TRIBUNALE DI FIRENZE 
           Sezione del giudice per le indagini preliminari 
 
    Il  giudice  per  le  indagini  preliminari  dott.ssa  Agnese  Di
Girolamo,  letta  la  richiesta  di  archiviazione  presentata  dalla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze il 17  maggio
2023 nel procedimento in epigrafe iscritto nei confronti di: 
        C... M..., nato a ...,  il  ...,  difeso  dall'avv.  Filomena
Gallo del Foro di Roma e dall'avv. Maria Elisa D'Amico  del  Foro  di
Milano; 
        L... C..., nata a ..., il ..., difesa dall'avv. Rocco Berardo
del Foro di Roma; 
        M... F..., nata a ..., il ..., difesa dall'avv. Francesca  Re
del Foro  di  Roma  e  dell'avv.  Francesco  Di  Paola  del  Foro  di
Lagonegro; 
        per il reato di cui all'art. 580 del codice penale,  commesso
il ... 
        all'esito dell'udienza in camera di consiglio ex art. 409 del
codice di procedura penale del 23 novembre 2023; 
        sentite le parti  presenti  e  lette  le  memorie  da  queste
depositate; 
 
                               Osserva 
 
1. Il fatto 
    Nel presente  procedimento  M...  C...  C...  e  F...  M...  sono
indagati per il delitto di cui all'art. 580 del  codice  penale,  per
avere organizzato e poi materialmente eseguito  l'accompagnamento  di
M... S... presso la clinica ... dove, il  giorno  ...  lo  stesso  e'
deceduto in seguito a procedura di suicidio assistito. 
    La vicenda, nei suoi contorni fattuali, emerge in  modo  pacifico
dagli elementi acquisiti nelle indagini preleminari, svolte a seguito
dell'autodenuncia degli stessi indagati, e puo' essere ricostruita in
termini conformi a quanto prospettato dall'Ufficio di  procura  nella
richiesta di archiviazione. 
    A M... S... era stata diagnosticata nel ... la sclerosi multipla,
patologia del sistema nervoso  centrale  che  conduce  a  invalidita'
progressiva del paziente. 
    Dopo l'esordio dei primi sintomi lievi,  il  quadro  clinico  era
rimasto stazionario per alcuni anni, finche' - tra fine ... e  inizio
... - si era registrato un significativo avanzamento del processo  di
demielinizzazione   tipico   della    malattia,    con    conseguente
peggioramento  delle  condizioni  di  vita  del  paziente  (descritto
chiaramente dal padre e dai medici  che  lo  hanno  avuto  in  cura):
dapprima  S...  aveva  iniziato  a  manifestare   difficolta'   nella
deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e,  dopo
appena  qualche  mese  -   ad   aprile   2022   -,   risultava   gia'
definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con  pressoche'
totale immobilizzazione anche degli arti superiori (salva una residua
capacita' di utilizzo del braccio destro). 
    Secondo quanto dichiarato dal padre,  e'  nel  ...  che  S...  ha
maturato per la prima volta l'idea di porre fine  alla  propria  vita
per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. 
    Nello stesso anno, in autonomia, tramite  ricerche  su  internet,
S... e' venuto a conoscenza dell'esistenza di associazioni  dedite  a
offrire supporto ai pazienti  che  sono  interessati  ad  accedere  a
procedure di suicidio assistito all'estero; e' cosi' che  e'  entrato
in contatto per la prima volta con l'indagato C... 
    Nel... in  corrispondenza  del  grave  deterioramento  delle  sue
condizioni di salute, il proposito di S... si e' trasformato in ferma
risoluzione, tanto da  essere  convintamente  manifestato  (anche  in
alcuni messaggi, acquisiti al procedimento) non piu' solo  al  padre,
ma anche ad altre persone, quali la sorella e lo stesso C... 
    A questo punto, S... ha  preso  contatti  con  una  clinica  ...,
avvalendosi dell'intermediazione di  C...,  che  agiva  in  veste  di
legale rappresentante dell'A... S...  C...  da  lui  fondata,  e  del
supporto economico della stessa A...,  che  si  e'  fatta  carico  di
pagare alcuni costi connessi alla procedura, tra  cui  le  spese  del
trasporto fino in ..., tramite il noleggio di un furgone. 
    S... ha raggiunto la ... il ... a bordo di tale furgone,  guidato
a turno dalle indagate C... L... e F... M... 
    Presso la clinica «...» di  ...,  il  ...  si  sono  svolti  vari
colloqui e visite con  diversi  medici,  al  fine  di  verificare  la
sussistenza dei presupposti per l'accesso alla procedura  in  termini
compatibili con la  legge  ...  S...  ha  avuto  la  possibilita'  di
