CORTE D'ASSISE DI APPELLO DI TORINO I Sezione Ordinanza di sospensione del procedimento articoli 134 della Costituzione, 23 e segg. legge 11 marzo 1953, n. 87. La prima sezione della Corte di Assise di Appello di Torino composta da: dott.ssa Cristina Domaneschi - Presidente; dott.ssa Flavia Panzano - consigliere est.; sig. Claudio Ramaro - giudice popolare; sig. Marco Marengo - giudice popolare; sig.ra Morena Andrian - giudice popolare; sig.ra Monica Bergamasco - giudice popolare; sig. Massimiliano Manai - giudice popolare; sig. Mauro Doppioni - giudice popolare. Nel procedimento contro C. A. (gia' P.), nato a ..., il ..., residente a ..., via ...,; presente difeso di fiducia dall'avvocato Claudio Strata del Foro di Torino; Imputato Del delitto previsto e punito dagli articoli 575, 577, comma I, n. 1 del codice penale poiche' con condotta consistita nello sferrare numerose e ripetute coltellate all'indirizzo della vittima, colpendolo in zone vitali del corpo, ha cagionato il decesso del padre, G. P., determinato da plurime lesioni penetranti da punta e da taglio al tronco ed al collo, una delle quali, costituita da ferita toracica anteriore localizzata in regione sternale, aveva leso l'aorta ascendente, in modo da provocare un emipericardio massivo ed un conseguente tamponamento cardiaco; con l'aggravante di avere commesso il fatto contro l'ascendente. Commesso a ..., nella data del ... Appellante il PM di Torino Avverso la sentenza della Corte di Assise di Torino del 24 novembre 2021 che Visto l'art. 530 c.p.p. Assolveva A. P. dal reato a lui ascritto perche' il fatto non costituisce reato. Visto l'art. 262 c.p.p. Disponeva la restituzione agli aventi diritto dei cellulari in sequestro. Visto l'art. 544 c.p.p. Indicava in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione. Parte civile M. P., elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia avv. Federico Squartecchia del Foro di Pescara. Conclusioni delle parti PG: in riforma della sentenza impugnata, chiede che l'imputato venga dichiarato responsabile del reato ascrittogli e condannato alla pena di anni quattordici di reclusione, previo riconoscimento della diminuente della seminfermita' e delle circostanze attenuanti generiche. Rimette alla valutazione della Corte la sussistenza dei presupposti per sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 577 c.p. Parte civile: chiede che venga affermata la responsabilita' penale dell'imputato e che lo stesso venga condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, come da conclusioni scritte. Difesa: chiede la conferma della sentenza appellata; in subordine chiede: che l'imputato venga assolto, ritenuta la sussistenza di un eccesso colposo non punibile per difetto di colpa; che venga riconosciuta la scriminante dello stato di necessita'; che venga sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 52, secondo comma, del codice penale nella parte in cui non estende la presunzione di proporzionalita' anche all'ipotesi di violenza domestica; che venga riconosciuta la totale incapacita' di intendere e di volere dell'imputato al momento del fatto; che, in caso di condanna, riconosciuta la seminfermita', vengano riconosciute le attenuanti di cui agli articoli 62-bis, 62 n. 1, 2 e 5 prevalenti sull'aggravante ed, eventualmente, che venga sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 577 c.p. All'esito dell'odierna camera di consiglio, la Corte ha pronunciato la seguente ordinanza. La Corte, anche sulla base delle sollecitazioni provenienti dalle parti, sospesa la camera di consiglio, ritiene di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 577, comma 3 c.p., nella parte in cui prevede che le circostanze attenuanti generiche e quella della provocazione, diverse da una di quelle previste dagli articoli 62, numero 1, 89, 98 e 114 c.p., concorrenti con la circostanza aggravante di cui al primo comma, numero 1, non possano essere ritenute prevalenti rispetto a questa, come previsto dalla legge n. 60 del 19 luglio 2019 («Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale a altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere»), per contrasto e violazione dei principi sanciti agli articoli 3, comma 1 e 27, comma 3 della Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell'offensivita' della condotta accertata. Rilevanza della questione. C. A. (gia' P.) veniva chiamato a rispondere del delitto di cui agli articoli 575, 577, comma 1, n. 1 del codice penale poiche', sferrando numerose e ripetute coltellate all'indirizzo del padre, G. P., che determinavano plurime lesioni penetranti da punta e da taglio al tronco ed al collo, una delle quali ledeva l'aorta ascendente, ne cagionava la morte; fatto aggravato perche' ai danni dell'ascendente, commesso in C ... il ... La Corte di Assise di Torino, con sentenza del 24 novembre 2021, assolveva l'imputato perche' il fatto non costituisce reato, ritenuta ravvisabile la scriminante della legittima difesa. A. C., alle ore ... del ... chiamava il 112, presentandosi e dicendo di essersi armato di un coltello, di avere avuto una colluttazione con il padre, che voleva uccidere la madre, il fratello e lui stesso e di averlo probabilmente ucciso. Gli operanti, che entravano nell'alloggio solo dopo i sanitari che, loro malgrado, avevano alterato la scena del crimine (come piu' volte messo in evidenza dal primo giudice), trovavano il cadavere di P. G. a terra, tra l'ingresso e la sala, riverso sulla schiena, in un'ampia pozza di sangue, con numerose ferite da taglio inferte con dei coltelli che venivano ritrovati sia in cucina che sotto il suo corpo; intorno al tavolo vi erano abbondanti tracce di sangue e diverse orme di piedi. Alex si presentava sconvolto, coperto di sangue e con una ferita alla mano; interrogato la stessa notte, affermava di essere responsabile del delitto, che diceva di aver commesso per legittima difesa, in quanto il padre, abitualmente maltrattante nei confronti soprattutto della moglie, quella sera aveva dato in escandescenze ed, essendosi ad un certo punto diretto in cucina, temendo che volesse armarsi, lo aveva anticipato, spingendolo e prendendo un coltello con il quale lo aveva colpito per primo. Sottoposto a perizia psichiatrica, l'imputato veniva trovato affetto da un disturbo di adattamento post traumatico, da ritenersi all'origine di una sorta di viraggio interpretativo di quanto gli accadeva intorno, che aveva scemato, senza escluderla, la sua capacita' di intendere e di volere. All'esito dell'istruttoria dibattimentale la prima Corte, premesso che a dispetto della tesi sostenuta dall'accusa, per escludere la legittima difesa sarebbe stata necessaria la prova in positivo che il delitto fosse avvenuto nei confronti di una vittima disarmata e non pericolosa, ripresi i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimita' sulla scriminante in questione, riteneva fosse emerso con certezza che l'imputato si fosse determinato ad agire uccidendo il padre, nella ragionevole convinzione, mantenuta fino all'ultimo colpo, di non avere altra scelta per impedirgli di uccidere, a sua volta, lui stesso e i suoi familiari. Proprio le sue dichiarazioni, relative anche al clima di tensione, ansia e paura che il padre aveva imposto a figli e moglie nel corso della convivenza, secondo il primo giudice, contenevano indicazioni fondamentali per la ricostruzione della dinamica: quel ..., infatti, l'uomo, geloso di un collega della moglie, aveva aggredito quest'ultima, appena tornata a casa dal lavoro e aveva continuato a insultarla e minacciarla anche nel corso della cena; quando, poi, era uscito dalla propria camera, ove si era chiuso per lungo tempo, per parlare al telefono con il fratello e la madre, si era subito diretto con fare aggressivo verso la moglie. Era stato allora che l'imputato era intervenuto per proteggere la donna, ingaggiando una colluttazione cui aveva partecipato anche il fratello L. e quando