  e  violazione  art.  8  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali - contrasto con gli articoli 2 e 117 della Costituzione 
    Invero, non solo le norme nazionali, costituzionali  e  di  legge
ordinaria,  impongono  che   la   polizia   giudiziaria   proceda   a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla  legge,  e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria. 
    Infatti,  l'interpretazione  consolidatasi  si  pone   anche   in
contrasto  con  l'art.  8  della  Convenzione  europea  dei   diritti
dell'uomo, e quindi in contrasto con l'art.  117  della  Costituzione
che  impone  allo  Stato  italiano  il  rispetto  delle   Convenzioni
internazionali, in  quanto  si  risolve  nel  non  adottare  efficaci
disencentivi agli abusi delle forze di polizia, e di qualsiasi organo
dello Stato in genere, che, limitando la liberta' della  persona,  si
risolvano in indebite interferenze nella sua vita privata o  nel  suo
domicilio, non giustificate da oggettive necessita' di prevenzione  o
repressione dei reati. 
    Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta
e condivisibile da parte dell'A.G., circa la  ricorrenza  di  ragioni
adeguatamente   giustificatrici   dell'esercizio   del   potere    di
perquisizione,  va  in  primo  luogo   richiamata,   per   l'assoluta
importanza  della  fonte,  che   assegna   alla   decisione   rilievo
costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza  16  marzo
2017, Modestou contro Grecia, con  la  quale  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo (d'ora in poi per brevita' Convenzione europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali)
ha ritenuto essersi verificata violazione dell'art.  8  Cedu,  in  un
caso in cui era stata  eseguita  perquisizione  presso  il  domicilio
personale  e  professionale  del  ricorrente  senza  alcun  controllo
giurisdizionale ex ante e sulla scorta di un mandato di perquisizione
generico;   ne'   era   stato   previsto   un   immediato   controllo
giurisdizionale ex post, considerato che la  Corte  d'appello,  adita
dal ricorrente, aveva respinto la doglianza non solo piu' di due anni
dopo la perquisizione in questione, ma nemmeno  indicando  neppure  i
motivi «rilevanti e sufficienti» giustificativi della  perquisizione:
sentenza dalla quale si trae quindi conferma che,  secondo  le  norme
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle  liberta'  fondamentali,   nella   vincolante   interpretazione
offertane dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  l'A.G.  debba
operare una illustrazione motivata (e  condivisibile)  delle  ragioni
della perquisizione, al fine di rendere verificabile la  legittimita'
dell'esercizio del relativo potere; statuizione che, se vale  per  le
perquisizioni autorizzate dall'A.G., deve a  maggior  ragione  valere
per  quelle  operate  direttamente  dalla   polizia   giudiziaria   e
successivamente convalidate dalla A.G. 
    In  ordine  all'importanza  -  per  il   diritto   internazionale
pattizio, ai sensi dell'art.  8  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - va
poi richiamata, per  la  sua  particolare  pertinenza  rispetto  alle
questioni proprie del presente processo, anche la sentenza emessa  in
data 27 settembre 2018 dalla prima sezione Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  nel
caso Brazzi contro Italia. 
    Con tale ultima sentenza, in particolare, la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo ha osservato che la  Convenzione  EDU  impone  che,
nell'ambito delle perquisizioni «il diritto  interno  offra  garanzie
adeguate e sufficienti contro l'abuso e l'arbitrarieta' (Heino, sopra
citata, § 40, e  Gutsanovi  contro  Bulgaria,  n.  34529/10,  §  220,
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali 2013», garantendo «"controllo effettivo"  delle
misure  contrarie  all'art.  8  della  Convenzione  (Lambert   contro
Francia, 24 agosto 1998,  §  34,  Recueil  des  arrêts  et  decisions
1998-V», pur osservando che «fatto che una richiesta di  mandato  sia
stata  oggetto  di  un  controllo  giurisdizionale,  non  costituisce
necessariamente, di per se',  una  garanzia  sufficiente  contro  gli
abusi», di talche' la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto
essenziale «esaminare le circostanze particolari del caso di specie e
valutare se il quadro  giuridico  e  i  limiti  applicati  ai  poteri
esercitati costituissero una protezione adeguata contro il rischio di
ingerenze arbitrarie delle autorita' (K.S. e M.S. contro Germania, n.
33696/11, § 45, 6 ottobre 2016)». 
