IL TRIBUNALE DI CATANIA Sezione lavoro in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del magistrato ordinario dott. Mario Fiorentino, ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale (articoli 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87) emessa nella causa civile iscritta al n. 4365/2023 avente ad oggetto: licenziamento per giusta causa, con domanda di reintegra ex art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015; promossa da: C. A. , cod. fisc. ..., con il patrocinio dell'Avv.to Romano Gaetano, elettivamente domiciliato come in atti; ricorrente; contro: E. S.r.l., cod. fisc. ..., con il patrocinio degli Avv.ti Fazio Salvatore e Di Lallo Alessandro, elettivamente domiciliata come in atti; resistente. 1. Premessa. La parte ricorrente in epigrafe indicata, con ricorso depositato il 17 aprile 2023, ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatole il ... da E. S.r.l, chiedendo, in via principale, l'annullamento dello stesso ai sensi dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, con conseguente reintegra nel posto di lavoro e risarcimento del danno, e, in via subordinata, l'accertamento dell'insussistenza della giusta causa ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 cit., con condanna del datore di lavoro - previa dichiarazione di estinzione del rapporto - al risarcimento del danno, da determinarsi tenuto conto della pronunzia della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194. In ulteriore subordine, ha chiesto la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 4, decreto legislativo n. 23/2015 cit. Allega di essere stata addetta alla movimentazione merci, per circa venti anni, presso il deposito della ... (azienda che la ricorrente qualifica come «spin off» del marchio ...) e di avere svolto tali mansioni alle dipendenze delle diverse imprese che, nel tempo, si sono succedute negli appalti affidati dalla stessa ... (tra cui, dal ... e fino all'agosto del ..., la Cooperativa ... e, dal ... al ..., l'odierna convenuta). Allega, inoltre, di rivestire da tempo la carica di rappresentante sindacale aziendale (R.S.A.) dell'organizzazione ... e di non esser stata sottoposta ad alcun procedimento disciplinare nell'arco della propria ventennale attivita' di addetta al deposito di ... . Deduce che, in data ..., il datore di lavoro procedeva a formularle una contestazione disciplinare, addebitandole tre eventi: 1) in data ... si assentava per motivi di salute (con prognosi fino al ...), giustificando tali assenze con certificato medico emesso in data ..., certificazione che secondo l'azienda non poteva ritenersi valida in quanto retroattiva; 2) in data ... non rientrava in servizio ne', secondo l'azienda, dava tempestiva informazione della prosecuzione dello stato di malattia, che, sempre secondo la tesi datoriale, veniva comunicato solo il ...; 3) in data ..., in costanza dello stato di malattia (con prognosi fino al ...), si presentava sul luogo di lavoro verso le ore ... e, dopo le procedure di identificazione, accedeva presso gli uffici direzionali della committente (...) accompagnato dal collega ..., intrattenendosi fino alle ore ..., per poi allontanarsi a bordo di uno scooter guidato dal ..., con cio', secondo l'azienda, ponendo un comportamento idoneo a pregiudicare il suo stato di salute ed espressione di un uso strumentale dell'istituto della malattia. Evidenzia di aver prontamente reso le proprie giustificazioni nel corso dell'audizione svoltasi il ..., ma che queste non venivano accolte dal datore di lavoro, il quale intimava il licenziamento in data ... per giusta causa. Deduce l'infondatezza dei fatti oggetto di contestazione disciplinare e chiede, in via principale, che il licenziamento venga annullato ai sensi dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015. Si e' costituita la controparte la quale, nel rimarcare la gravita' dei fatti addebitati alla parte lavoratrice, ha chiesto il rigetto del ricorso. Tenuto conto dei rischi di causa, evidenziati nell'ordinanza del 3 luglio 2023, veniva formulata proposta transattiva ex art. 420 c.p.c., la quale non veniva accolta dalle parti. La causa, quindi, veniva istruita per mezzo di prove orali e documentali. All'udienza del 25 ottobre 2023, sostituita con il deposito di note ex art. 127-ter c.p.c., le parti insistevano per l'accoglimento delle proprie conclusioni. Cio' posto, avendo il ricorrente insistito per l'accoglimento della domanda di reintegra, ai sensi dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, si ritiene che la causa non possa essere decisa senza il giudizio di costituzionalita' che si richiede, posto che, come si vedra' di seguito, solo ove la norma in questione venisse reputata parzialmente illegittima, sarebbe riconoscibile la tutela invocata in via principale, potendosi, in caso contrario, accogliere solo la domanda subordinata, ex art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, con dichiarazione di estinzione del rapporto e riconoscimento di una tutela esclusivamente economica. 2. Rilevanza 2.1. Premessa. Va, innanzitutto, osservato come non sono state sollevate, dalla convenuta, eccezioni processuali o di merito che consentano la definizione del giudizio, indipendentemente dalla questione che viene sollevata con il presente provvedimento. 2.2. Disamina dei fatti. Al fine di evidenziare la rilevanza della questione, appare utile ricostruire i fatti di causa. All'esito, si potra' constatare che, dei tre fatti in contestazione, solo due appaiono assumere un rilievo disciplinare; che questi si collocano nell'ambito di una vicenda unitaria (lo stato di malattia iniziato il ... e conclusosi il ...) e sono punibili, in ragione del CCNL applicato dalle parti, con sanzioni di tipo conservativo. Come anticipato, la contestazione disciplinare del ..., su cui si basa l'atto di recesso, individua tre fatti (docc. 4, 6, ibidem). In primo luogo, essa muove dalle assenze integrate dalla parte ricorrente il ... per motivi di malattia. Non viene contestata l'omessa o intempestiva comunicazione dello stato di malattia o dell'assenza, ma l'inidoneita' della certificazione medica a giustificarla, in quanto redatta in data ... (con decorrenza dal ... e prognosi fino al ...), anziche' ... . Non vi sono elementi per ritenere che il medico curante abbia rilasciato un'attestazione falsa o