CORTE D'ASSISE DI APPELLO DI TORINO 
                              I Sezione 
 
    Ordinanza di sospensione  del  procedimento  articoli  134  della
Costituzione, 23 e segg. legge 11 marzo 1953, n. 87. 
    La prima sezione della Corte  di  Assise  di  Appello  di  Torino
composta da: 
        dott.ssa Cristina Domaneschi - Presidente; 
        dott.ssa Flavia Panzano - consigliere est.; 
        sig. Claudio Ramaro - giudice popolare; 
        sig. Marco Marengo - giudice popolare; 
        sig.ra Morena Andrian - giudice popolare; 
        sig.ra Monica Bergamasco - giudice popolare; 
        sig. Massimiliano Manai - giudice popolare; 
        sig. Mauro Doppioni - giudice popolare. 
    Nel procedimento contro C. A. (gia' P.),  nato  a  ...,  il  ...,
residente a ..., via ...,; presente 
    difeso di  fiducia  dall'avvocato  Claudio  Strata  del  Foro  di
Torino; 
Imputato 
    Del delitto previsto e punito dagli articoli 575, 577,  comma  I,
n. 1 del codice penale poiche' con condotta consistita nello sferrare
numerose  e  ripetute   coltellate   all'indirizzo   della   vittima,
colpendolo in zone vitali del corpo,  ha  cagionato  il  decesso  del
padre, G. P., determinato da plurime lesioni penetranti da punta e da
taglio al tronco ed al collo, una delle quali, costituita  da  ferita
toracica  anteriore  localizzata  in  regione  sternale,  aveva  leso
l'aorta ascendente, in modo da provocare un emipericardio massivo  ed
un conseguente tamponamento cardiaco; 
    con l'aggravante di avere commesso il fatto contro l'ascendente. 
    Commesso a ..., nella data del ... 
Appellante il PM di Torino 
    Avverso la sentenza della  Corte  di  Assise  di  Torino  del  24
novembre 2021 che 
    Visto l'art. 530 c.p.p. 
    Assolveva A. P. dal reato a lui ascritto  perche'  il  fatto  non
costituisce reato. 
    Visto l'art. 262 c.p.p. 
    Disponeva la restituzione agli aventi diritto  dei  cellulari  in
sequestro. 
    Visto l'art. 544 c.p.p. 
    Indicava in giorni novanta  il  termine  per  il  deposito  della
motivazione. 
Parte civile 
    M. P., elettivamente domiciliato presso il difensore  di  fiducia
avv. Federico Squartecchia del Foro di Pescara. 
Conclusioni delle parti 
    PG: in riforma della sentenza impugnata,  chiede  che  l'imputato
venga dichiarato responsabile del reato ascrittogli e condannato alla
pena di anni quattordici di reclusione, previo  riconoscimento  della
diminuente  della  seminfermita'  e  delle   circostanze   attenuanti
generiche. Rimette alla valutazione della Corte  la  sussistenza  dei
presupposti per sollevare questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 577 c.p. 
    Parte civile:  chiede  che  venga  affermata  la  responsabilita'
penale dell'imputato e che lo stesso venga condannato al risarcimento
dei danni in favore della parte civile, come da conclusioni scritte. 
    Difesa: chiede la conferma della sentenza appellata; in subordine
chiede: che l'imputato venga assolto, ritenuta la sussistenza  di  un
eccesso  colposo  non  punibile  per  difetto  di  colpa;  che  venga
riconosciuta la scriminante dello  stato  di  necessita';  che  venga
sollevata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  52,
secondo comma, del codice penale nella parte in cui  non  estende  la
presunzione  di  proporzionalita'  anche  all'ipotesi   di   violenza
domestica; che venga riconosciuta la totale incapacita' di  intendere
e di volere dell'imputato al momento  del  fatto;  che,  in  caso  di
condanna, riconosciuta  la  seminfermita',  vengano  riconosciute  le
attenuanti di cui agli articoli 62-bis, 62 n. 1,  2  e  5  prevalenti
sull'aggravante ed, eventualmente, che venga sollevata  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 577 c.p. 
    All'esito  dell'odierna  camera  di  consiglio,   la   Corte   ha
pronunciato la seguente ordinanza. 
    La Corte, anche sulla base delle sollecitazioni provenienti dalle
parti, sospesa la camera di consiglio, ritiene di sollevare questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 577,  comma  3  c.p.,  nella
parte in cui prevede che le circostanze attenuanti generiche e quella
della provocazione, diverse da una di quelle previste dagli  articoli
62, numero 1, 89, 98 e  114  c.p.,  concorrenti  con  la  circostanza
aggravante di cui al  primo  comma,  numero  1,  non  possano  essere
ritenute prevalenti rispetto a questa, come previsto dalla  legge  n.
60 del 19 luglio 2019 («Modifiche al  codice  penale,  al  codice  di
procedura penale a altre disposizioni  in  materia  di  tutela  delle
vittime  di  violenza  domestica  e  di  genere»),  per  contrasto  e
violazione dei principi sanciti agli articoli 3, comma 1 e 27,  comma
3  della  Costituzione,  che  individuano  la  ragionevolezza   della
sanzione  penale  in  funzione   dell'offensivita'   della   condotta
accertata. 
Rilevanza della questione. 
    C. A. (gia' P.) veniva chiamato a rispondere del delitto  di  cui
agli articoli 575, 577, comma 1, n.  1  del  codice  penale  poiche',
sferrando numerose e ripetute coltellate all'indirizzo del padre,  G.
P., che determinavano plurime lesioni penetranti da punta e da taglio
al tronco ed al collo, una delle quali ledeva l'aorta ascendente,  ne
cagionava la morte; fatto aggravato perche' ai danni dell'ascendente,
commesso in C ... il ... 
    La Corte di Assise di Torino, con sentenza del 24 novembre  2021,
assolveva l'imputato perche' il fatto non costituisce reato, ritenuta
ravvisabile la scriminante della legittima difesa. 
    A. C., alle ore ... del ...  chiamava  il  112,  presentandosi  e
dicendo di  essersi  armato  di  un  coltello,  di  avere  avuto  una
colluttazione con il padre, che voleva uccidere la madre, il fratello
e lui stesso e di averlo probabilmente ucciso. 
    Gli operanti, che entravano nell'alloggio solo  dopo  i  sanitari
che, loro malgrado, avevano alterato la scena del crimine (come  piu'
volte messo in evidenza dal primo giudice), trovavano il cadavere  di
P. G. a terra, tra l'ingresso e la sala, riverso  sulla  schiena,  in
un'ampia pozza di sangue, con numerose ferite da taglio  inferte  con
dei coltelli che venivano ritrovati sia in cucina che  sotto  il  suo
corpo; intorno al tavolo vi  erano  abbondanti  tracce  di  sangue  e
diverse orme di piedi. 
    Alex si presentava sconvolto, coperto di sangue e con una  ferita
alla  mano;  interrogato  la  stessa  notte,  affermava   di   essere
responsabile del delitto, che diceva di aver commesso  per  legittima
difesa, in quanto il padre, abitualmente maltrattante  nei  confronti
soprattutto della moglie, quella sera aveva dato in escandescenze ed,
essendosi ad un certo punto diretto in cucina,  temendo  che  volesse
armarsi, lo aveva anticipato, spingendolo e prendendo un coltello con
il  quale  lo  aveva  colpito  per  primo.   Sottoposto   a   perizia
psichiatrica, l'imputato veniva trovato affetto  da  un  disturbo  di
adattamento post traumatico, da ritenersi all'origine di una sorta di
viraggio interpretativo di quanto gli  accadeva  intorno,  che  aveva
scemato, senza escluderla, la sua capacita' di intendere e di volere. 
    All'esito  dell'istruttoria  dibattimentale   la   prima   Corte,
premesso  che  a  dispetto  della  tesi  sostenuta  dall'accusa,  per
escludere la legittima difesa sarebbe stata necessaria  la  prova  in
positivo che il delitto fosse avvenuto nei confronti di  una  vittima
disarmata  e  non  pericolosa,  ripresi  i  principi  dettati   dalla
giurisprudenza  di  legittimita'  sulla  scriminante  in   questione,
riteneva  fosse  emerso  con  certezza  che   l'imputato   si   fosse
determinato  ad  agire  uccidendo   il   padre,   nella   ragionevole
convinzione, mantenuta fino all'ultimo  colpo,  di  non  avere  altra
scelta per impedirgli di uccidere, a sua volta, lui stesso e  i  suoi
familiari. Proprio le sue dichiarazioni, relative anche al  clima  di
tensione, ansia e paura che il padre aveva imposto a figli  e  moglie
nel corso della convivenza, secondo  il  primo  giudice,  contenevano
indicazioni fondamentali per la ricostruzione  della  dinamica:  quel
..., infatti, l'uomo,  geloso  di  un  collega  della  moglie,  aveva
aggredito quest'ultima, appena tornata a  casa  dal  lavoro  e  aveva
continuato a insultarla e minacciarla anche  nel  corso  della  cena;
quando, poi, era uscito dalla propria camera, ove si era  chiuso  per
lungo tempo, per parlare al telefono con il fratello e la  madre,  si
era subito diretto con fare aggressivo verso  la  moglie.  Era  stato
allora che  l'imputato  era  intervenuto  per  proteggere  la  donna,
ingaggiando una colluttazione cui aveva partecipato anche il fratello
L. e quando l'uomo, dopo avere invitato i figli a scendere sotto,  si
era diretto in cucina per armarsi, lo aveva preceduto,  prendendo  un
coltello e colpendolo ripetutamente, non sapeva dire con quanti colpi
ne' con quante armi  ne',  ancora,  cosa  facessero  la  madre  e  il
fratello in quel momento, avendo conservato  di  tale  fase  solo  il
ricordo di alcune immagini non collegate tra loro (tra di esse quella
del padre armato), essendo, tuttavia, certo di avere agito  solo  per
difendere se' e i suoi familiari. 