    La Corte europea dei diritti  dell'uomo  pone  quindi,  in  primo
luogo, una questione di effettivita'  dei  diritti  assicurati  dalla
legislazione nazionale: ogni Stato aderente alla  Convenzione  ha  il
dovere di assicurare  garanzie  efficaci  contro  la  violazione  dei
diritti oggetto della Convenzione. 
    Sulla base di tali premesse concettuali,  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo giungeva a ritenere che, allorche'  (come,  mutatis
mutandis, e sostituendo la convalida al provvedimento  di  sequestro,
e' nel caso oggetto del presente  processo)  la  perquisizione  venga
ordinata dalla Procura in una fase precoce  del  procedimento  penale
(si noti che la fonte confidenziale risulta essere  l'unico  elemento
che la polizia giudiziaria abbia avuto a  propria  disposizione),  il
rispetto dell'art. 8 della Convenzione europea  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali comporta «che una
perquisizione  effettuata  in  questa  fase  deve  offrire   garanzie
adeguate e sufficienti per evitare che venga usata per  fornire  alle
autorita'  incaricate  dell'inchiesta  elementi   compromettenti   su
persone non ancora identificate come sospettate di aver  commesso  un
reato (Modestou contro Grecia, n. 51693/13, § 44, 16 marzo 2017). 
    In tale ordine di idee, la Corte europea dei diritti dell'uomo e'
pervenuta ad affermare che  lo  stesso  pubblico  ministero  dovrebbe
richiedere un'autorizzazione ad un  Giudice  prima  di  ordinare  una
perquisizione, o quanto  meno  l'ordinamento  dovrebbe  garantire  la
possibilita' di un controllo post factum, in ordine alla legittimita'
della  perquisizione;  rilevato  che   l'ordinamento   italiano   non
prevedeva l'autonoma impugnabilita' del decreto di  perquisizione  in
quanto tale (e che, nel concreto, non essendo stato  rinvenuto  alcun
elemento di prova ed adottato alcun provvedimento di sequestro,  tale
controllo non era stato neanche possibile per via mediata  attraverso
il riesame di tale genere  di  provvedimento),  la  Corte  ha  quindi
ritenuto  esservi  stata  una  violazione  dei  diritti  della  parte
istante. 
    Proseguiva poi la Corte osservando che «l'assenza di un controllo
giurisdizionale ex ante puo' essere compensata dalla realizzazione di
un controllo giurisdizionale ex post facto della legittimita' e della
necessita' della misura», rammentando, a  tal  proposito,  «di  avere
ammesso  che,  in  alcune  circostanze,  il  controllo  della  misura
contraria all'art. 8  effettuato  dai  giudici  penali  fornisce  una
riparazione adeguata per l'interessato, dal momento  che  il  giudice
procede  a  un  controllo  effettivo  della  legittimita'   e   della
necessita' della misura  contestata  e,  se  del  caso,  esclude  dal
processo penale gli  elementi  di  prova  raccolti  (Panarisi  contro
Italia, n. 46794/99,  §§  76  e  77,  10  aprile  2007,  Uzun  contro
Germania, n. 35623/05,  §§  71  e  72,  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali 2010
(estratti), e Trabajo Rueda contro Spagna,  n.  32600/12,  §  37,  30
maggio 2017).. 
    ...omissis paragrafi 46-51 ... 
    52. Vi e' stata dunque violazione dell'art. 8 della Convenzione.» 
    La lettura della sentenza permette quindi di rilevare che,  nella
giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  con  essa
manifestatasi: 
        a)  la  perquisizione  costituisce  un'ingerenza  nella  vita
privata e nella liberta' domiciliare della persona; 
        b) tale ingerenza e' legittima  solo  se  giustificata  dalla
ricorrenza di preesistenti  elementi  indiziari  o  di  sospetto  che
indichino, nel destinatario della perquisizione, l'autore di un reato
le  cui  tracce  possano  essere  reperite   mediante   perquisizione
domiciliare; 
        c) l'ordinamento interno deve assicurare validi  ed  efficaci
strumenti che garantiscano l'effettivita' del  rispetto  dei  diritti
(tra cui l'inviolabilita' del domicilio) tutelati dalla Convenzione; 
        d) l'ordinamento interno deve assicurare validi  ed  efficaci
strumenti di controllo che assicurino almeno una verifica ex post  in
ordine  alla  effettiva  ricorrenza  delle  condizioni   legittimanti
l'ingerenza suddetta; 
        e) tra tali strumenti di controllo  e  tutela  ex  post,  ove
altri non siano stati attivabili o non abbiano concretamente operato,
deve essere ricompresa l'esclusione degli esiti  della  perquisizione
dal materiale probatorio utilizzabile. 