l'uomo, dopo avere invitato i figli a scendere sotto, si era diretto in cucina per armarsi, lo aveva preceduto, prendendo un coltello e colpendolo ripetutamente, non sapeva dire con quanti colpi ne' con quante armi ne', ancora, cosa facessero la madre e il fratello in quel momento, avendo conservato di tale fase solo il ricordo di alcune immagini non collegate tra loro (tra di esse quella del padre armato), essendo, tuttavia, certo di avere agito solo per difendere se' e i suoi familiari. Il ragazzo, che il primo giudice riteneva pienamente credibile, pertanto, avendo visto il padre (che aveva appena prima aggredito moglie e figli e che stava ancora urlando minacce di morte) scattare improvvisamente verso la cucina, in direzione del cassetto dei coltelli, aveva agito nella certa convinzione che l'uomo sarebbe riuscito ad armarsi per compiere la piu' volte paventata strage di tutta la sua famiglia. Che poi non ricordasse quello che era avvenuto dopo, era perfettamente giustificabile come anche evidenziato dagli psichiatri, che lo avevano sottoposto ad accertamenti: si trattava, infatti, di una dismnesia direttamente correlabile alla sua condizione di mente, cosi' da non poter essere valutata in senso a lui sfavorevole. La genuinita' delle dichiarazioni dell'imputato, ad avviso della prima Corte, aveva, poi, trovato ampi riscontri nelle ulteriori acquisizioni probatorie, idonee a dimostrare come quella sera, trovandosi in pericolo di vita e dovendo prendere, nell'arco di un solo istante, una decisione determinante, avesse spinto il padre, precedendolo in cucina, si fosse armato e avesse inflitto il primo colpo per non soccombere. Il fratello L., dopo avere raccontato, in termini sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell'imputato, che quella sera il padre era particolarmente aggressivo e pericoloso, riferiva che, mentre urlava minacce di morte nei confronti loro e della madre, si era diretto in cucina per prendere un coltello; era stato allora che suo fratello lo aveva spinto sulla porta, afferrando per primo un coltello con la punta arrotondata, con il quale lo aveva colpito. Di quanto avvenuto dopo aveva ricordi lacunosi, essendogli rimasta memoria solo di un colpo inferto dal fratello con un coltello a punta tonda, dell'immagine del padre con un coltello in mano, di un tonfo a terra e della telefonata di A. ai carabinieri. Sebbene nel corso della sua deposizione il PM avesse mosso al teste numerose contestazioni la prima Corte, pur rilevando che le principali difformita' rispetto alle precedenti dichiarazioni riguardavano circostanze rilevanti (che il padre si fosse diretto verso la cucina mentre proferiva minacce di morte e che il fratello si fosse armato per primo; che la madre in quel momento si trovasse gia' in bagno e che il primo colpo avesse attinto la vittima alle spalle), riteneva che la versione dei fatti resa in dibattimento fosse maggiormente credibile, in quanto il teste aveva spiegato in maniera plausibile le richiamate difformita', essendosi trovato in stato di shock quando era stato sentito dai carabinieri, che non gli avevano riletto il verbale e ben potevano avere equivocato le sue risposte. Coerente con il racconto dei figli era anche quello della madre, che aveva descritto la rabbia del marito, che quel giorno l'aveva vista in atteggiamento amichevole con un collega all'interno del supermercato nel quale lavorava e riferito della lite sorta fin dal suo rientro a casa, dell'aggressione fisica successiva alle telefonate del marito ai familiari e della colluttazione con i suoi figli, quando lei si era chiusa in bagno; solo quando ne era uscita aveva visto quanto successo. Anche in questo caso il primo giudice giustificava le numerose contraddizioni con la precedente deposizione, che le contestazioni avevano fatto emergere, con lo stato di shock nel quale versava quando era stata sentita nell'immediatezza dei fatti e con la mancanza di approfondimento del suo primo esame. I due testi poi, ad avviso della Corte di primo grado, avevano descritto in modo coerente e dettagliato i gravissimi maltrattamenti subiti per anni da parte di un uomo patologicamente geloso, che tendeva a controllare e isolare la propria moglie e che utilizzava la violenza e l'aggressione come modalita' tipica nei rapporti intra-familiari. Tale situazione, protratta nel tempo, aveva creato un dissidio insanabile tra i coniugi e una ingiusta assunzione da parte dei figli del ruolo di guardie del corpo della madre, che non lasciavano mai sola e difendevano dai piu' gravi attacchi del genitore, registrandone le esplosioni di rabbia, subite passivamente per il timore di ben piu' gravi conseguenze (e per questo non avevano mai sporto denuncia). D'altra parte gli esiti delle consulenze e della perizia cui era stato sottoposto C. A., allo scopo di accertare la sua capacita' di intendere e di volere al momento del fatto, davano atto dell'esistenza di «un disturbo dell'adattamento a prevalente componente ansiosa associata a screzi posi-traumatici in soggetto con un assetto di personalita' disarmonico per immaturita' affettiva e tratti rigidi riconducibili al cluster B dei disturbi di personalita'», condizione stress-reattiva che «ha inciso in modo specifico sull'evoluzione personologica del ragazzo, interferendo con il processo maturativo e comportando la strutturazione di un assetto rigido e disarmonico della personalita', soprattutto per quanto concerne la sfera emotivo-affettiva». A tale assetto di personalita' si correlava una vulnerabilita' interpretativa, consistente nel vivere le situazioni in modo stressante, tendendo a colorare in senso potenzialmente piu' pericoloso la realta' esterna, che, tuttavia, non alterava del tutto la percezione della realta' (cui non attribuiva un significato completamente falso) e che portava a ritenere «scemate grandemente le capacita' di intendere e di volere, ma a non escluderle del tutto». Cio' premesso e stigmatizzata piu' volte la superficialita' delle indagini, la prima Corte riteneva accertato che: vi fosse stata una colluttazione (in tal senso le numerose impronte intorno al tavolo); la vittima fosse stata attinta da 34 colpi, che avevano provocato lesioni da punta e taglio (dieci al collo, di cui otto anteriori o laterali e due posteriori e tutte le altre al tronco, ad eccezione di una alla superficie laterale del braccio sinistro, otto anteriori, di cui quattro al torace e quattro all'addome e altre quindici dorsali), tutte con caratteristiche di vitalita'; la causa della morte fosse da ricondursi alla coltellata inferta in zona toracica anteriore localizzata in regione sternale, che aveva determinato una lesione dell'aorta, provocata con un coltello, la cui lama spezzata era stata rinvenuta nel corso dell'autopsia; il P. fosse in stato di ubriachezza, con una concentrazione alcolemica nel sangue pari a 1,32 g/L.; tutte le ferite e, in particolare, quella micidiale, fossero state inferte nel corso e al culmine di un combattimento tra due persone armate, di cui una lottava per difendere se' stessa e i suoi cari. Era certo, infatti, che fossero stati estratti dal cassetto della cucina sei coltelli (quelli che erano stati trovati a terra), che ne fossero stati utilizzati almeno cinque - due a punta tonda, trovati in cucina piegati, uno a punta acuminata, anch'esso in cucina spezzato (lama trovata in sede di autopsia), due a punta acuminata rinvenuti accanto al cadavere - e che fossero state riscontrate sul cadavere trentaquattro ferite, tutte vitali, molte delle quali con andamento parallelo e a sinistra, una sola, quella inferta con il coltello spezzato, rapidamente mortale, in assenza di lesioni da difesa (solo una o due potrebbero averne le caratteristiche). Non era, invece, provato che tutti i coltelli fossero stati presi e branditi da A. C. e non poteva, pertanto, escludersi che G. P. si fosse avvicinato al cassetto dei coltelli: sarebbe, infatti, irragionevole pensare