    Il ragazzo, che il primo giudice riteneva  pienamente  credibile,
pertanto, avendo visto il padre (che  aveva  appena  prima  aggredito
moglie e figli e che stava ancora urlando minacce di morte)  scattare
improvvisamente verso  la  cucina,  in  direzione  del  cassetto  dei
coltelli, aveva agito nella  certa  convinzione  che  l'uomo  sarebbe
riuscito ad armarsi per compiere la piu' volte  paventata  strage  di
tutta la sua famiglia. Che poi non ricordasse quello che era avvenuto
dopo, era perfettamente giustificabile come anche  evidenziato  dagli
psichiatri, che lo avevano sottoposto ad accertamenti:  si  trattava,
infatti,  di  una  dismnesia  direttamente   correlabile   alla   sua
condizione di mente, cosi' da non poter essere valutata  in  senso  a
lui sfavorevole. 
    La genuinita' delle dichiarazioni dell'imputato, ad avviso  della
prima Corte, aveva,  poi,  trovato  ampi  riscontri  nelle  ulteriori
acquisizioni  probatorie,  idonee  a  dimostrare  come  quella  sera,
trovandosi in pericolo di vita e dovendo prendere,  nell'arco  di  un
solo istante, una decisione determinante,  avesse  spinto  il  padre,
precedendolo in cucina, si fosse armato e avesse  inflitto  il  primo
colpo per non soccombere. Il fratello L., dopo avere  raccontato,  in
termini sostanzialmente sovrapponibili a  quelli  dell'imputato,  che
quella sera il padre era  particolarmente  aggressivo  e  pericoloso,
riferiva che, mentre urlava minacce di morte  nei  confronti  loro  e
della madre, si era diretto in cucina per prendere un  coltello;  era
stato allora che suo fratello lo aveva spinto sulla porta, afferrando
per primo un coltello con la punta arrotondata, con il quale lo aveva
colpito. Di quanto avvenuto dopo aveva ricordi  lacunosi,  essendogli
rimasta memoria solo di un colpo inferto dal fratello con un coltello
a punta tonda, dell'immagine del padre con un coltello in mano, di un
tonfo a terra e della telefonata di A. ai carabinieri. 
    Sebbene nel corso della sua deposizione il  PM  avesse  mosso  al
teste numerose contestazioni la prima Corte,  pur  rilevando  che  le
principali  difformita'  rispetto   alle   precedenti   dichiarazioni
riguardavano circostanze rilevanti (che il  padre  si  fosse  diretto
verso la cucina mentre proferiva minacce di morte e che  il  fratello
si fosse armato per primo; che la madre in quel momento  si  trovasse
gia' in bagno e che il primo colpo avesse  attinto  la  vittima  alle
spalle), riteneva che la versione  dei  fatti  resa  in  dibattimento
fosse maggiormente credibile, in quanto il teste  aveva  spiegato  in
maniera plausibile le richiamate difformita',  essendosi  trovato  in
stato di shock quando era stato sentito dai carabinieri, che non  gli
avevano riletto il verbale e ben potevano  avere  equivocato  le  sue
risposte. 
    Coerente con il racconto dei figli era anche quello della  madre,
che aveva descritto la rabbia del marito,  che  quel  giorno  l'aveva
vista in atteggiamento amichevole  con  un  collega  all'interno  del
supermercato nel quale lavorava e riferito della lite sorta  fin  dal
suo  rientro  a  casa,  dell'aggressione   fisica   successiva   alle
telefonate del marito ai familiari e della colluttazione con  i  suoi
figli, quando lei si era chiusa in bagno; solo quando ne  era  uscita
aveva visto quanto successo. Anche in questo caso  il  primo  giudice
giustificava   le   numerose   contraddizioni   con   la   precedente
deposizione, che le contestazioni  avevano  fatto  emergere,  con  lo
stato  di  shock  nel  quale  versava  quando   era   stata   sentita
nell'immediatezza dei fatti e con la mancanza di approfondimento  del
suo primo esame. 
    I due testi poi, ad avviso della Corte di  primo  grado,  avevano
descritto in modo coerente e dettagliato i gravissimi  maltrattamenti
subiti per anni da parte  di  un  uomo  patologicamente  geloso,  che
tendeva a controllare e isolare la propria moglie e che utilizzava la
violenza  e  l'aggressione  come  modalita'   tipica   nei   rapporti
intra-familiari. Tale situazione, protratta nel tempo,  aveva  creato
un dissidio insanabile tra i coniugi e  una  ingiusta  assunzione  da
parte dei figli del ruolo di guardie del corpo della madre,  che  non
lasciavano mai  sola  e  difendevano  dai  piu'  gravi  attacchi  del
genitore, registrandone le esplosioni di rabbia, subite  passivamente
per il timore di ben piu' gravi conseguenze (e per questo non avevano
mai sporto denuncia). 
    D'altra parte gli esiti delle consulenze e della perizia cui  era
stato sottoposto C. A., allo scopo di accertare la sua  capacita'  di
intendere  e  di  volere  al   momento   del   fatto,   davano   atto
dell'esistenza  di  «un  disturbo   dell'adattamento   a   prevalente
componente ansiosa associata a screzi posi-traumatici in soggetto con
un assetto di personalita' disarmonico per  immaturita'  affettiva  e
tratti  rigidi  riconducibili  al   cluster   B   dei   disturbi   di
personalita'», condizione stress-reattiva  che  «ha  inciso  in  modo
specifico sull'evoluzione personologica del ragazzo, interferendo con
il processo maturativo e comportando la strutturazione di un  assetto
rigido e  disarmonico  della  personalita',  soprattutto  per  quanto
concerne la sfera emotivo-affettiva». A tale assetto di  personalita'
si  correlava  una  vulnerabilita'  interpretativa,  consistente  nel
vivere le situazioni in modo stressante, tendendo a colorare in senso
potenzialmente piu' pericoloso la realta' esterna, che, tuttavia, non
alterava del tutto la percezione della realta' (cui non attribuiva un
significato completamente falso) e che portava  a  ritenere  «scemate
grandemente  le  capacita'  di  intendere  e  di  volere,  ma  a  non
escluderle del tutto». 
    Cio' premesso e stigmatizzata piu' volte la superficialita' delle
indagini, la prima Corte riteneva accertato che: 
        vi fosse stata una colluttazione (in tal  senso  le  numerose
impronte intorno al tavolo); 
        la vittima fosse stata  attinta  da  34  colpi,  che  avevano
provocato lesioni da punta e taglio (dieci  al  collo,  di  cui  otto
anteriori o laterali e due posteriori e tutte le altre al tronco,  ad
eccezione di una alla superficie laterale del braccio sinistro,  otto
anteriori, di cui quattro al torace  e  quattro  all'addome  e  altre
quindici dorsali), tutte con caratteristiche di vitalita'; 
        la causa della morte  fosse  da  ricondursi  alla  coltellata
inferta in zona toracica anteriore localizzata in  regione  sternale,
che aveva  determinato  una  lesione  dell'aorta,  provocata  con  un
coltello,  la  cui  lama  spezzata  era  stata  rinvenuta  nel  corso
dell'autopsia; 
        il P. fosse in stato di ubriachezza, con  una  concentrazione
alcolemica nel sangue pari a 1,32 g/L.; 
        tutte le ferite e, in particolare, quella micidiale,  fossero
state inferte nel corso e al culmine  di  un  combattimento  tra  due
persone armate, di cui una lottava per difendere se' stessa e i  suoi
cari. 
    Era certo, infatti, che fossero stati estratti dal cassetto della
cucina sei coltelli (quelli che erano stati trovati a terra), che  ne
fossero stati utilizzati almeno cinque - due a punta  tonda,  trovati
in cucina  piegati,  uno  a  punta  acuminata,  anch'esso  in  cucina
spezzato (lama trovata in sede di autopsia), due  a  punta  acuminata
rinvenuti accanto al cadavere - e che fossero state  riscontrate  sul
cadavere trentaquattro ferite, tutte vitali, molte  delle  quali  con
andamento parallelo e a sinistra, una sola,  quella  inferta  con  il
coltello spezzato, rapidamente mortale,  in  assenza  di  lesioni  da
difesa (solo una o due potrebbero  averne  le  caratteristiche).  Non
era, invece, provato che tutti  i  coltelli  fossero  stati  presi  e
branditi da A. C. e non poteva, pertanto, escludersi  che  G.  P.  si
fosse  avvicinato  al  cassetto  dei  coltelli:   sarebbe,   infatti,
irragionevole pensare che questi, furioso dopo  essere  stato  spinto
dal figlio, fosse rimasto immobile mentre l'altro andava in cucina  e
non avesse, invece,  cercato  di  armarsi  anche  dopo  essere  stato
colpito. Le impronte di sangue lasciate intorno al tavolo e i  rumori
percepiti  dai  vicini  provavano,   invece,   l'esistenza   di   una
colluttazione e l'assenza di lesioni da difesa, di segni di fuga e il
ritrovamento di due coltelli a punta accanto al cadavere dimostravano
che ciascuno dei due protagonisti dell'azione impugnasse un  coltello
(ne' poteva ritenersi, anche alla luce di un'unica chiara traccia  di
impronte di piedi in andata e ritorno dalla  cucina,  che  A.  avesse
interrotto la sua azione delittuosa per armarsi di nuovo). 