che il lavoratore abbia abusato dell'istituto della malattia, tanto piu' che, pochi giorni dopo, in due distinte circostanze, l'... e il ..., i medici di controllo Inps hanno confermato la prognosi indicata dal medico curante nei due certificati telematici del ... e del ..., trovando il ricorrente presso il proprio domicilio (docc. 9 e 11, fasc. ricorrente). In mancanza di elementi oggettivi di segno contrario, la circostanza che il medico abbia rilasciato il certificato retroattivamente puo' considerarsi prova del suo impedimento nei giorni precedenti e della conoscenza dello stato patologico del lavoratore. Quest'ultimo, tuttavia, non allega ne' dimostra in giudizio quanto genericamente dedotto in sede di audizione orale (doc. 5, fasc. ricorrente), e cioe' di essere stato impossibilitato, per motivi di salute, a recarsi presso presidi alternativi (es. continuita' assistenziale, ospedale, etc.) per fornire tempestivamente una giustificazione sostitutiva, tenuto conto, peraltro, che la natura della patologia documentata e dichiarata in giudizio non gli precludeva di uscire da casa (doc. 10, fasc. ricorrente), eventualmente accompagnato da un familiare (v. stato di famiglia ricorrente, doc. 17). Tale fattispecie va, dunque, ricondotta nell'ambito della giustificazione tardiva (come del resto sostenuto dalla stessa difesa del ricorrente) e non dell'assenza ingiustificata, posto che il certificato e' stato redatto in prossimita' dell'evento (solo due giorni dopo) e la prognosi e' stata confermata dal medico di controllo dell'INPS in data (v. docc. 9 e 11, cit., fasc. parte ricorrente). In merito, per un caso del tutto analogo, puo' essere utile richiamare l'indirizzo espresso dalla suprema Corte, secondo cui la trasmissione del certificato oltre il termine contrattuale configura la meno grave ipotesi della giustificazione tardiva (in luogo dell'assenza ingiustificata), che si verifica quando la giustificazione e' prossima all'evento e non del tutto assente (Cassazione civile sez. lav., 10 novembre 2022, n. 33134). Trova, pertanto, applicazione l'art. 47 del CCNL di categoria (Pulizie, servizi integrati, multiservizi), pacificamente recepito dal datore di lavoro (doc. 19, fasc. parte ricorrente; v. ivi anche proposta di assunzione, in doc. 3; v. inoltre allegazioni del ricorso, non oggetto, sul punto, di contestazione), il quale prevede la sanzione dell'ammonizione scritta o della multa o della sospensione laddove il lavoratore non giustifichi l'assenza entro il giorno successivo a quello dell'inizio dell'assenza stessa salvo il caso di impedimento giustificato. L'art. 47 del CCNL prevede, inoltre, che «L'ammonizione verra' applicata per le mancanze di minor rilievo; la multa e la sospensione per quelle di maggior rilievo». Nel caso di specie, il ritardo e' di un solo giorno, sicche' puo' ritenersi che la violazione integrata sia di modesta entita', come tale da giustificare la piu' tenue tra le sanzioni conservative contemplate dal CCNL, ovverosia l'ammonizione scritta. Il secondo episodio contestato a parte lavoratrice riguarda il rispetto delle modalita' richieste dal CCNL per la comunicazione della prosecuzione dello stato di malattia. Si obietta a parte ricorrente che, in data ..., «sarebbe dovuto rientrare al lavoro per svolgere il turno assegnatoLe ( ... ), ma non si presentava ne' dava notizie di se' a parte datoriale. Solo il giorno ... . ella comunicava la prosecuzione del suo stato di malattia, inviando alla Direzione aziendale un certificato di continuazione rilasciato il giorno con prognosi a tutto il ...». Parte ricorrente ha dichiarato, in sede di giustificazioni, di aver cercato di preavvisare il legale rappresentante dell'azienda nei giorni precedenti, in merito alla probabile continuazione dello stato di malattia, e che, non riuscendovi, contattava il giorno ... (intorno alle ore ...) il proprio collega di lavoro, tale ..., per chiedergli di avvisare il preposto di turno. Dagli atti risulta che il certificato telematico di malattia e' stato redatto in data ... ed e' stato inviato in azienda il ... . Dall'istruttoria orale e' emerso che parte ricorrente ha contattato il proprio collega ... , per avvisare della prosecuzione dello stato di malattia, dopo l'inizio del turno, verso le ore ... (v. testimonianza del ..., verbale di udienza del 15 settembre 2023). L'art. 51 del CCNL, come modificato dall'accordo del 9 luglio 2021, per quanto rileva, prevede che «L'assenza per malattia deve essere comunicata, salvo il caso di giustificato impedimento, prima dell'inizio dell'orario di lavoro nella giornata in cui si verifica l'assenza, ai rappresentanti aziendali a tale scopo designati e comunicati dalla direzione aziendale. L'eventuale prosecuzione dello stato di inidoneita' al servizio deve essere comunicata all'impresa entro il normale orario di lavoro del giorno che precede quello in cui il lavoratore avrebbe dovuto riprendere servizio e deve essere attestato con le modalita' di cui ai successivi commi. A far data dal 13 settembre 2011 i datori di lavoro dovranno acquisire l'attestato di inidoneita' al lavoro solo attraverso i servizi on line messi a disposizione dall'Inps; il lavoratore e' esonerato dall'invio dell'attestato, fermo restando l'obbligo dello stesso di comunicare tempestivamente l'assenza per malattia al datore di lavoro secondo i due commi precedenti. Il lavoratore fornira' all'azienda il numero di protocollo identificativo del certificato inviato dal medico in via telematica. E' fatto salvo quanto stabilito in materia dalle leggi e dagli accordi a livello interconfederale.». Nel caso di specie, anche non volendo considerare la norma di cui il difensore di parte ricorrente ha chiesto la disapplicazione (quella che richiede che il preavviso sia dato il giorno precedente, evidentemente anche se in assenza di certificazione medica), il ritardo nella comunicazione della prosecuzione dello stato di malattia appare comunque integrato, potendo parte lavoratrice avvisare il preposto ben prima dell'inizio del turno e non dopo, tanto piu' che il turno di lavoro iniziava alle ore ... e che, a tale ora, era stata sicuramente redatta anche la certificazione medica telematica. Parte ricorrente, dunque, essendo certa della prosecuzione dello stato di malattia nella giornata del ..., avrebbe potuto comunicare tale circostanza ben in