UFFICIO DI SORVEGLIANZA DI SPOLETO Per i Circondari dei Tribunali di Spoleto e Terni IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato a scioglimento della riserva di cui al verbale d'udienza in data 14 dicembre 2022, sentiti pubblico ministero e difesa, la seguente ordinanza: Letto il reclamo n. SIUS 2022/4924 presentato da R E , nato a , detenuto presso la Casa Circondariale di Terni in esecuzione della pena di cui al provvedimento di cumulo emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Frosinone in data 14 settembre 2021, con il quale l'interessato si duole del divieto, impostogli dall'amministrazione penitenziaria, di svolgere colloqui intimi con i propri familiari, ed in particolare con la compagna, oltre che con la figlia di tre anni; Osserva Il R si lamenta, nel suo reclamo, delle modalita' con le quali l'istituto penitenziario gli consente di svolgere i previsti colloqui visivi con i familiari, tra i quali la figlia minore e la compagna. Segnatamente, nel reclamo-istanza ci si diffonde sulle conseguenze negative che l'assenza di intimita' con la compagna sta avendo sul mantenimento del suo rapporto di coppia, cui tiene particolarmente ed al quale considera legato il proprio futuro reinserimento sociale. L'interessato prosegue sottolineando come, anche in assenza di permessi premio previsti in suo favore, un colloquio intimo costituisca l''unico strumento per esercitare il proprio diritto, un diritto che considera fondamentale, ad una serena relazione di coppia e ad assicurargli a pieno un ruolo genitoriale. Alla luce dell'allegazione di un pregiudizio da ritenersi grave al proprio diritto all'affettivita', di cui si rinvengono emergenze varie, diffusamente, nel tessuto della legge penitenziaria (si pensi, tra gli altri, all'art. 15, che individua tra gli elementi essenziali del trattamento l'agevolazione dei rapporti con la famiglia, all'art. 28, che impone che in favore del detenuto si dedichi particolare cura a mantenere, migliorare o a ristabilire le relazioni con la famiglia, ma anche alla disciplina dei colloqui visivi e telefonici con i familiari di cui all' art. 18, all'allocazione della persona in luogo il piu' prossimo possibile agli stessi, di cui agli art. 14 e 42, nonche' alla non limitabilita' dei contatti familiari persino quando la persona sia sottoposta al regime di sorveglianza particolare, di cui all'art. 14-quater), il reclamo deve essere trattato con le forme di cui all'art. 35-bis ord. penit. Per l'odierna udienza e' stata acquisita una nota dalla Casa Circondariale di Terni, cui il magistrato di sorveglianza ha chiesto di chiarire quali siano le modalita' con le quali consentito al condannato di incontrare i propri familiari, se sia prevista una permanente vigilanza da parte del personale di polizia penitenziaria e su quali basi la stessa sia imposta, volendo poi descrivere i locali in cui i colloqui avvengono, rappresentando se negli stessi sia possibile lo svolgimento di un colloquio con caratteristiche di riservatezza o di intimita'. La Direzione ha spiegato che i colloqui si svolgono in cinque salette, di cui una attrezzata in particolare per gli incontri con i figli minori di anni 12 (c.d. ludoteca), nonche' in una «area verde», pure destinata prioritariamente ai colloqui con i bambini. La nota prosegue riferendo che, ovunque i colloqui si svolgano, e' prevista una vigilanza permanente realizzata mediante sistemi di videosorveglianza o in presenza, tramite l'unita' addetta al controllo. Le sale sono predisposte per accogliere piu' nuclei familiari contemporaneamente e in alcune fasce orarie, o in alcune giornate, vi e' una cospicua presenza di persone che, inevitabilmente, incide sulla riservatezza del colloquio. La vigilanza continua e' imposta dall'art. 18 ce. 2 ord. penit. (rectius comma 3) che prevede che «i colloqui si svolgono in appositi locali, sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia». Lo stesso regolamento di servizio del Corpo di Polizia Penitenziaria descrive le incombenze rimesse al personale in occasione dei colloqui dei detenuti con i familiari (art. 47, nella parte in cui prescrive che lo stesso debba vigilare affinche', durante il colloquio, venga mantenuto un comportamento corretto, tale da non arrecare disturbo, sospendendo dal colloquio le persone che tengono un comportamento scorretto o molesto e riferendo al Direttore). Ancora ulteriori disposizioni regolamentari riprendono tale necessita', come ad esempio quando prevedono che il Direttore possa autorizzare lo svolgimento del colloquio, anche per consentire ai familiari di fruire di un pasto insieme, in separati locali, ma sempre tenendo fermo l'obbligo imposto dalla normativa primaria di cui al gia' citato art. 18 comma 2 ord. penit. (cfr, art. 61 comma 2 lettera b reg. es.). La nota si conclude riferendo come, seppur di rado, e' accaduto che sia stato necessario interrompere un colloquio visivo per via di comportamenti ritenuti non consoni al rispetto del contesto e alla contemporanea presenza di altri familiari adulti e bambini nella sala. Come affermato dallo stesso interessato nel suo reclamo-istanza, il R e' detenuto dall'11 luglio 2019, attualmente con posizione giuridica di definitivo, in relazione ad un cumulo che comprende fatti di tentato omicidio, furto aggravato, evasione ed altro, con fine pena al 10 aprile 2026. Il condannato non dispone, anche all'esito del suo trasferimento nell'istituto penitenziario di Terni avvenuto soltanto a marzo 2022, di un programma di trattamento redatto in suo favore, tanto meno aperto alle esperienze premiali esterne, e' anche in un passato piuttosto recente incorso in alcune