    Di conseguenza, l'unica ricostruzione possibile era che A. avesse
visto il padre dirigersi, dopo aver proferito minacce  di  morte  con
espliciti riferimenti ad  armi  da  taglio,  verso  il  cassetto  dei
coltelli della cucina  e,  allora,  avendo  compreso  che  stava  per
mettere in atto i piu'  volte  annunciati  propositi  omicidiari,  lo
avesse spinto correndo verso quel cassetto, afferrando la prima  cosa
che gli era capitata ovvero un coltello con punta tonda  inoffensivo,
quindi avesse sferrato un primo colpo nel tentativo di difendere se',
la madre e il fratello. Si trattava, probabilmente, del colpo inferto
alle spalle, mentre il padre si avvicinava al cassetto dei  coltelli,
di cui l'imputato aveva riferito nelle prime  dichiarazioni;  a  quel
punto P. G. era riuscito a prendere almeno un coltello, reiterando le
sue minacce, come confermato dal figlio L. 
    I due, quindi, erano entrambi armati  e  si  erano  fronteggiati,
girando attorno al tavolo (a tale fase dovevano ricondursi le 5  o  6
coltellate al tronco, con angolazioni diverse e le tracce ematiche) e
che si fosse trattato di un combattimento tra due  soggetti  entrambi
armati era dimostrato dall'assenza di lesioni da difesa e  dal  fatto
che nessuno dei due si fosse  allontanato  dalla  stanza.  In  questo
contesto A. infliggeva al padre l'unico colpo mortale al  cuore,  che
provocava sia la rottura del coltello che una  lesione  dell'aorta  e
una rapida morte e proprio  il  fatto  che  si  trattasse  dell'unica
ferita profonda, inferta con una forza nettamente superiore  a  tutte
le altre, rendeva altamente  verosimile  che  il  colpo  fosse  stato
sferrato mentre G. P. si stava, a sua  volta,  scagliando  con  forza
contro l'imputato nel tentativo di colpirlo. 
    Ricostruita in  questi  termini  la  dinamica  della  prima  fase
dell'accaduto, ad  avviso  della  prima  Corte,  era  dimostrato  che
l'imputato avesse agito per legittima difesa,  in  quanto  il  padre,
dopo aver  proferito  minacce  di  morte,  aveva  iniziato  un'azione
esecutiva recandosi verso il cassetto dei  coltelli  e,  dopo  essere
stato colpito una prima volta senza effetto, impugnando un coltello a
punta gli aveva gridato che li avrebbe  davvero  uccisi,  ingaggiando
una colluttazione armata.  Chiunque  e  senza  alcun  bisogno  di  un
viraggio interpretativo angosciante, avrebbe percepito come altamente
pericolosa una simile situazione. 
    Appena dopo questa ferita - l'unica mortale - a G.  P.  restavano
ancora alcune decine di secondi, forse un minuto, di vita  e  A.  C.,
rimasto disarmato (aveva in mano  solo  il  manico  di  plastica  del
coltello a punta, che si era appena spezzato), si  recava  in  cucina
(lasciando tracce di  piedi  insanguinati  in  duplice  direzione)  a
prendere un altro coltello, gettando a  terra  il  manico  di  quello
rotto, non a caso, rinvenuto  in  quel  locale.  Quindi  era  tornato
indietro con uno dei due coltelli a punta acuminata rinvenuti accanto
al cadavere (l'altro, rinvenuto sempre a terra accanto al corpo,  era
quello che impugnava il padre) e aveva ripreso a colpire  rapidamente
il suo antagonista, con colpi veloci e  poco  profondi,  nessuno  dei
quali mortale, sulle parti del corpo  che  quello  via  via  lasciava
esposte, come ipotizzato  dal  consulente  della  difesa,  che  aveva
ritenuto che la ferita  sternale  fosse  stata  una  delle  prime  e,
dunque, che vi fosse  stato  prima  un  confronto  frontale,  poi  il
soggetto si era accasciato, offrendo all'aggressore dorso e collo (ad
ulteriore conferma vi erano il manico spezzato trovato in cucina e le
orme di sangue oltre alle impronte sul cassetto). 
    L'imputato, quindi, aveva preso e  utilizzato  tre  coltelli:  il
primo a punta tonda per un primo colpo di minima  lesivita',  inferto
quasi certamente nei pressi del cassetto della cucina, il  secondo  a
punta acuminata, la cui lama si era spezzata e, infine,  un  altro  a
punta  acuminata  con  il  quale,   nell'ultima   fase   dell'azione,
infliggeva circa 25 coltellate, prive di efficacia  causale  rispetto
all'evento morte. 
    In definitiva, allora, doveva ritenersi che egli avesse agito  in
stato di legittima difesa: invero, dopo una giornata nella quale, pur
abitualmente violento e minaccioso, il padre  aveva  tenuto  condotte
anomale, incitando i due fratelli a  farsi  sotto  e  minacciando  di
ucciderli, avendolo visto dirigersi verso la cucina,  l'imputato  era
stato  costretto  ad  anticiparlo,   dandogli   una   spinta,   nella
ragionevole  convinzione,   determinata   dalla   condotta   ingiusta
dell'altro, di dover difendere se stesso e i suoi cari da un pericolo
imminente e in assenza di alcuna valida alternativa, valutazione  che
non poteva dirsi frutto di errore, di una distorsione  interpretativa
o di un suo convincimento soggettivo. 
    Quanto, poi, all'ultima fase dell'azione lesiva,  posto  che  non
sapeva di aver gia' sferrato il colpo mortale, era comprensibile che,
ritrovandosi tra le mani solo il manico del coltello spezzato, avesse
temuto di essere rimasto disarmato, cosi' si era armato di  un  altro
coltello a punta acuminata e aveva colpito il padre prima  al  tronco
(quando l'uomo era in piedi e verosimilmente impugnava ancora l'arma)
e poi, quasi come riflesso automatico, al collo e  al  dorso,  mentre
l'altro si piegava su se stesso e  si  accasciava  al  suolo.  Queste
ultime ferite - circa venticinque - inferte in  rapidissima  sequenza
dopo  l'unica  ferita  mortale,  non  particolarmente  profonde,  con
andamento parallelo, non avevano avuto alcuna efficacia  causale  nel
provocare la morte ed erano state inferte mentre il P. stava  morendo
e non era in grado di proteggersi. 
    E se, da un punto di vista oggettivo, in quel momento non vi  era
piu' la necessita' di difendersi, tuttavia la doverosa valutazione ex
ante escludeva  che  l'imputato  avesse  ecceduto  volontariamente  i
limiti della scriminante o anche solo agito a seguito  di  un  errore
non giustificabile, in quanto era ancora animato  dalla  volonta'  di
difendersi. 
    La condotta tenuta da A., quindi, poteva scindersi in  due  fasi:
la prima che andava dalla spinta al colpo mortale,  compiuta  in  una
situazione oggettiva pienamente integrante la legittima difesa  e  la
seconda,  oggettivamente  non   indispensabile   a   difendersi,   ma
soggettivamente  caratterizzata  dalla  convinzione  (fin  da  subito
esplicitata) di  trovarsi  ancora  in  una  situazione  di  legittima
difesa,  per  la  quale  poteva  dirsi  sussistente   un'ipotesi   di
scriminante putativa. Peraltro, gli ultimi venticinque fendenti,  non
micidiali, collocati come successivi alla  coltellata  mortale  erano
ininfluenti rispetto al verificarsi dell'evento e, dunque, inidonei a
modificare il giudizio iniziale e anche solo a configurare  l'eccesso
colposo. 
    Interposto appello da parte del pubblico ministero, questa Corte,
condividendone  le  argomentazioni,  ritiene   di   dovere,   invece,
affermare la responsabilita' dell'imputato per  omicidio  volontario,
non reputando ravvisabile, contrariamente al  primo  giudice  e  come
sara' meglio chiarito nella sede di merito, un'ipotesi  di  legittima
difesa reale o putativa. 
    L'imputato nel corso del primo interrogatorio, reso alle ...  del
... (poi confermato in sede di convalida e  acquisito  in  atti,  non
essendosi sottoposto all'esame in nessuno  dei  gradi  di  giudizio),
premessa la descrizione del  contesto  familiare  nel  quale  viveva,
caratterizzato dai maltrattamenti del padre  ai  danni  della  madre,
dalla sua ossessiva  gelosia,  dal  controllo  opprimente  esercitato
sulla vita dell'altra e premesso, altresi', che quel giorno era stato
particolarmente agitato e aveva iniziato ad insultare  la  madre  non
appena  aveva  messo  piede  sulla  porta,  di  rientro  dal  lavoro,
raccontava che quando l'uomo, uscito dalla camera da letto,  ove  era
stato chiuso a parlare con il fratello, aveva iniziato a spingere  la
moglie, aveva deciso di intervenire (L. lo aveva  fatto  solo  in  un
secondo momento). Ne era nata, allora, una colluttazione,  nel  corso
della quale, avendo ritenuto che il P. si stesse dirigendo in  cucina
per armarsi, lo  aveva  preceduto,  spingendolo  verso  la  porta  di
ingresso e andando lui stesso a prendere un coltello con il quale  lo
aveva colpito. Non  sapeva  dire  ne'  con  quanti  colpi  (anche  se
ricordava di averlo attinto alla schiena anche mentre  era  a  terra)
ne' con quanti coltelli ne', ancora, cosa facessero il fratello e  la
madre in quel momento. 