anticipo rispetto alle ore ..., e dunque in orario antecedente a quello di inizio del turno, onde consentire al datore di lavoro di poter prendere le opportune misure organizzative. E cio' anche considerando che i tentativi di contattare il rappresentante legale, nei giorni precedenti, secondo la parte ricorrente, non erano andati a buon fine. Il lavoratore, inoltre, a rigore, avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al preposto aziendale, anziche' contattare il proprio collega di turno, e cio' in base alle stesse previsioni del CCNL. La condotta integrata pertanto e' chiaramente rilevante sotto il profilo disciplinare e soggettivamente imputabile al lavoratore. Va, cionondimeno, escluso, anche in questo caso, un intento della parte di eludere i controlli aziendali, dato che la certificazione medica telematica veniva redatta tempestivamente lo stesso ..., e dunque era da subito disponibile al datore di lavoro tramite il portale INPS (come prevede l'art. 51 del CCNL), ed inviata tempestivamente il successivo giorno ..., nel termine richiesto dall'art. 47 CCNL sopra esaminato. Il lavoratore, inoltre, sebbene in ritardo ed irritualmente (rivolgendosi al collega di turno, anziche' direttamente al preposto), comunicava cionondimeno, poco dopo l'inizio del turno, la circostanza di proseguire nella malattia. Il fatto, pertanto, risulta ridimensionato rispetto al tenore della contestazione disciplinare, laddove si imputa al lavoratore di non essersi presentato in azienda il giorno del ... e di non aver dato notizia della prosecuzione dello stato di malattia, se non il giorno ... . Il comportamento integrato assume, dunque, modesta rilevanza disciplinare, sempre ai sensi dell'art. 47 del CCNL, il quale, oltre a prevedere la sanzione dell'ammonizione scritta, della multa e della sospensione, per i casi di assenza o abbandono del posto di lavoro senza giustificato motivo o di ritardo nell'invio della giustificazione dell'assenza, dispone che tali provvedimenti si applichino anche al lavoratore che «in altro modo trasgredisca l'osservanza del presente contratto o commetta qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all'igiene ed alla sicurezza dell'appalto» (art. 47, lett. i). Non ricorrono all'evidenza i presupposti per l'applicazione di misure piu' gravi, quali quelle contemplate dall'art. 48 del CCNL del licenziamento con preavviso (irrogabile nei casi di: insubordinazione nei confronti dei superiori, rissa sul luogo di lavoro, sensibile danneggiamento colposo, assenze ingiustificate prolungate oltre quattro giorni consecutivi o assenze ripetute per tre volte in un anno nel giorno seguente alle festivita' o alle ferie, etc.) ovvero del recesso senza preavviso (irrogabile nei casi di: grave insubordinazione, furto in azienda, abbandono del posto di lavoro da cui possa derivare pregiudizio alla incolumita' delle persone od alla sicurezza degli impianti o comunque compimento di azioni che implichino gli stessi pregiudizi, etc.). Anche in questo caso, pertanto, il lavoratore puo' essere ritenuto responsabile di una violazione del contratto (in specie, dei termini e delle modalita' per comunicare la prosecuzione dello stato di malattia, di cui all'art. 51 del CCNL) che implica l'adozione di una mera sanzione conservativa. Si richiama, sul punto, Cass. sez. lav. 26 aprile 2022, n. 13063, par. 8.2., che, sebbene con riguardo all'art. 18, comma 4, St. lav. (legge n. 300/1970), ha ribadito che «e' consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali ed elastiche». La terza vicenda oggetto di contestazione e' quella dell'episodio del ..., quando parte lavoratrice, in costanza dello stato di malattia (con prognosi fino al ... ), si presentava sul luogo di lavoro «intorno alle ore ...» e, dopo le procedure di identificazione, accedeva presso gli uffici direzionali della committente (...) accompagnata dal collega ..., intrattenendosi - secondo la contestazione datoriale - fino alle ore ..., per poi allontanarsi a bordo di uno scooter guidato dal ..., con cio' ponendo, secondo la convenuta, un comportamento idoneo a pregiudicare il suo stato di salute. Dall'istruttoria orale e dai documenti in atti, puo' ritenersi provato che parte ricorrente (gia' dipendente della coop. ...), nella qualita' di R.S.A., si reco' presso gli uffici direzionali della committente ... per consegnare, insieme al ... (anch'egli R.S.A, ex dipendente di altra cooperativa, la ...), alcuni documenti necessari per la determinazione delle spettanze residue dei lavoratori delle societa' precedentemente affidatarie degli appalti ( ... ), che la committente si era impegnata ad anticipare (e che, in parte, aveva anticipato, v. memoria di costituzione e chiarimenti parte ricorrente, verbale udienza 23 giugno 2023), a seguito dell'inadempimento delle imprese affidatarie. Dalla mail inviata dal dirigente della ... in data ... al responsabile sindacale della sigla ... di Catania (doc. 13, fasc. parte ricorrente), si evince chiaramente che ..., a seguito del mancato pagamento delle retribuzioni dei lavoratori delle cooperative originariamente assegnatarie dell'appalto e del disagio rappresentato dai sindacati, si era attivata per intervenire in surroga, chiedendo alle sigle sindacali di raccogliere la documentazione necessaria al fine di poter elaborare le spettanze dovute («ultimi 3 cedolini paga maggio / giugno / luglio di ogni singolo lavoratore; dichiarazione dei 730 delle persone dalla quale si evince eventuale rimborso da ricevere; 3. certificazione delle presenze del mese di agosto delle persone che hanno lavorato in cantiere»). Dalla mail si evince anche che il ... incaricava il ..., dipendente di ... con sede in ..., di ricostruire «con gli RSU le presenze delle persone (se non abbiamo altra evidenza in magazzino) con eventuali ore di straordinario e/o ferie godute». Nel corso dell'istruttoria orale (v. verbale di udienza del 15 settembre 2023), il ..., pur negando di avere convocato il ricorrente e pur mostrando inizialmente qualche reticenza, ha poi confermato che questi si reco' da lui insieme al ... per fornire i documenti attestanti le presenze dei lavoratori delle imprese cessate, in quanto nella qualita' di capo deposito il ... aveva il compito di ricostruire il numero dei dipendenti addetti a tali societa', al fine di consentire la ricostruzione delle spettanze