TRIBUNALE ORDINARIO DI AREZZO Ufficio procedure concorsuali Il giudice delegato, dott. Federico Pani, letto il programma di liquidazione depositato dai liquidatori; Visto l'art. 282 del decreto legislativo n. 14/2019 (nel proseguo, per comodita', anche soltanto «CCII») a mente del quale «entro novanta giorni dall'apertura della liquidazione controllata il liquidatore completa l'inventario dei beni del debitore e redige un programma in ordine a tempi e modalita' della liquidazione» che viene «approvato dal giudice delegato» (comma 2) e «il programma deve assicurare la ragionevole durata della procedura» (comma 3); Osservato che le modalita' di liquidazione individuate dai liquidatori (nel caso di specie sostanzialmente consistenti nell'acquisizione del ricavato dalla vendita della quota pari a 1/2 di piena proprieta' avvenuta in sede esecutiva, gia' avvenuta, nonche' nell'apprensione della retribuzione mensile al netto della quota necessaria per il mantenimento) risultano conformi alla legge; Rilevato che i liquidatori hanno previsto in sette mesi la durata della procedura, i quali risultano gia' trascorsi; Osserva Come noto, la procedura di liquidazione controllata prevista dagli artt. 268 e seguenti CCII rappresenta l'erede della liquidazione del patrimonio disciplinata dagli artt. 14-ter e seguenti della legge n. 3/2012. Sotto il vigore di quest'ultima disciplina la giurisprudenza si era consolidata nel senso di ritenere ammissibile l'apertura dalle procedure liquidatorie del debitore sovraindebitato anche qualora il patrimonio di quest'ultimo fosse sprovvisto di beni suscettibili di liquidazione (con cio' intendendo un procedimento finalizzato all'alienazione di asset di norma mediante procedure competitive) ma il debitore richiedente godesse di una retribuzione e/o di una pensione da poter mettere a disposizione dei creditori, fatta eccezione per la quota strettamente necessaria al mantenimento suo e della propria famiglia (in questi termini, ex plurimis, Tribunale di Verona del 21 dicembre 2018, reperibile su www.ilcaso.it). A maggior ragione, ovviamente, si riteneva ammissibile l'apertura della liquidazione del patrimonio in presenza di beni liquidabili (es. un immobile o un bene mobile registrato) e la sua prosecuzione per un lasso di tempo ulteriore a quello impiegato per la liquidazione di tali asset in presenza di redditi acquisibili alla massa. Tali soluzioni non risultavano del tutto distoniche rispetto alla procedura concorsuale piu' vicina sul piano tipologico alla liquidazione del patrimonio, vale a dire il fallimento. L'apertura del fallimento, infatti, risultava indifferente alla totale assenza di beni nel patrimonio dell' imprenditore; elemento che assumeva solo indirettamente rilievo nell'ambito dei requisiti dimensionali sanciti dall'art. l, comma 2, l.f.. In presenza di un'impresa individuale (coinvolgente quindi una persona fisica) o di soci persone fisiche falliti per estensione, quindi, era perfettamente possibile che si presentasse la situazione nella quale non vi fossero beni da liquidare ma soltanto stipendi mensili o ratei pensionistici da apprendere alla massa. La disposizione che nei fallimenti legittimava l'apprensione di tali somme - il diritto alle quali maturava necessariamente dopo l'apertura del fallimento - era l'art. 42, comma 2, l.f., che cosi' recitava: «sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passivita' incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi». Nella liquidazione del patrimonio, invece, si faceva riferimento all'art. 14-undecies della legge n. 3/2012: «i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all'art. 14-ter costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passivita' incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi». Come agevolmente notabile, la differenza tra le due norme risiedeva esclusivamente nel fatto che la seconda, a differenza della prima, fissava un orizzonte temporale massimo, pari a quattro anni. Da tale disposizione veniva fatta discendere la conclusione che la liquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato potesse si' proseguire anche in assenza di beni da liquidare e in presenza di redditi da acquisire, ma non oltre il limite temporale dei quattro anni dal deposito della domanda di liquidazione. Siffatta soluzione - obiettivamente obbligata nella liquidazione del patrimonio - non poteva essere replicata nel contesto del fallimento, essendo per l'appunto assente un limite temporale di acquisizione. Tale