LA CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA 
                        di I grado di Genova 
          (ex Commissione tributaria provinciale di Genova) 
                              Sezione 2 
 
    Riunita in udienza il 13 settembre 2022  alle  ore  9,01  con  la
seguente composizione collegiale: 
        Pellegrini Domenico, presidente; 
        Morbelli Luca, relatore; 
        Castelli Franco, giudice; 
    in data 13 settembre 2022 ha pronunciato  la  seguente  ordinanza
sul ricorso n. 473/2022 depositato il 7 aprile 2022 proposto da  Coop
Liguria societa' cooperativa di consumo - 00103220091, difeso da: 
        Davide De Girolamo - DGRDVD77A24H501P; 
        Alberto Gallo - GLLLRT69A27D969H; 
        Federico Anderloni - NDRFRC86L28L483B; 
        Livia Salvini - SLVLVI57H67H501M. 
    Rappresentato da  Ferdinando  Pellegrini  -  PLLFNN64B02C415B  ed
elettivamente                   domiciliato                    presso
davidedegirolamo@ordineavvocatiroma.org contro Agenzia delle entrate,
Direzione  regionale  Liguria,   elettivamente   domiciliato   presso
dr.liguria.gtpec@pce.agenziaentrate.it,     avente     ad     oggetto
l'impugnazione di  Silenzio  Rifiut  Ires-Altro  2016  a  seguito  di
discussione in pubblica udienza. 
 
                     Elementi in fatto e diritto 
 
    La societa' Coop Liguria S.c.c. ha impugnato il  silenzio-rifiuto
formatosi in ordine alla istanza di rimborso Ires, presentata in data
19 luglio 2021 per il periodo d'imposta 2016, versata a  causa  della
parziale   indeducibilita'   dell'Imu,   relativa    agli    immobili
strumentali, dalla base imponibile ai fini Ires. 
    Per l'annualita' 2016, la societa' Coop Liguria S.c.c., in  veste
di capogruppo e societa' consolidante, ha optato  per  il  regime  di
tassazione consolidata con la Talea societa' di gestione  immobiliare
S.p.a.,  presentando  la  relativa  dichiarazione  dei  redditi   con
conseguente liquidazione e  versamento  dell'Ires  di  gruppo.  Nella
medesima  annualita',  le  due  societa'  disponevano  a  titolo   di
proprieta'  di  diversi  immobili   strumentali   sui   quali   hanno
regolarmente sostenuto l'onere dell'Imu. 
    Per lo stesso periodo di imposta, in ossequio all'art. 14,  comma
1, del decreto legislativo n. 23/2011 le societa'  del  gruppo  hanno
predisposto le proprie dichiarazioni annuali  dei  redditi  ed  hanno
proceduto alla deduzione dell'Imu per  i  soli  immobili  strumentali
nella percentuale consentita dalla norma (20% per il 2016). 
    Per l'annualita' in oggetto, il reddito d'impresa delle  societa'
partecipanti  ha  concorso  a  formare  il  reddito  imponibile   del
Consolidato  nazionale,  da  cui  e'  scaturita  un'Ires  di   gruppo
liquidata e pagata dalla Societa' Consolidante. 
    Ebbene,  l'Ires  pagata  da   Coop   Liguria   era,   in   parte,
riconducibile al reddito d'impresa corrispondente all'Imu non portata
in   deduzione   dalla   stessa   e   dalle   societa'   consolidate.
L'indeducibilita' di cui sopra  ha  comportato  un  maggior  onere  a
titolo di Ires consolidata per l'esercizio 2016. 
    Coop Liguria, in data  19  luglio  2021,  presentava  all'Agenzia
delle entrate un'apposita istanza di rimborso, diretta ad ottenere la
ripetizione della quota di Ires relativa all'Imu versata e  resa  non
deducibile ai sensi dell'art. 14, comma  1,  decreto  legislativo  n.
23/2011, nella propria veste di societa' consolidante. In tale  sede,
la societa' ricorrente rivendicava, con riferimento  all'Imu  versata
sugli immobili relativi all'impresa,  la  pacifica  natura  di  costo
inerente ed onere fiscale deducibile ex articoli 75 e 99 del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 917/86. 