    Ne consegue che: 
        1) se il pubblico ministero emette un  decreto  di  convalida
privo di effettiva motivazione circa la ricorrenza  delle  condizioni
di legalita' per l'esecuzione della perquisizione, tale decreto,  non
costituendo cio' garanzia dell'effettivo esercizio di  un  potere  di
controllo  circa  la  ricorrenza  dei  presupposti  legittimanti   la
perquisizione ad opera delle forze di polizia, non  vale  a  renderla
legittima; 
        2) le fonti confidenziali, ed a maggior ragione gli  anonimi,
in quanto non verificabili e quindi insuscettibili  di  controllo  ex
ante, non possono essere utilizzate per disporre perquisizioni; 
        3) laddove una perquisizione sia  stata  eseguita  fuori  dei
casi consentiti dalla legge (e quindi anche quando eseguita in virtu'
di elementi non verificabili o  insufficienti  a  giustificarla),  il
giudice penale debba escludere dal novero  degli  elementi  probatori
utilizzabili quelli acquisiti mediante la suddetta perquisizione. 
    Pertanto,  anche  alla  luce  dei  principi  di  cui  all'art.  8
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, «costituzionalizzati»  per  il  tramite  della
disposizione  dell'art.  117  della  Costituzione,  la  perquisizione
eseguita dalla polizia giudiziaria  illegalmente  perche'  fuori  dei
casi di flagranza o degli altri casi previsti da leggi speciali, o in
virtu' di quanto riferito da fonte  confidenziale  o  anonima  ed  in
assenza, peraltro, di provvedimento di convalida dotato di  effettiva
e  concreta  motivazione,  non  e'  consentita,  ed  i   suoi   esiti
(«risultati»,  secondo  la  terminologia  dell'art.  103  codice   di
procedura  penale,  gia'  utilizzato  come  «tertium  comparationis»)
devono essere  ritenuti  inutilizzabili;  la  lettura  dell'art.  191
codice  di  procedura  penale  offerta  dal  diritto  vivente,   come
cristallizzato nelle sentenze gia' richiamate, lo esclude, e cio'  la
rende incostituzionale. 
    I principi espressi dalla gia' menzionata  sentenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo nel processo Brazzi contro  Italia  non
appaiono  isolati;  ed  invero,  essi  non  solo  appaiono   sviluppo
dell'altra precedente giurisprudenza della Corte europea dei  diritti
dell'uomo, gia' citata,  ma  risultano,  a  loro  volta,  aver  avuto
coerente sviluppo in ulteriori pronunzie, tra le quali puo', ad  es.,
citarsi, perche' la piu' recente, la sentenza del  16  febbraio  2021
seconda sezione nel caso: Budak contro Turchia, numero  del  ricorso:
69762/12, rilevante perche', nel caso di una  perquisizione  eseguita
dalla polizia  giudiziaria  su  mandato  del  giudice,  ma  senza  la
presenza di due testimoni richiesta dal codice di procedura turco per
l'ipotesi  in  cui  alla  perquisizione  non  partecipi  un  pubblico
ministero ("prosecutor"),  ha  ritenuto  la  procedura  concretamente
eseguita «unlawful» (illegale), e violato l'art. 8 della  Convenzione
non solo perche' la perquisizione non era stata eseguita nelle  forme
e nei casi previsti dalla  legge  (nazionale),  ma  anche  perche'  i
giudici  nazionali  avevano   ignorato   le   doglianze   sul   punto
dell'imputato, che ricordava che sia l'art. 38 §6 della  Costituzione
turca che  l'art.  206  §2  del  codice  di  procedura  penale  turco
stabilissero il divieto di utilizzare le prove raccolte nel corso  di
perquisizioni illegali, e su questa  doglianza  non  era  stata  data
risposta. 
    Si noti  che  la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  sullo
specifico punto, non affronta tanto il tema del rispetto dei principi
del giusto processo di cui all'art. 6 della Convenzione  EDU  (a  tal
proposito, la Corte osservava che  la  sua  giurisprudenza  ai  sensi
dell'art. 6 della Convenzione non esclude automaticamente  l'uso,  da
parte dei giudici nazionali, di prove che possono essere  considerate
«illecite» ai sensi  delle  disposizioni  di  diritto  interno),  ne'
quello della legittimita'  della  perquisizione  secondo  il  diritto
interno, ma proprio il tema della violazione dell'art. 8 e dei rimedi
che ad  essa  le  Corti  nazionali  devono  offrire  perche'  vi  sia
effettivita' della tutela dei diritti stabiliti dalla Convenzione;  e
ritiene violata la norma convenzionale perche' i giudici non si erano
pronunziati sull'esclusione della prova acquista in violazione  della
convenzione, oltre che della legge interna. 