che questi, furioso dopo essere stato spinto dal figlio, fosse rimasto immobile mentre l'altro andava in cucina e non avesse, invece, cercato di armarsi anche dopo essere stato colpito. Le impronte di sangue lasciate intorno al tavolo e i rumori percepiti dai vicini provavano, invece, l'esistenza di una colluttazione e l'assenza di lesioni da difesa, di segni di fuga e il ritrovamento di due coltelli a punta accanto al cadavere dimostravano che ciascuno dei due protagonisti dell'azione impugnasse un coltello (ne' poteva ritenersi, anche alla luce di un'unica chiara traccia di impronte di piedi in andata e ritorno dalla cucina, che A. avesse interrotto la sua azione delittuosa per armarsi di nuovo). Di conseguenza, l'unica ricostruzione possibile era che A. avesse visto il padre dirigersi, dopo aver proferito minacce di morte con espliciti riferimenti ad armi da taglio, verso il cassetto dei coltelli della cucina e, allora, avendo compreso che stava per mettere in atto i piu' volte annunciati propositi omicidiari, lo avesse spinto correndo verso quel cassetto, afferrando la prima cosa che gli era capitata ovvero un coltello con punta tonda inoffensivo, quindi avesse sferrato un primo colpo nel tentativo di difendere se', la madre e il fratello. Si trattava, probabilmente, del colpo inferto alle spalle, mentre il padre si avvicinava al cassetto dei coltelli, di cui l'imputato aveva riferito nelle prime dichiarazioni; a quel punto P. G. era riuscito a prendere almeno un coltello, reiterando le sue minacce, come confermato dal figlio L. I due, quindi, erano entrambi armati e si erano fronteggiati, girando attorno al tavolo (a tale fase dovevano ricondursi le 5 o 6 coltellate al tronco, con angolazioni diverse e le tracce ematiche) e che si fosse trattato di un combattimento tra due soggetti entrambi armati era dimostrato dall'assenza di lesioni da difesa e dal fatto che nessuno dei due si fosse allontanato dalla stanza. In questo contesto A. infliggeva al padre l'unico colpo mortale al cuore, che provocava sia la rottura del coltello che una lesione dell'aorta e una rapida morte e proprio il fatto che si trattasse dell'unica ferita profonda, inferta con una forza nettamente superiore a tutte le altre, rendeva altamente verosimile che il colpo fosse stato sferrato mentre G. P. si stava, a sua volta, scagliando con forza contro l'imputato nel tentativo di colpirlo. Ricostruita in questi termini la dinamica della prima fase dell'accaduto, ad avviso della prima Corte, era dimostrato che l'imputato avesse agito per legittima difesa, in quanto il padre, dopo aver proferito minacce di morte, aveva iniziato un'azione esecutiva recandosi verso il cassetto dei coltelli e, dopo essere stato colpito una prima volta senza effetto, impugnando un coltello a punta gli aveva gridato che li avrebbe davvero uccisi, ingaggiando una colluttazione armata. Chiunque e senza alcun bisogno di un viraggio interpretativo angosciante, avrebbe percepito come altamente pericolosa una simile situazione. Appena dopo questa ferita - l'unica mortale - a G. P. restavano ancora alcune decine di secondi, forse un minuto, di vita e A. C., rimasto disarmato (aveva in mano solo il manico di plastica del coltello a punta, che si era appena spezzato), si recava in cucina (lasciando tracce di piedi insanguinati in duplice direzione) a prendere un altro coltello, gettando a terra il manico di quello rotto, non a caso, rinvenuto in quel locale. Quindi era tornato indietro con uno dei due coltelli a punta acuminata rinvenuti accanto al cadavere (l'altro, rinvenuto sempre a terra accanto al corpo, era quello che impugnava il padre) e aveva ripreso a colpire rapidamente il suo antagonista, con colpi veloci e poco profondi, nessuno dei quali mortale, sulle parti del corpo che quello via via lasciava esposte, come ipotizzato dal consulente della difesa, che aveva ritenuto che la ferita sternale fosse stata una delle prime e, dunque, che vi fosse stato prima un confronto frontale, poi il soggetto si era accasciato, offrendo all'aggressore dorso e collo (ad ulteriore conferma vi erano il manico spezzato trovato in cucina e le orme di sangue oltre alle impronte sul cassetto). L'imputato, quindi, aveva preso e utilizzato tre coltelli: il primo a punta tonda per un primo colpo di minima lesivita', inferto quasi certamente nei pressi del cassetto della cucina, il secondo a punta acuminata, la cui lama si era spezzata e, infine, un altro a punta acuminata con il quale, nell'ultima fase dell'azione, infliggeva circa 25 coltellate, prive di efficacia causale rispetto all'evento morte. In definitiva, allora, doveva ritenersi che egli avesse agito in stato di legittima difesa: invero, dopo una giornata nella quale, pur abitualmente violento e minaccioso, il padre aveva tenuto condotte anomale, incitando i due fratelli a farsi sotto e minacciando di ucciderli, avendolo visto dirigersi verso la cucina, l'imputato era stato costretto ad anticiparlo, dandogli una spinta, nella ragionevole convinzione, determinata dalla condotta ingiusta dell'altro, di dover difendere se stesso e i suoi cari da un pericolo imminente e in assenza di alcuna valida alternativa, valutazione che non poteva dirsi frutto di errore, di una distorsione interpretativa o di un suo convincimento soggettivo. Quanto, poi, all'ultima fase dell'azione lesiva, posto che non sapeva di aver gia' sferrato il colpo mortale, era comprensibile che, ritrovandosi tra le mani solo il manico del coltello spezzato, avesse temuto di essere rimasto disarmato, cosi' si era armato di un altro coltello a punta acuminata e aveva colpito il padre prima al tronco (quando l'uomo era in piedi e verosimilmente impugnava ancora l'arma) e poi, quasi come riflesso automatico, al collo e al dorso, mentre l'altro si piegava su se stesso e si accasciava al suolo. Queste ultime ferite - circa venticinque - inferte in rapidissima sequenza dopo l'unica ferita mortale, non particolarmente profonde, con andamento parallelo, non avevano avuto alcuna efficacia causale nel provocare la morte ed erano state inferte mentre il P. stava morendo e non era in grado di proteggersi. E se, da un punto di vista oggettivo, in quel momento non vi era piu' la necessita' di difendersi, tuttavia la doverosa valutazione ex ante escludeva che l'imputato avesse ecceduto volontariamente i limiti della scriminante o anche solo agito a seguito di un errore non giustificabile, in quanto era ancora animato dalla volonta' di difendersi. La condotta tenuta da A., quindi, poteva scindersi in due fasi: la prima che andava dalla spinta al colpo mortale, compiuta in una situazione oggettiva pienamente integrante la legittima difesa e la seconda, oggettivamente non indispensabile a difendersi, ma soggettivamente caratterizzata dalla convinzione (fin da subito esplicitata) di trovarsi ancora in una situazione di legittima difesa, per la quale poteva dirsi sussistente un'ipotesi di scriminante putativa. Peraltro, gli ultimi venticinque fendenti, non micidiali, collocati come successivi alla coltellata mortale erano ininfluenti rispetto al verificarsi dell'evento e, dunque, inidonei a modificare il giudizio iniziale e anche solo a configurare l'eccesso colposo. Interposto appello da parte del pubblico ministero, questa Corte, condividendone le argomentazioni, ritiene di dovere, invece, affermare la responsabilita' dell'imputato per omicidio volontario, non reputando ravvisabile, contrariamente al primo giudice e come sara' meglio chiarito nella sede di merito, un'ipotesi di legittima difesa reale o putativa. L'imputato nel corso del primo interrogatorio, reso alle ... del ... (poi confermato in sede di convalida e acquisito in atti, non essendosi sottoposto all'esame in nessuno dei gradi di giudizio), premessa la descrizione del contesto familiare nel quale viveva, caratterizzato dai maltrattamenti del padre ai danni della madre, dalla sua ossessiva gelosia, dal controllo