    L'organo  dell'Agenzia  adito,  pur  avendo  ricevuto   la   gia'
menzionata istanza in data 19 luglio 2021,  non  ha  fatto  pervenire
risposta. 
    Di conseguenza, essendo trascorsi piu' di novanta giorni da  tale
data,  ai  sensi  dell'art.  21,  comma  2,  decreto  legislativo  n.
546/1992,  la  ricorrente  ha  impugnato  il  silenzio  dell'Ufficio,
ribadendo la richiesta  di  deducibilita',  a  fini'  Ires,  dell'Imu
versata in relazione ai beni immobili strumentali alla sua attivita'.
In subordine, la societa' ricorrente - nella denegata ipotesi che  il
giudice  adito  non   ritenesse   di   poter   direttamente   sancire
l'illegittimita'   del   silenzio   rifiuto,   postulando,    invece,
l'indeducibilita'  dell'Imu  -  sollecitava  il  medesimo  giudice  a
sollevare la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  14,
comma 1, del decreto legislativo 14 maggio 2011, n. 23. 
    L'Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Liguria, si e'
regolarmente   costituita   in   giudizio,   opponendo   le   proprie
controdeduzioni. 
    All'udienza pubblica del 13 settembre 2022 il ricorso e'  passato
in decisione. 
    Il Collegio ritiene la questione di illegittimita' costituzionale
dell'art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 maggio 2011, n. 23,
come sostituito dall'art. 1, comma 715, legge 27  dicembre  2012,  n.
147, secondo cui «L'imposta municipale propria relativa agli immobili
strumentali e' deducibile ai fini della determinazione del reddito di
impresa e del reddito derivante dall'esercizio di arti e  professioni
nella misura del 20%. La medesima imposta  e'  indeducibile  ai  fini
dell'imposta regionale sulle attivita' produttive», per contrasto con
gli articoli 53 e 3, nonche' 23 e 41 della Costituzione - rilevante e
non manifestamente infondata. 
    La questione e' rilevante. 
    A tal riguardo  occorre,  preliminarmente,  precisare  come,  per
costante   orientamento    della    giurisprudenza    costituzionale,
l'accertamento della  validita'  dei  presupposti  di  esistenza  del
giudizio principale e' prerogativa  del  rimettente,  spettando  alla
Corte costituzionale verificare esclusivamente che la valutazione del
giudice a quo sia avvalorata da una motivazione  non  implausibile  e
che  i  presupposti  di  esistenza   del   giudizio   non   risultino
manifestamente e incontrovertibilmente carenti nel momento in cui  la
questione e' proposta. (Corte costituzionale n. 262 del 2015,  n.  61
del 2012, n. 270 del 2010, n. 34 del 2010 e n. 62 del 1992). 
    In proposito,  non  hanno  pregio  le  eccezioni  preliminari  di
Agenzia delle entrate relative alla non  provata  strumentalita'  dei
beni immobili oggetto d'imposta, nonche' alla tardivita' dell'istanza
di rimborso. 
    Con riferimento alla prima  eccezione,  infatti,  e'  sufficiente
richiamare la documentazione in atti, tramite la quale e' data  piena
prova della  relazione  strumentale  esistente  tra  gli  immobili  a
disposizione della societa' e l'attivita' concretamente svolta  dalla
medesima. La ricorrente  svolge  attivita'  di  grande  distribuzione
commerciale e gli immobili costituiscono le sedi dei  punti  vendita.
Non sussiste pertanto alcun  dubbio  in  ordine  alla  strumentalita'
degli  immobili  de  quibus  rispetto  all'attivita'  imprenditoriale
svolta dalla ricorrente. 
    In  ordine  alla  seconda  eccezione  deve  osservarsi   che   il
versamento dell'Ires a titolo di  acconto  e'  avvenuto  in  data  30
novembre 2016 laddove l'istanza di rimborso e'  stata  presentata  in
data 19 luglio 2021. 