assenza, tuttavia, non poteva significare che nei fallimenti con le medesime caratteristiche (vale a dire con nessun bene da liquidare ma con redditi da acquisire) non vi fosse alcun limite temporale. Una simile conclusione sarebbe stata ictu oculi irragionevole, tantopiu' in un contesto nel quale la persona fisica fallita poteva aspirare all'esdebitazione soltanto contestualmente o dopo la chiusura della procedura concorsuale. Questo Tribunale aveva ritenuto allora che l'acquisizione dei redditi del fallito sarebbe proseguita fintantoche' fosse stato necessario a coprire le spese prededucibili del fallimento; cio' postulando che sarebbe stato irragionevole disporre una chiusura a tal punto prematura da determinare l'allocazione di suddette spese a carico dell'Erario a norma dell'art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002. In questo scenario si e' inserito il CCII, il quale ha apportato modifiche piuttosto rilevanti alla disciplina della liquidazione del debitore sovraindebitato (denominata liquidazione controllata). Soffermandoci su cio' che pare di piu' stretto interesse, non e' stata replicata la disposizione contenuta all'art. 14-unclecies della legge n. 3/2012, sicche' e' bene soffermarsi sulle possibili implicazioni sistematiche di tale elisione. Sicuramente puo' escludersi che la sua assenza implichi l'inammissibilita' in radice dei ricorsi volti all'apertura di liquidazioni controllate «senza beni». Invero, le ragioni che la giurisprudenza aveva enucleato a favore della possibilita' di aprire la liquidazione del patrimonio con soli redditi erano svariate e sostanzialmente sganciate dal peso specifico assunto dall'art. 14-undecies, vale a dire (sinteticamente): la somiglianza tipologica tra liquidazione del patrimonio e fallimento e la constatazione che quest'ultimo potesse aprirsi anche in assenza di beni in capo al fallito; il fatto che la legge escludesse dalla liquidazione gli stipendi e le pensioni nei soli limiti di quanto occorresse al mantenimento, con cio' implicitamente confermando la possibilita' di apprendere tali emolumenti periodici e certamente successivi all'apertura della liquidazione; il fatto che pacificamente fossero proponibili piani del consumatore o accordi di ristrutturazione del debito fondati soltanto su attivo reddituale e che, in caso di risoluzione del piano o dell'accordo, potesse aprirsi la liquidazione del patrimonio su richiesta di un creditore. Il Codice, anzi, ha avvalorato ulteriormente tali conclusioni, avvicinando ancora di piu' la liquidazione controllata alla liquidazione giudiziale da un punto di vista procedurale. Tale somiglianza (o forse e' meglio dire quasi identita') tipologica pare giustificare la conclusione secondo la quale anche nella liquidazione controllata trova applicazione la regola impressa all'art. 142, comma 2, CCII, che nella disciplina della liquidazione giudiziale riproduce esattamente l'art. 42, comma 2, della legge fallimentare («sono compresi nella liquidazione giudiziale anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passivita' incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi»). D'altra parte, come appena detto, l'art. 268, comma 4, lettera b), CCII, esattamente come l'art. 14-ter, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2012, sancisce l'esclusione dalla procedura della sola quota parte di stipendio e pensione che oltrepassa il limite di mantenimento fissato dal giudice, ragion per cui, implicitamente, il legislatore ha confermato la possibilita' che i redditi futuri siano appresi alla procedura. Come gia' visto, tuttavia, l'art. 42 l.f. (e oggi egualmente l'art. 142 CCII), a differenza dell'abrogato art. 14-undecies della legge n. 3/2012, non sancisce alcun limite temporale, ragion per cui e' venuto meno l'appiglio normativo in forza del quale l'acquisizione delle quote di reddito veniva limitata al primo quadriennio. Si pone allora nella liquidazione controllata il tema della durata dell'apprensione reddituale allo stesso modo in cui si pone nella liquidazione giudiziale. Una prima soluzione ipotizzabile parrebbe quella gia' adottata da questo Tribunale in presenza di un fallimento con simili caratteristiche, alla quale si e' fatto sopra cenno. In buona sostanza, in assenza di riferimenti normativi in ordine ai limiti temporali di apprensione e dovendosi ovviamente escludere che l'acquisizione possa durare vita natural durante, l'acquisizione sarebbe possibile fino a quando non venga raggiunto un attivo