sanzioni disciplinari, non ha ottenuto liberazione anticipata, mentre, alla luce degli elementi relativi al comportamento sin qui succinti, eventuali istanze di permesso premio, se pur ammissibili, appaiono allo stato nel merito difficilmente accoglibili, in assenza di un programma di trattamento che le preveda, ma anche a fronte delle condotte penitenziarie del condannato, inidonee ad integrare il requisito della buona condotta previsto dall'art. 30-ter ord. penit.. La nota pervenuta dall'istituto penitenziario di Terni chiarisce come, nella cornice normativa attuale, lo svolgimento dei colloqui cerchi di favorire la serenita' degli stessi, quando si svolgono con i minori, mediante l'approntamento di spazi significativamente piu' confortevoli (ludoteca, area verde) per la fruizione degli stessi insieme a dei bambini. E' per altro noto all'Ufficio scrivente che la ludoteca e l'area verde, quest'ultima di recente inaugurazione, per come riferito dall'istituto penitenziario, sono state entrambe realizzate in preesistenti spazi dell'istituto, «in economia», mediante l'opera dei soli detenuti lavoratori della Mof (manutenzione ordinaria del fabbricato), con la sponsorizzazione da parte di una associazione di cittadinanza per la piccola dotazione di giochi e arredi, e con impegno di spesa dell'amministrazione unicamente per i presidi di sicurezza. Cio' che invece resta radicalmente precluso all'interessato e' la possibilita' che il colloquio si svolga in un contesto in cui sia assicurata l'intimita', con un importante impatto nella dimensione familiare dell'incontro anche con i minori, ma con un dirimente effetto inibitorio rispetto alla possibilita' di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale che, addirittura, ove tentati con l'attuale previsione del controllo a vista della polizia penitenziaria, finirebbero per configurare delle ipotesi di reato perseguibili. Dal quadro normativo sin qui succinto, si evince dunque un vero e proprio divieto di esercitare l'affettivita' in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualita' con il/la partner non detenut* in contesto penitenziario, essendo prevista soltanto una modalita' di colloquio visivo con i familiari che impone il controllo a vista (art, 18 comma 3 ord. penit.). In tal senso la precisazione, non ricordata nella nota del carcere di Terni, eppure leggibile nel medesimo comma, secondo la quale, ove possibile, i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono una dimensione riservata degli stessi, appare comunque inidonea ad assicurare l'esercizio della affettivita', ivi compresa la sessualita', in condizioni di privacy. A fronte del dato normativo, dunque, il magistrato di sorveglianza non puo' che ritenere conseguente quanto imposto al condannato dalla Direzione dell'istituto penitenziario. All'odierna udienza le parti: difesa e pubblico ministero, hanno concluso, pero', per il promovimento di una questione di legittimita' costituzionale concernente un tale divieto, per come deducibile dalla normativa, sollecitandolo il primo, e dando un parere favorevole il secondo, pur senza tuttavia circostanziarne i parametri. A scioglimento della riserva assunta, ritiene il Magistrato di sorveglianza di sollevare la questione di costituzionalita' dell'art. 18 ord. penit. nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia previsto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13 comma 1 e 4, 27 comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione europea dei Diritti dell'uomo. Non ignora lo scrivente che una questione dai tratti, per alcuni versi, simili fu portata all'esame della Corte costituzionale, che decise per l'inammissibilita' della stessa, con sentenza 19 dicembre 2012, n. 301. In quell'occasione il Magistrato di sorveglianza di Firenze l'aveva sollevata con riguardo all'art. 18, allora comma 2, ord. penit., rispetto agli art. 2, 3, comma 1 e 2, 27, comma 3, 29, 31, 32, comma 1 e 2 Cost. La Consulta ritenne la questione inammissibile sotto un duplice profilo. Innanzitutto, si scriveva, l'ordinanza di rimessione appariva afasica rispetto alla rilevanza della stessa nel procedimento pendente dinanzi al giudice a quo, che ometteva di descrivere quale fosse l'oggetto del reclamo presentato dal detenuto e anche di precisare a quale regime penitenziario lo stesso fosse assoggettato, neppure soffermandosi sulla possibilita' che questi potesse fruire di permessi premio, che avrebbero potuto costituire una soluzione, per cosi' dire esterna, alla necessita' di intimita' rappresentata. Un secondo ordine di ragioni dava occasione alla Corte costituzionale per sottolineare come la questione concernesse «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della liberta' personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nel gia' ricordato istituto dei permessi premio, previsto dall'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione - stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi - resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria. Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore». La questione prospettata dunque, sotto un secondo profilo, ad avviso del Giudice delle leggi, limitandosi a richiedere un intervento ablativo della previsione del controllo a vista in occasione dei colloqui, da un lato avrebbe comportato un effetto molto piu' ampio del necessario, poiche' questo controllo non e' volto saio a impedire rapporti sessuali, ma presiede a fondamentali esigenze di sicurezza, di cui non si potrebbe fare a meno in ogni caso, mentre dall'altro, la rimozione del controllo a vista neppure sarebbe stata di per se' sufficiente a facoltizzare i colloqui intimi, prevedendo questi ultimi la necessita' di una disciplina ad hoc, che «stabilisca termini e modalita' di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle "visite intime", fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative». Tutti profili che la Consulta individua come propri della discrezionalita' del legislatore, come pure frutto di una scelta non obbligata e' che ci si limiti a ipotizzare una apertura a tali tipi di rapporti solo tra soggetti uniti dal vincolo matrimoniale, come chiede il giudice a quo, potendo attingersi in ipotesi anche platee differenti. Su entrambi i profili opportune precisazioni consentono oggi, ad avviso dello scrivente magistrato di sorveglianza, un nuovo, e comunque diverso, esame da parte del Giudice delle leggi del merito dei problemi di costituzionalita' che meglio si accenneranno. Nel sollevare la questione in questa sede, occorre dunque innanzitutto precisare, in ordine alla rilevanza della stessa nel procedimento, che il reclamante si duole del divieto, derivante dall'attuale normativa, di poter dispone di spazi di adeguata intimita', anche per esercitare la sessualita' con la compagna, nel momento in cui gli e' consentito di svolgere con la stessa i colloqui visivi che, per come detto, prevedono la costante sottoposizione al controllo visivo della polizia penitenziaria. L'ordinamento penitenziario tutela in modo peculiare, in particolare mediante i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica, i rapporti dei detenuti con i congiunti, e tra questi certamente figura la persona convivente, con ricostruzione pacifica per l'amministrazione penitenziaria (art. 37 comma 1 reg. es. ord. penit.), di recente trasfusa nella disposizione di cui all'art. 1 comma 38 della legge 76/2016, secondo la quale «I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario.». Anche da ultimo, in modo ulteriormente esplicito ed inclusivo, la legge 70/2020 all'art. 2-quinquies, in materia di colloqui telefonici, individua come categoria di soggetti con i quali e' specialmente importante preservare continuita' di relazioni: il coniuge, l'altra parte dell'unione civile, la persona stabilmente convivente o legata all'interessato «da relazione stabilmente affettiva». Si e' sopra succinta la posizione giuridica del condannato reclamante, che attualmente non puo' godere di permessi premio perche' da un lato l'istituto penitenziario non ha nei suoi confronti elaborato un programma di trattamento, tanto meno con la previsione di esperienze premiali esterne, e dall'altro perche' la condotta che lo stesso ha tenuto, nei mesi precedenti al reclamo, non appare segnata da quella regolarita' che ragionevolmente puo' condurre il magistrato di sorveglianza a concedere il permesso. Tale strumento, d'altra parte, apparirebbe allo stato il solo idoneo in qualche modo a consentire l'esercizio della sessualita' della persona detenuta, anche se di fatto attraverso un «aggiramento» del divieto, od anzi una sua riconferma indiretta, poiche' l'incontro intimo avverrebbe in effetti nel breve intervallo di liberta' concessogli dal magistrato di sorveglianza. Ad ogni modo tale soluzione, allo stato preclusa, per quanto detto, al reclamante, non sembra esente da critiche (la Corte costituzionale, non a caso, faceva cenno al fatto che il permesso premio costituisse una soluzione del problema solo parziale) poiche' determina la conseguenza di spostare il piano dell'esercizio di un diritto che, come si provera' a dire, appare da annoverare tra quelli fondamentali della persona, verso l'orizzonte della premialita', precludendolo a chi si trovi nella condizione del condannato, e per diverse ragioni ai detenuti in custodia cautelare o a chi non abbia ancora maturato le quote di pena previste dagli art. 30-ter e quater ord. penit. per l'ammissibilita' della richiesta. Neppure puo' essere invocato l'istituto del permesso per gravi motivi, previsto dall'art. 30 ord. penit., poiche' i casi stringenti in relazione ai quali lo stesso puo' essere concesso, non contemplano l'esercizio della sessualita' (appare consolidata una giurisprudenza della S.C. che addirittura esclude dalla nozione di motivo grave persino la consumazione del matrimonio celebrato in carcere - vd. piu' di recente sentenza Cassazione 48165/2008, sulla scorta di precedenti analoghi: sentenza 1553/1992 e 1524/1992 - in cui per altro pure si ribadisce che lo strumento di cui all'art. 30 ord. penit. ha il carattere dell'eccezionalita', mentre il diritto ad avere rapporti sessuali «per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalita'»). Nel caso di specie, dunque, l'istante allo stato non ha alternative a formulare la doglianza oggetto del reclamo, ed il magistrato di sorveglianza, che deve valutarlo ai sensi degli art. 35-bis e 69 comma 6 lettera b) ord. penit. ha gia' potuto verificare la rispondenza dell'agire dell'amministrazione a disposizioni normative che, in particolare nell'art. 18 comma 3 ord, penit., impongono di interdire momenti di intimita', specialmente di tipo sessuale, durante il colloquio visivo. La stessa S.C. con la risalente sentenza 1553/1992 significativamente afferma che: «il vigente ordinamento penitenziario esclude, per i detenuti, la facolta' di rapporti sessuali, anche tra persone unite in matrimonio, nel carcere.» ed aggiunge che tale esclusione appare conseguenza diretta della privazione della liberta' personale, ma quest'ultima espressione non sembra tener conto di un contesto sovranazionale in cui diffusamente la privazione della liberta' personale non si associa affatto ad un divieto assoluto di esercitare la sessualita' con il/la partner in