4.6 - Principio di  effettivita'  e  violazione  art.  6  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali - contrasto degli articoli 352 e 125 comma 3 del  codice
di procedura penale con gli articoli 2,  111  comma  6  e  117  della
Costituzione 
    Ed invero, la sentenza del 16 febbraio 2021 seconda  sezione  nel
caso: Budak contro Turchia offre ulteriori spunti di  riflessione  in
ordine ai riflessi processuali che il principio di effettivita'  (che
tutta la giurisprudenza della Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo
indica come immanente al sistema della Convenzione)  deve  avere  nei
suoi risvolti processuali: in forza di  tale  ultima  sentenza,  deve
affermarsi  che  la  mancata   predisposizione   di   un'architettura
processuale che doti il sistema giudiziario degli strumenti necessari
a tutelare, in sede processuale, l'imputato che lamenti  lesioni  dei
suoi  diritti  fondamentali  relativi  all'inviolabilita'  della  sua
liberta' personale e domiciliare, integri  non  solo  una  violazione
dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  (per  quel   anche   una
violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la  salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'   fondamentali,   perche'
l'imputato ha diritto ad ottenere una risposta  imparziale  alle  sue
doglianze circa le violazioni subite ed ai riverberi che esse  devono
avere sulla utilizzabilita' delle prove acquisite in  violazione  dei
diritti tutelati dalla Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    Infatti,  la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,   con   la
menzionata sentenza del 16 febbraio 2021 seconda sezione caso:  Budak
contro Turchia, numero del ricorso:  69762/12,  richiamando  numerosi
casi della propria giurisprudenza, ha anche  statuito  la  necessita'
che le tutele accordate dagli ordinamenti nazionali, ivi  compresi  i
controlli giurisdizionali, siano effettive, e tali da garantire che i
diritti stabiliti dalla Convenzione europea per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali non  siano  meramente
apparenti o illusori, ma pratici ed effettivi; in particolare, con la
menzionata sentenza (cfr. par. 72 e 73) ha statuito che  nelle  cause
relative all'ingerenza nei diritti garantiti  dalla  Convenzione,  la
Corte intende stabilire se le motivazioni addotte  per  le  decisioni
fornite dai giudici  nazionali  siano  meramente  apparenti,  perche'
«automatiche»  o  stereotipate  (richiamando  in  proposito,  mutatis
mutandis, Paradiso e Campanelli contro Italia [GC],  n.  25358/12,  §
210, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali 2017). 73.  Tenuto  conto  del  principio
secondo cui la Convenzione mira a garantire  non  diritti  teorici  o
illusori, ma diritti pratici ed  effettivi,  il  diritto  a  un  equo
processo  non  puo'  essere  considerato  effettivo  a  meno  che  le
richieste  e  le  osservazioni  delle  parti  non   siano   veramente
«ascoltate», vale a dire adeguatamente esaminate  dal  tribunale  (v.
Ilgar Mammadov contro Azerbaigian  (n.  2),  n.  919/15,  §  206,  16
novembre 2017; Carmel Saliba contro Malta,  n.  24221/13,  §  65,  29
novembre 2016 con ulteriori  riferimenti  in  esso;  e  Fodor  contro
Romania, n.  45266/07,  §  28,  16  settembre  2014).  Nell'esaminare
l'equita' dei procedimenti penali, la Corte ha  anche  dichiarato  in
particolare  che,  ignorando  un  punto   specifico,   pertinente   e
importante  sollevato  dall'imputato,  i   tribunali   nazionali   si
manifestano non all'altezza dei loro obblighi ai sensi dell'art. 6  §
I della Convenzione (vedi Zhang contro Ucraina, n. 6970/15, § 61,  13
novembre 2018, e Nechiporuk e Yonkalo contro Ucraina, n. 42310/04,  §
280, 21 aprile 2011). 
