CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Settima sezione civile Nella persona del consigliere designato, dott. Michele Magliulo, nel procedimento iscritto al n. 947/2023 V.G., in materia di equa riparazione ex legge n. 89/2001, vertente tra Edeh Andrew Nnamdi (C.F. DHENRW84C19Z335I), rappresentato e difeso dall'avv. Giammarino Giuseppe ricorrente; e Ministero della giustizia, (C.F. 97591110586), in persona del Ministro pro tempore resistente; letto il ricorso presentato in data 22 aprile 2023 da Edeh Andrew Nnamdi con il quale viene richiesto l'indennizzo per l'irragionevole durata del processo di seguito indicato; Osserva Il ricorrente, sig. Edeh Andrew Nnamdi, ha chiesto l'indennizzo per l'irragionevole durata del processo civile svoltosi in primo grado dinanzi al Tribunale di Napoli - Sezione specializzata in materia di immigrazione, da lui introdotto con ricorso ex art. 35-bis decreto legislativo n. 25/2008 depositato in data 25 ottobre 2018 e conclusosi il 21 marzo 2022 con il deposito del decreto n. cron. 2695/2022, che aveva parzialmente accolto - riconoscendo la protezione speciale ex art. 32 comma 3 decreto legislativo n. 25/08 come decreto-legge n. 130/20 conv. in legge n. 173/20 - l'impugnazione della decisione della Commissione Territoriale di Caserta, notificata in data 28 settembre 2018, con la quale era stata negata al richiedente la protezione internazionale ed il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il ricorso e' certamente ammissibile ex art. 4 legge n. 89/2011, in quanto e' stato depositato il 24 aprile 2023, quindi, nel rispetto del termine semestrale previsto per la proposizione del ricorso ex legge Pinto. Parte ricorrente ha dedotto che il giudizio presupposto, durato 3 anni, 4 mesi e 24 giorni, ha superato il termine di durata ragionevole dei procedimenti che, come per quello in questione, dovrebbe identificarsi in sei mesi, ossia nel termine fissato dal decreto legislativo n. 150/2011 in 6 mesi per il primo grado di giudizio. A sostegno dell'assunto del ricorrente si e' anche sostenuto che il termine di quattro mesi fissato per la decisione del Tribunale dall'art. 35 bis comma 13 decreto legislativo del 28 gennaio 2008 n. 25, modificato dal decreto-legge 17 febbraio 2017 n.13, convertito in legge 13 aprile 2017 n.46, sia da considerarsi lex specialis rispetto al termine fissato, in via generale, in tre anni per il primo grado di giudizio dall'art. 2, comma 2-bis, legge n. 89/2001. La tesi sostenuta dal ricorrente non risulta condivisibile. L'art. 2, comma 2-bis legge Pinto stabilisce che «si considera rispettato il termine ragionevole di cui al comma 1 se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, due in secondo grado e un anno nel giudizio di legittimita'». Tali disposizioni sono state introdotte dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, al fine di adottare una disciplina legale uniforme dei termini entro cui il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Ad avviso di questo giudice, il superamento del termine per la decisione previsto dalla normativa sopra richiamata, che ha pacificamente natura ordinatoria, non rileva di per se' ai fini dell'equo indennizzo, perche' non puo' ritenersi che tale termine, avente finalita' meramente acceleratoria, possa considerarsi sostitutivo e derogatorio di quello previsto specificamente dalla legge in materia di equa riparazione. Vi e', cioe', un'obiettiva indipendenza dei due termini rispettivamente previsti dall'ordinamento per la decisione del procedimento de quo e per la ragionevole durata del processo, di guisa che il superamento del primo di essi e' insufficiente ai fini del riconoscimento del diritto all'equo indennizzo di cui alla legge n. 89 del 2001. Un ragionamento analogo a quello appena svolto e' pacificamente seguito per il termine di durata ragionevole dei procedimenti della legge Pinto, fissato notoriamente in un anno nonostante che l'art. 3 comma 4 preveda che il giudizio debba essere deciso entro trenta giorni dal deposito del ricorso, e l'art. 5 ter comma 5 che la definizione del giudizio di opposizione debba avvenire entro quattro mesi dal deposito del ricorso l'unico termine decisivo resta quello stabilito dalla legge Pinto, non potendosi dubitare che l'art. 2, comma 2-ter citato si applichi anche al procedimento in materia di protezione internazionale perche' esso si estende «ad ogni procedimento civile per cui non sia disposto diversamente, e non solo al giudizio ordinario di cognizione; tanto e' vero che, per alcune procedure speciali, come quella esecutiva, e quella concorsuale, la legge ha previsto termini diversi e specifici» (cosi' Corte costituzionale n. 36 del 19 febbraio 2016). Cio' posto, vanno, per converso, considerati: la natura personalissima dei diritti umani coinvolti (riconosciuti dalle convenzioni internazionali e dalla Costituzione italiana), la peculiarita' del procedimento connotato dalla semplicita' delle forme e da esigenze di snellezza e sommarieta' delle indagini (cosi' Cass. 10 settembre 2020, n.18787), la stessa previsione del termine di quattro mesi per la decisione del giudice (peraltro non reclamabile), nonche' l'indicazione contenuta nel comma 15 dello stesso art. 35-bis secondo cui la «controversia e' trattata in ogni grado in via di urgenza»; rilievi dai quali si desume, in modo univoco e convergente, che la tutela in materia di riconoscimento della protezione internazionale debba essere certamente soddisfatta con particolare rapidita' e celerita'. Alla stregua di tali considerazioni, non vi e' dubbio che la speciale delicatezza e la notevole rilevanza della materia oggetto dei procedimenti in esame, inerente il godimento di diritti umani fondamentali, esigono, nei giudici, un'accentuata diligenza ed una specifica loro efficienza anche sul