tale da coprire le spese della procedura; cio' per evitare che tali spese (ivi compreso il compenso del curatore) finiscano per essere scaricate sulla collettivita'. Una seconda soluzione - sostanzialmente fatta propria dai liquidatori nella presente procedura, come meglio si vedra' - e' tarare la durata dell'apprensione, e quindi della procedura, in modo tale da assicurare una minima soddisfazione per il ceto creditorio, e quindi andare oltre la pura e semplice copertura delle spese prededucibili. Infine, una terza soluzione e' quella suggerita da una parte della giurisprudenza di merito (Tribunale di Verona del 20 settembre 2022, reperibile su www.dirittodellacrisi.it e Tribunale di Bologna del 29 novembre 2022, reperibile su www.ilcaso.it). Tali sentenze si sono opportunamente occupate del problema della durata delle liquidazioni controllate fin dagli albori, vale a dire al momento dell'apertura. Entrambe hanno fatto leva sulla nuova disciplina dell'esdebitazione, beneficio che, a differenza che nel regime previgente, opera a prescindere dagli esiti delle procedure concorsuali (e in particolare dal soddisfacimento concretamente avuto dai creditori) ed eventualmente anche in pendenza di queste ultime. Piu' in particolare, tanto l'art. 279 CCII per la liquidazione giudiziale quanto l'art. 282 CCII per la liquidazione controllata sanciscono il diritto del debitore a conseguire l'esdebitazione «decorsi tre anni dall'apertura della procedura di liquidazione o al momento della chiusura della procedura, se antecedente», con l'unica differenza che, una volta trascorsi i tre anni, nel secondo caso l'esdebitazione opera di diritto, mentre nel primo caso e' necessaria una richiesta del debitore (si veda al riguardo l'art. 281, comma 2, CCII). Ecco, secondo il ragionamento delle sentenze citate sarebbe possibile l'apprensione di stipendio e pensione fino al raggiungimento dei tre anni dall'apertura della procedura, dopodiche', in assenza di altre attivita' liquidatorie in essere, al liquidatore non rimarrebbe altra scelta che chiedere la chiusura della procedura. Quest'ultima interpretazione e' sicuramente condivisibile nella parte in cui sostiene che, trascorso il triennio (quantomeno nella liquidazione controllata: nella liquidazione giudiziale, infatti, e' necessaria un'apposita domanda da parte del debitore, per cui qualora essa non sia depositata o comunque fintantoche' il Tribunale non si sia espresso, non puo' prodursi alcun effetto esdebitativo), non e' piu' possibile acquisire quote stipendiali all'attivo procedurale. Non pare tuttavia rappresentare la soluzione al problema qui in esame, per piu' ragioni. Anzitutto, l'esdebitazione non costituisce un automatismo, passando pur sempre dal vaglio giudiziale circa la sussistenza delle condizioni sancite dall'art. 280 CCII (e, nel caso di liquidazione controllata, anche dall'esclusione da parte del giudice che il debitore abbia determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode). In caso di mancata esdebitazione, quindi, rimarrebbe intatto il problema alla base, vale a dire determinare il limite temporale di apprensione dei redditi. Piu' in generale, l'interpretazione in questione e' senz'altro utile a determinare il limite massimo di acquisizione dei redditi, quale conseguenza dell'effetto esdebitativo previsto dalla legge, ma non esclude che possa esserci un diverso limite minimo, e cioe' che l'acquisizione di redditi possa durare meno in totale assenza di altre attivita' liquidatorie da porre in essere. Detto altrimenti, il limite delineato dalle sentenze in questione risulta indiscutibilmente utile, ed anzi e' ineludibile, nel caso in cui le attivita' liquidatorie lato sensu intese raggiungano i tre anni dall'apertura della procedura, ma nulla esclude che, in assenza di tali attivita', la procedura si chiuda prima. Pare insomma avventato sostenere che il triennio a cui il legislatore collega l'effetto esdebitativo rappresenti non solo il (potenziale) limite massimo di apprensione dei redditi, ma anche quello minimo, vale a dire un termine prima del quale una procedura liquidatoria non potrebbe mai chiudersi nell'ipotesi in cui il debitore percepisca un reddito. Riprova e' il fatto - gia' sondato - che, decorsi i tre anni, per i piu' svariati motivi il debitore potrebbe non ottenere il beneficio dell'esdebitazione, situazione in cui tale termine perderebbe completamente di significato e si riaprirebbe quindi l'arbitrio del liquidatore nella fissazione della durata. Cio' salvo