opprimente esercitato sulla vita dell'altra e premesso, altresi', che quel giorno era stato particolarmente agitato e aveva iniziato ad insultare la madre non appena aveva messo piede sulla porta, di rientro dal lavoro, raccontava che quando l'uomo, uscito dalla camera da letto, ove era stato chiuso a parlare con il fratello, aveva iniziato a spingere la moglie, aveva deciso di intervenire (L. lo aveva fatto solo in un secondo momento). Ne era nata, allora, una colluttazione, nel corso della quale, avendo ritenuto che il P. si stesse dirigendo in cucina per armarsi, lo aveva preceduto, spingendolo verso la porta di ingresso e andando lui stesso a prendere un coltello con il quale lo aveva colpito. Non sapeva dire ne' con quanti colpi (anche se ricordava di averlo attinto alla schiena anche mentre era a terra) ne' con quanti coltelli ne', ancora, cosa facessero il fratello e la madre in quel momento. Confermava poi, in sede di udienza di convalida, di essere stato piu' veloce del padre e di essersi armato mentre quello, assolutamente privo di controllo, continuava a minacciare lui e il fratello. Sebbene lacunosa in ordine alla ricostruzione della dinamica e non gia' nella descrizione del padre, quella sera come particolarmente minaccioso non solo nei confronti della moglie ma anche dei figli intervenuti a difenderla (sul punto venivano acquisite frammentarie registrazioni dei dialoghi), dalle dichiarazioni dell'imputato puo' certamente ricavarsi che egli, ritenuto che il padre stesse andando a prendere un coltello e, dunque, che lui stesso e i suoi familiari in quel momento stessero correndo un pericolo, lo avesse preceduto, armandosi per primo e colpendolo mentre era ancora disarmato, con cio' in realta' anticipando l'ipotizzata azione difensiva e, in definitiva, ponendo in essere un'azione offensiva. Ricostruita in questi termini da parte dell'imputato la scaturigine della condotta delittuosa, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, nessun elemento utile ad avvalorarla puo' ricavarsi dalle deposizioni rese dai due testi, C. M. e C. L., entrambi presenti in casa al momento del fatto, del quale, con elevata verosimiglianza, erano testimoni oculari. Premesso, infatti, che erano destinatari di una pluralita' di contestazioni, anche nel corso dell'esame reso nel presente giudizio, deve dissentirsi dalle valutazioni in ordine alla loro attendibilita' espresse dal primo giudice, considerato che la sequenza delle risposte fornite nelle due diverse sedi processuali dimostra, invece, con evidenza il condiviso tentativo (certo umanamente comprensibile) di accreditare la tesi della legittima difesa, al quale tendevano attraverso la negazione, da parte di L., di quanto riferito in precedenza, soprattutto in ordine alle circostanze gia' enucleate dal primo giudice («... l'essersi il padre diretto verso la cucina mentre proferiva minacce di morte, cosi' da far ritenere che volesse prendere un coltello per concretizzarle, appena prima che A. lo anticipasse riuscendo ad armarsi; l'essersi la madre recata in bagno in un momento antecedente alla comparsa sulla scena del primo coltello - circostanze entrambe riferite per la prima volta in dibattimento - l'avere il primo colpo attinto G. P. alle spalle» - fatto negato in dibattimento -), l'enfatizzazione, da parte di entrambi, con l'aggiunta di particolari sino a quel momento inediti, dell'atteggiamento violento che il P. avrebbe assunto nei loro confronti prima e durante quella sera e la consapevole reticenza in ordine allo sviluppo dell'azione delittuosa e alla ricostruzione della sua dinamica. Ne' puo' ritenersi, come il primo giudice, che quelle contraddizioni proprio su circostanze determinanti ai fini della ricostruzione del contesto nel quale maturava l'azione omicidiaria, possano dirsi superate dalle scarsamente credibili giustificazioni fornite in udienza circa quello stato di shock, che avrebbe condizionato le dichiarazioni rese nell'immediatezza, inficiando addirittura il ricordo di quanto appena avvenuto o la sua corretta verbalizzazione da parte degli operanti. In caso di contrasto, infatti, le dichiarazioni rese nell'immediatezza di un fatto devono ritenersi dotate di maggiore affidabilita' rispetto a quelle successive, sia per la vicinanza temporale all'accaduto di cui si riferisce, che per la loro spontaneita' e il minor rischio di condizionamento cui sono esposte e, nella vicenda in esame, le generiche spiegazioni rese da entrambi i testi sulle evidenti e mai casuali incongruenze rilevate e sulla chiara inverosimiglianza di alcuni passaggi non convincono. Tale giudizio risulta ulteriormente avvalorato dall'evidente tentativo di sfuggire alle domande dirette sulla ricostruzione di quanto effettivamente avvenuto quella sera, distogliendo l'attenzione e spostando sistematicamente il focus sulle vicende pregresse e sulle sofferenze derivanti dal contesto familiare malato nel quale vivevano, certo innegabili ma che, tuttavia, non possono incidere, nella misura determinante che vorrebbe la difesa, sull'accertamento della responsabilita' del fatto delittuoso per cui si procede, che compete a questa Corte (sintomatica, tra l'altro, la sovrapponibilita' delle espressioni ripetutamente utilizzate da entrambi, a fronte delle contestate incongruenze dei loro racconti, «sfido chiunque a essere lucido ...» e, con riferimento alla vittima «... e' come quando un toro vede rosso ...»). Ne' poi possono ritenersi credibili laddove con una sorprendente coincidenza di contenuti, entrambi i testi nel corso dei loro esami aggiungevano dettagli, sino a quel momento inediti, circa il pericolo incombente che avrebbero corso quella sera (significativa, tra le altre, l'indicazione, omessa in sede di indagini preliminari dalla C., che quella sera il marito a tavola «giocherellava con il coltello, con la punta ...», ripresa dal figlio L. e mai riferita prima, nel corso dell'esame disposto da questa Corte: «... durante la cena lui ho il ricordo che continua a giocare con questo coltello mentre appunto la insulta, e questo fa gia' paura di per se', intanto beve, continua a essere fuori controllo» e, a fronte della contestazione del PM circa la mancata indicazione di tale pur rilevante circostanza nelle occasioni precedenti, «allora, purtroppo la cosa di non ricordarmi tutto, perche' sono passati tre anni, ma non gioca a mio vantaggio, perche' se io mi ricorderei tutto, tutta la vita che ho passato, magari per alcuni e' un fascicolo, per me questa e' la mia vita, quindi io ... quello che ricordo e' questo. Quello che ricordo e' questo»). Escluso, quindi, contrariamente alla prospettazione difensiva, che da tali testimonianze possano ricavarsi elementi utili ai fini della valutazione della sussistenza della legittima difesa, quanto alla ricostruzione della dinamica non puo' non rilevarsi come la suddivisione dell'azione in due fasi operata dal primo giudice sia forzata e in parte disancorata dai dati oggettivi. Premesso, infatti, che il consulente della difesa, la cui tesi veniva ripresa dal primo giudice, si esprimeva solo in termini di mera possibilita', chiarendo a questa Corte come la sua ricostruzione fosse stata «sulla valutazione di una compatibilita' rispetto a quello che e' stato raccontato. E' stato anche tentato da parte mia una ricostruzione, diciamo cosi', cristallizzata, ma, ripeto, e non voglio ridirlo, molti elementi mancavano e quindi ovviamente io sono partita, perche' questo e' stato il mio quesito, di formulare un'ipotesi rispetto alla compatibilita' di cio' che e' stato riferito, che era per altro molto limitato, ecco», il medico legale, consulente del PM, dr. B., chiariva come l'esame autoptico avesse consentito di individuare complessivamente trentaquattro ferite da punta e taglio, da coltello, quasi esclusivamente localizzate al collo e al tronco (una sola sulla superficie laterale del braccio sinistro), piu' nello specifico: «dieci ferite erano situate