liberta', in appositi momenti di incontro, ne' si confronta con l'assenza di una previsione di tale divieto tra le pene, anche accessorie, previste nel codice penale. A fronte dell'attuale normativa., dunque, non e' censurabile l'agire dell'amministrazione e il reclamo-istanza del detenuto e' destinato al rigetto, ove le disposizioni vigenti siano considerate compatibili con il quadro costituzionale, mentre viceversa raccoglimento della questione di costituzionalita' potrebbe condurre all'opposta conseguenza. Di qui la rilevanza della questione che oggi si sottopone al Giudice delle leggi. Il magistrato di sorveglianza ritiene inoltre non manifestamente infondata la questione di costituzionalita', rispetto ai gia' evocati parametri costituzionali, per le ragioni di seguito succinte. A venire in rilievo appare innanzitutto il diritto alla libera espressione della propria affettivita', anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell'art. 2 Cost. Si tratta di un diritto cosi' qualificato dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha esplicitato da tempo come l'attivita' sessuale sia «indispensabile completamento e piena manifestazione» del diritto all'affettivita' e come costituisca «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana [...] che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire» (cfr. sentenza 561/1087; vd. anche sentenza 161/1985 in cui si parla del diritto a realizzare la propria identita' sessuale come aspetto e fattore di svolgimento della personalita' che i membri della collettivita' sono tenuti a riconoscere). Un diritto di cui dunque non si dovrebbe essere privati, contrariamente a quanto invece accade, a fronte della proibizione normativa qui oggetto di perplessita' costituzionale, anche nel contesto penitenziario (cfr. sentenza Corte costituzionale 26/1999), dove invece sono inibiti i rapporti sessuali delle persone detenute con il/la partner in liberta'. Il carcere e' d'altra parte certamente una formazione sociale in cui si svolge la personalita' dei detenuti. Cio' non puo' che condurre ad interdire una completa inibizione dell'esercizio della affettivita' nella forma del rapporto sessuale con la persona convivente in liberta', che si realizza mediante una assoluta rinuncia da parte della legge a tentare ogni possibile bilanciamento con le eventuali ragioni di sicurezza che possano in taluni casi rivelarvisi ostative. In questo modo si finisce per compromettere nei confronti della persona detenuta un residuo spazio di liberta' «tanto piu' prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale puo' espandersi la sua personalita' individuale» (cfr. Corte costituzionale sentenza 349/1993 e, piu' di recente, sent. 186/2018). La forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in liberta', derivante dal disposto normativo ostativo, proprio per l'argomento da ultimo citato, appare allora in contrasto anche con l'art. 13 Cost., con riferimento al comma 1, poiche' di fatto determina una compressione della liberta' personale che non appare giustificata in ogni caso da ragioni di sicurezza e che, percio', finisce per tradursi in una sofferenza aggiuntiva rispetto alla privazione della liberta', che gia' inevitabilmente deriva dalla restrizione carceraria. Nel caso che ci occupa, ad esempio, il condannato e' ristretto in regime di «media sicurezza», non ha commesso reati che lo descrivano come collegato con organizzazioni criminali organizzate, non vede sottoposti a controllo auditivo ne' i suoi colloqui visivi, ne' le sue conversazioni telefoniche, ne' ancora controllata nei contenuti la sua corrispondenza, tanto che inibirgli contatti intimi con la compagna non contribuisce in alcun modo ad aumentare il livello di sicurezza della collettivita'. Non altrettanto, ad esempio, potrebbe dirsi per un detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all'art. 41-bis ord. penit, misura che viene imposta con precisi limiti temporali rispetto a detenuti che, anche in ragione dei reati di cui sono considerati responsabili, manifestino una pericolosita' sociale spiccata e che, tra le limitazioni che espressamente contiene, ha anche quella rispetto al numero dei colloqui con familiari e, soprattutto, per quanto qui ci occupa, delle modalita' di svolgimento dei colloqui, con video-audio registrazione, resa necessaria dal pericolo che gli stessi costituiscano occasione per veicolare messaggi illeciti e direttive per i gruppi criminali all'esterno, modalita' che all'evidenza si appalesano motivatamente in contrasto, dunque, con la privacy che la sessualita' richiede. In tal senso, dunque, si appalesa un contato anche con l'art. 13 comma 4 Cost., poiche' una amputazione cosi' radicale di un elemento costitutivo della personalita', quale la dimensione sessuale dell'affettivita', finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta che, nella mancanza di una giustificazione sotto il profilo della sicurezza, si volge in mera vessazione, umiliante e degradante, per altro non soltanto per il condannato, ma per la persona con lui convivente, cui pure viene interdetto l'accesso a quella sessualita' e alla genitorialita' che potrebbe, ove io si volesse, derivarne, inibendo per un tempo variabile, ma che potrebbe anche rivelarsi dirimente in termini negativi, le possibilita' per la coppia di generare figli o ulteriori figli (in questo senso puo' leggersi il riferimento contenuto nel reclamo dell'interessato alle conseguenze che dall'attuale divieto derivano in termini negativi sul proprio ruolo genitoriale). E' in questa chiave che, dunque, attraverso il richiamo all'art. 117 comma 1 Cost., sembra venire in rilievo una