    In realta', trattandosi di versamento in  acconto  la  decorrenza
del termine per ottenere  il  rimborso  deve  essere  posticipata  al
momento del termine di versamento del saldo, non essendo chiaro  fino
al quel momento l'effettivo importo del tributo. E  rispetto  a  tale
momento l'istanza e' ritenersi tempestiva. 
    Cio'  posto  appare  indiscutibile  la   pregiudizialita'   della
questione di legittimita' costituzionale rispetto alla decisione  del
giudizio a quo. Se d'un canto, infatti, il primo  motivo  di  ricorso
risulta essere infondato, il  secondo  motivo  proposto  e',  invece,
correttamente radicato e la decisione sul punto non puo'  prescindere
dal vaglio di legittimita' della summenzionata norma, atteso  che  il
diritto  al  rimborso  sarebbe  riconosciuto  ove  la  questione   di
legittimita' costituzionale fosse accolta, laddove lo stesso  sarebbe
negato ove la stessa questione fosse respinta. In  altri  termini  la
decisione  della  causa  non   puo'   prescindere   dall'applicazione
dell'art. 14 del decreto legislativo n. 23/2011. 
    La questione e' non manifestamente infondata. 
    La  disposizione  di  cui  all'art.  14,  comma  1,  del  decreto
legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  nella  formulazione  applicabile
ratione temporis alla  fattispecie  contrasta  con  il  principio  di
capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    In base a detto principio, il presupposto di  imposta,  anche  se
individuato discrezionalmente dal legislatore, deve sempre  riferirsi
a   «indici   concretamente   rilevatori   di    ricchezza»    (Corte
costituzionale n. 16/2002; n. 229/1999 n. 143/1982); il tributo  deve
dunque colpire un presupposto economico effettivo. In applicazione di
tale principio, la tassazione diretta che grava sulle  societa'  deve
essere commisurata al reddito netto  effettivo,  calcolato  al  netto
delle spese inerenti alla produzione del reddito stesso. E  dunque  i
costi e gli oneri sostenuti, ove presentino i requisiti di  inerenza,
certezza e  di  oggettiva  determinabilita',  devono  necessariamente
poter essere dedotti dalle entrate lorde; tale meccanismo applicativo
non ammesso in misura  nettamente  maggioritaria  (80%)  dalla  norma
impugnata. 
    L'indeducibilita' totale  o  parziale,  infatti,  e'  ammissibile
soltanto con riguardo a costi che presentano elementi  di  incertezza
nell'inerenza o nella determinazione, o ancora qualora sia fondato il
pericolo che la deduzione di tali costi rischi di favorire l'elusione
o l'evasione fiscale; e cosi', come rilevato in dottrina,  «non  puo'
mai essere, quindi, dichiarato indeducibile, neanche parzialmente, il
costo di un fattore ordinario, certo ed essenziale per la  produzione
del reddito [...], pena la sicura violazione (almeno)  del  principio
di capacita' contributiva, dovendo  sempre  sussistere  una  ragione,
ovvero un rapporto, fra novella ricchezza e prelievo impositivo». 
    Per le societa', la spesa per il pagamento dell'Imu  deve  essere
considerata un costo inerente alla produzione del reddito. 
    Tale  esborso,  infatti,  deriva  dal  possesso  degli   immobili
strumentali della societa'; inoltre esso e' un costo  certo,  la  cui
misura e' determinata d'imperio  dalla  legge,  senza  alcuno  spazio
discrezionale lasciato all'imprenditore. 
    L'art. 14, comma 1, del decreto  legislativo  n.  23/2011  -  nel
testo applicabile al presente giudizio - nega in misura maggioritaria
la deducibilita' dell'Imu dalle imposte sui redditi; in questo  modo,
la base imponibile Ires non e' depurata da una  spesa  sostenuta  per
produrre il reddito stesso. La base imponibile  Ires  viene  cosi'  a
comporsi di una ricchezza soltanto  virtuale,  che  corrisponde  alla
mancata totale deduzione di un costo certo e inerente, qual'e' quello
dell'imposta municipale unica. 