    Il  tema  che  quindi  rileva  non  e'   solo   quello   relativo
all'illegittimita' costituzionale dell'art. 191 codice  di  procedura
penale  nella  parte  in  cui  non  prevede,  tra   le   ipotesi   di
inutilizzabilita', anche  quelle  consistenti  in  «inutilizzabilita'
derivate»,  ma  anche  quello  relativo  alle  conseguenze  che,  sul
materiale probatorio, debba avere, in termini  di  inutilizzabilita',
non solo l'ipotesi - rara - di mancanza o rigetto della convalida, ma
principalmente quello della convalida inadeguata,  perche'  priva  di
una  motivazione  concreta  -  per  l'impossibilita'   di   rinvenire
elementi, tra quelli in atti, idonei a  fondarla  -  in  ordine  alla
ricorrenza dei presupposti legittimanti  l'iniziativa  della  polizia
giudiziaria nel compimento  di  un  atto  limitativo  della  liberta'
personale o domiciliare. 
    Va ritenuto che non solo nel disegno costituzionale, ma anche  in
quello della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  sia  quindi  delineato  uno
Stato di pieno diritto, retto dal principio di legalita', con  limiti
ai poteri non solo della polizia giudiziaria, ma anche  della  stessa
A.G. (tra i quali la riserva di legge e l'obbligo di motivazione  dei
provvedimenti), e previsione di garanzie giurisdizionali a verifica e
controllo del modo e dei casi in cui le forze di  polizia  usino  dei
loro poteri, al fine di evitarne l'abuso; in tale sistema non possano
essere tollerate deroghe ai  presupposti  di  fatto  e  requisiti  di
forma, richiesti dalla Costituzione  e  dalla  Convenzione  EDU,  ne'
degli atti delle forze di polizia ne'  dei  provvedimenti  dell'A.G.,
ne' sussistere limiti alla verifica giurisdizionale della correttezza
dell'operato della polizia giudiziaria 
    Ammettere quindi che la polizia  giudiziaria  possa  procedere  a
perquisizione fuori dei casi di flagranza  e  degli  altri  specifici
casi eventualmente previsti dalla legge, in forza di elementi  vaghi,
indeterminati, e percio' non  verificabili  dall'A.G.,  o  da  questa
convalidata  con  motivazione   apparente,   apodittica,   incongrua,
equivale ad aggirare le cautele che la  Costituzione  ha  preposto  a
garanzia   del   corretto   esercizio   dei   poteri   dell'A.G.,   e
dell'effettivita' del suo potere di controllo e verifica  sugli  atti
di polizia giudiziaria interferenti con  liberta'  costituzionalmente
garantite. 
    Inoltre, il  tribunale  aveva  altresi'  sollevato  questione  di
incostituzionalita'  dell'art.  103  decreto  del  Presidente   della
Repubblica n. 309/1990, nella parte in cui consentiva che il pubblico
ministero possa autorizzare verbalmente tale genere di  perquisizioni
senza provvedere successivamente a  documentare  le  ragioni  su  cui
avesse fondato tale provvedimento, che gli articoli  13  e  14  Cost.
vogliono invece motivato; e tale questione  e'  stata  accolta  dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 252/2020. 
    Residua tuttavia irrisolto il problema di quale debba  essere  la
disciplina nel caso in cui la convalida manchi, o sia stata negata o,
ancora, sia stata emessa, ma sia priva di  una  motivazione  che  dia
contezza  dell'effettivita'  del  controllo  operato   dal   pubblico
ministero in ordine all'effettiva ricorrenza dei presupposti  che  la
legge stabilisce perche' la polizia  giudiziaria  possa  procedere  a
perquisizioni. 
    E'  bene  poi  ulteriormente  precisare  che  l'art.   13   della
Costituzione riconnette la conseguenza  delle  perdita  di  efficacia
degli  atti  di  polizia,  alla  circostanza  che  essi  non  vengano
convalidati dall'A.G. in un termine dato;  e  tuttavia,  si  ricorda,
causa dell'inefficacia dell'atto limitativo della liberta'  personale
o domiciliare, ai sensi degli articoli 13 e  14  della  Costituzione,
non e' tanto la mancata convalida, quanto la  circostanza  che  detti
atti siano stati compiuti dalle forze di polizia fuori  dei  casi  di
necessita' ed urgenza in cui la legge li consente, dato  che  e'  per
tale ragione che la convalida difettera'. 
    La  convalida  non  svolge  quindi  una  funzione   «sanante»   a
discrezione  dell'A.G.,  ma  opera  una   concreta   verifica   circa
l'effettiva ricorrenza dei presupposti per l'attivita' compiuta dalla
polizia  giudiziaria  di  propria  iniziativa  e  risoltasi  in  atti
invasivi della liberta' personale o domiciliare;  ed  il  legislatore
costituzionale ha inteso, e dato per scontato,  che  in  mancanza  di
tali presupposti, la convalida non verra' emessa. 