ancora dovute ai lavoratori. Il teste ha inoltre confermato di aver inviato il numero dei dipendenti, come cosi' ricostruito, al proprio superiore. Secondo la contestazione disciplinare, la visita del ricorrente duro' dalle ore ... alle ore ... Dall'ascolto dei file audio della conversazione intercorsa tra il ... e parte ricorrente pochi giorni dopo l'incontro, il ... (cfr. produzione file del 19 settembre 2023, il cui contenuto non e' oggetto di contestazione; v. note convenuta datate 9 ottobre 2023), si trae conferma del fatto che il ricorrente doveva presentarsi dal ... per fornire, quale rappresentante sindacale, la documentazione richiesta da ... (parte ricorrente: «si ... ero in malattia ... pero' siccome per richiesta tua che dovevamo fare questi conti ....infatti io ero perplesso ...siccome ci voleva il rappresentante sindacale... sono venuto»;: «se tu mi chiamavi, mi dicevi, ... io devo venire, ma sono in malattia, io ti avrei detto, ... , non venire, che con ... me la sarei sbrigata, ...non lo so se ... e' rappresentante, ma poco importa, e' sempre una persona vicina a te...»). Non appare, peraltro, rilevante stabilire se fu il ... a convocare direttamente il ricorrente - come sostenuto in ricorso, ma negato dal teste - ovvero se convoco' solo il ... , essendo chiaro, dal tenore delle conversazioni intercorse, che il ricorrente doveva essere presente per consegnare i documenti quale rappresentante sindacale (ex dipendente dell'impresa ...) e che per tale scopo ivi si reco' insieme al ... (ex dipendente dell'impresa ...). Orbene, va premesso il fatto che tale visita fu effettuata dal lavoratore al di fuori degli orari di reperibilita' fissati dall'art. 51 del CCNL (secondo cui «il lavoratore assente e' tenuto a trovarsi nel proprio domicilio disponibile per le visite di controllo nelle fasce orarie previste dalle norme vigenti e precisamente dalle ore 10,00 alle ore 12,00 e dalle ore 17,00 alle 19,00»), obbligo la cui violazione difatti non viene contestata dall'azienda convenuta. Quest'ultima, invero, nella lettera di licenziamento rimarca specificamente la circostanza che «Ella facendosi trasportare in scooter, si e' esposto in maniera sconsiderata al rischio potenziale di compromissione o aggravamento dello stato di salute, contravvenendo ulteriormente a quanto previsto dal CCNL applicato...». Cionondimeno, non vi e' alcuna specifica allegazione e prova che «il trasporto in scooter» del ricorrente abbia potuto pregiudicare il suo stato di salute, in relazione alla sua patologia (paziente affetto da crisi di panico e claustrofobia, con indicazioni di recarsi in luoghi aperti in caso di crisi, doc. 10, fasc. ricorrente), per la quale non sussistono prescrizioni del medico volte a precludergli di utilizzare i comuni mezzi di trasporto, in specie come mero passeggero (come nel caso in scrutinio), o di uscire di casa. Le stesse valutazioni possono riguardare l'evento della visita in azienda (per quanto la motivazione del licenziamento si incentri specificamente solo sul trasporto in scooter), durata poco piu' di un'ora e per la consegna di alcuni documenti. Non appare, inoltre, possibile porre in discussione la buona fede del ricorrente, che, in un momento di oggettiva tensione determinata dal ritardo dei pagamenti e dei rimborsi fiscali (come si evince peraltro dalla mail prodotta in doc. 13 e sopra citata), quale R.S.A., riteneva di recarsi in azienda al solo scopo di fornire al dipendente incaricato dalla committente i dati necessari per la determinazione del pagamento di quanto ancora spettante ai lavoratori della Coop. ... (tra cui, tra gli altri, vi era lo stesso ricorrente), per poi andare via prima che ricorresse l'obbligo di reperibilita' domiciliare di cui all'art. 51 del CCNL. Il comportamento tenuto dal dipendente, pertanto, appare del tutto scevro da abusi e non in grado di poter incidere negativamente sul proprio stato di salute, prova del resto del tutto mancante e neppure oggetto di specifiche allegazioni o deduzioni (donde anche la superfluita' di ogni ulteriore accertamento specialistico da disporre d'ufficio, mezzo C.T.U.). Non sussiste, inoltre, alcuna volonta' del dipendente di abusare dell'istituto della malattia o di contravvenire agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. Sul punto, la suprema Corte, addirittura nelle ipotesi in cui il dipendente in stato di malattia abbia espletato altra attivita' lavorativa, ha evidenziato che «Il datore di lavoro che licenzia il lavoratore, non puo' limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attivita', perche' non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attivita', anche a favore di terzi, durante la malattia, sicche' essa non costituisce, di per se', inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d'opera. Il datore di lavoro, quindi, deve anche provare, in relazione alla contestazione disciplinare, o che la malattia era simulata ovvero che la diversa attivita' posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio» (Cass. civ. Sez. lavoro, 26 aprile 2022, n. 13063). Il fatto contestato, relativo all'episodio del ..., appare, dunque, insussistente sotto il profilo disciplinare e, pertanto, non in grado di poter giustificare l'adozione di alcuna sanzione. Come evidenziato, i fatti di cui alla lettera di contestazione mossa alla parte ricorrente possono giustificare, al piu', l'adozione di due sanzioni conservative. Parte ricorrente chiede, in via principale, l'annullamento del licenziamento, con le conseguenze di legge previste dall'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, quali innanzitutto la reintegra nel posto di lavoro. Ritiene, tuttavia, questo ufficio che tale richiesta possa essere accolta solo ove l'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 venisse reputato parzialmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice possa annullare il licenziamento, con le conseguenze di legge gia' previste per l'ipotesi di insussistenza del fatto, laddove il fatto contestato sia punibile dal CCNL di categoria con sanzioni di natura conservativa. 