piano temporale, con conseguente riduzione del parametro di ragionevole durata del processo. Non puo', percio', ritenersi che, anche rispetto a tale procedimento, sia adeguato e rispettoso dei principi costituzionali il termine triennale di durata ragionevole previsto in via generale con riferimento ai procedimenti civili. Ricapitolando, l'art. 2 comma 2-bis della legge n. 89/2001, imponendo di considerare ragionevole la durata triennale del procedimento di primo grado in materia di protezione internazionale, finisce per equiparare e trattare in modo uniforme procedure del tutto diverse sotto l'aspetto della congruita' della durata ragionevole dei giudizi, posto che la individuazione di tale durata ex art. 111 secondo comma Cost. non puo' prescindere dalle caratteristiche e dalla natura del procedimento. In tal senso, va altresi' ricordato che, in sede di interpretazione dell'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, la Corte di Strasburgo ha sempre tenuto conto, in particolare, della complessita' della causa e della rilevanza della «posta in gioco» al fine della determinazione del termine ragionevole, e, tra gli esempi di categorie di cause che, per loro natura, esigono particolare diligenza e sollecitudine sono fatte rientrare le cause in materia di stato civile e di capacita' personale (cfr. Corte europea diritti dell'uomo sez. I, 5 dicembre 2019, n. 35516). Ne consegue che l'art. 2 comma 2-bis citato, nella parte in cui si applica anche ai procedimenti in materia di protezione internazionale, appare contrastante sia con l'art. 3, primo comma della Costituzione, sia con gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, per violazione degli obblighi internazionali derivanti dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali che stabilisce l'analogo principio del «termine ragionevole». Ne' il giudice potrebbe interpretare l'art. 2, comma 2-bis, in senso conforme alla Costituzione, derogando alla suddetta previsione normativa e sostituendo al termine triennale un termine inferiore da lui individuato, ad esempio, in via analogica, quello annuale previsto per le procedure di legge Pinto, cosi' come deciso in alcuni precedenti della Corte di Appello di Napoli. Al riguardo, deve condividersi l'opinione secondo la quale i commi 2-bis e 2-ter dell'art. 2, nell'affermare che il termine ivi indicato «Si considera rispettato», sono univoci e non possono che essere intesi nel senso che tale termine debba essere ritenuto sempre ragionevole, perche' considerato dal legislatore insensibile alla natura del procedimento ed all'eventuale accertamento della maggiore semplicita' dello stesso. Cio' trova conferma nel fatto che questa affermazione si inserisce nell'ambito di un intervento normativo diretto a sottrarre alla discrezionalita' giudiziaria la determinazione della congruita' del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale. In tal senso si e' correttamente osservato che «di fronte all'esplicita previsione normativa, che non prevede durate diversificate in ragione del diverso grado di complessita' dei giudizi, ogni argomento contrario e' recessivo» (cfr. Cass. 6 dicembre 2021, n.38471). Anche nei lavori preparatori al decreto-legge n. 83/2012, in particolare all'art. 55, si legge che l'osservanza dei termini di durata dei singoli gradi di giudizio, introdotti dall'art. 2 comma 2-bis, «fa si' che sia rispettato il termine ragionevole di durata del procedimento e, quindi, non permette alcuna domanda di indennizzo». Significativo, del resto, e' che l'individuazione del termine annuale di durata ragionevole del processo della cd. Legge Pinto non e' il frutto di una operazione interpretativa dell'art. 2 comma 2-bis della stessa legge, ma e' conseguente al necessario intervento demolitorio della Corte costituzionale che, con sentenza del 19 febbraio 2016, n. 36, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione degli articoli 111 e 117, comma 1, Cost. - il citato art. 2, comma 2-bis nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001. Va, ancora, evidenziato che, nella pronunzia suindicata, la Corte, sulla base di argomentazioni identiche a quelle sopra illustrate, ha rigettato l'eccezione sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato secondo cui sarebbe stato possibile adottare un'interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate, ed ha, quindi, disatteso la tesi che il legislatore avrebbe introdotto solo «un parametro cui il giudice deve attenersi senza esserne vincolato in termini assoluti», potendone prescindere alla luce della natura del procedimento. In conclusione, il carattere vincolante ed inderogabile della previsione normativa in tema di durata ragionevole del procedimento esclude la possibilita' di adottare un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame, obbligando il giudice a sollevare la relativa questione di costituzionalita'. Non si ritiene, poi, compito del giudice a quo indicare quale sia il termine piu' adeguato al caso di specie, come pure non puo' essere di ostacolo alla denuncia di illegittimita' co tituzionale il rilievo che, una volta rimossa la norma incostituzionale, l'intervento del legislatore possa ritardare o mancare del tutto, potendo l'interprete sopperire a tale lacuna utilizzando i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte di Cassazione antecedente alla novella introdotta dal decreto-legge n. 83/2012. Evidente, infine, e' la rilevanza della questione nel procedimento in esame, dal momento che l'individuazione della durata ragionevole del processo presupposto, contenuta nelle disposizioni della cui legittimita' costituzionale si dubita, influisce in modo determinante sul diritto all'indennizzo richiesto nonche' sulla misura dello stesso, e, di conseguenza, sulla decisione richiesta dal ricorrente.