non voler ritenere che, anche in assenza di esdebitazione, comunque la procedura dovrebbe chiudersi, ma una simile conclusione appare assurda atteso che, secondo l'interpretazione in esame, il limite dei tre anni viene individuato come tetto massimo proprio a cagione dell'effetto esdebitativo che renderebbe giuridicamente impossibile l'apprensione di attivo sopravvenuto. Detto altrimenti, non e' sostenibile che una procedura liquidatoria (in presenza di redditi) duri sempre e comunque tre anni a prescindere dall'effetto esdebitativo in base all'argomento che l'intervallo triennale e' quello decorso il quale si determina (melius: puo' determinarsi) l'effetto esdebitativo medesimo. Inoltre, sia l'art. 279 che l'art. 282 CCII prevedono la possibilita' che l'esdebitazione possa essere ottenuta senza che ancora sia spirato il triennio se vi sono i presupposti per chiudere prima. Possibilita' - quella di chiusura ante-triennio - che in base a questa interpretazione sarebbe possibile solo qualora il debitore non dovesse avere redditi di sorta, facendo si' quindi che una norma dettata solo ai fini dell'esdebitazione (e quindi di un effetto che costituisce un posterius rispetto all'apertura della liquidazione) determini una diversita' di trattamento tra debitori percettori di reddito e debitori non percettori di reddito senza che di cio' vi sia alcuna traccia ne' nella disciplina della liquidazione giudiziale (l'art. 213, comma 5, CCII prescrive soltanto che «nel programma e' indicato il termine entro il quale avra' inizio l'attivita' di liquidazione dell'attivo ed il termine del suo presumibile completamente», cosi' legando il termine solo ed esclusivamente alla dismissione dell'attivo oggetto di inventario), ne' tantomeno in quella della liquidazione controllata (l'art. 272, comma 2, CCII sancisce unicamente che «entro novanta giorni dall'apertura della liquidazione controllata il liquidatore completa l'inventario dei beni del debitore e redige un programma in ordine a tempi e modalita' della liquidazione», anche in questo caso, quindi, ancorando il termine di durata alla dismissione dell'attivo inventariato). Occorre allora necessariamente sondare le altre soluzioni sopra prospettate. La soluzione secondo la quale la durata della procedura dovrebbe essere funzionale ad acquisire un ammontare minimo per poter non solo coprire le spese prededucibili, ma anche soddisfare in minima parte i creditori, non pare perseguibile. La difficolta' e' in primo luogo quella di stabilire quale sia la soglia minima tollerabile: in assenza di riferimenti normativi, infatti, la decisione sarebbe rimessa alla discrezionalita' (ma forse e' meglio dire all'arbitrio) del liquidatore in fase di redazione del programma di liquidazione, con l'effetto (non solo paradossale, ma questo si' palesemente irragionevole) che la durata della procedura potrebbe variare a seconda della severita' dimostrata nel caso specifico dal singolo liquidatore coinvolto. In secondo luogo, un simile approccio pare poco compatibile con il principio di ragionevole durata del processo (peraltro richiamato dall'art. 272, comma 3, CCII). Ed infatti, nell'ipotesi in cui il debitore non possa giovare del beneficio dell'esdebitazione e nel caso in cui la quota stipendiale/pensionistica appresa all'attivo risulti particolarmente bassa (anche in ragione della necessita' di assicurare il mantenimento familiare, che varia ovviamente in funzione dell'ampiezza e tipologia del nucleo), una procedura concorsuale che intenda soddisfare i creditori in misura minima potrebbe durare anche ben piu' dei sei anni che, ai sensi dell'art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89/2001, costituisce il tempo ragionevole di durata di questo tipo di giudizi. Il riferimento alla Legge Pinto pare piuttosto emblematico al fine di dimostrare gli effetti paradossali della soluzione in esame: ed infatti proprio il prolungamento della procedura esclusivamente giustificato dalla necessita' di apprendere risorse per pagare anche solo in parte i creditori potrebbe portare (fatalmente) gli stessi creditori ad avanzare domanda di pagamento dell'equo indennizzo. Passando all'altra soluzione immaginata, vale a dire quella che implicherebbe una durata per il tempo strettamente necessario a coprire i costi prededucibili della procedura, valgano le seguenti considerazioni. Anzitutto, potrebbe porsi un problema di ragionevolezza nel raffronto con la disciplina dell'esdebitazione del debitore sovraindebitato