    La ratio della norma  costituzionale  sarebbe  quindi  senz'altro
frustrata se fosse sufficiente che il provvedimento di  convalida  si
risolvesse in una pura forma non esprimente  un  effettivo  controllo
circa la legalita'  dell'atto  di  polizia  giudiziaria;  di  qui  la
prescrizione (a parere  di  questo  Giudice,  condiviso  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n. 252/2020, evincibile  dal  comma  2
dell'art. 13 della Costituzione, come si e' gia' osservato) che anche
l'atto di convalida debba essere motivato, poiche'  e'  solo  con  un
atto avente tali caratteristiche che  l'art.  13  della  Costituzione
consente che l'A.G. incida sulla liberta' personale. 
    E' quindi ovvio che, nel sistema  delineato  dall'art.  13  della
Costituzione,  la  convalida  operi  in  quanto  espressione  di   un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta  ricorrenza  dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione  personale  (non
e' un caso, ad es., che lo stesso art.  103  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309/1990 prevede, come  peraltro  e'  ovvio,  che
l'A.G.  convalidera'   la   perquisizione   «ove   ne   ricorrano   i
presupposti»),  e  non  sia  sufficiente  un  mero  provvedimento  di
convalida  assolutamente  immotivato   sulla   ravvisabilita'   della
situazione legittimante la perquisizione, personale o domiciliare. 
    Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato  che
l'art. 13 della Costituzione  ricollega  la  salvezza  degli  effetti
dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che,  sebbene  le
nullita' degli atti per difetto  di  motivazione  siano  generalmente
rilevabili solo su eccezione di parte, in questo  caso  debba  invece
ritenersi che la ricorrenza di un  atto  di  convalida  adeguatamente
motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti
dell'atto  di  polizia  giudiziaria  che  abbia  inciso  su   diritti
inviolabili  (cosi  definiti   dagli   articoli   13   e   14   della
Costituzione),  sia  un  elemento  della  fattispecie  costituzionale
«sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio. 
    Sebbene  non  possa  contestarsi  che  «inviolabile»  non  voglia
automaticamente significare «indisponibile»,  nemmeno  puo'  tuttavia
negarsi che prevedere, per i  casi  in  oggetto,  una  nullita'  solo
relativa, e quindi dichiarabile solo su  eccezione  di  parte  (e  da
questa quindi  esplicitamente  o  implicitamente  rinunziabile),  non
garantirebbe adeguatamente  i  diritti  che  la  Costituzione  (e  la
Convenzione EDU) ha voluto  riconoscere  in  termini  di  assoluta  e
fondamentale rilevanza, quali cardini  del  sistema  democratico,  ed
assegnando allo Stato il compito  di  garantirne  l'effettivita';  la
eccepibilita' delle nullita' relative e' invero sottoposta a tempi  e
cadenze che richiedono  alla  parte  notevole  diligenza,  e  che  si
giustificano solo con la natura «minore» di  tali  nullita',  perche'
riguardanti violazioni di scarsa importanza o gravita'  ai  fini  del
corretto processo. 
    Anche in questo caso, laddove si volesse ritenere che  non  possa
essere  rilevata  di  ufficio  la  nullita'  della  motivazione   del
provvedimento con cui l'A.G. «sani» un atto compiuto  dalla  pubblica
autorita' (la polizia giudiziaria) in violazione di  un  diritto  del
cittadino che la Costituzione  definisce  inviolabile  (laddove  tale
inviolabilita' e' posta in primis proprio a tutela del  cittadino  da
abusi dei pubblici poteri, come quelli propri del periodo fascista di
cui la Costituzione e' reazione e difesa  contro  il  suo  ripetersi)
introdurrebbe  un  trattamento  illogicamente  deteriore  rispetto  a
quello che e' dettato, in tema di nullita',  per  l'omessa  citazione
dell'imputato,  che  costituisce  una  nullita'  assoluta,   pur   se
incidendo sull'esercizio di un diritto, quale quello di  difesa,  che
gia' si e' osservato  avere  natura  strumentale,  se  non  servente,
rispetto a quelli che  la  Costituzione  pure  definisce  inviolabili
(come quello di difesa). 