al collo, otto delle quali nelle porzioni anteriori e anterolaterali del collo e due invece posteriori; altre ventitre ferite erano localizzate complessivamente al tronco, di queste otto erano anteriori, quattro nella parte toracica, quindi piu' in alto, e quattro in sede addominale; le restanti quindi erano ferite dorsali e si estendevano dalla parte piu' alta del dorso, al limite con la base del collo, fino alla regione lombare». Tra di esse, riferiva, ancora, quella che aveva causato la lesione piu' grave era stata inferta in zona sternale e da qui aveva attraversato l'osso, lacerando la parte anteriore del pericardio, fino a cagionare una lesione dell'aorta discendente, determinando un violento sanguinamento e di conseguenza una morte rapida. Vi erano poi alcune altre ferite penetranti, tra di esse tre dorsali, che avevano raggiunto la porzione posteriore del polmone e che avrebbero potuto essere risultare letali anche se la rapidita' con la quale il decesso si era in concreto verificato per la lesione aortica aveva interrotto ulteriori meccanismi patologici, che si sarebbero sviluppati in tempi piu' lunghi. Pur trattandosi di ferite tutte inferte mentre il soggetto era ancora in vita, era impossibile stabilirne la sequenza, essendo solo una delle possibili ipotesi (e, dunque, non una certezza, come vorrebbe, invece, il primo giudice), laddove inferte in rapida successione, che molte di esse fossero successive al colpo letale (che comunque avrebbe garantito la sopravvivenza di alcuni minuti). In ogni caso, era impossibile stabilire in che ordine fossero stati sferrati i colpi e le posizioni reciproche di feritore e ferito (l'andamento parallelo di alcuni gruppi di ferite suggeriva che essi fossero il risultato di colpi inferti in rapida successione). Quanto agli esiti del sopralluogo, premesso che il cadavere veniva ritrovato, disteso sulla schiena a circa 40 cm dalla soglia della porta di ingresso dell'appartamento, emergeva come la maggiore concentrazione di sostanza ematica fosse presente al di sotto e nelle immediate vicinanze del corpo e, soprattutto intorno al tavolo del soggiorno ove erano presenti tracce di camminamento. L'estensione nettamente meno marcata di orme podaliche impresse con sangue proseguiva sul pavimento della cucina, tra il mobile e il suo ingresso (sul cassetto del mobile contenente coltelli e accessori vi era un'impronta papillare evidenziata da sostanza ematica, mentre il resto del locale non era stato interessato dall'azione). Quattro coltelli venivano rinvenuti a terra in cucina (due piegati a 90° gradi, uno con la lama spezzata, tre di essi con tracce di sostanza ematica, «... la presenza dei coltelli corrisponde alla linea ideale tracciata dalle orme insanguinate dei piedi in entrambe le direzioni di entrata e uscita dalla stanza»; cfr. sul punto il verbale di sopralluogo), mentre altri due si trovavano, rispettivamente, sotto la spalla destra e sotto la regione dorsale sinistra del cadavere (entrambi recavano tracce ematiche sulla lama). Gli elementi dai quali, pertanto, occorre muoversi per valutare la sussistenza della legittima difesa ritenuta dal primo giudice, dato per scontato il contesto nel quale il fatto maturava e l'aggravarsi di quella sera delle condotte intimidatorie del P., sono costituiti, da un lato, da quanto riferito dall'imputato, in questo confermato dal fratello, di avere anticipato il padre che si stava recando in cucina, spingendolo, armandosi e colpendolo per primo e, dall'altro, dai dati oggettivi emersi dal sopralluogo e dagli esiti della consulenza autoptica. Se presupposti essenziali della legittima difesa sono un'aggressione ingiusta e una reazione legittima e mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessita' di difendersi, alla inevitabilita' del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa, non puo', certamente, dirsi sufficiente al suo riconoscimento un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto. L'attualita' del pericolo richiesta per la configurabilita' della scriminante della legittima difesa, infatti, implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, cosi' da rendere necessaria l'immediata reazione difensiva, sicche' resta estranea all'area di applicazione della scriminante ogni ipotesi di difesa preventiva o anticipata, che non soddisfa i requisiti della attualita' e della necessita'. Ne consegue, allora, nella vicenda in esame, che non vi e' spazio, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, per la legittima difesa neanche nella forma putativa: la rappresentazione, meramente congetturale e astratta, della generica possibilita', nell'immediato futuro, della perpetrazione di atti di violenza da parte della vittima (per quanto in atteggiamento verbalmente violento e intimidatorio) non integra, infatti, l'ipotesi contemplata dall'art. 52 del codice penale del pericolo effettivo, concreto, attuale e specifico di alcuna offesa ne' da' adito alla supposizione erronea di tale pericolo cosi' da comportare la necessita' della difesa; la legittima difesa putativa, infatti, postula i medesimi presupposti di quella reale con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma e' solo supposta dall'agente a causa dell'erroneo apprezzamento dei fatti. Tale errore - che ha efficacia esimente se e' scusabile e comporta responsabilita' di cui all'art. 59 c.p., quando sia determinato da colpa - deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in quel fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilita' di determinare nell'agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un'offesa ingiusta, con la conseguenza che la legittima difesa putativa non possa valutarsi alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d'animo dell'agente, dal solo timore o dal solo errore, dovendo, invece, essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l'errore stesso. Puo' configurarsi, pertanto, se e in quanto l'erronea opinione della necessita' di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per se' inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell'animo dell'agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo, persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l'azione della difesa venga a estrinsecarsi. Sul punto, per quanto certamente l'imputato fosse stato esposto negli anni all'atteggiamento persecutorio e intimidatorio del padre non solo nei confronti della madre ma anche nei confronti suoi e del fratello, che della donna erano divenuti i custodi e per quanto quella sera, come emerge anche dai dialoghi registrati, l'uomo si mostrasse particolarmente aggressivo nei confronti della moglie, di cui credeva di avere scoperto l'infedelta', tuttavia, anche a voler ritenere che nel corso della colluttazione con i figli, dopo averli minacciosamente invitati a scendere sotto, avesse mostrato di volersi recare in cucina, verosimilmente allo scopo di armarsi di coltello, tale comportamento non vale ad integrare nei necessari termini della concretezza il pericolo di un'offesa, idonea a sfociare nella lesione di un diritto e non consente di considerare necessaria e proporzionata la condotta dell'agente. Doverosamente operato, infatti, l'accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa, reale o putativa e dell'eccesso colposo con giudizio «ex ante», calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto e astratta, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito - cui spetta esaminare, oltre che le modalita' del singolo episodio in se' considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all'azione, che possano aver avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover difendere se' o altri da un'ingiusta aggressione - appare evidente come, pur a fronte della condotta aggressiva del padre, la circostanza che la madre si trovasse in bagno e non fosse in quel momento esposta al pericolo concreto di un'offesa, il dato di fatto che l'imputato