incapiente. Trattasi dell'istituto contemplato dall'art. 283 CCII che consente una volta nella vita alla persona fisica «meritevole» che «non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilita', diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura», e quindi priva (anche) di uno stipendio o di una pensione, di ottenere l'esdebitazione. Ecco, il comma 1 della disposizione richiamata prevede che sull'incapiente grava «l'obbligo di pagamento del debito entro quattro anni dal decreto del giudice laddove sopravvengano utilita' rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore complessivamente al dieci per cento». Cio' significa che, in caso di debitore incapiente, la sopravvenienza di attivo (eventualmente anche costituita da redditi) potrebbe «nuocere» alla persona fisica che si ritroverebbe a dover pagare i propri creditori (passati) in caso di raggiungimento della soglia del 10%, mentre invece in caso di debitore (minimamente) capiente, e cioe' percettore di redditi, la procedura liquidatoria si chiuderebbe in un lasso di tempo verosimilmente breve e senza un obbligo analogo a quello previsto per l'incapiente. Trattasi di un effetto certamente paradossale, ma ad avviso dello scrivente non foriero di censure di irragionevolezza. Per quanto il debitore (minimamente) capiente non soggiaccia per un quadriennio all'obbligo di pagamento del 10% (ipotesi, peraltro, di non facile verificazione), rimane il fatto che per un certo lasso di tempo (come detto, ragionevolmente ridotto, ma non necessariamente tale) questi si vedra' apprendere una parte del proprio reddito, e tale effetto costituisce senz'altro una differenza tra le due situazioni poste a confronto. Ne' si intravedono rischi di abuso dello strumento esdebitativo. Si allude con cio' al fatto che il debitore sovraindebitato poco capiente (id est: senza beni e con solo reddito) potrebbe beneficiare dell'esdebitazione in un breve lasso di tempo entrando (anche su richiesta: art. 269 CCII) nella liquidazione controllata, conservando cosi' la chance di chiedere successivamente anche l'esdebitazione dell'incapiente vera e propria oppure (sempre in assenza di beni e in presenza di redditi) nuovamente Ia liquidazione controllata. L'ordinamento, infatti, predispone i giusti anticorpi, prevedendo ostacoli temporali (cinque anni tra una esdebitazione e l'altra e massimo due esdebitazioni nella vita) e soggettivi (il debitore non deve aver aggravato il proprio dissesto o fatto ricorso abusivo al credito o comunque aver determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode). Un altro profilo di tensione sistematica nella complessiva disciplina delle procedure legate alla situazione del sovraindebitamento, e foriero di effetti quantomeno paradossali, potrebbe intravedersi in caso di liquidazione c.d. di rimbalzo. Si' allude all'ipotesi in cui il piano di ristrutturazione dei debiti e il concordato minore vengano revocati e, su semplice richiesta del debitore, si convertano in liquidazione controllata (artt. 73 e 83 CCII). Dal momento che sia il piano che il concordato possono prevedere il soddisfacimento dei creditori anche solo con redditi futuri, la conclusione secondo la quale in presenza di soli redditi la procedura dovrebbe rimane aperta solo per il tempo necessario a coprire le spese prededucibili potrebbe - per l'appunto - determinare un effetto paradossale, vale a dire che verrebbe aperta su iniziativa dei creditori che vogliono «sanzionare» il debitore fraudolento o inadempiente una procedura che, in realta', non potrebbe ontologicamente determinare per loro alcun soddisfacimento. Tale paradosso, tuttavia, non e' idoneo a confutare le conclusioni a cui sopra si e' pervenuti. Per meglio dire, non pare sostenibile che, sussistendo l'astratta possibilita' che in caso di revoca di un piano ristrutturativo o di un concordato minore solo su base reddituale la procedura liquidatoria sarebbe intimamente incapace di soddisfare anche solo in minima parte i' creditori, dovrebbe trarsi necessariamente dal sistema un tempo minimo di durata delle procedure liquidatorie a «vocazione reddituale». Il tutto senza poi considerare che l'insuccesso tanto del piano quanto del concordato, il piu' delle volte, e' determinato proprio dall'incapacita' del sovraindebitato di percepire redditi (ad esempio, a causa della perdita dell'occupazione lavorativa), sicche' anche la liquidazione di una certa durata (arbitrariamente fissata dal liquidatore) potrebbe non risultare risolutiva