    Per effetto della norma impugnata, pertanto, l'Ires non  colpisce
piu'  il  reddito  netto  prodotto  dall'impresa,  ma  colpisce   una
grandezza  diversa,  cioe'  il  reddito  al   lordo   delle   imposte
indeducibili:  tale  reddito  almeno  in  parte  non  rappresenta   e
tantomeno non esprime una  forza  economica  concreta.  E  dunque  la
tassazione ai fini delle imposte dirette va a gravare su  un  reddito
d'impresa in  parte  fittizio,  in  contrasto  con  il  principio  di
capacita' contributiva. 
    La  disposizione  di  cui  all'art.  14,  comma  1,  del  decreto
legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  nella  formulazione  applicabile
ratione temporis alla fattispecie contrasta con il divieto di  doppia
imposizione di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    A causa dell'applicazione di tale disposizione,  la  societa'  e'
costretta a pagare, di fatto, due volte  un'imposta  sulla  base  del
medesimo presupposto: la proprieta' del bene immobile, infatti, da un
lato determina  l'obbligo  di  versare  l'Imu,  dall'altro  determina
l'impossibilita' di dedurre tale costo, che dunque concorre a formare
la base imponibile sulla quale e' liquidata l'imposta sui redditi. 
    Si tratta dunque di una violazione del principio del  divieto  di
doppia   imposizione,   principio   costantemente   affermato   dalle
disposizioni legislative - da ultimo ribadito dalla legge n.  42/2009
all'art. 2, primo comma, lettera o) - ma soprattutto  estrinsecazione
del piu' alto principio costituzionale di capacita'  contributiva  di
cui all'art. 53 della Costituzione. 
    Tra l'altro, la doppia o plurima/imposizione tributaria  si  pone
in contrasto con l'art. 53 della Costituzione anche perche' essa puo'
condurre all'esaurimento della  capacita'  contributiva,  o  comunque
puo' costituire un carico eccessivo  che  supera  il  limite  massimo
tollerabile per il prelievo tributario. E dunque, nel caso di specie,
la mancata deducibilita' dell'Imu conduce di fatto a un  fenomeno  di
doppia imposizione che non e' consentito dalle norme costituzionali. 
    La  disposizione  di  cui  all'art.  14,  comma  1,  del  decreto
legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  nella  formulazione  applicabile
ratione temporis alla  fattispecie  contrasta  con  il  principio  di
ragionevolezza ex articoli 3 e 53 della Costituzione. 
    L'Ires, in base all'art. 75, comma 1, del decreto del  Presidente
della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, «si  applica  sul  reddito
complessivo netto». 
    L'art. 14, comma 1, del decreto legislativo  n.  23/2011  non  si
concilia pero' con tale previsione. 
    Non puo', invero, essere considerato netto un reddito da cui  non
si possono dedurre, se non in misura marginale, i costi sostenuti per
il pagamento dell'Imu.  E,  dunque,  tale  irragionevole  scelta  del
legislatore non solo viola il principio di capacita' contributiva, ma
si pone altresi' in contrasto  con  il  piu'  generale  principio  di
ragionevolezza,  poiche'  la  disciplina   normativa   che   riguarda
l'imponibile (per cui non e' consentita  la  deducibilita'  dell'Imu)
non e' coerente con la struttura stessa del presupposto  dell'imposta
(che e', come ricordato, il «reddito complessivo netto»). 
    In   materia   tributaria,   il   legislatore   gode    di    una
discrezionalita'  ampia  nel  fissare   il   presupposto   d'imposta;
tuttavia, nell'individuazione dei  singoli  elementi  che  concorrono
alla  formazione  della  base  imponibile  tale  discrezionalita'  si
restringe in modo considerevole, perche' e' tenuto a configurare  una
base  imponibile  che  sia  ragionevole  e   coerente   rispetto   al
presupposto prescelto. 
    Si tratta del resto di una declinazione del principio generale di
ragionevolezza di cui all'art. 3, comma primo, della Costituzione, in
base al quale  quando  il  legislatore  individua  una  finalita'  da
perseguire, questa deve essere poi sviluppata in modo coerente  dallo
stesso (Corte costituzionale n. 89/1996). 
    La disciplina in base a  cui  si  configura  la  base  imponibile
dell'Ires dovrebbe essere tale da  colpire  il  «reddito  complessivo
netto». 