si trovasse in compagnia del fratello, che fossero entrambi nel pieno vigore delle loro forze, che gia' in passato avessero affrontato il padre con successo, che quest'ultimo fosse annebbiato dallo stato di ubriachezza nel quale versava e che, soprattutto, avesse al piu' manifestato l'intento di armarsi, senza averlo concretamente realizzato, venendo in quel momento allontanato dal suo presunto obiettivo e spinto in direzione della porta di ingresso (l'aggressione si compiva nella sala da pranzo e nell'ingresso, mentre la cucina non veniva interessata ne' risulta che l'uomo vi fosse effettivamente entrato) dimostrano l'insussistenza della scriminante sia sotto il profilo della necessita' che sotto quello della inevitabilita' dell'azione posta in essere. Ne' puo' trovare spazio un'ipotesi di eccesso colposo in legittima difesa, che si verifica quando, sussistendo a monte l'esimente, la giusta proporzione tra offesa e difesa venga meno per colpa, intesa come errore inescusabile in seguito a imprudenza o imperizia nel calcolare il pericolo e i mezzi di salvezza. Si fuoriesce, infatti, dall'eccesso colposo tutte le volte in cui i limiti imposti dalla necessita' difensiva vengano superati in conseguenza della scelta deliberata di una condotta reattiva, la quale comporti il superamento, cosciente e volontario di tali limiti, trasfigurandosi in uno strumento di aggressione e, nel caso in esame, la sede dei colpi (almeno quindici in regione dorsale), la reiterazione degli stessi (trentaquattro coltellate), il numero di armi impiegate (sei coltelli) depongono univocamente nel senso di una condotta francamente aggressiva. Deve, insomma, ritenersi che la condotta lesiva posta in essere abbia decisamente travalicato i limiti della mera reazione difensiva, non soltanto per la sproporzione della difesa, ma anche per l'assenza del requisito della inevitabilita' altrimenti del pericolo, inteso come possibilita' di difendersi con una offesa meno grave di quella arrecata, cosi' dovendosi escludere, come visto, sia la configurabilita' della causa di giustificazione di cui all'art. 52 c.p., ritenuta, invece, dal giudice di prime cure che, di conseguenza, la stessa configurabilita' dell'eccesso colposo di cui all'art. 55 c.p. Tali conclusioni appaiono confortate dagli esiti degli accertamenti medico-legali compiuti sull'imputato (in particolare quelli eseguiti dal perito e dal consulente del PM) che, nel riconoscergli una parziale infermita' di mente, conseguente ad un disturbo dell'adattamento a prevalente componente ansiosa associata a screzi post-traumatici in soggetto con personalita' disarmonica per immaturita' affettiva e tratti rigidi riconducibili al cluster B dei disturbi di personalita', evidenziavano un'elaborazione solo parziale dei dati di realta' che gli derivavano dall'ambiente, una sorta di vulnerabilita' interpretativa che aveva compromesso il controllo degli stimoli e degli impulsi ad agire (cfr. relazione R.: «... il primo dato e', dunque, che il comportamento-reato, soprattutto in relazione alla violenza con cui si e' espresso, sembra porsi in termini di "frattura" rispetto al continuum esistenza del p ... Il secondo punto riguarda l'atmosfera soggettiva in cui si colloca il delitto che rimanda ad una situazione di enorme tensione alimentata da un angoscioso timore verso la situazione in atto, verso cio' che essa rappresentava per lui. Esiste, dunque, una chiara connessione tra l'assetto personologico del p., i vissuti disadattativi, lo stress situazionale e l'omicidio. Ma tutto cio' non sarebbe stato ancora sufficiente a produrre l'esito drammatico in assenza di un elemento che fungesse da detonante, che puo' essere individuato nella vulnerabilita' interpretativa che la specifica struttura personologica del p. ha sotto pressione ... in queste condizioni, quando l'ansia si fa destruente, agendo come un grimaldello su una struttura psichica affettivamente ed emotivamente immatura per gli anni di sofferenza, quando - come nel caso del p. - lo stress relazionale e' al culmine ed i vissuti di minaccia permeano il contatto con la realta', sono possibili improvvise, drammatiche azioni distruttive che, anche al di fuori delle forme psicotiche, possono assumere "valore di infermita'" in senso medico-legale ...»). Qualificato, pertanto, il fatto come omicidio volontario (il viraggio interpretativo descritto in precedenza, non sussumibile nell'ipotesi putativa della scriminante in esame, forniva adeguata spiegazione dell'evidente discontrollo da parte dell'imputato sia degli stimoli e degli impulsi ad agire che delle modalita' di realizzazione dell'azione) puo', tuttavia, ritenersi sussistente l'attenuante della provocazione. Ai fini del suo riconoscimento, infatti, occorrono tre condizioni, ovvero lo stato d'ira, costituito da un'alterazione emotiva che puo' anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui, il fatto ingiusto altrui, che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva e un rapporto di causalita' psicologica e non di mera occasionalita' tra l'offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalita' tra esse e sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l'una e l'altra condotta. In modo dissimile dall'esimente della legittima difesa, si richiede, pertanto, non gia' la proporzione tra la reazione e l'offesa ma l'adeguatezza di quella a questa, quale esaustivo e utile parametro di valutazione dello stato d'animo dell'autore, nella considerazione che un'azione eccedente l'adeguatezza non sarebbe conseguente allo stato di ira determinato dal fatto ingiusto altrui. E al fine di stabilire tale adeguatezza, non e' consentita una valutazione limitata all'ultimo episodio offensivo al quale l'imputato abbia reagito, dovendosi quella estendere a tutta l'eventuale serie di atti similari ripetuti nel tempo, idonei a potenziare, per accumulo, la carica afflittiva e tali da incidere sul rapporto tra offesa e reazione. Nel caso in esame appare evidente come l'imputato avesse agito in stato di ira, perdendo il controllo di se' (discontrollo ulteriormente accentuato dal disturbo psicologico oggetto di accertamento) in conseguenza del fatto ingiusto altrui ovvero della condotta maltrattante del padre protrattasi nel tempo. E che sussista un rapporto di causalita' psicologica tra le condotte maltrattanti del padre e l'azione delittuosa posta in essere, emerge con chiarezza dalla ricostruzione cronologica degli accadimenti e dal contesto nel quale si inquadravano, caratterizzato da una serie ripetuta nel tempo di atti contrari a norme giuridiche e a regole primarie di convivenza, idonei, sul piano causale, a potenziare per accumulo la carica afflittiva di ingiusta lesione dei diritti dell'offeso e tali da assumere rilevanza nel rapporto causale offesa-reazione. In tale rapporto di causalita' psicologica, oggettivamente esistente e pienamente riscontrato, si inseriva, poi, amplificandone gli effetti, sia per il viraggio interpretativo della realta' che per il discontrollo degli impulsi anche nella fase esecutiva dell'omicidio, l'accertato vizio parziale di mente. Ritiene, ancora la Corte, possano essere riconosciute all'imputato, in ragione della giovanissima eta', dello stato di incensuratezza, del contesto nel quale il fatto maturava, del buon comportamento processuale tenuto, le circostanze attenuanti generiche oltre che, evidentemente, l'attenuante del vizio parziale di mente. Tali attenuanti, ad avviso della Corte, devono operare con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante, giudizio, allo stato precluso (ad eccezione che per quella di cui all'art. 89 c.p.) dal disposto di cui all'art. 577, terzo comma c.p.p. Non puo', invece, ritenersi meritevole di accoglimento la richiesta difensiva di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 c.p. Premesso, infatti, che perche' possa dirsi integrata non e' sufficiente l'intima convinzione