violazione dell'art, 3 CEDU, poiche' appunto la imposta privazione della dimensione sessuale dell'affettivita' con il/la partner sembra apprezzarsi quale trattamento inumano e degradante, a fronte della rinuncia da parte della legge penitenziaria a valutare la possibilita' di un bilanciamento tra esercizio del diritto ed esigenze di sicurezza, con cio' determinando una afflittivita' maggiore di quanto necessario alla condizione detentiva, certamente tale da comportare effetti dannosi per la salute psicofisica della persona detenuta. Il divieto di svolgere colloqui intimi con il/la partner in liberta' si appalesa poi in contrasto con la protezione della famiglia derivante dal combinato disposto degli art. 29, 30 e 31 Cost., nella misura in cui la stessa deve trovare nella legge forza e sostegno per costituirsi, ma anche per assicurare a tutti i suoi componenti protezione. In questa chiave, invece, del tutto diatonica e' la previsione di un divieto che logora i rapporti di coppia, rischia di spezzarli a fronte del protrarsi del tempo in cui la fondamentale componente della sessualita' non puo' essere esercitata, e di fatto pone precondizioni non perche', al rientro in liberta' della persona detenuta, la stessa possa tornare alla propria famiglia con maggiori chance di' reinsediarvisi nella pienezza del proprio ruolo, ma avendo vissuto un periodo, breve o lungo, nel quale gli e' stata imposta una innaturale astinenza dal vincolo unitivo del rapporto sessuale con il/la partner. Cio' pregiudica, per altro, per come detto, la stessa possibilita' di accedere alla genitorialita', e mina, anche in contesti in cui la coppia non abbia fatto accesso agli istituti del matrimonio o dell'unione civile, il diritto dei figli alla serenita' del rapporto di coppia tra i genitori, condizione non secondaria per lo sviluppo della propria personalita'. Il dispositivo di legge impediente gli incontri intimi, anche a carattere sessuale, sembra dunque in contrasto anche con l'art. 32 Cost. non potendo in tal senso dubitarsi delle dirimenti conseguenze negative derivanti dal protrarsi di una forzata astinenza dai rapporti sessuali con il/la partner in liberta', e piu' in generale dall'assenza di un momento privato in cui vivere la propria relazione con l'altr*, al di fuori di una osservazione continuativa da parte del personale di custodia, che finisce per avere effetti sulla salute psichica della persona detenuta, in un contesto gia' ordinariamente psicopatogeno come quello della restrizione della liberta' personale, e che puo' averne sulla stessa salute fisica (non e' d'altra parte previsto uno spazio di privacy garantito neppure per la masturbazione o per i rapporti sessuali tra persone detenute). Nel quadro che si e' sin qui tentato di descrivere non e' certo ultimo l'effetto negativo dirimente che il divieto di incontri intimi con la persona convivente comporta, ove riguardato in rapporto all'art. 27 comma 3 Cost. Da un lato certamente sotto il profilo dell'umanita' della pena, poiche' si impone una limitazione cosi' pregnante di una componente cosi' essenziale della vita di ogni persona, come quella della declinazione anche sessuale della propria affettivita', e comunque di una dimensione del tutto riservata nell'espressione di quest'ultima, da aggiungere alla privazione della liberta' un sicuro surplus di afflittivita', non sempre necessitata da ragioni di sicurezza, ma anche dal punto di vista della finalita' rieducativa delle pene. Ne derivano conseguenze desocializzanti che, piuttosto che fare del tempo vissuto in carcere una occasione per costruire e irrobustire relazioni socio-familiari esterne in grado di far da rete efficace alle fragilita' personali che inevitabilmente conseguiranno alla restituzione di un detenuto alla societa', corrono il rischio di prepararne una maggior solitudine e una insicurezza personale piu' spiccata, connessa al mancato esercizio del proprio ruolo naturale all'interno di una relazione di coppia che, viceversa, ove vissuta o ritrovata nella sua pienezza, potrebbe far da volano alla risocializzazione della persona. Si contribuisce invece, attraverso la sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilita' del proprio corpo e del proprio esprimere affetto, ad una regressione del detenuto verso una dimensione infantilizzante, opposta a quella che si dovrebbe perseguire. D'altra parte, non si lavora efficacemente a garantire un diritto fondamentale della persona se si limita al solo possibile accesso ai permessi premio l'esercizio della sessualita' con il/la partner, rendendo umiliante una detenzione in cui lo stesso sia subordinato al mantenimento della buona condotta o alla partecipazione al trattamento, degradando quindi il diritto a malinteso strumento di coartato trattamento. In vari passaggi si e' provato dunque ad evidenziare l'irragionevolezza, rilevante ex art. 3 Cost., del divieto di incontri intimi con il congiunto in liberta' imposto, senza alcun riferimento a particolari profili di sicurezza da tutelare nel caso specifico, dall'art. 18 ord. penit.. Occorre ancora sottolineare che tale profilo si appalesa maggiormente stringente all'esito delle riforme del 2018. Per come si e' detto infatti l'art. 18 comma 3, con il decreto legislativo 123/2018, e' stato arricchito di un riferimento alla opportunita' che i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscano una dimensione riservata del colloquio. E' vero che la disposizione e' completata da un «ove possibile», che corre il rischio di non essere soddisfacente, rimettendo ad una generica buona volonta' dell'amministrazione l'approntamento di strutture adatte allo scopo (che pure in