    E'  poi  necessario  che  il  Giudice  possa  verificare  che,  a
prescindere da quanto eventualmente affermato  col  provvedimento  di
convalida (si  pensi  ad  es.  all'ipotesi  di  una  motivazione  non
pertinente alle ragioni giustificatrici della perquisizione,  perche'
tutta costruita sulla legittimita' del sequestro  della  res  perche'
corpo del reato, come e' nel caso in oggetto; o  ad  una  motivazione
non aderente ai dati fattuali emergenti dagli atti; o che  da  questi
tragga  conclusioni  assolutamente  illogiche  o  assolutamente   non
giustificate), ricorressero effettivamente i presupposti  perche'  la
polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri  previsti  in  via  del
tutto eccezionale. 
    Cio' comporta una violazione del principio  di  effettivita',  ma
anche del diritto ad un giusto processo, che postula la  possibilita'
per l'imputato  di  verificare  la  correttezza  del  processo  e  la
genuinita' degli elementi di prova addotti contro di lui. 
    In relazione a tali principi, non appare manifestamente infondata
la questione di incostituzionalita', per contrasto con  gli  articoli
2, 13, 14 e 111 comma 6 della Costituzione, dell'art. 352 del  codice
di procedura penale nella parte in cui non prevede che il decreto  di
convalida della perquisizione debba essere motivato (tale necessita',
pur affermata in parte  motiva  dalla  Corte  costituzionale  con  la
sentenza n. 252/2020, non e' stata riprodotta in dispositivo, e  tale
assenza potrebbe condurre ad incertezze applicative); e del contrasto
dell'art. 125, comma 3 codice di procedura penale con le stesse norme
costituzionali, nella parte in cui non prevede che  la  nullita'  del
decreto di convalida della perquisizione sia assoluta e  rientri  tra
quelle considerate dall'art. 179, comma 2  del  codice  di  procedura
penale. 
    Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto  conseguente,  che,  a
fondamento   della   legittimita'    di    una    perquisizione,    e
dell'utilizzabilita' dei suoi  esiti,  debba  essere  necessario  che
l'A.G. abbia  effettivamente  preventivamente  e  con  atto  motivato
autorizzato la perquisizione, o, successivamente, e sempre  con  atto
motivato, verificato la ricorrenza della condizione di  flagranza  (o
altra  situazione  prevista  da  norma   speciale),   che   legittimi
l'esercizio  dei  poteri  di  accesso  domiciliare  o   perquisizione
personale in capo alla polizia  giudiziaria;  in  caso  contrario  si
avrebbe - oltre che degli articoli 13 e 14 della Costituzione  -  una
violazione  degli  articoli  111  e  117  della   Costituzione   (con
riferimento all'art. 6 della Convenzione europea per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo) essendo  solo  apparente  la  possibilita'  di
godere dell'esame di un giudice imparziale ed  indipendente,  laddove
questo Giudice  non  abbia  un  adeguato  potere  di  verifica  delle
circostanze costituenti elementi a carico dell'imputato. 
4.6.a - Illegittimita' del sequestro  e  della  convalida  basati  su
fonti non specificate 
    E' bene quindi sottolineare che interpretazioni che ammettano,  a
presupposto  degli  atti   di   perquisizione,   elementi   probatori
particolarmente deboli o inutilizzabili, vadano ad incidere,  fino  a
vanificarle, sulle tutele che la Costituzione appresta alla  liberta'
personale ed all'inviolabilita' del domicilio, materie  che  appaiono
essere invece siano uno dei punti qualificanti  dell'effettivita'  di
uno Stato di diritto,  come  disegnato  dalla  Costituzione  e  dalla
Convenzione  EDU,  nelle   quali   fonte   normative   superiori   il
riconoscimento   di   diritti   fondamentali   della    persona    e'
necessariamente accompagnato dalla previsione di un Giudice non  solo
imparziale ed  indipendente,  ma  anche  dotato  degli  strumenti  di
verifica  e  controllo  atti  ad  assicurarne   l'effettiva   tutela.
Peraltro, in uno Stato di diritto, lo Stato ed i suoi organi sono per
primi vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur  pretendono
l'osservanza da parte  dei  consociati,  e  cio'  comporta  non  solo
l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire  l'effettivo
rispetto dei diritti  che  tali  leggi  prevedono  ed  attribuiscono;
effettivita'  che  la  Costituzione  appare  voler   perseguire   con
l'inutilizzabilita'  («inefficacia»  nel  linguaggio  costituzionale)
degli atti illegittimamente compiuti in violazione di tali liberta'. 
    Ammettere il compimento di atti lesivi della liberta' personale o
domiciliare tramite il ricorso a prove  od  indizi  non  verificabili
perche'  non  indicati  (anonimi,   voci   confidenziali)   impedisce
l'esercizio del diritto di difesa e limita il diritto  ad  un  giusto
processo. 