dell'agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l'obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili, riconosciuti preminenti dalla collettivita' e oggetto di un generale consenso, nel caso in esame la brutale azione omicidiaria posta in essere nei confronti del padre, per quanto abitualmente maltrattante, non appare oggettivamente rispondente ai quei valori etici generalmente riconosciuti quanto, piuttosto, alla preminente esigenza soggettiva di liberarsi da un contesto malato, opprimente e, in definitiva, non piu' sopportabile. Peraltro, la possibilita' di applicare simultaneamente l'attenuante dei motivi di particolare valore morale o sociale e quella della provocazione e' subordinata all'accertamento in concreto della loro ascrivibilita' a distinte situazioni, poiche' qualora il fatto che ne e' alla base sia unico, allora per il principio del ne bis in idem sostanziale, che impedisce la reiterata valutazione del medesimo fatto ai fini della riduzione della pena, deve applicarsi una sola di tali circostanze. E nel caso in esame, l'attenuante della provocazione trova fondamento nell'accertata condotta maltrattante del padre che, nella prospettazione difensiva, legittimerebbe anche il riconoscimento dell'attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, da ritenersi, pertanto, concretamente preclusa. Non manifesta infondatezza della questione La Corte costituzionale ha piu' volte affermato che deroghe al regime ordinario di bilanciamento delle circostanze sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell'ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili solo ove «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio», non potendo in alcun caso giungere «a determinare un'alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilita' penale». Nella maggior parte dei casi le dichiarazioni di illegittimita' costituzionale delle norme derogatorie al regime ordinario di bilanciamento hanno riguardato «circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva», in quanto riferite ad attenuanti a effetto speciale: cosi' la «lieve entita'» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), la «particolare tenuita'» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014), la «minore gravita'» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014), il «danno patrimoniale di speciale tenuita'» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017). In un caso la dichiarazione di illegittimita' ha avuto ad oggetto il divieto di prevalenza di una circostanza - l'essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori - diretta a premiare l'imputato per la propria condotta post delictum (sentenza n. 74 del 2016). Piu' di recente, pero', per quello che qui importa, la declaratoria di incostituzionalita' ha riguardato l'art. 69, quarto comma del codice penale, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 89 del codice penale sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all'art. 99, quarto comma c.p., questione concernente, pertanto una circostanza attenuante espressiva non gia', sul piano oggettivo (sentenza n. 73 del 2020) di una minore offensivita' del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, ne' di una finalita' premiate rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilita' soggettiva dell'autore che in quel caso deriva dal suo minore grado di discernimento rispetto alla propria condotta e dalla minore capacita' di controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono (tali da scemare grandemente la sua capacita' di intendere e di volere). In quella sede la Corte costituzionale ha osservato come «il principio di proporzionalita' della pena rispetto alla gravita' del reato, da tempo affermato da questa Corte sulla base di una lettura congiunta degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, a partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993 (in senso conforme, ex multis, sentenza n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236 del 2016), esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volonta' criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell'autore, rendendolo piu' o meno rimproverabile ... il principio di proporzionalita' della pena desumibile dagli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione esige, insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilita' soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parita' di disvalore oggettivo del fatto, "in modo da assicurare altresi' che la pena appaia una risposta - oltre che non sproporzionata - il piu' possibile individualizzata e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di 'personalita' della responsabilita' penale di cui all'art. 27, prima comma, della Costituzione" (sentenza n. 222 del 2018». Fatta questa premessa appare, allora, evidente la non manifesta infondatezza della questione che si intende sollevare, considerato che il divieto di prevalenza stabilito dal terzo comma dall'art. 577 c.p. con riferimento alla circostanza attenuante della provocazione, non consente di tenere conto, ai fini della graduazione della pena, dell'intensita' del dolo che animava il C., della motivazione che lo spingeva al delitto e, in definitiva, del contesto nel quale maturava, concretamente rilevante ai fini della valutazione della sua capacita' a delinquere. L'imputato, infatti, si trovava esposto da anni a comportamenti posti in essere dal padre evidentemente contrari sia a norme giuridiche che a norme sociali e di costume regolanti l'ordinaria convivenza e l'azione omicidiaria nasceva, per accumulo, proprio sotto lo stimolo di tali reiterati comportamenti ingiusti, protrattisi fino all'ultimo (la provocazione, infatti, oltre che istantanea puo' essere lenta, protraendosi nel tempo senza mai raggiungere quella intensita' di stimolazione tale da produrre nel perseguitato una conflagrazione reattiva ma determinando in questi una accumulazione degli stimoli psichici cui e' stato esposto, destinata ad esplodere, all'occasione, nel comportamento violento reattivo all'altrui fatto ingiusto). E di tale peculiare condizione soggettiva, che trovava origine in un contesto oggettivamente ricostruito e costituiva anche il substrato dello sviluppo del disturbo psicologico dal quale risultava affetto (che, come visto, lo portava ad una compromissione del sentimento di realta' sotto una spinta ansioso-interpretativa), occorre tenere conto nella concreta graduazione della sanzione, nel rispetto dell'esigenza di rango costituzionale di determinare una pena proporzionata e calibrata sull'effettiva personalita' del reo e sul suo grado di rimproverabilita'. Il divieto di prevalenza di tali attenuanti, posto dal richiamato art. 577 del codice penale appare, poi, ulteriormente distonico rispetto al sistema, ove si consideri il panorama socio-culturale nel quale si inseriva e la ratio che animava la norma che lo ha introdotto. La legge 19 luglio 2019, n. 69, denominata Codice Rosso, infatti, che ha introdotto tra l'altro la norma in esame, era ispirata dalla necessita' di offrire una risposta severa a quei fenomeni criminali caratterizzati dal collegamento tra l'azione omicidiaria e un rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente rinvenibile nell'uccisione della donna da parte del suo compagno; il femminicidio e' proprio l'uccisione di una donna per questioni legate al genere e la legislazione in materia e' finalizzata a rendere effettiva la prevenzione e protezione nell'ambito della violenza contro le donne, nel perimetro tracciato dalla convenzione di Istanbul (ove si legge che tale violenza e' una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione). Il cosiddetto Codice Rosso mira appunto a contrastare tale fenomeno, individuando il fine di tali interventi legislativi nella considerazione della particolare vulnerabilita' delle vittime, ottica nella quale le misure di prevenzione alla violenza di genere hanno subito un inasprimento