    Confermava poi, in sede di udienza di convalida, di essere  stato
piu'  veloce  del  padre  e  di   essersi   armato   mentre   quello,
assolutamente privo di controllo, continuava a minacciare  lui  e  il
fratello. 
    Sebbene lacunosa in ordine alla ricostruzione  della  dinamica  e
non  gia'   nella   descrizione   del   padre,   quella   sera   come
particolarmente minaccioso non solo nei  confronti  della  moglie  ma
anche  dei  figli  intervenuti  a  difenderla  (sul  punto   venivano
acquisite   frammentarie   registrazioni   dei    dialoghi),    dalle
dichiarazioni  dell'imputato  puo'  certamente  ricavarsi  che  egli,
ritenuto che il padre  stesse  andando  a  prendere  un  coltello  e,
dunque, che lui stesso e i suoi familiari in  quel  momento  stessero
correndo un pericolo, lo avesse  preceduto,  armandosi  per  primo  e
colpendolo  mentre  era  ancora  disarmato,  con  cio'   in   realta'
anticipando l'ipotizzata azione difensiva e, in  definitiva,  ponendo
in essere un'azione offensiva. 
    Ricostruita  in  questi  termini  da   parte   dell'imputato   la
scaturigine  della  condotta  delittuosa,  contrariamente  a   quanto
ritenuto  nella  sentenza  impugnata,  nessun   elemento   utile   ad
avvalorarla puo' ricavarsi dalle deposizioni rese dai due  testi,  C.
M. e C. L., entrambi presenti in  casa  al  momento  del  fatto,  del
quale,  con  elevata  verosimiglianza,   erano   testimoni   oculari.
Premesso,  infatti,  che  erano  destinatari  di  una  pluralita'  di
contestazioni, anche nel corso dell'esame reso nel presente giudizio,
deve dissentirsi dalle valutazioni in ordine alla loro attendibilita'
espresse  dal  primo  giudice,  considerato  che  la  sequenza  delle
risposte fornite nelle due diverse sedi processuali dimostra, invece,
con evidenza il condiviso tentativo (certo umanamente  comprensibile)
di accreditare la tesi della legittima  difesa,  al  quale  tendevano
attraverso la negazione, da  parte  di  L.,  di  quanto  riferito  in
precedenza, soprattutto in ordine alle circostanze gia' enucleate dal
primo giudice («... l'essersi il padre diretto verso la cucina mentre
proferiva minacce  di  morte,  cosi'  da  far  ritenere  che  volesse
prendere un coltello per  concretizzarle,  appena  prima  che  A.  lo
anticipasse riuscendo ad armarsi; l'essersi la madre recata in  bagno
in un  momento  antecedente  alla  comparsa  sulla  scena  del  primo
coltello - circostanze  entrambe  riferite  per  la  prima  volta  in
dibattimento - l'avere il primo colpo attinto G. P.  alle  spalle»  -
fatto negato  in  dibattimento  -),  l'enfatizzazione,  da  parte  di
entrambi, con l'aggiunta di particolari sino a quel momento  inediti,
dell'atteggiamento violento  che  il  P.  avrebbe  assunto  nei  loro
confronti prima e durante quella sera e la consapevole  reticenza  in
ordine allo sviluppo  dell'azione  delittuosa  e  alla  ricostruzione
della sua dinamica. 
    Ne'  puo'  ritenersi,  come  il   primo   giudice,   che   quelle
contraddizioni proprio su  circostanze  determinanti  ai  fini  della
ricostruzione del contesto nel quale maturava  l'azione  omicidiaria,
possano dirsi superate dalle  scarsamente  credibili  giustificazioni
fornite  in  udienza  circa  quello  stato  di  shock,  che   avrebbe
condizionato  le  dichiarazioni  rese  nell'immediatezza,  inficiando
addirittura il ricordo di quanto appena avvenuto o  la  sua  corretta
verbalizzazione da parte degli operanti. 
    In  caso   di   contrasto,   infatti,   le   dichiarazioni   rese
nell'immediatezza di un fatto devono  ritenersi  dotate  di  maggiore
affidabilita' rispetto a quelle  successive,  sia  per  la  vicinanza
temporale  all'accaduto  di  cui  si  riferisce,  che  per  la   loro
spontaneita' e il minor rischio di condizionamento cui  sono  esposte
e, nella vicenda in esame, le generiche spiegazioni rese da  entrambi
i testi sulle evidenti e mai casuali incongruenze  rilevate  e  sulla
chiara inverosimiglianza di  alcuni  passaggi  non  convincono.  Tale
giudizio risulta ulteriormente avvalorato dall'evidente tentativo  di
sfuggire  alle  domande  dirette  sulla   ricostruzione   di   quanto
effettivamente avvenuto  quella  sera,  distogliendo  l'attenzione  e
spostando sistematicamente il focus sulle vicende pregresse  e  sulle
sofferenze  derivanti  dal  contesto  familiare  malato   nel   quale
vivevano, certo innegabili ma che, tuttavia,  non  possono  incidere,
nella misura determinante che vorrebbe la  difesa,  sull'accertamento
della responsabilita' del fatto delittuoso per cui  si  procede,  che
compete   a   questa   Corte   (sintomatica,    tra    l'altro,    la
sovrapponibilita'  delle  espressioni  ripetutamente  utilizzate   da
entrambi, a fronte delle contestate incongruenze dei  loro  racconti,
«sfido chiunque a essere lucido ...» e, con riferimento alla  vittima
«... e' come quando un toro vede rosso ...»). 
    Ne' poi possono ritenersi credibili laddove con una  sorprendente
coincidenza di contenuti, entrambi i testi nel corso dei  loro  esami
aggiungevano dettagli, sino a quel momento inediti, circa il pericolo
incombente che avrebbero corso quella  sera  (significativa,  tra  le
altre, l'indicazione, omessa in sede di  indagini  preliminari  dalla
C., che  quella  sera  il  marito  a  tavola  «giocherellava  con  il
coltello, con la punta ...», ripresa dal  figlio L.  e  mai  riferita
prima, nel corso dell'esame disposto da questa Corte: «... durante la
cena lui ho il ricordo che continua a  giocare  con  questo  coltello
mentre appunto la insulta, e questo fa gia' paura di per se', intanto
beve,  continua  a  essere  fuori  controllo»  e,  a   fronte   della
contestazione del  PM  circa  la  mancata  indicazione  di  tale  pur
rilevante circostanza nelle occasioni precedenti, «allora,  purtroppo
la cosa di non ricordarmi tutto, perche' sono passati  tre  anni,  ma
non gioca a mio vantaggio, perche' se io mi ricorderei  tutto,  tutta
la vita che ho passato, magari per alcuni e'  un  fascicolo,  per  me
questa e' la mia vita, quindi io ... quello che  ricordo  e'  questo.
Quello che ricordo e' questo»). 
    Escluso, quindi, contrariamente  alla  prospettazione  difensiva,
che da tali testimonianze possano ricavarsi elementi  utili  ai  fini
della valutazione della sussistenza della  legittima  difesa,  quanto
alla ricostruzione della dinamica non  puo'  non  rilevarsi  come  la
suddivisione dell'azione in due fasi operata dal  primo  giudice  sia
forzata e in parte disancorata dai dati oggettivi. 
    Premesso, infatti, che il consulente della difesa,  la  cui  tesi
veniva ripresa dal primo giudice, si esprimeva  solo  in  termini  di
mera possibilita', chiarendo a questa Corte come la sua ricostruzione
fosse stata «sulla  valutazione  di  una  compatibilita'  rispetto  a
quello che e' stato raccontato. E' stato anche tentato da  parte  mia
una ricostruzione, diciamo cosi', cristallizzata, ma, ripeto,  e  non
voglio ridirlo, molti elementi mancavano e quindi ovviamente io  sono
partita, perche'  questo  e'  stato  il  mio  quesito,  di  formulare
un'ipotesi  rispetto  alla  compatibilita'  di  cio'  che  e'   stato
riferito, che era per altro molto limitato, ecco», il medico  legale,
consulente del PM, dr. B., chiariva  come  l'esame  autoptico  avesse
consentito di individuare complessivamente  trentaquattro  ferite  da
punta e taglio, da  coltello,  quasi  esclusivamente  localizzate  al
collo e al tronco (una sola sulla  superficie  laterale  del  braccio
sinistro), piu' nello  specifico:  «dieci  ferite  erano  situate  al
collo, otto delle quali nelle porzioni anteriori e anterolaterali del
collo  e  due  invece  posteriori;  altre   ventitre   ferite   erano
localizzate  complessivamente  al  tronco,  di  queste   otto   erano
anteriori, quattro nella parte  toracica,  quindi  piu'  in  alto,  e
quattro in sede addominale; le restanti quindi erano ferite dorsali e
si estendevano dalla parte piu' alta del dorso, al limite con la base
del collo, fino alla regione lombare». Tra di esse, riferiva, ancora,
quella che aveva causato la lesione piu' grave era stata  inferta  in
zona sternale e da qui aveva attraversato l'osso, lacerando la  parte
anteriore del pericardio, fino a  cagionare  una  lesione  dell'aorta
discendente, determinando un violento sanguinamento e di  conseguenza
una morte rapida. Vi erano poi alcune altre ferite penetranti, tra di
esse tre dorsali, che avevano raggiunto la  porzione  posteriore  del
polmone e che avrebbero potuto essere risultare letali  anche  se  la
rapidita' con la quale il decesso si era in concreto  verificato  per
la lesione aortica aveva interrotto ulteriori meccanismi  patologici,
che si sarebbero sviluppati in tempi piu' lunghi. 