per i creditori. Maggiori problemi, invece, si pongono avuto riguardo alle implicazioni che la soluzione qui prospettata potrebbe avere sull'eventuale esecuzione forzata presso terzi in corso nel momento in cui viene depositato il ricorso volto all'accesso alla procedura di liquidazione controllata (che, si rammenta, puo' essere proposto anche dallo stesso debitore a mente dell'art. 269 CCII). Invero, nel caso in cui il debitore sovraindebitato non sia proprietario di beni immobili o di beni mobili registrati ma solo di beni impignorabili a norma degli articoli 514 e 515 codice di procedura civile e subisca un'esecuzione forzata con pignoramento presso terzi (laddove il debitor debitoris sia il datore di lavoro o l'INPS), il deposito di un ricorso volto all'apertura della liquidazione controllata potrebbe tramutarsi in un «facile» escamotage per: determinare l'improcedibilita' dell'esecuzione (art. 150 CCII, richiamato dall'art. 270, comma 5, CCII); impedire al creditore o ai creditori esecutanti l'acquisizione di qualsivoglia somma giacche' la procedura rimarrebbe aperta solo fin quanto fosse necessario a coprire le sole spese della procedura stessa (ergo, principalmente, i compensi dell'OCC e del liquidatore); ottenere l'esdebitazione (quantomeno in presenza dei requisiti soggettivi) atteso che, nel nuovo sistema, ai fini dell'ottenimento del beneficio non e' richiesto il soddisfacimento minimo dei creditori. Ad avviso di questo giudicante, una simile eventualita' rappresenta un vero e proprio cortocircuito nella tutela del credito. Non si ignora che quella del trattamento «preferenziale» del debitore costituisce una linea di tendenza da tempo percorsa dal nostro legislatore anche sulla spinta degli input unionali e che la disciplina del sovraindebitamento e' ispirata a un nettissimo favor verso la parte debitrice. Tuttavia, tale trattamento di favore non puo' mai spingersi fino al punto da sacrificare completamente il diritto alla tutela esecutiva del credito. Come recentemente ribadito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 87 del 2022), infatti, «il diritto del creditore a soddisfarsi in sede esecutiva costituisce componente essenziale del diritto di accesso al giudice, sancito dall'art. 24 Cost.», costituendo l'azione esecutiva un «fattore complementare e necessario dell'effettivita' della tutela giurisdizionale perche' consente al creditore di soddisfare la propria pretesa anche in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore», sicche' «da fase di esecuzione forzata delle decisioni giudiziarie, in quanto intrinseco ed essenziale connotato della funzione giurisdizionale, e' costituzionalmente necessaria (sentenze n. 213 e n. 128 del 2021), mentre eccezionali sono le deroghe al principio, espresso dall'art. 2740 codice civile, per cui il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri». E' inoltre costante nella giurisprudenza costituzionale l'orientamento secondo il quale e' riservata alla discrezionalita' del legislatore la conformazione degli istituti processuali, ma con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' della disciplina, per cui «[n]ell'esercizio di tale discrezionalita' e' necessario, tra l'altro, che si rispetti il principio di effettivita' della tutela giurisdizionale, il quale rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale» (sentenza n. 304 del 2011), precisandosi che il limite della manifesta irragionevolezza e' valicato «[...] ogniqualvolta emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di' agire (sentenza n. 335 del 2004)» (sentenza n. 44 del 2016 e, piu' di recente, sentenza n. 225 del 2018). Orbene, ad avviso di questo giudicante risulta manifestamente irragionevole la disciplina della liquidazione controllata nella parte in cui non prevede un termine minimo di durata della procedura in presenza di un attivo costituito soltanto dai redditi sopravvenuti in corso di procedura e, pertanto, sussistono i presupposti per sollevare in via incidentale la questione di legittimita' costituzionale ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87/1953. La questione e' anzitutto rilevante. La presente ordinanza, infatti, viene adottata nella fase di esercizio del potere approvativo sancito dall'art. 272, comma 2, CCII a fronte della sottoposizione da parte dei liquidatori del programma di liquidazione. La liquidazione controllata che coinvolge L... H... prevede l'acquisizione da parte della procedura degli introiti derivanti dall'esecuzione immobiliare