della risposta sanzionatoria. Appare allora evidente come l'art. 577, comma 3 c.p., nell'operare anche con riferimento a rapporti estranei a quelli descritti in precedenza, quali l'ascendenza, la discendenza, l'adozione, l'unione civile, la stabile convivenza e in genere la relazione affettiva, precluda la possibilita' di valutare una pluralita' di variabili anche dal punto di vista criminologico dell'agente, che incidono sulla sua condotta omicidiaria e sulla sua riprovevolezza. E poiche' si tratta di relazioni oggettivamente incontestabili, occorre che l'interprete si domandi se l'omicidio sia stato effettivamente conseguenza di rapporti di forza diseguali o comunque asimmetrici tra agente e vittima. Proprio nel caso in esame il fatto omicidiario di cui il C. e' responsabile appare slegato da quei rapporti interpersonali che il Codice Rosso intendeva tutelare con il divieto di prevalenza oggetto di censura e, anzi, la condotta maturava in una situazione diametralmente opposta a quella pensata dal legislatore, considerato che il soggetto che commetteva l'omicidio, nello stato d'ira determinato dal fatto ingiusto di colui che ne era la vittima, nel corso della convivenza familiare aveva assistito alle abituali condotte maltrattanti del padre ai danni della madre, dal quale aveva anche personalmente subito frequenti aggressioni verbali e talvolta fisiche e si era fatto carico, sacrificando la sua giovane eta', della protezione della donna e la condotta delittuosa, del tutto estranea alla sopraffazione di genere, costituiva proprio il drammatico epilogo di tali malate dinamiche familiari, sofferte per anni, suo malgrado, dal ragazzo. Escludere la prevalenza dell'attenuante della provocazione con il correlato profilo soggettivo (assimilabile al vizio di mente e all'attenuante di cui all'art. 62, n. 1 c.p.) sull'aggravante del fatto omicidiario commesso contro il padre e, quindi, con un giudizio di circostanze eterogenee al piu' di equivalenza (salvo poi considerare il vizio parziale di mente) cosi', peraltro, equiparando situazioni affatto diverse, quali appunto quelle oggetto di attenzione da parte del legislatore e, dunque, determinare la pena finale in misura non inferiore ai quattordici anni di reclusione (in ragione dell'attenuante di cui all'art. 89 c.p.) presenta dei profili di illegittimita' costituzionale in relazione al principio di uguaglianza e alla funzione di proporzionalita' e di rieducazione della pena. Con riferimento all'art. 3 della Costituzione, il negare, rispetto all'aggravante in questione, la prevalenza della provocazione, la cui conformazione giuridica appare ben distante rispetto allo spirito e agli obiettivi della novella del 2019, presenta elementi di ingiustificabile disarmonia anche rispetto all'attenuante dell'avere il colpevole agito per motivi di particolare valore e sociale che, viceversa, puo' essere ancora ritenuta prevalente ed e' altresi' evidente la violazione dell'art. 27 della Costituzione, in quanto la pena finale puo' presentarsi rispetto alla complessiva valutazione del fatto, assolutamente sproporzionata, impedendo in tal modo al trattamento sanzionatorio di esplicare la propria funzione educativa. Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte sopra in merito alla contrarieta' ai principi costituzionali di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione del divieto di prevalenza sancito dall'art. 577, terzo comma, del codice penale possano valere anche con riferimento alle attenuanti generiche concorrenti con l'aggravante di cui all'art. 577, primo comma, n. 1 del codice penale. Le circostanze attenuanti atipiche rappresentano uno strumento di individualizzazione della risposta sanzionatoria li dove sussistano - in positivo - elementi del fatto o della personalita', tali da rendere necessaria la mitigazione, non previsti espressamente da altra disposizione di legge. Le Sezioni Unite della Suprema Corte nella recente sentenza 20808/2019 hanno ribadito che «le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena», precisando che «la ragion d'essere della previsione normativa recata dall'art. 62-bis del codice penale e' quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso piu' favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si e' reso responsabile (Cass., S.U. 20808/2019). L'«individualizzazione» della pena, in modo da tener conto dell'effettiva entita' e delle specifiche esigenze dei singoli casi, a cui mira l'istituto delle attenuanti generiche, si pone come naturale attuazione e sviluppo dei principi costituzionali tanto di ordine generale (principio di uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale. L'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti - in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento - contribuisce, da un lato, a rendere quanto piu' possibile «personale» la responsabilita' penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma, e nello stesso tempo, e' strumento per una determinazione della pena quanto piu' possibile «finalizzata» nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. La preclusione introdotta dalla legge n. 69/2019, derogatoria al principio generale che governa la complessa attivita' commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell'applicazione delle circostanze (Corte costituzionale 183/2011), espropria il giudice del potere di valutare adeguatamente le peculiarita' del caso concreto e pervenire cosi' alla definizione del trattamento sanzionatorio piu' conforme alle esigenze di risocializzazione e di rieducazione del reo. Ne' i dubbi di costituzionalita' possono ritenersi superati, considerando che la preclusione limita solo parzialmente tale potere, il quale continua ad avere un ampio ambito di esplicazione, attraverso la possibilita' di spaziare tra il minimo e il massimo edittale, con l'integrazione delle diminuzioni per le altre circostanze eventualmente esistenti, poiche' in caso di reati puniti con pena elevata anche nel minimo, quale l'omicidio, l'impossibilita' di operare la diminuzione conseguente al riconoscimento delle attenuanti puo' determinare in concreto (come avverrebbe nel caso di specie) l'applicazione di una pena sproporzionata per eccesso rispetto al fatto ed alla personalita' dell'imputato, dunque avvertita come ingiusta dal condannato (oltreche' dalla collettivita'), vanificandone la finalita' rieducativa prevista dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione. (v. Corte costituzionale 185/2015). Inoltre l'impossibilita' di valorizzare adeguatamente elementi positivi emersi a favore dell'imputato, indicativi di ridotta capacita' a delinquere, quali la giovanissima eta' dell'imputato, il positivo giudizio sulla sua personalita', la vita anteatta, il comportamento successivo al reato e quello processuale, determina una parificazione della risposta sanzionatoria in situazioni personali tra loro differenti, irragionevole in quanto fondata sulla oggettiva sussistenza del legame familiare tra vittima e colpevole, senza tenere conto dei casi in cui detto legame e' gravemente compromesso dal comportamento ingiusto della vittima; col che viene a crearsi una disparita' ingiustificata rispetto al trattamento riservato alla generalita' degli autori di reato, in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, della Costituzione. In conclusione, quindi, l'art. 577, comma 3, del codice penale appare in contrasto con il principio di uguaglianza e di proporzionalita' della sanzione penale e, sotto quest'ultimo aspetto, la pena che, influenzata dal divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche e della provocazione, andrebbe irrogata all'imputato, non assolverebbe ne' a una funzione rieducativa del colpevole ne' a quella specialpreventiva, dal momento che gli conferirebbe una pericolosita' sociale sproporzionata rispetto all'effettiva dinamica della condotta omicida e dello stato di sofferenza in cui e' maturata.