    Pur trattandosi di ferite tutte inferte mentre  il  soggetto  era
ancora in vita, era impossibile stabilirne la sequenza, essendo  solo
una delle possibili  ipotesi  (e,  dunque,  non  una  certezza,  come
vorrebbe, invece,  il  primo  giudice),  laddove  inferte  in  rapida
successione, che molte di esse fossero  successive  al  colpo  letale
(che comunque avrebbe garantito la sopravvivenza di  alcuni  minuti).
In ogni caso, era impossibile stabilire in che ordine  fossero  stati
sferrati i colpi e le  posizioni  reciproche  di  feritore  e  ferito
(l'andamento parallelo di alcuni gruppi di ferite suggeriva che  essi
fossero il risultato di colpi inferti in rapida successione). 
    Quanto agli esiti  del  sopralluogo,  premesso  che  il  cadavere
veniva ritrovato, disteso sulla schiena a circa 40  cm  dalla  soglia
della porta di ingresso dell'appartamento, emergeva come la  maggiore
concentrazione di sostanza ematica fosse presente al di sotto e nelle
immediate vicinanze del corpo e, soprattutto intorno  al  tavolo  del
soggiorno ove erano presenti  tracce  di  camminamento.  L'estensione
nettamente  meno  marcata  di  orme  podaliche  impresse  con  sangue
proseguiva sul pavimento  della  cucina,  tra  il  mobile  e  il  suo
ingresso (sul cassetto del mobile contenente coltelli e accessori  vi
era un'impronta papillare evidenziata da sostanza ematica, mentre  il
resto del locale non  era  stato  interessato  dall'azione).  Quattro
coltelli venivano rinvenuti a terra in  cucina  (due  piegati  a  90°
gradi, uno con la lama spezzata, tre di essi con tracce  di  sostanza
ematica, «... la presenza dei coltelli corrisponde alla linea  ideale
tracciata dalle orme insanguinate dei piedi in entrambe le  direzioni
di entrata e uscita dalla stanza»;  cfr.  sul  punto  il  verbale  di
sopralluogo), mentre altri due si trovavano,  rispettivamente,  sotto
la spalla destra e sotto la regione  dorsale  sinistra  del  cadavere
(entrambi recavano tracce ematiche sulla lama). 
    Gli elementi dai quali, pertanto, occorre muoversi  per  valutare
la sussistenza della legittima difesa  ritenuta  dal  primo  giudice,
dato  per  scontato  il  contesto  nel  quale  il  fatto  maturava  e
l'aggravarsi di quella sera delle condotte intimidatorie del P., sono
costituiti, da un lato, da quanto riferito dall'imputato,  in  questo
confermato dal fratello, di avere anticipato il padre  che  si  stava
recando in cucina, spingendolo, armandosi e colpendolo per  primo  e,
dall'altro, dai dati oggettivi emersi dal sopralluogo e  dagli  esiti
della consulenza autoptica. 
    Se   presupposti   essenziali   della   legittima   difesa   sono
un'aggressione ingiusta e una reazione legittima e  mentre  la  prima
deve concretarsi nel  pericolo  attuale  di  un'offesa  che,  se  non
neutralizzata tempestivamente sfocia  nella  lesione  di  un  diritto
(personale o patrimoniale) tutelato  dalla  legge,  la  seconda  deve
inerire  alla  necessita'  di  difendersi,  alla  inevitabilita'  del
pericolo  e  alla  proporzione  tra  difesa  e  offesa,   non   puo',
certamente, dirsi  sufficiente  al  suo  riconoscimento  un  pericolo
eventuale, futuro, meramente probabile  o  temuto.  L'attualita'  del
pericolo richiesta per la configurabilita'  della  scriminante  della
legittima difesa, infatti, implica un effettivo, preciso contegno del
soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa  ingiusta,
la quale si prospetti come concreta e  imminente,  cosi'  da  rendere
necessaria l'immediata reazione  difensiva,  sicche'  resta  estranea
all'area di applicazione della scriminante  ogni  ipotesi  di  difesa
preventiva  o  anticipata,  che  non  soddisfa  i   requisiti   della
attualita' e della necessita'. 
    Ne consegue, allora, nella  vicenda  in  esame,  che  non  vi  e'
spazio, contrariamente a quanto ritenuto dal primo  giudice,  per  la
legittima difesa neanche nella forma putativa:  la  rappresentazione,
meramente  congetturale  e  astratta,  della  generica  possibilita',
nell'immediato futuro, della perpetrazione di  atti  di  violenza  da
parte della vittima (per quanto in atteggiamento verbalmente violento
e  intimidatorio)  non  integra,   infatti,   l'ipotesi   contemplata
dall'art. 52 del codice  penale  del  pericolo  effettivo,  concreto,
attuale e specifico di alcuna offesa ne' da' adito alla  supposizione
erronea di tale pericolo cosi'  da  comportare  la  necessita'  della
difesa; la legittima difesa putativa,  infatti,  postula  i  medesimi
presupposti di quella reale con la sola differenza che nella prima la
situazione di  pericolo  non  sussiste  obiettivamente,  ma  e'  solo
supposta dall'agente a causa dell'erroneo  apprezzamento  dei  fatti.
Tale errore - che ha efficacia esimente se e'  scusabile  e  comporta
responsabilita' di cui all'art. 59 c.p., quando  sia  determinato  da
colpa - deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata  giustificazione
in quel fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso,  abbia
la  possibilita'   di   determinare   nell'agente   la   giustificata
persuasione di trovarsi esposto  al  pericolo  attuale  di  un'offesa
ingiusta, con la conseguenza che la  legittima  difesa  putativa  non
possa valutarsi alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo  e
desumersi, quindi, dal  solo  stato  d'animo  dell'agente,  dal  solo
timore o dal solo errore, dovendo, invece, essere  considerata  anche
la situazione obiettiva che abbia determinato l'errore  stesso.  Puo'
configurarsi, pertanto, se  e  in  quanto  l'erronea  opinione  della
necessita' di difendersi sia fondata su dati di  fatto  concreti,  di
per  se'  inidonei  a  creare  un  pericolo  attuale,  ma   tali   da
giustificare, nell'animo dell'agente, la ragionevole  persuasione  di
trovarsi in una situazione di pericolo, persuasione che peraltro deve
trovare  adeguata  correlazione  nel  complesso   delle   circostanze
oggettive in cui l'azione della difesa venga a estrinsecarsi. 
    Sul punto, per quanto certamente l'imputato fosse  stato  esposto
negli anni all'atteggiamento persecutorio e intimidatorio  del  padre
non solo nei confronti della madre ma anche nei confronti suoi e  del
fratello, che della donna erano  divenuti  i  custodi  e  per  quanto
quella sera, come emerge anche dai  dialoghi  registrati,  l'uomo  si
mostrasse particolarmente aggressivo nei confronti della  moglie,  di
cui credeva di avere scoperto l'infedelta', tuttavia, anche  a  voler
ritenere che nel corso della colluttazione con i figli,  dopo  averli
minacciosamente invitati a scendere sotto, avesse mostrato di volersi
recare in cucina, verosimilmente allo scopo di armarsi  di  coltello,
tale comportamento non vale ad integrare nei necessari termini  della
concretezza il pericolo di un'offesa, idonea a sfociare nella lesione
di  un  diritto  e  non  consente   di   considerare   necessaria   e
proporzionata la condotta dell'agente. 
    Doverosamente  operato,  infatti,  l'accertamento  relativo  alla
scriminante della legittima difesa, reale o putativa  e  dell'eccesso
colposo con giudizio «ex ante», calato all'interno delle specifiche e
peculiari  circostanze  concrete  che  connotano  la  fattispecie  da
esaminare, secondo  una  valutazione  di  carattere  relativo  e  non
assoluto e astratta, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di
merito - cui spetta esaminare, oltre che  le  modalita'  del  singolo
episodio in  se'  considerato,  anche  tutti  gli  elementi  fattuali
antecedenti all'azione, che possano  aver  avuto  concreta  incidenza
sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover difendere  se'  o
altri da un'ingiusta aggressione - appare evidente come, pur a fronte
della condotta aggressiva del padre, la circostanza che la  madre  si
trovasse in bagno e non fosse in quel  momento  esposta  al  pericolo
concreto di un'offesa, il dato di fatto che l'imputato si trovasse in
compagnia del fratello, che fossero entrambi nel pieno  vigore  delle
loro forze, che gia' in passato  avessero  affrontato  il  padre  con
successo,  che  quest'ultimo  fosse   annebbiato   dallo   stato   di
ubriachezza nel quale versava e  che,  soprattutto,  avesse  al  piu'
manifestato  l'intento  di  armarsi,   senza   averlo   concretamente
realizzato, venendo in quel  momento  allontanato  dal  suo  presunto
obiettivo  e  spinto   in   direzione   della   porta   di   ingresso
(l'aggressione si compiva  nella  sala  da  pranzo  e  nell'ingresso,
mentre la cucina non veniva interessata ne'  risulta  che  l'uomo  vi
fosse  effettivamente  entrato)  dimostrano   l'insussistenza   della
scriminante sia sotto il profilo della necessita'  che  sotto  quello
della inevitabilita' dell'azione posta in essere. 