2.3. Analisi normativa. E' pacifica tra le parti l'applicazione del regime normativo di cui al decreto legislativo n. 23/2015, per essere stato il ricorrente assunto, senza periodo di prova, il ..., con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con la qualifica di facchino addetto al settore movimento merci, mansioni svolte fino alla data del recesso del ... (docc. 3 e 15, fasc. parte ricorrente). L'art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 prevede che «Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo e' disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto». Non ricorre l'ipotesi, nemmeno prospettata dal ricorrente, della continuita' del rapporto gia' intrattenuto con ..., precedente datore di lavoro. Ne' viene in alcun modo allegata o richiesta l'applicabilita' dell'art. 18 St. lav. (legge n. 300/1970) in forza di previsioni convenzionali che non risultano neppure citate o allegate. Per converso, non viene eccepita l'insussistenza del requisito dimensionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, che, ai sensi dell'art. 9 decreto legislativo n. 23/2015, precluderebbe l'applicabilita' dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015. Dalla visura camerale in atti, risulta che, alla data del 31 dicembre 2022, la convenuta dichiarava una media di circa 170 dipendenti, sicche' il requisito dimensionale, oltre che incontestato, appare anche suffragato documentalmente (doc. 18, fasc. ricorrente). Risulta, pertanto, astrattamente applicabile l'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015. Tale norma, per quanto rileva nella presente sede, dispone che «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro...». La Corte di cassazione, nel fornire un'interpretazione della disposizione, ha espresso il principio secondo cui «Ai fini della pronuncia di cui al d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialita', ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare» (Cassazione civile sez. lav., 8 maggio 2019, n. 12174). Tale indirizzo e' stato ribadito anche di recente dalla suprema Corte, la quale ha rimarcato che «l'insussistenza del fatto contestato comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceita' o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare, oltre che il fatto non imputabile al lavoratore (v. Cass. n. 20540/2015, n. 18418/2016, n. 13383/2017, n. 13799/2017, n. 11322/2018); e che la nozione di insussistenza del fatto contestato comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialita', ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilita' della condotta al dipendente (Cass. n. 10019/2016, n. 29062/2017)» (Cass. sez. lav. 27 luglio 2023, n. 22881). Laddove, dunque, il fatto o i fatti addebitati abbiano rilievo disciplinare e siano soggettivamente imputabili, per quanto non idonei a sorreggere l'atto di recesso in ragione delle stesse previsioni della CCNL di categoria, non sembra possibile applicare l'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, ma l'art. 3, comma 1, del medesimo decreto (1) . L'inciso utilizzato dall'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 «rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», non sembra lasciare particolari dubbi nel ritenere che il legislatore abbia escluso dalle ipotesi di reintegra ogni caso in cui l'insussistenza del fatto possa derivare da un giudizio di sproporzione, sia che questa discenda da un'opera di valutazione dei fatti operata dal giudice, sia che derivi dal «giudizio di proporzionalita' eseguito dalle parti sociali» attraverso la previsione del contratto collettivo (sul concetto di sproporzione, sebbene con riguardo a fattispecie assoggettata al regime di cui all'art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, Cass. sez. lav. 26 aprile 2022, n. 13063, par. 8.2.). Nel caso di specie, quindi, non appare possibile, in assenza di una declaratoria di incostituzionalita', accordare la tutela della reintegra richiesta in via principale, posto che solo l'ultimo dei tre fatti in contestazione puo' reputarsi insussistente, in quanto privo di rilevanza giuridica. I primi due, per quanto di modesta gravita' e punibili solo con sanzioni di carattere conservativo, sono invece sussistenti, imputabili al lavoratore ed hanno rilevanza disciplinare. 2.4. Interpretazioni costituzionalmente orientate. Il dato normativo scolpito dall'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015 appare chiaro, sotto il profilo letterale, esso escludendo la tutela reintegratoria laddove il fatto sia sussistente ed abbia rilevanza disciplinare. Tale sembra, fino ad oggi, anche l'indirizzo espresso dalla suprema Corte. Del resto, quando il legislatore ha inteso riconoscere la tutela reintegratoria rispetto a condotte punibili con sanzioni conservative, lo ha fatto espressamente, come nel caso dell'art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, nella formulazione successiva alle modifiche introdotte dalla legge n. 92/2012. Anche la previsione dell'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, conferma tale ricostruzione. La collocazione sistematica della tutela economica, all'interno del comma 1 della disposizione, nonche' il tenore letterale della medesima («salvo quanto disposto dal comma 2...»), conducono a ritenere che il legislatore delegato ha prospettato la tutela economica come rimedio generale anche nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, prevedendo la tutela reintegratoria, per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari che non siano anche nulli o discriminatori, solo in caso di insussistenza del fatto. Non appare possibile applicare il principio di cui all'art. 12, legge n. 604/1966, recante «norme sui licenziamenti individuali», secondo cui «Sono fatte salve le disposizioni di contratti collettivi e accordi sindacali che contengano per la materia disciplinata dalla presente legge, condizioni piu' favorevoli ai prestatori di lavoro», atteso che l'art. 1, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, come visto, prevede espressamente che, per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore del decreto, «il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo e' disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto». Non si ignorano di certo i tentativi della giurisprudenza di merito di fornire altre interpretazioni (Trib. Roma, sez. lav., 15 maggio 2019, n. 4661), ma questi ultimi appaiono isolati e non sono sorretti, allo stato, da alcuna pronunzia del giudice di legittimita', quindi non appaiono in grado di costituire diritto vivente, alla stregua degli stessi criteri indentificativi individuati, nel tempo, dalla Corte costituzionale. Per tali motivi, non sembrano percorribili interpretazioni costituzionalmente orientate della disposizione impugnata. 