    Peraltro, gia' nella giurisprudenza della Corte di cassazione  si
rinvengono pronunzie che  statuiscono  la  nullita'  del  decreto  di
perquisizione  emesso  dal  pubblico  ministero  in  base  a  notizie
confidenziali o denunzie anonime: 
        sez. 6, sentenza n. 34450 del 22 aprile 2016, che ha statuito
che «Sulla base di una denuncia anonima non e' possibile procedere  a
perquisizioni, sequestri e intercettazioni  telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.  Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce  anonime
possono stimolare l'attivita' di iniziativa del P.M e  della  polizia
giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati  conoscitivi,   diretti   a
verificare  se  dall'anonimo  possano  ricavarsi  estremi  utili  per
l'individuazione di una "notitia criminis"». (In applicazione di tale
principio,  la   Corte   ha   ritenuto   legittimi   l'attivita'   di
perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare e di materiale
informatica eseguiti a seguito di un'attivita' investigativa, avviata
sulla base di una denuncia anonima, nel corso della quale era  emersa
la pubblicazione in rete di numerosi post  a  contenuto  diffamatorio
pubblicati mediante l'account creato sul social  network  facebook  a
nome dell'imputato, indagato  in  relazione  ai  reati  di  cui  agli
articoli 278, 291 e 214 cod. pen). 
        sez. 6, sentenza n. 36003  del  21  settembre  2006,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di reita'. Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del  pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione di una  "notitia  criminis".»  (In
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che  la  polizia
giudiziaria aveva  legittimamente  proceduto  alla  perquisizione  di
un'autovettura e al conseguente sequestro di  sostanza  stupefacente,
dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul
posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato). 
        sez. 5, ordinanza  n.  37941  del  13  maggio  2004,  che  ha
statuito che: «Il decreto  di  perquisizione  e  sequestro  emesso  a
seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione
di una "notitia criminis" e non come mezzo di ricerca della prova, e'
nullo. Infatti la  denuncia  confidenziale  o  anonima,  che  non  e'
inseribile  agli  atti  e  non  e'  utilizzabile,  non  puo'   essere
qualificata come una notizia di  reato  idonea  a  dare  inizio  alle
indagini  preliminari,  cosicche'  l'accusa  non  puo'  procedere   a
perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'.» 
    La suprema  Corte  ha  altresi'  avuto  modo  di  osservare  che,
ovviamente, anche la polizia giudiziaria - laddove norme di legge  le
attribuiscano il potere di eseguire perquisizioni fuori dei  casi  di
flagranza - e' tenuta al preciso rispetto dei  presupposti  posti  da
tali norme, e non puo' operare sulla base di meri sospetti: 
        sez. 6, sentenza n. 40952 del 15 giugno 2017, che ha statuito
che «E' configurabile l'esimente della reazione ad atti arbitrari del
pubblico ufficiale  qualora  il  privato  opponga  resistenza  ad  un
pubblico ufficiale che pretende di eseguire presso il  suo  domicilio
una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art. 4  legge  22  marzo
1975, n. 152, alla ricerca  di  armi  e  munizioni  fondata  su  meri
sospetti e  non  su  dati  oggettivi  certi,  anche  solo  a  livello
indiziario, circa la presenza delle suddette cose nel  luogo  in  cui
viene eseguito l'atto.» (Fattispecie in  cui  la  Corte  ha  ritenuto
immune da  vizi  la  mancata  convalida  dell'arresto  per  il  reato
previsto dall'art 337 cod. pen, all'imputato per essersi opposto alla
perquisizione disposta dopo la contestazione di  una  contravvenzione
al codice stradale, senza che  fossero  emersi  indizi  significativi
circa il possesso di armi o di oggetti atti ad offendere); 
    Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della  suprema  Corte
che, a parere di questo giudicante, rispondono pienamente ai principi
costituzionali  e  convenzionali  nella  individuazione  del  minimum
probatorio  necessario  a  rendere   legittima   una   perquisizione;
tuttavia, non se  ne  traggono  le  dovute  conseguenze  in  tema  di
utilizzabilita degli esiti delle perquisizioni operate  al  di  fuori
dei presupposti di legge. 
    Cio' appare in contrasto con gli articoli  2  della  Costituzione
(principio  di  effettivita',  negato  dal  ricorso   a   fonti   non
verificabili) e 111 della Costituzione - 6 Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(diritto ad un giusto processo, anch'essi negati dal ricorso a  fonti
non verificabili).