    Ne'  puo'  trovare  spazio  un'ipotesi  di  eccesso  colposo   in
legittima  difesa,  che  si  verifica  quando,  sussistendo  a  monte
l'esimente, la giusta proporzione tra offesa e difesa venga meno  per
colpa, intesa come errore inescusabile  in  seguito  a  imprudenza  o
imperizia nel calcolare  il  pericolo  e  i  mezzi  di  salvezza.  Si
fuoriesce, infatti, dall'eccesso colposo tutte  le  volte  in  cui  i
limiti  imposti  dalla  necessita'  difensiva  vengano  superati   in
conseguenza della scelta deliberata  di  una  condotta  reattiva,  la
quale comporti il superamento, cosciente e volontario di tali limiti,
trasfigurandosi in uno strumento di aggressione e, nel caso in esame,
la  sede  dei  colpi  (almeno  quindici  in  regione   dorsale),   la
reiterazione degli stessi (trentaquattro coltellate),  il  numero  di
armi impiegate (sei coltelli) depongono univocamente nel senso di una
condotta francamente aggressiva. 
    Deve, insomma, ritenersi che la condotta lesiva posta  in  essere
abbia decisamente travalicato i limiti della mera reazione difensiva,
non soltanto per la sproporzione della difesa, ma anche per l'assenza
del requisito della inevitabilita' altrimenti  del  pericolo,  inteso
come possibilita' di difendersi con una offesa meno grave  di  quella
arrecata,   cosi'   dovendosi   escludere,   come   visto,   sia   la
configurabilita' della causa di giustificazione di  cui  all'art.  52
c.p.,  ritenuta,  invece,  dal  giudice  di  prime   cure   che,   di
conseguenza, la stessa configurabilita' dell'eccesso colposo  di  cui
all'art. 55 c.p. 
    Tali  conclusioni   appaiono   confortate   dagli   esiti   degli
accertamenti medico-legali  compiuti  sull'imputato  (in  particolare
quelli eseguiti  dal  perito  e  dal  consulente  del  PM)  che,  nel
riconoscergli una parziale infermita' di  mente,  conseguente  ad  un
disturbo dell'adattamento a prevalente componente ansiosa associata a
screzi post-traumatici in soggetto con personalita'  disarmonica  per
immaturita' affettiva e tratti rigidi riconducibili al cluster B  dei
disturbi di personalita', evidenziavano un'elaborazione solo parziale
dei dati di realta' che gli derivavano dall'ambiente,  una  sorta  di
vulnerabilita' interpretativa  che  aveva  compromesso  il  controllo
degli stimoli e degli impulsi ad agire (cfr. relazione  R.:  «...  il
primo dato e', dunque, che  il  comportamento-reato,  soprattutto  in
relazione alla violenza con cui  si  e'  espresso,  sembra  porsi  in
termini di "frattura" rispetto al continuum esistenza del  p  ...  Il
secondo punto riguarda l'atmosfera soggettiva in cui  si  colloca  il
delitto che rimanda ad una situazione di enorme  tensione  alimentata
da un angoscioso timore verso la situazione in atto, verso  cio'  che
essa rappresentava per lui. Esiste, dunque,  una  chiara  connessione
tra l'assetto personologico  del  p.,  i  vissuti  disadattativi,  lo
stress situazionale e l'omicidio. Ma tutto  cio'  non  sarebbe  stato
ancora sufficiente a produrre l'esito drammatico  in  assenza  di  un
elemento che fungesse da detonante, che puo' essere individuato nella
vulnerabilita'   interpretativa   che    la    specifica    struttura
personologica del p. ha sotto pressione  ...  in  queste  condizioni,
quando l'ansia si fa destruente, agendo come un  grimaldello  su  una
struttura psichica affettivamente ed emotivamente  immatura  per  gli
anni di sofferenza, quando -  come  nel  caso  del  p.  -  lo  stress
relazionale e' al culmine  ed  i  vissuti  di  minaccia  permeano  il
contatto con  la  realta',  sono  possibili  improvvise,  drammatiche
azioni distruttive che, anche al di  fuori  delle  forme  psicotiche,
possono assumere "valore di infermita'" in senso medico-legale ...»). 
    Qualificato, pertanto, il  fatto  come  omicidio  volontario  (il
viraggio interpretativo  descritto  in  precedenza,  non  sussumibile
nell'ipotesi putativa della scriminante in  esame,  forniva  adeguata
spiegazione dell'evidente discontrollo  da  parte  dell'imputato  sia
degli stimoli e  degli  impulsi  ad  agire  che  delle  modalita'  di
realizzazione  dell'azione)  puo',  tuttavia,  ritenersi  sussistente
l'attenuante della provocazione. 
    Ai  fini  del  suo   riconoscimento,   infatti,   occorrono   tre
condizioni, ovvero  lo  stato  d'ira,  costituito  da  un'alterazione
emotiva che puo' anche protrarsi nel tempo e non essere  in  rapporto
di immediatezza con il  fatto  ingiusto  altrui,  il  fatto  ingiusto
altrui, che deve essere connotato  dal  carattere  della  ingiustizia
obiettiva e un rapporto di  causalita'  psicologica  e  non  di  mera
occasionalita' tra l'offesa e la  reazione,  indipendentemente  dalla
proporzionalita' tra esse e sempre che sia riscontrabile una  qualche
adeguatezza tra l'una e l'altra condotta. 
    In  modo  dissimile  dall'esimente  della  legittima  difesa,  si
richiede, pertanto,  non  gia'  la  proporzione  tra  la  reazione  e
l'offesa ma l'adeguatezza di quella a questa, quale esaustivo e utile
parametro di  valutazione  dello  stato  d'animo  dell'autore,  nella
considerazione che  un'azione  eccedente  l'adeguatezza  non  sarebbe
conseguente allo stato di ira determinato dal fatto ingiusto  altrui.
E al fine di  stabilire  tale  adeguatezza,  non  e'  consentita  una
valutazione  limitata  all'ultimo   episodio   offensivo   al   quale
l'imputato  abbia  reagito,  dovendosi  quella  estendere   a   tutta
l'eventuale serie di atti  similari  ripetuti  nel  tempo,  idonei  a
potenziare, per accumulo, la carica afflittiva e tali da incidere sul
rapporto tra offesa e reazione. 
    Nel caso in esame appare evidente come l'imputato avesse agito in
stato  di  ira,  perdendo   il   controllo   di   se'   (discontrollo
ulteriormente  accentuato  dal  disturbo   psicologico   oggetto   di
accertamento) in conseguenza del fatto ingiusto altrui  ovvero  della
condotta maltrattante del padre protrattasi nel tempo. E che sussista
un rapporto di causalita' psicologica tra  le  condotte  maltrattanti
del padre e l'azione delittuosa posta in essere, emerge con chiarezza
dalla ricostruzione cronologica degli accadimenti e dal contesto  nel
quale si inquadravano, caratterizzato da una serie ripetuta nel tempo
di  atti  contrari  a  norme  giuridiche  e  a  regole  primarie   di
convivenza, idonei, sul piano causale, a potenziare per  accumulo  la
carica afflittiva di ingiusta lesione dei diritti dell'offeso e  tali
da assumere rilevanza nel rapporto causale offesa-reazione.  In  tale
rapporto  di  causalita'  psicologica,  oggettivamente  esistente   e
pienamente riscontrato, si inseriva, poi, amplificandone gli effetti,
sia  per  il  viraggio  interpretativo  della  realta'  che  per   il
discontrollo degli impulsi anche nella fase esecutiva  dell'omicidio,
l'accertato vizio parziale di mente. 
    Ritiene,   ancora   la   Corte,   possano   essere   riconosciute
all'imputato, in ragione della  giovanissima  eta',  dello  stato  di
incensuratezza, del contesto nel quale il fatto  maturava,  del  buon
comportamento processuale tenuto, le circostanze attenuanti generiche
oltre che, evidentemente, l'attenuante del vizio parziale di mente. 
    Tali attenuanti,  ad  avviso  della  Corte,  devono  operare  con
giudizio di prevalenza sulla contestata  aggravante,  giudizio,  allo
stato precluso (ad eccezione che per quella di cui all'art. 89  c.p.)
dal disposto di cui all'art. 577, terzo comma c.p.p. 
    Non  puo',  invece,  ritenersi  meritevole  di  accoglimento   la
richiesta difensiva di riconoscimento dell'attenuante di cui all'art.
62, n. 1 c.p. Premesso, infatti, che perche'  possa  dirsi  integrata
non e' sufficiente l'intima convinzione dell'agente di perseguire  un
fine  moralmente   apprezzabile,   essendo   necessaria   l'obiettiva
rispondenza  del  motivo  perseguito  a  valori   etici   o   sociali
effettivamente   apprezzabili,    riconosciuti    preminenti    dalla
collettivita' e oggetto di un generale consenso, nel caso in esame la
brutale azione omicidiaria posta in essere nei confronti  del  padre,
per  quanto  abitualmente  maltrattante,  non  appare  oggettivamente
rispondente ai quei valori etici  generalmente  riconosciuti  quanto,
piuttosto, alla preminente esigenza soggettiva  di  liberarsi  da  un
contesto malato, opprimente e, in definitiva, non piu' sopportabile. 