che, alla data di deposito del ricorso, si trovava gia' nella fase successiva al trasferimento dell'immobile (una precedente alla distribuzione delle somme in favore dei creditori procedenti, e segnatamente del creditore ipotecario, al netto delle spese prededucibili), nonche' l'apprensione della quota parte di retribuzione del sig. L... , al netto della somma a lui lasciata a titolo di mantenimento e quantificata dal giudice delegato con separato provvedimento. I liquidatori hanno fissato la durata della procedura, e quindi dell'acquisizione delle quote retributive, in sette mesi (termine che, ad oggi, e' gia' trascorso); e cio' in base al rilievo che, gia' ora, sarebbe possibile soddisfare i creditori chirografari in misura pari al 7,77%. Per questo giudicante, tuttavia, non e' possibile che sia rimessa al pure e semplice arbitrio dell'organo liquidatorio la determinazione di un limite minimo di apprensione dei redditi del debitore sovraindebitato, dovendo trarsi dall'ordito normativo tale limite; limite, tuttavia, assente. La fissazione da parte dei liquidatori del termine di durata, senza alcun tipo di «bussola» normativa, presta il fianco a inevitabili censure di arbitrarieta' giacche', se per un gestore con una certa sensibilita' il pagamento del 7,77% dei creditori chirografari potrebbe essere considerato di per se' soddisfacente (come accadrebbe in questa procedura), invece per un diverso gestore una simile misura percentuale potrebbe essere considerata troppo afflittivi per le aspettative del ceto creditorio. Insomma, il grado di sacrificio dei creditori (e, a specchio, del debitore sovraindebitato) dipenderebbe solo ed esclusivamente dalla volonta' del soggetto gestore, non accompagnata, tuttavia, da seri indici normativi bensi' soltanto dalla proprie sensibilita' o esperienza. La questione, inoltre, e' non manifestamente infondata. Si richiamano, sul punto, tutte le considerazioni sopra gia' svolte, con l'unica puntualizzazione che non pare possibile seguire la strada dell'interpretazione costituzionalmente orientata. Come gia' visto, l'unica disposizione che in quale misura delinea un orizzonte temporale e' l'art. 282 CCII, ma trattasi di una norma in materia di esdebitazione e il termine triennale, se puo' certamente fungere da (solo potenziale) limite massimo di apprensione dei redditi, non puo' invece rappresentare un intervallo minimo nel corso del quale necessariamente la procedura liquidatoria deve acquisire le quote reddituali del debitore sovraindebitato, per le ragioni gia' ampiamente esposte. Non essendo quindi possibile desumere in chiave interpretativa un termine minimo di durata in situazione siffatte, e non essendo ragionevole che la durata sia di volta in volta (e arbitrariamente) fissata dal liquidatore della singola procedura, permane il dubbio di legittimita' costituzionale di una disciplina che, in concreto, puo' veder sacrificati completamente l'effettivita' della tutela giurisdizionale del credito, il cui sacrificio andrebbe - per l'appunto - bilanciato da una durata minima della procedura liquidatoria. La disposizione oggetto del dubbio di conformita' al dettato costituzionale e' l'art. 142, comma 2, del decreto legislativo n. 14/2019, che cosi' recita: «sono compresi nella liquidazione giudiziale anche i' beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passivita' incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi». Come gia' accennato, tale disposizione risulta collocata nella disciplina della liquidazione giudiziale, ma e' assolutamente pacifico che essa trovi applicazione anche nella liquidazione controllata. L'art. 268, comma 4, lettera b), CCII, infatti, esattamente come l'art. 14-ter, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2012 per la liquidazione del patrimonio ed esattamente come l'art. 46 legge fallimentare (nella procedura fallimentare) e oggi l'art. 146 CCII (nella liquidazione giudiziale) sancisce l'esclusione dalla procedura della sola quota parte di stipendio e pensione che oltrepassa il limite di mantenimento fissato dal giudice, sicche' e' dato per presupposto che lo stipendio o la pensione che matura dopo l'apertura della liquidazione puo' essere acquisito alla procedura; acquisizione che non puo' che avvenire in forza del meccanismo dettato dall'art. 142, comma 2, CCII. Oggetto di censura e' il fatto che, diversamente da quanto previsto antecedentemente dall'art. 14-undecies della legge n. 3/2012, non venga previsto un limite temporale