3. Non manifesta infondatezza La giurisprudenza costituzionale ha evidenziato che il legislatore, nelle ipotesi di licenziamento, ben puo' prevedere, nell'esercizio della sua discrezionalita', un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio monetario, purche' un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza (da ultimo C. cost. n. 194/2018; n. 59/2021). E' stato pure affermato il diritto del lavoratore, tutelato dall'art. 4 della Costituzione, di non essere estromesso irragionevolmente dal posto di lavoro cosi' come il diritto a non subire un licenziamento arbitrario (C. cost. n. 60/1991; n. 541/2000, analiticamente richiamate da C. cost. n. 194/2018 cit.), sussistendo l'interesse del lavoratore «alla continuita' del vincolo negoziale», determinando, l'atto di recesso, in specie se arbitrario o irragionevole, «una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore» (C. cost. n. 59/2021). Al fine di comprendere in che termini il legislatore e' intervenuto nella materia, occorre richiamare la legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell'attivita' ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro», in forza della quale e' stato poi emanato, tra gli altri, il decreto legislativo n. 23/2015. Viene in risalto, in particolare, l'art. 1, comma 7, della legge n. 183/2014, il quale ha delegato il Governo «ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali...» allo scopo «di rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonche' di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere piu' efficiente l'attivita' ispettiva». Nella specie, per quanto riguarda i licenziamenti, il criterio previsto dall'art. 1, comma 7, lettera c), ha demandato al Governo di limitare il diritto alla reintegrazione «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». La legge delega, dunque, non individua nella tutela economica l'unica forma di garanzia del lavoratore ingiustamente licenziato per motivi disciplinari, prevedendo invero che la reintegrazione sia prevista, non solo nei casi piu' gravi (licenziamento nullo o discriminatorio), ma anche in altre ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato, che il legislatore delegato e' stato chiamato ad individuare specificamente («specifiche fattispecie»). Quest'ultimo, cionondimeno, con la previsione dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, ha limitato il diritto alla reintegrazione alla sola ipotesi in cui il fatto materiale sia insussistente, prevendo tale possibilita' «Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Pur prendendo atto della giurisprudenza di legittimita', sopra richiamata, che ha ritenuto che la fattispecie dell'insussistenza del fatto comprende «anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare» (Cassazione civile sez. lav., 8 maggio 2019, n. 12174), rimane il dato che l'unica ipotesi per cui possa essere accordata la reintegra sia quella dell'insussistenza del fatto (materiale o giuridico) contestato. Non possono essere ricomprese le ipotesi in cui il fatto, pur disciplinarmente rilevante, e' punibile, in ragione della contrattazione collettiva di riferimento applicata dal datore di lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entita'. In tali casi, nonostante non ricorra alcuna delle ipotesi per cui possa reputarsi compromesso il rapporto di fiducia, potra' operare solo la tutela economica di cui all'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015, la quale determinera', comunque, l'estinzione del rapporto, senza che possa in alcun modo rilevare la volonta' del lavoratore di permanere in azienda. A) Possibile violazione degli articoli 2, 3, 4, 35, 36, 39, 41 della Costituzione. Tale restrizione conduce a dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, innanzitutto, sotto il profilo della ragionevolezza, ex art. 3 Cost. La norma, invero, senza un plausibile motivo, consente al datore di lavoro di giungere all'estromissione dal posto di lavoro del proprio dipendente anche quando questi abbia commesso infrazioni di modesta entita', che, secondo le stesse valutazioni delle parti sociali e del CCNL di categoria, non possono compromettere il vincolo fiduciario, potendo al piu' giustificare l'irrogazione di sanzioni conservative. Cosi' facendo, la norma permette al datore di lavoro di irrogare al lavoratore un recesso, che ancorche' non nullo, ne' discriminatorio, risulta, comunque, arbitrario ed irragionevole, perche' fondato su fatti obiettivamente inidonei a giustificare l'estinzione del rapporto. Essa, quindi, sembra vanificare, senza reali motivi, il ruolo delle parti sociali, in quanto rende prive di rilevanza o di effettivi rimedi tutte quelle disposizioni della contrattazione collettiva che hanno cura di graduare l'esercizio del potere disciplinare, prevedendo analiticamente quando possa essere applicata una sanzione conservativa e quando invece quella espulsiva, e cio' nonostante la rilevanza normativa e giurisprudenziale che la contrattazione collettiva ha assunto nel nostro ordinamento (ad es., art. 12, legge n. 604/1966; art. 30, comma 3, della legge n. 183/2010; l'art. 18, comma 4, legge n. 300/1970; art. 63, comma 2-bis, decreto legislativo n. 165/2001; Cass. sez. lav. 26 aprile 2022, n. 13063, par. 8.1.) (2) La norma impugnata conduce, senza un plausibile motivo, a violare un principio immanente dell'ordinamento giuslavoristico, quale quello della necessaria gradualita' delle sanzioni disciplinari ex art. 2106 c.c., di fatto consentendo al datore di lavoro di poterlo eludere, incorrendo in una mera sanzione di tipo economico (quale quella prevista dall'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015), rimedio tanto meno dissuasivo quanto piu' ampie saranno le capacita' finanziarie dell'impresa e, quindi, la sproporzione dei rapporti di forza tra datore di lavoro e parte lavoratrice. Viene cosi' leso, irragionevolmente, l'interesse del lavoratore alla continuita' del rapporto, il suo legittimo affidamento a non essere assoggettabile a misure espulsive, al di fuori dai casi previsti dal proprio contratto di lavoro e dalla contrattazione collettiva ivi richiamata, a