    Peraltro,   la   possibilita'   di   applicare    simultaneamente
l'attenuante dei motivi di particolare  valore  morale  o  sociale  e
quella della provocazione e' subordinata all'accertamento in concreto
della loro ascrivibilita' a distinte situazioni, poiche'  qualora  il
fatto che ne e' alla base sia unico, allora per il principio  del  ne
bis in idem sostanziale, che impedisce la reiterata  valutazione  del
medesimo fatto ai fini della riduzione della  pena,  deve  applicarsi
una sola di tali circostanze. E nel caso in esame, l'attenuante della
provocazione trova fondamento  nell'accertata  condotta  maltrattante
del padre che, nella prospettazione difensiva,  legittimerebbe  anche
il riconoscimento  dell'attenuante  di  avere  agito  per  motivi  di
particolare  valore  morale  o  sociale,  da   ritenersi,   pertanto,
concretamente preclusa. 
Non manifesta infondatezza della questione 
    La Corte costituzionale ha piu' volte affermato  che  deroghe  al
regime   ordinario   di   bilanciamento   delle   circostanze    sono
costituzionalmente ammissibili e rientrano nell'ambito  delle  scelte
discrezionali  del  legislatore,  risultando  sindacabili  solo   ove
«trasmodino nella manifesta irragionevolezza  o  nell'arbitrio»,  non
potendo in alcun caso giungere «a  determinare  un'alterazione  degli
equilibri  costituzionalmente  imposti  sulla  strutturazione   della
responsabilita' penale». 
    Nella maggior parte dei casi le dichiarazioni  di  illegittimita'
costituzionale  delle  norme  derogatorie  al  regime  ordinario   di
bilanciamento hanno riguardato «circostanze espressive  di  un  minor
disvalore  del  fatto  dal  punto  di  vista  della  sua   dimensione
offensiva», in quanto riferite  ad  attenuanti  a  effetto  speciale:
cosi' la  «lieve  entita'»  nel  delitto  di  produzione  e  traffico
illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), la  «particolare
tenuita'» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014),  la
«minore gravita'» nel delitto di violenza sessuale (sentenza  n.  106
del 2014), il «danno patrimoniale di speciale tenuita'»  nei  delitti
di bancarotta e ricorso abusivo  al  credito  (sentenza  n.  205  del
2017). In un caso la dichiarazione  di  illegittimita'  ha  avuto  ad
oggetto il divieto di prevalenza di una circostanza  -  l'essersi  il
reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico  di
stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori - diretta a premiare
l'imputato per la propria condotta post delictum (sentenza n. 74  del
2016). 
    Piu'  di  recente,  pero',  per  quello  che  qui   importa,   la
declaratoria di incostituzionalita' ha riguardato l'art.  69,  quarto
comma del codice penale, nella parte in cui prevedeva il  divieto  di
prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 89 del codice
penale sulla circostanza aggravante della recidiva  di  cui  all'art.
99,  quarto  comma  c.p.,   questione   concernente,   pertanto   una
circostanza attenuante  espressiva  non  gia',  sul  piano  oggettivo
(sentenza n. 73 del  2020)  di  una  minore  offensivita'  del  fatto
rispetto agli interessi protetti  dalla  norma  penale,  ne'  di  una
finalita'  premiate  rispetto  a  condotte  post   delictum,   quanto
piuttosto della ridotta rimproverabilita' soggettiva dell'autore  che
in quel caso deriva dal suo minore grado  di  discernimento  rispetto
alla propria condotta e  dalla  minore  capacita'  di  controllo  dei
propri  impulsi,  in  ragione  delle  patologie  o  disturbi  che  lo
affliggono (tali da scemare grandemente la sua capacita' di intendere
e di volere). 
    In quella sede la Corte  costituzionale  ha  osservato  come  «il
principio di proporzionalita' della pena rispetto alla  gravita'  del
reato, da tempo affermato da questa Corte sulla base di  una  lettura
congiunta degli articoli 3 e 27, terzo comma, della  Costituzione,  a
partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993 (in senso conforme,  ex
multis, sentenza n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236  del  2016),
esige in via generale che la pena  sia  adeguatamente  calibrata  non
solo al concreto contenuto di offensivita' del fatto di reato per gli
interessi protetti, ma anche al  disvalore  soggettivo  espresso  dal
fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il quantum di  disvalore
soggettivo dipende in maniera determinante  non  solo  dal  contenuto
della volonta' criminosa (dolosa o colposa) e dal grado  del  dolo  o
della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori  che  hanno
influito sul processo motivazionale dell'autore,  rendendolo  piu'  o
meno rimproverabile ... il principio di proporzionalita'  della  pena
desumibile dagli articoli 3 e 27,  terzo  comma,  della  Costituzione
esige,  insomma,  in  via   generale,   che   al   minor   grado   di
rimproverabilita' soggettiva corrisponda una pena inferiore  rispetto
a quella che sarebbe applicabile a parita' di disvalore oggettivo del
fatto, "in modo  da  assicurare  altresi'  che  la  pena  appaia  una
risposta  -  oltre  che  non  sproporzionata  -  il  piu'   possibile
individualizzata e dunque  calibrata  sulla  situazione  del  singolo
condannato, in attuazione del mandato costituzionale di 'personalita'
della responsabilita' penale di cui all'art. 27, prima  comma,  della
Costituzione" (sentenza n. 222 del 2018». 
    Fatta questa premessa appare, allora, evidente la  non  manifesta
infondatezza della questione che si  intende  sollevare,  considerato
che il divieto di prevalenza stabilito dal terzo comma dall'art.  577
c.p. con riferimento alla circostanza attenuante della  provocazione,
non consente di tenere conto, ai fini della graduazione  della  pena,
dell'intensita' del dolo che animava il C., della motivazione che  lo
spingeva  al  delitto  e,  in  definitiva,  del  contesto  nel  quale
maturava, concretamente rilevante ai fini della valutazione della sua
capacita' a delinquere. L'imputato, infatti, si  trovava  esposto  da
anni a comportamenti posti in essere dal padre evidentemente contrari
sia a norme giuridiche che a norme sociali  e  di  costume  regolanti
l'ordinaria convivenza e l'azione omicidiaria nasceva, per  accumulo,
proprio sotto lo stimolo di tali  reiterati  comportamenti  ingiusti,
protrattisi fino all'ultimo  (la  provocazione,  infatti,  oltre  che
istantanea puo'  essere  lenta,  protraendosi  nel  tempo  senza  mai
raggiungere quella intensita' di stimolazione tale  da  produrre  nel
perseguitato una conflagrazione reattiva ma  determinando  in  questi
una accumulazione  degli  stimoli  psichici  cui  e'  stato  esposto,
destinata ad esplodere,  all'occasione,  nel  comportamento  violento
reattivo all'altrui fatto ingiusto). 
    E di tale peculiare condizione soggettiva, che trovava origine in
un  contesto  oggettivamente  ricostruito  e  costituiva   anche   il
substrato dello sviluppo del disturbo psicologico dal quale risultava
affetto (che, come  visto,  lo  portava  ad  una  compromissione  del
sentimento  di  realta'  sotto  una  spinta  ansioso-interpretativa),
occorre tenere conto nella concreta graduazione della  sanzione,  nel
rispetto dell'esigenza di rango  costituzionale  di  determinare  una
pena proporzionata e calibrata sull'effettiva personalita' del reo  e
sul suo grado di rimproverabilita'. 
    Il divieto di prevalenza di tali attenuanti, posto dal richiamato
art. 577 del  codice  penale  appare,  poi,  ulteriormente  distonico
rispetto al sistema, ove si consideri il panorama socio-culturale nel
quale si inseriva  e  la  ratio  che  animava  la  norma  che  lo  ha
introdotto. 
    La legge 19 luglio 2019, n. 69, denominata Codice Rosso, infatti,
che ha introdotto tra l'altro la norma in esame, era  ispirata  dalla
necessita' di offrire una risposta severa a quei  fenomeni  criminali
caratterizzati  dal  collegamento  tra  l'azione  omicidiaria  e   un
rapporto di prevaricazione e di forza fondato sul genere, normalmente
rinvenibile nell'uccisione della donna da parte del suo compagno;  il
femminicidio e' proprio l'uccisione di una donna per questioni legate
al genere e la legislazione  in  materia  e'  finalizzata  a  rendere
effettiva la prevenzione  e  protezione  nell'ambito  della  violenza
contro  le  donne,  nel  perimetro  tracciato  dalla  convenzione  di
Istanbul (ove si legge che tale violenza e'  una  manifestazione  dei
rapporti di forza storicamente  diseguali  tra  i  sessi,  che  hanno
portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei  loro
confronti  da  parte  degli  uomini  e   impedito   la   loro   piena
emancipazione). Il cosiddetto Codice Rosso mira appunto a contrastare
tale fenomeno, individuando il fine di  tali  interventi  legislativi
nella considerazione della particolare vulnerabilita' delle  vittime,
ottica nella quale le misure di prevenzione alla violenza  di  genere
hanno subito un inasprimento della risposta sanzionatoria. 