diversi luoghi si e' cominciato ad attrezzare, per come deducibile anche da fonti aperte), ma e' certo che la dimensione riservata del colloquio contrasta in modo evidente con l'imposto controllo a vista, seppur non auditivo, del personale di polizia penitenziaria, che continua a leggersi nel medesimo comma e che e' in ogni caso obbligatorio. Ancor piu' stridente e' poi il confronto con la disciplina contenuta in materia di ordinamento penitenziario minorile, nel coevo decreto legislativo n. 121/2018, all'art. 20 comma 3 e seguenti, secondo i quali: «Al fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto puo' usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore, con una o piu' delle persone di cui al comma 1» (congiunti e persone con cui sussiste un significativo legame affettivo), ed ancora: «4. Le visite prolungate si svolgono in unita' abitative appositamente attrezzate all'interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. 5. Il direttore dell'istituto verifica la sussistenza di eventuali divieti dell'autorita' giudiziaria che impediscono i contatti con le persone indicate ai commi precedenti. Verifica altresi' la sussistenza del legame affettivo, acquisendo le informazioni necessarie tramite l'ufficio del servizio sociale per i minorenni e dei servizi sociosanitari territoriali. 6. Sono favorite le visite prolungate per i' detenuti che non usufruiscono di permessi premio.» Nel contesto minorile, dunque, si e' data una risposta normativa (anche in adempimento di quanto richiesto dalla legge delega 103/2017 sul punto) che sembra significativamente aprire alla dimensione veramente riservata del colloquio, anche delineando una disciplina che da un lato consente la verifica della sussistenza di particolari ragioni di sicurezza eventualmente ostative, e dall'altra favorisce, nell'ottenimento delle visite prolungate, le persone che non usufruiscano di permessi premio, pur senza considerare le prime come una alternativa che non le renda piu' necessarie ove la persona detenuta abbia accesso ai secondi. Sotto questo profilo, dunque, appare irragionevole la disparita' di trattamento che ne e' derivata, laddove nel contesto minorile e' consentito ai minori o ai giovani adulti detenuti in istituti minorili, di fruire di colloqui prolungati con caratteristiche tali da favorire momenti affettivi vissuti nell'intimita', ma una analoga possibilita' non e' prevista per gli adulti ospitati negli istituti per maggiorenni. Deve infine ricordarsi come lo spazio per le «visite coniugali» o intime sia particolarmente favorito nella cornice sovranazionale e auspicato in molte, sedimentate, Carte in materia di diritti delle persone detenute (tra queste si possono ricordare: la Raccomandazione (1997) 1340, dell'Assemblea Generale del Consiglio d'Europa; l'art. 24 Raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli stati membri sulle Regole penitenziarie europee; la Raccomandazione del Parlamento europeo n. 2003/2188 del 2004 - in part. art. 1 lettera c). Sono ormai molteplici i paesi nel mondo in cui i colloqui intimi sono parte della quotidianita' penitenziaria, e il loro numero si infittisce particolarmente restringendo il campo di ricerca ai paesi facenti parte del Consiglio d'Europa o ancora piu' dell'Unione europea. Si tratta di normative per altro introdotte da tempo, tutt'altro che sperimentali. Ai diretti confini continentali del nostro paese, ad esempio, le visite coniugali sono ovunque riconosciute, seppur con modalita' differenti ed in contesti detentivi assai diversi: in Francia, in Svizzera, in Austria e in Slovenia, e scelte analoghe, pur nella varieta' delle soluzioni concretamente adottate, si apprezzano largamente in altri paesi, anche dell'Unione europea, che presentano un sistema penitenziario, similmente al nostro, di dimensioni particolarmente ampie, come la Spagna. Sotto il profilo convenzionale, viene in rilievo l'art. 8 della CEDU, rispetto al quale il magistrato rimettente pure opina, in rapporto all'art. 117 comma 1 Cost., la sussistenza di un contrasto del disposto ostativo previsto dalla legge penitenziaria italiana con il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. E' noto che la Corte europea, nello scrutinare casi propostigli sulla materia, ha manifestato apprezzamento per gli Stati che adottino normative che consentano i colloqui intimi e una cornice per l'esercizio dell'affettivita' anche di tipo sessuale alle persone detenute. La Corte ha comunque riconosciuto uno spazio di discrezionalita' ai paesi componenti, ma lo stesso appare da declinarsi in relazione alle concrete modalita' che in ogni singolo Stato vengano volta a volta immaginate per consentire l'esercizio del diritto alla sessualita' quale elemento essenziale della propria vita familiare (si vd. da ultimo quanto affermato nel caso Leslaw Wojcik v. Polonia, 2021). La Corte ha ribadito in quella sede che non e' incompatibile con la Convenzione la negazione di visite intime e che esiste un margine significativo di apprezzamento da parte degli Stati membri circa le azioni da porre in essere in materia, avendo riguardo ai bisogni e alle risorse delle comunita'. Anche in casi precedenti (ad es. Aliev v. Ukraine, 2003), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali ha riconosciuto che il diniego da parte delle autorita' penitenziario di consentire al ricorrente di svolgere dei colloqui intimi con la moglie non era incompatibile con la Convenzione, trattandosi di una misura giustificata da ragioni di prevenzione del crimine. Nel caso che e' all'origine della presente questione di costituzionalita' non sembrano venire in rilievo esigenze di sicurezza