    Invece l'art. 14, comma 1, del  decreto  legislativo  n.  23/2011
limita a una percentuale fissa la deducibilita' di un costo  qual  e'
il pagamento dell'Imu; disposizioni di questo tipo derogano  rispetto
al presupposto d'imposta individuato dalla legge e, in assenza di una
valida   giustificazione,    determinano    la    violazione    della
ragionevolezza della disciplina del tributo imposta dagli articoli  3
e 53 della Costituzione. 
    La  disposizione  di  cui  all'art.  14,  comma  1,  del  decreto
legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  nella  formulazione  applicabile
ratione temporis alla  fattispecie  contrasta  con  il  principio  di
uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e con la liberta' di
iniziativa   economica   privata,   tutelata   dall'art.   41   della
Costituzione. 
    La disposizione censurata si pone, inoltre, in contrasto  con  il
principio di eguaglianza formale sotto un diverso profilo. 
    La mancata deducibilita', infatti, ha un impatto sul piano  della
cd. equita' orizzontale (i soggetti che  hanno  la  stessa  capacita'
contributiva  devono  essere  tassati   in   modo   eguale)   perche'
irragionevolmente sottopone a maggiore tassazione la societa' che  si
serve di immobili strumentali di proprieta'  rispetto  a  quella  che
invece utilizza immobili strumentali che non sono di sua  proprieta':
quest'ultima puo' infatti dedurre tutti i costi e gli oneri  relativi
agli immobili, mentre la societa' che utilizza immobili di proprieta'
non puo', in grande parte dedurre l'onere tributario che grava  sugli
stessi. 
    A tal proposito si specifica  che  non  e'  la  natura  di  onere
tributario a giustificare tale  differenza  in  relazione  al  regime
della deducibilita'. 
    Infatti, la Tasi e' deducibile dal conduttore e dal proprietario;
e si tratta di un'imposta che ha un presupposto pressoche' identico a
quello dell'Imu (il possesso o la detenzione di  immobili),  con  cui
pure condivide le regole di determina della base imponibile. 
    L'indeducibilita', per una  misura  rilevantissima  pari  all'80%
conduce a un'ingiustificata disparita' di  trattamento  tra  societa'
che, a parita' di reddito netto, sono state assoggettate  per  l'anno
di riferimento ad un diverso carico fiscale soltanto per  la  diversa
incidenza del tributo indeducibile: la misura  dell'Ires  e'  dipesa,
tra l'altro, dal presupposto di un diverso  tributo  e  soltanto  per
quelle societa'  che  erano  proprietarie  di  immobili  strumentali;
cosi', coeteris paribus, risultava maggiormente colpita  la  societa'
che ha dovuto corrispondere l'Imu e non invece altri tipi di spese. E
tale disparita' di trattamento non appare giustificata da  differenze
qualitative apprezzabili del costo in esame rispetto alla generalita'
dei costi deducibili, cosi' ponendosi  in  contrasto  con  l'art.  3,
primo comma, della Costituzione. 
    Tale irragionevole disparita' di trattamento penalizza,  inoltre,
le societa' che  hanno  scelto  -  anche  in  tempi  risalenti  -  di
investire parte del proprio capitale o dei propri utili nell'acquisto
di immobili strumentali, cosi' rendendo migliori da un punto di vista
fiscale altre scelte di investimento degli utili e senza che  vi  sia
un motivo ragionevole. 
    Non c'e' infatti  ragione  per  gravare  le  societa'  che  hanno
investito negli immobili strumentali di un  carico  fiscale  maggiore
rispetto a quelle che hanno, invece, deciso di non dare agli utili la
medesima  destinazione  (e  possono   beneficiare,   inoltre,   della
deducibilita' delle spese  sostenute  per  l'eventuale  locazione  di
immobili funzionali). 
    La disposizione censurata, pertanto, discriminando le societa' in
ragione di scelte di investimento senza che vi sia un valido  motivo,
si pone in contrasto anche con la liberta'  di  iniziativa  economica
privata, tutelata dall'art. 41 della Costituzione.