    Appare  allora  evidente  come  l'art.   577,   comma   3   c.p.,
nell'operare anche con  riferimento  a  rapporti  estranei  a  quelli
descritti  in  precedenza,  quali   l'ascendenza,   la   discendenza,
l'adozione, l'unione civile, la stabile convivenza  e  in  genere  la
relazione  affettiva,  precluda  la  possibilita'  di  valutare   una
pluralita' di  variabili  anche  dal  punto  di  vista  criminologico
dell'agente, che incidono sulla sua condotta omicidiaria e sulla  sua
riprovevolezza. E  poiche'  si  tratta  di  relazioni  oggettivamente
incontestabili, occorre che l'interprete si domandi se l'omicidio sia
stato effettivamente conseguenza di rapporti  di  forza  diseguali  o
comunque asimmetrici tra agente e vittima. 
    Proprio nel caso in esame il fatto omicidiario di cui  il  C.  e'
responsabile appare slegato da quei rapporti  interpersonali  che  il
Codice Rosso intendeva tutelare con il divieto di prevalenza  oggetto
di  censura  e,  anzi,  la  condotta  maturava  in   una   situazione
diametralmente opposta a quella pensata dal legislatore,  considerato
che  il  soggetto  che  commetteva  l'omicidio,  nello  stato   d'ira
determinato dal fatto ingiusto di colui che ne era  la  vittima,  nel
corso  della  convivenza  familiare  aveva  assistito  alle  abituali
condotte maltrattanti del padre ai danni della madre, dal quale aveva
anche personalmente subito frequenti aggressioni verbali  e  talvolta
fisiche e si era fatto carico,  sacrificando  la  sua  giovane  eta',
della protezione della donna e  la  condotta  delittuosa,  del  tutto
estranea  alla  sopraffazione  di  genere,  costituiva   proprio   il
drammatico epilogo di tali malate dinamiche familiari,  sofferte  per
anni, suo malgrado, dal ragazzo. 
    Escludere la prevalenza dell'attenuante della provocazione con il
correlato profilo  soggettivo  (assimilabile  al  vizio  di  mente  e
all'attenuante di cui all'art. 62, n.  1  c.p.)  sull'aggravante  del
fatto omicidiario commesso contro il padre e, quindi, con un giudizio
di  circostanze  eterogenee  al  piu'  di  equivalenza   (salvo   poi
considerare il vizio parziale di mente) cosi', peraltro,  equiparando
situazioni  affatto  diverse,  quali  appunto   quelle   oggetto   di
attenzione da parte del legislatore e, dunque,  determinare  la  pena
finale in misura non inferiore ai quattordici anni di reclusione  (in
ragione dell'attenuante di cui all'art. 89 c.p.) presenta dei profili
di  illegittimita'  costituzionale  in  relazione  al  principio   di
uguaglianza e alla funzione di  proporzionalita'  e  di  rieducazione
della pena. 
    Con  riferimento  all'art.  3  della  Costituzione,  il   negare,
rispetto   all'aggravante   in   questione,   la   prevalenza   della
provocazione, la cui  conformazione  giuridica  appare  ben  distante
rispetto allo spirito  e  agli  obiettivi  della  novella  del  2019,
presenta  elementi  di  ingiustificabile  disarmonia  anche  rispetto
all'attenuante  dell'avere  il  colpevole   agito   per   motivi   di
particolare valore e  sociale  che,  viceversa,  puo'  essere  ancora
ritenuta prevalente ed e' altresi' evidente la  violazione  dell'art.
27 della Costituzione, in quanto  la  pena  finale  puo'  presentarsi
rispetto  alla  complessiva  valutazione  del  fatto,   assolutamente
sproporzionata, impedendo in tal modo al trattamento sanzionatorio di
esplicare la propria funzione educativa. 
    Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte sopra in merito
alla contrarieta' ai principi costituzionali di cui agli articoli 3 e
27 della Costituzione del divieto  di  prevalenza  sancito  dall'art.
577,  terzo  comma,  del  codice  penale  possano  valere  anche  con
riferimento alle attenuanti generiche concorrenti con l'aggravante di
cui all'art. 577, primo comma, n. 1 del codice penale. 
    Le circostanze attenuanti atipiche rappresentano uno strumento di
individualizzazione della risposta sanzionatoria li dove sussistano -
in positivo - elementi  del  fatto  o  della  personalita',  tali  da
rendere necessaria la  mitigazione,  non  previsti  espressamente  da
altra disposizione di legge. 
    Le Sezioni Unite  della  Suprema  Corte  nella  recente  sentenza
20808/2019 hanno ribadito  che  «le  attenuanti  generiche  hanno  la
funzione di  adeguare  la  pena  al  caso  concreto,  permettendo  la
valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non  tipizzati  ma
che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di
pena», precisando che «la ragion d'essere della previsione  normativa
recata dall'art. 62-bis del codice penale e' quella di consentire  al
giudice un adeguamento, in senso piu' favorevole all'imputato,  della
sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari  e  non
codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che  di
esso si e' reso responsabile (Cass., S.U. 20808/2019). 
    L'«individualizzazione»  della  pena,  in  modo  da  tener  conto
dell'effettiva entita' e delle specifiche esigenze dei singoli  casi,
a cui mira  l'istituto  delle  attenuanti  generiche,  si  pone  come
naturale attuazione e sviluppo dei principi costituzionali  tanto  di
ordine  generale  (principio   di   uguaglianza)   quanto   attinenti
direttamente  alla  materia  penale.  L'adeguamento  delle   risposte
punitive  ai  casi  concreti  -  in  termini   di   uguaglianza   e/o
differenziazione di trattamento - contribuisce, da un lato, a rendere
quanto piu' possibile «personale» la  responsabilita'  penale,  nella
prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma, e nello stesso  tempo,
e' strumento per una determinazione della pena quanto piu'  possibile
«finalizzata» nella prospettiva  dell'art.  27,  terzo  comma,  della
Costituzione. 
    La preclusione introdotta dalla legge n. 69/2019, derogatoria  al
principio generale che governa la complessa  attivita'  commisurativa
della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione
della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo
finalisticamente  indirizzato  dall'art.  27,  terzo   comma,   della
Costituzione, diviene adeguata al caso  di  specie  anche  per  mezzo
dell'applicazione delle circostanze (Corte costituzionale  183/2011),
espropria  il  giudice  del  potere  di  valutare  adeguatamente   le
peculiarita' del caso concreto e pervenire cosi' alla definizione del
trattamento   sanzionatorio   piu'   conforme   alle   esigenze    di
risocializzazione e di rieducazione del reo. 
    Ne' i dubbi  di  costituzionalita'  possono  ritenersi  superati,
considerando che la preclusione limita solo parzialmente tale potere,
il  quale  continua  ad  avere  un  ampio  ambito  di   esplicazione,
attraverso la possibilita' di spaziare tra il  minimo  e  il  massimo
edittale,  con  l'integrazione  delle  diminuzioni   per   le   altre
circostanze eventualmente esistenti, poiche' in caso di reati  puniti
con pena elevata anche nel minimo, quale l'omicidio, l'impossibilita'
di  operare  la  diminuzione  conseguente  al  riconoscimento   delle
attenuanti puo' determinare in concreto (come avverrebbe nel caso  di
specie)  l'applicazione  di  una  pena  sproporzionata  per   eccesso
rispetto  al  fatto  ed  alla  personalita'   dell'imputato,   dunque
avvertita   come   ingiusta   dal   condannato    (oltreche'    dalla
collettivita'),  vanificandone  la  finalita'  rieducativa   prevista
dall'art.  27,   terzo   comma,   della   Costituzione.   (v.   Corte
costituzionale 185/2015). 
    Inoltre l'impossibilita' di  valorizzare  adeguatamente  elementi
positivi  emersi  a  favore  dell'imputato,  indicativi  di   ridotta
capacita' a delinquere, quali la giovanissima eta' dell'imputato,  il
positivo giudizio  sulla  sua  personalita',  la  vita  anteatta,  il
comportamento successivo al reato e quello processuale, determina una
parificazione della risposta sanzionatoria  in  situazioni  personali
tra loro differenti, irragionevole in quanto fondata sulla  oggettiva
sussistenza del legame  familiare  tra  vittima  e  colpevole,  senza
tenere conto dei casi in cui detto legame e'  gravemente  compromesso
dal comportamento ingiusto della vittima; col che viene a crearsi una
disparita' ingiustificata  rispetto  al  trattamento  riservato  alla
generalita' degli autori di reato,  in  contrasto  col  principio  di
uguaglianza sancito dall'art. 3, della Costituzione. 
    In conclusione, quindi, l'art. 577, comma  3,  del codice  penale
appare  in  contrasto  con  il  principio   di   uguaglianza   e   di
proporzionalita' della sanzione penale e, sotto quest'ultimo aspetto,
la pena che, influenzata dal divieto di prevalenza delle  circostanze
attenuanti  generiche  e  della   provocazione,   andrebbe   irrogata
all'imputato, non assolverebbe ne' a  una  funzione  rieducativa  del
colpevole  ne'  a  quella  specialpreventiva,  dal  momento  che  gli
conferirebbe  una  pericolosita'  sociale   sproporzionata   rispetto
all'effettiva dinamica  della  condotta  omicida  e  dello  stato  di
sofferenza in cui e' maturata.