non essere vittima di atti irragionevoli, spropositati e lesivi della sua dignita' (articoli 2, 4, 35, 36, 41 Cost.), beni giuridici la cui incisione non e' ristorabile per equivalente e, dunque, non puo' reputarsi protetta dalla mera tutela economica prevista dall'art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015. Un ulteriore motivo che porta a dubitare dell'illegittimita' costituzionale della norma e' quello legato alla disparita' di trattamento che essa integra tra ipotesi sostanzialmente omogenee (art. 3 Cost.). Cosi' come nell'ipotesi dell'insussistenza del fatto (materiale o giuridico), anche nell'ipotesi della commissione di un fatto punibile solo con una misura conservativa, non si manifesta una condotta idonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero a giustificare la risoluzione del rapporto. In tal caso, dunque, la fattispecie del fatto disciplinarmente rilevante, per il quale sia prevista dal CCNL la sola misura conservativa, e' assimilabile alla fattispecie dell'insussistenza del fatto. Entrambe non ledono il rapporto di fiducia e non costituiscono un presupposto che possa legittimare l'estromissione dal posto di lavoro. Cionondimeno, mentre nella prima ipotesi, l'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, riconosce la tutela reintegratoria, assicurando protezione all'interesse del lavoratore alla «continuita' del rapporto», nel secondo caso questo non avviene. Quanto premesso, oltre ad apparire irragionevole per le motivazioni gia' espresse, sembra anche violare il principio di parita' di trattamento, in quanto vengono diversamente disciplinate situazioni sostanzialmente assimilabili, senza che sussista un'effettiva giustificazione. Tale discrimine, peraltro, non puo' reputarsi supportato neppure dalle finalita' e dai criteri della legge delega (sul punto, infra § 4). La norma impugnata pone ulteriori dubbi di legittimita' se si considera l'assetto complessivo che essa determina nei rapporti con il datore di lavoro, essa provocando uno squilibrio irragionevole ed eccessivo in danno della posizione del lavoratore. La possibilita', come visto, che quest'ultimo possa essere estromesso definitivamente dal posto di lavoro, anche a fronte di infrazioni disciplinari di modesta entita', appare innanzitutto lesiva della sua dignita'. Il lavoratore, invero, deve poter esplicare la propria attivita' lavorativa senza temere ingiuste o dannose ripercussioni, quale e' certamente quella di essere espulso dal proprio ambiente lavorativo, pur a fronte di violazioni disciplinari di scarsa entita'. Il regime normativo che la norma delinea, inoltre, incide negativamente sul terreno delle liberta' che il lavoratore deve comunque avere, all'interno del posto di lavoro, per poter essere in grado, senza temere ingiuste conseguenze, di esplicare pienamente le proprie prerogative costituzionali e, ove ricorrano, sindacali. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al diritto di critica (art. 21 Cost.) o di denunzia (art. 24 Cost.), in merito a questioni di primaria importanza, quali quelle sulla sicurezza sul lavoro ed al rispetto delle norme antinfortunistiche; al diritto di sciopero (art. 40 Cost.); al diritto di rivendicare la giusta e corretta retribuzione (art. 36 Cost.), etc.; al diritto di esplicare liberamente attivita' sindacale ovvero di aderire ad iniziative di medesima natura (articoli 39, 40 Cost.). La facilita', che la norma determina, di consentire l'estromissione dal posto di lavoro, non puo' che riflettersi negativamente a danno anche di tali prerogative, ponendo il lavoratore in una posizione di smisurata soggezione psicologica nei riguardi del proprio datore di lavoro. Questo non puo' che indurre il lavoratore ad evitare conflitti di ogni sorta, al fine di preservare il posto di lavoro, in specie nella previsione di poter incorrere, nel corso della propria vita lavorativa, in modo del tutto fisiologico, in qualche mancanza disciplinare, sia pure di minore gravita'. In tali casi, infatti, il datore di lavoro, consapevole di poter subire solo una sanzione economica, potrebbe cogliere l'occasione per estromettere il dipendente (c.d. «scomodo»), semplicemente perche' incline - magari anche solo in alcune fasi della sua vita lavorativa - a rivendicare i propri diritti, a segnalare le eventuali inadempienze aziendali o ad esercitare con pienezza i propri diritti sindacali. La sussistenza del fatto disciplinarmente rilevante, infatti, impedirebbe al lavoratore di accedere alla tutela reintegratoria in forza dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015. E', oltretutto, difficile, non solo sul piano probatorio, ma anche giuridico, poter sempre prospettare o dimostrare l'eventuale carattere ritorsivo dell'atto di recesso ovvero la sua natura discriminatoria ai sensi dell'art. 15, legge n. 300/1970 (ipotesi, questa, che darebbe luogo alla nullita' del licenziamento, ai sensi dell'art. 2 del decreto legislativo n. 23/2015), in specie in presenza di un fatto disciplinarmente rilevante, comunque, commesso dal lavoratore e che giustifica l'esercizio del potere disciplinare (3) . E tali difficolta' aumentano quando ricorra apprezzabile distanza di tempo tra l'atto di recesso e l'integrazione del comportamento «sgradito» al datore di lavoro, posto che in tali casi e' ancora piu' arduo, per il lavoratore, dimostrare il nesso di causalita' tra i due eventi. La disposizione in scrutinio, quindi, sembra alterare in modo irragionevole i rapporti tra impresa e parte lavoratrice, provocando un oggettivo squilibrio a danno della parte debole del rapporto, e cio' appare in contrasto non solo con l'art. 2 della Cost., nella misura in cui tale norma tutela l'individuo anche all'interno delle formazioni sociali ove esso esplica la sua personalita', ma anche rispetto a tutti quei parametri costituzionali, sopra menzionati, che costituiscono il fondamento delle prerogative democratiche del lavoratore (articoli 21, 24, 36, 39, 40 Cost.). Conclusioni (motivi sub A) Quanto premesso, in conclusione, non puo' che portare a dubitare della legittimita' della disposizione impugnata, alla luce dei parametri di cui ai seguenti articoli: 3 Cost., per irragionevolezza e disparita' di trattamento; 2 Cost., perche' irragionevolmente lesiva della dignita' del lavoratore, nell'ambito di una delle formazione sociali ove questi esplica la propria personalita', quale e' il posto di lavoro; 4, 35, 36 Cost., perche' irragionevolmente lesiva dell'interesse del lavoratore alla continuita' del rapporto e del diritto di non subire licenziamenti arbitrari; valore, quest'ultimo, strettamente connesso all'esigenza, protetta dall'art. 36 Cost., di poter condurre, attraverso la giusta retribuzione, un'esistenza libera e dignitosa; 2, 3 Cost. (ed altri parametri connessi, quali l'art. 21, 24, 39, 40), poiche' la norma provoca un irragionevole ed eccessivo squilibrio in danno della posizione del lavoratore, comprimendo, peraltro, i presupposti per il pieno e libero esercizio delle prerogative lavorative e sindacali; 41 Cost., in quanto conduce al superamento del limite previsto da tale disposizione, secondo cui l'iniziativa privata non puo' svolgersi in modo da compromettere la dignita' della persona. 