all'acquisizione di beni sopravvenuti dopo l'apertura della procedura. E' ben vero che l'art. 272, comma 2, CCII affida al liquidatore il potere di stabilire la durata della procedura («entro novanta giorni dall'apertura della liquidazione controllata il liquidatore completa l'inventario dei beni del debitore e redige un programma in ordine a tempi e modalita' della liquidazione [...]»), ma e' del tutto evidente che una simile disposizione ben si attaglia alle fattispecie nelle quali nel patrimonio del debitore si trovano asset suscettibili di dismissione le cui tempistiche vengono per l'appunto previste dall'organo liquidatorio, e non gia' alle fattispecie nelle quali non c'e' alcuna attivita' liquidatoria da porre in essere ma la procedura rimane aperta al solo scopo di apprendere quote di retribuzione o pensione. In un caso consimile, la durata della procedura viene individuata dal liquidatore in maniera del tutto arbitraria, a meno che - ed e' questo il punto - non sia posto un limite legislativo al tempo massimo entro il quale l'acquisizione di stipendio e pensione risulta consentita, esattamente come in passato accadeva sulla scorta dell'art. 14-undecies della legge n. 3/2012. Passando ai parametri del giudizio, e quindi alle disposizioni della Costituzione che si ritengono violate, vengono in interesse sia l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, sia l'art. 24 Cost., sotto il profilo dell'effettivita' del diritto di difesa. Prendendo le mosse da quest'ultima disposizione, lo scrivente parte dal presupposto - ampiamente argomentato supra - che, in assenza di un limite di legge, e non potendo mutuarsi il termine triennale previsto per le finalita' dell'esdebitazione, la procedura nella quale non devono essere compiute attivita' di liquidazione in senso proprio e che vede coinvolto un debitore sovraindebitato che percepisce una retribuzione o una pensione, dovrebbe chiudersi subito o, per meglio dire, rimanere aperta per solo tempo strettamente necessario a coprire le sue spese da essa stessa prodotte. Tale lettura, tuttavia, presta il fianco ad abusi da parte del debitore il quale avrebbe gioco facile a sottrarsi dall'esecuzione presso terzi intentata nei suoi confronti dai creditori, con conseguente ed ingiustificabile compressione del diritto di agire di quest'ultimi. Passando al parametro della ragionevolezza, sembra possibile tracciare un parallelo tra la disposizione oggetto di censura e il piu' volte richiamato art. 14-undecies della legge n. 3/2012 («i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all'art. 14-ter costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passivita' incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi»). E' ben vero che tale disposizione e' stata abrogata a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 14/2019, ma rimane pur tuttavia applicata nelle procedure di liquidazione del patrimonio apertesi prima dell'avvento del Codice. Ecco, pare a questa giudicante irragionevole che una procedura di liquidazione a vocazione puramente reddituale che coinvolga sempre il debitore sovraindebitato possa durare al massimo quattro anni sotto il vigore della legge n. 3/2012, mentre invece sotto il vigore del decreto legislativo n. 14/2019 non possa durare piu' dello stretto necessario a coprire le spese prededucibili. Infine, occorre delimitare il petitum. A questo remittente pare impossibile che sia eliminato sic et simpliciter l'art. 142, comma 2, del decreto legislativo n. 14/2019 dall'ordito normativo, esprimendo siffatta disposizione una regola che connota la procedure concorsuali da tempo immemore e di sicura utilita'. I vizi sopra lamentati, in effetti, si verificano nella sola ipotesi di liquidazione controllata «senza beni» e a etera vocazione reddituale, nella parte in cui non prevede un orizzonte temporale di durata dell'apprensione delle quote reddituali o pensionistiche del debitore sovraindebitato. In merito alla determinazione del predetto orizzonte, questo giudicante, ben conscio che la Corte non puo' compiere interventi additivi creativi, dovendo esprimersi «a rime obbligate», ritiene che possa prendersi in considerazione quello quadriennale, trattandosi dell'unico termine previsto dalla legge allo stesso scopo proprio all'art. 14-undecies della legge n. 3/2012. Per completezza, viene fatto presente che analoga questione di legittimita' costituzionale e' sollevata da questo Tribunale con tre distinte ordinanze (nn. cronologici presso la Corte: 48, 49 e 117).