connesse alla pericolosita' sociale del condannato, ne' derivanti in particolare dai contatti intimi che eventualmente fossero consentiti al detenuto con la propria compagna, ed e' dunque nell'assenza di una qualsiasi possibilita' di vederseli autorizzati, in forza di un divieto generalizzato imposto a tutte le persone detenute dalla legge penitenziaria italiana, e non collegato alla sussistenza di ragioni di sicurezza particolari, ad intravedersi una violazione dell'art. 8 (si e' invece gia' citato in precedenza un contrasto con l'art. 3) della Convenzione europea. Tale divieto appare in sempre piu' stridente contrasto con la Convenzione, a fronte del consolidarsi di quel sempre piu' ampio fronte di paesi membri che consentono visite coniugali ai detenuti, e che percio' proporzionalmente sembra ridurre il margine di apprezzamento esercitatile dal singolo Stato, quanto meno in ordine al mettere in campo, pur con adeguata regolamentazione ed opportune esclusioni, una disciplina che le facoltizzi, in assenza di pericoli per la sicurezza. Si e' consapevoli delle considerazioni svolte dalla Consulta con la sentenza 301/2012, quando fu sollevata una questione di costituzionalita' da parte del Magistrato di sorveglianza di Firenze, che condussero all'inammissibilita' della stessa. Si e' anche gia' evidenziato come in quell'occasione la Corte ebbe modo di prendere tuttavia posizione sul tema, che descrisse come «esigenza reale e fortemente avvertita», cogliendo l'occasione offertale per indirizzare al legislatore un esplicito monito ad intervenire: «Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce dalle indicazioni provenienti dagli atti sovranazionali richiamati dal rimettente (peraltro non immediatamente vincolanti, come egli stesso ammette) e dell'esperienza comparatistica, che vede un numero sempre crescente di Stati riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria». Tuttavia, dal dicembre 2012, sono trascorsi ormai dieci anni, un tempo specialmente lungo, senza che sul punto si sia pervenuti ad una effettiva modifica della normativa qui rilevante, in particolare con l'introduzione di colloqui intimi che, con opportuna modulazione del divieto di colloqui visivi svolti senza il controllo a vista del personale penitenziario, garantissero la riservatezza degli incontri. E' noto che siano stati proposti vari disegni di legge in materia, alcuni anche in tempi assai recenti. In un caso la legge delega 103/2017, all'art. 1 comma 85 aveva tra l'altro richiesto che fosse elaborata una disciplina normativa che comportasse il «riconoscimento del diritto all'affettivita' delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio» e la Commissione per la riforma dell'ordinamento penitenziario nel suo complesso (presieduta dal prof. Glauco Giostra) aveva redatto una articolata proposta di esercizio di quella delega (cfr. art. 18 del Progetto di riforma penitenziaria, significativamente con rubrica modificata in «colloqui, incontri intimi, corrispondenza e informazione»), ma la stessa non fu poi inserita nel testo dei decreti legislativi di esercizio della delega n. 123 e 124 del 2018. In quell'occasione rimasero soltanto interventi collaterali, gia' sopra citati, volti a consentire una maggior riservatezza dei colloqui, ma senza che fosse superato il blocco costituito dall'inevitabile controllo visivo di cui al vigente art. 18 ord. penit. Non si e', dunque, sino ad ora, giunti a rispondere a quella «esigenza reale e fortemente avvertita», di cui la Consulta si dimostro' gia' consapevole dieci anni or sono. Cio' costituisce un elemento di novita' ulteriore, rispetto alla questione di costituzionalita' presentata nel 2012, poiche' appunto si e' assistito ad una protratta inerzia del legislatore sul tema, pur a fronte di un gia' esplicito monito da parte della Corte costituzionale. D'altra parte, nel corso degli ultimi anni, puo' parallelamente prendersi atto di una giurisprudenza costituzionale che ha valorizzato, al di la' dello spazio stretto delle «rime obbligate», innanzitutto l'opportunita' di vagliare la sussistenza nella legge di eventuali parametri cui ancorare ragionevolmente la soluzione normativa ritenuta idonea perche' siano rispettati i principi costituzionali. In questa chiave e' richiesto che si operi uno scrutinio volto alla ricerca di punti di riferimento gia' presenti nel «sistema legislativo», affinche' il Giudice delle leggi possa intervenire riconducendo «a coerenza le scelte gia' delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze» (cfr. sentenza 236/2016 e, proprio in materia penitenziaria, sent. 113/2020, dove si rinviene nel sistema una soluzione gia' esistente che, ove estesa, risulta «idone(a) a eliminare il vulnus riscontrato, ancorche' non costituente l'unica soluzione costituzionalmente obbligata»). Nel caso che ci occupa si e' quindi visto come, nel sistema minorile (con conseguenze gia' apprezzabili, per quanto in precedenza accennato, in punto di irragionevole disparita' con i maggiorenni, ex art. 3 Cost), sia stata ormai introdotta una disciplina significativa e specifica in materia nell'art. 20 comma 3 e ss. decreto legislativo 121/2018. Dal punto di vista logistico, poi, si apprezza oggi, anche nella legge penitenziaria che concerne gli istituti per maggiorenni, una disposizione normativa, contenuta nello stesso art. 18 comma 3 ord. penit., che gia' prevede che siano adibiti locali atti a favorire una dimensione riservata del colloquio, che potrebbero opportunamente essere adattati anche per incontri intimi, purche' fosse rimosso l'ostacolo oggi rappresentato dalla previsione dell'inevitabile controllo a vista. D'altra parte