4: (segue): B) possibile violazione dell'art. 76 Cost. per eccesso di delega. Si dubita, infine, dell'illegittimita' della disposizione anche ai sensi dell'art. 76 Cost. per eccesso di delega, alla luce dei criteri espressi dalla stessa Corte costituzionale (da ultimo, sentenza n. 166/2023). Le finalita' perseguite dal legislatore delegante, come si desume dall'art. 1, comma 7, legge n. 183/2010, erano quelle di rafforzare le opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro, di riordinare i contratti di lavoro, per renderli maggiormente coerenti con le esigenze del contesto occupazionale e produttivo, di rendere piu' efficiente l'attivita' ispettiva. Lo scopo perseguito dal legislatore delegante non era, dunque, quello di limitare oltremodo il diritto alla reintegra nei licenziamenti disciplinari. Tale finalita' non si ritrova neppure nei criteri all'uopo specificamente previsti. Viene, in risalto, in merito, quello contemplato dall'art. 1, comma 7, lettera c), il quale prevede di limitare il diritto alla reintegrazione «ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Come si vede, il criterio in esame, non tende a precludere la tutela reintegratoria anche alle ipotesi disciplinari riconducibili alle sanzioni conservative, ma solo a limitare tale strumento a «specifiche fattispecie», che il legislatore delegato era chiamato ad individuare. Lo scopo perseguito dalla legge delega era verosimilmente quello di consentire al datore di lavoro di avere maggiore certezza in ordine alle possibili conseguenze del recesso, evitando che queste ultime fossero imprevedibili e, dunque, potessero incidere oltremodo ed ex post nell'assetto degli interessi economici dell'impresa. Cio' appare confermato anche da quella parte della disposizione dell'art. 1, comma 7, lettera c), legge delega n. 183/2014, che ribadisce la previsione, gia' espressa in altre (art. 6, legge n. 604/1966, nella formulazione successiva alla legge n. 183/2010), di «termini certi per l'impugnazione del licenziamento». Nel caso di specie, il legislatore delegato sembra aver disatteso i criteri della legge delega, omettendo di individuare il novero delle «specifiche fattispecie» che avrebbero potuto dare luogo alla reintegrazione nei casi di licenziamenti disciplinari e limitando tale istituto ad una sola ipotesi, quella dell'insussistenza del fatto. Ma tale - estrema - limitazione non appare autorizzata dalla legge delega, ne' appare supportata dalle finalita' ivi perseguite, essa urtando, peraltro, con il principio di necessaria gradualita' delle sanzioni disciplinari ex art. 2106 c.c., nonche' con l'interesse del lavoratore a non essere estromesso arbitrariamente o irragionevolmente dal posto di lavoro, al di fuori dalle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva; valori - come visto - che assumono rilevanza costituzionale (articoli 1, 2, 4, 35 Cost.). Di tali principi, del resto, il legislatore ha fatto sempre applicazione: si consideri l'art. 18 St. lav. (legge n. 300/1970), che, pur dopo le modifiche operate dalla legge n. 92/2012, ha previsto il diritto di reintegra, non solo nelle ipotesi di insussistenza del fatto, ma anche nelle ipotesi in cui il fatto risulti disciplinarmente rilevante e sanzionabile con una misura conservativa, in base alle previsioni della contrattazione collettiva o del codice disciplinare. Si consideri, ancor prima, l'art. 12 della legge n. 604/1966 (non applicabile al caso in scrutinio, come evidenziato sopra, § 2.4.), secondo cui «Sono fatte salve le disposizioni di contratti collettivi e accordi sindacali che contengano per la materia disciplinata dalla presente legge, condizioni piu' favorevoli ai prestatori di lavoro». Analoga disciplina, come anticipato, sembra prefigurare il criterio dell'art. 1, comma 7, lettera c), della legge delega n. 183/2014, nella parte in cui non demanda al legislatore delegato di ridurre ad un'unica fattispecie la tutela reintegratoria, ma solo di limitarla a specifiche ipotesi. La drastica limitazione introdotta dal legislatore delegato alla sola ipotesi dell'insussistenza del fatto, ai fini della reintegra nel posto di lavoro, e con essa l'esclusione dall'ambito di operativita' di tale strumento dei casi in cui il fatto sia punibile con una sanzione conservativa, appare, pertanto, entrare il conflitto anche con il parametro costituzionale dell'art. 76 Cost., esorbitando dagli scopi e dai criteri previsti dalla legge delega. (1) Art. 3, comma 1, decreto legislativo n. 23/2015: «Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilita'» (disposizione dichiarata parzialmente illegittima da C. cost. 194/2018). (2) Con riferimento a fattispecie sottoposta all'art. 18 St. lav., la giurisprudenza aveva affermato che «ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa...il giudice e' vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12, legge n. 604/1966)» (Cass. sez. lav. 26 aprile 2022, n. 13063, par. 8.1. cit.). Sull'inapplicabilita', al caso in esame, dell'art. 12, legge n. 604/1966 (cfr. § 2.4). (3) In materia di licenziamento ritorsivo, ad es., secondo l'indirizzo espresso dalla suprema Corte, «Il licenziamento - per essere considerato ritorsivo - deve costituire l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore e proprio quest'ultimo ha l'onere di indicare e provare i profili specifici da cui desumere l'intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso» (Cassazione civile sez. lav., 17 gennaio 2019, n. 1195)