e' noto come in tempi recenti siano stati sviluppati e realizzati anche progetti-pilota rispetto alla costruzione di strutture e prefabbricati all'interno degli istituti penitenziari, volti a concretizzare quanto gia' previsto dalla novella del 2018, un contesto che resta pero' sostanzialmente limitato proprio dall'immutato quadro normativo sin qui descritto. In tutti i casi, e per come l'esperienza della Casa Circondariale di Terni aiuta a dimostrare con quanto accaduto per la realizzazione della c.d. ludoteca e dell'area verde, accanto ad investimenti piu' strutturati, e' possibile immaginare anche interventi svolti «in economia», che possano riadattare spazi gia' esistenti e male o poco utilizzati, profittando dell'abilita' delle indispensabili unita' Mof, che gia' operano in tutti gli istituti penitenziari. Non ignora il magistrato di sorveglianza rimettente che, ancora, la giurisprudenza costituzionale ha in tempi piu' recenti elaborato soluzioni ulteriori, valutate come piu' efficaci della declaratoria di inammissibilita', per le ipotesi in cui persistano profili di discrezionalita' legislativa cosi' ampi da non consentire un intervento della Corte. Si fa riferimento a pronunce che, esibendo i profili di incostituzionalita' di una certa soluzione normativa, concedono un tempo al Parlamento per intervenire, riservandosi all'esito il vaglio di quanto operato dal legislatore. Con l'ordinanza 207/2018, la Consulta nell'adottare questa soluzione ricorda che «(i)n situazioni analoghe a quella in esame, questa Corte ha, sino ad oggi, dichiarato l'inammissibilita' della questione sollevata, accompagnando la pronuncia con un monito al legislatore affinche' provvedesse all'adozione della disciplina necessaria al fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato: pronuncia alla quale, nel caso in cui il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di illegittimita' costituzionale (ad esempio: sentenza n. 23 del 2013 e successiva sentenza n. 45 del 2015). Questa tecnica decisoria ha, tuttavia, l'effetto di lasciare in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalita' conseguente all'accertamento dell'inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimita' costituzionale, la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilita', mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare. Un simile effetto non puo' considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti.» (come noto la stessa tecnica e' stata ancora utilizzata con l'ord. 132/2020 e da ultimo, nel contesto penitenziario, con l'ord. 97/2021, e poi ancora con l'ord. 122/2022, cui ha fatto seguito il recente intervento legislativo costituito dal decreto-legge 162/2022). Nel caso che ci occupa, per come gia' visto, sono effettivamente trascorsi dieci anni, senza che sia giunto a maturazione un progetto legislativo idoneo a superare la criticita' segnalata con l'ordinanza di rimessione, una criticita' concernente un diritto fondamentale della persona, il cui esercizio e' attualmente conculcato nel delicatissimo contesto della privazione della liberta' in carcere in modo generalizzato per tutte le persone detenute, e rispetto ai quale la Consulta gia' indirizzo' al legislatore un espresso monito. Il mondo penitenziario, come noto particolarmente in sofferenza per il significativo sovraffollamento, e per la connessa difficolta' di costruire efficaci percorsi di presa in carico tempestiva ed individualizzata delle persone ristrette (con conseguenti ritardi anche nel predispone le condizioni per l'accesso ad eventuali permessi premio o misure alternative), e' per altro in questa stagione funestato dal moltiplicarsi delle problematiche legate alla salute mentale delle persone ristrette e dal sempre piu' elevato numero di suicidi riscontrati. Se e' evidente come esorbiti radicalmente dai confini della presente questione, per altro delimitata anche dalla rilevanza nel caso che occupa il magistrato remittente (dunque: possibilita' di svolgere incontri intimi a carattere anche sessuale con la compagna convivente), una valutazione concernente le cause di questi fenomeni, puo' dedursi, anche dalle scelte dell'amministrazione che, mediante varie circolari sul tema, ha affrontato il problema (vd. da ultimo circolare DAP 3696/6146 del 26 settembre 2022, in particolare §4.6), che il numero e la qualita' dei momenti di contatto dei detenuti con il mondo esterno, e segnatamente con i familiari, incide in modo particolare in termini positivi, contribuendo al benessere psicofisico della persona detenuta e riducendo il rischio suicidiario. Di fatto, per altro, si tratta di profili che ridondano in termini positivi sulla stessa onerosa gestione della sicurezza interna e, per le ragioni che gia' si e' gia' sopra provato a succingere, sulla capacita' della restrizione carceraria di contribuire alla risocializzazione di chi la subisca. In questa chiave il riconoscimento del diritto allo svolgimento di colloqui intimi con il/la partner sembra al rimettente inscriversi dunque nell'ambito delle questioni la cui risoluzione appare specialmente urgente. Da cio' deriva, dunque, la non manifesta infondatezza, ad avviso del magistrato di sorveglianza scrivente, della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18 ord. penit. nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13 comma 1 e 4, 27 comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117 comma 1 Cost., quest'ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e pertanto, presuppostane la rilevanza per l'odierno procedimento, deve sollevarsi questione di legittimita' costituzionale, che si ritiene non manifestamente infondata.