confrontarsi anche con i familiari giunti fin li', resistendo ai loro
tentativi di dissuaderlo dal proposito di darsi la morte. 
    La procedura si e' conclusa l'...: alla presenza del padre, della
sorella e delle due indagate, S... ha confermato  definitivamente  la
sua volonta' e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare,
ha assunto per via orale il  farmaco  letale.  E'  morto  dopo  pochi
minuti. 
2. Rilevanza della questione 
    Questo giudice e' chiamato ad applicare  l'art.  580  del  codice
penale, nella versione vigente a seguito della sentenza  della  Corte
costituzionale  n.  242/2019,  per  valutare   la   possibilita'   di
accogliere la richiesta di archiviazione presentata della Procura. 
    Allo stato, la richiesta di  archiviazione  non  potrebbe  essere
accolta, poiche', in base al compendio probatorio in atti, secondo la
valutazione di questo giudice, la  condotta  degli  indagati  rientra
nell'ambito di applicazione  dell'art.  580  del  codice  penale,  in
particolare della fattispecie di aiuto al suicidio, senza  che  possa
beneficiare della causa di non punibilita' introdotta a seguito della
citata pronuncia di illegittimita' parziale. 
2.1. La configurabilita' dell'art. 580 del codice penale 
    Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi costitutivi  del
titolo di reato in origine ipotizzato dal pubblico ministero. 
    Il fatto e' senz'altro  riconducibile  alle  ipotesi  contemplate
dall'art. 580 del codice penale, poiche' la morte  si  e'  verificata
come conseguenza immediata e diretta di un'azione autolesiva posta in
essere personalmente e consapevolmente dallo stesso titolare del bene
vita, che risulta essersi auto-somministrato, con un gesto  autonomo,
quando era ancora cosciente, la sostanza che ha provocato il decesso. 
    La fattispecie configurabile in concreto,  tra  quelle  descritte
dall'art. 580 del codice penale, e' il solo aiuto al suicidio, mentre
non sono emersi elementi che possano far  anche  solo  ipotizzare  un
addebito (ne', tantomeno, formulare  una  ragionevole  previsione  di
condanna, ex articoli 408 e 425 del codice di procedura  penale)  per
la distinta fattispecie di istigazione al suicidio. 
    Quanto alla genesi del proposito autosoppressivo,  infatti,  S...
risulta aver concepito la decisione in autonomia (grazie  a  ricerche
svolte da solo su internet) e certamente prima di entrare in contatto
con gli indagati, a carico dei  quali  non  e'  prospettabile  alcuna
condotta  di  determinazione  al  suicidio.  Quanto   al   successivo
consolidamento di tale  intento,  puo'  escludersi  che  su  di  esso
abbiano influito, in qualsiasi grado, gli indagati, con  condotte  di
istigazione o rafforzamento: secondo le dichiarazioni del padre, C...
dapprima  si  sarebbe  limitato  a  fornire  informazioni  a   titolo
meramente consultivo (assumendo dunque una  posizione  neutrale,  con
semplice presentazione delle strade astrattamente percorribili, senza
incentivare una soluzione a scapito dell'altra) e, quando ha messo  a
disposizione i suoi contatti con la ..., il  proposito  di  S...  era
gia' compiutamente maturato e ormai fermo;  analogamente  puo'  dirsi
per le due indagate, che sono intervenute soltanto in un  momento  in
cui la risoluzione suicidaria era gia' del tutto formata. 
    In altri termini, nessuna delle  condotte  degli  indagati  (ne',
come si vedra', di terzi)  sembra  dotata  di  efficacia  causale,  a
livello psichico, rispetto al convincimento di S ... 
    La rilevanza penale della condotta degli indagati,  nel  caso  di
specie,  dipende  dunque  soltanto  dalla   loro   partecipazione   e
cooperazione materiale alla realizzazione del suicidio. 
    In  quest'ottica,  la  Procura  ha  quindi   sostenuto   che   il
comportamento degli indagati non  sarebbe  tipico  neppure  ai  sensi
della  fattispecie  di  aiuto  al  suicidio,  facendo  leva  su   una
interpretazione restrittiva sia del concetto di agevolazione sia  del
criterio di rilevanza causale di tale  condotta  rispetto  all'evento
suicidio. 
    Questo giudice ritiene di non  poter  condividere  l'impostazione
ermeneutica proposta nella richiesta di  archiviazione  e  in  alcuni
precedenti di merito da questa richiamati. 
    In  primo  luogo,  quanto  al   significato   del   testo   della
disposizione di cui all'art. 580 del codice penale - nella  parte  in
cui punisce chi «agevola in qualsiasi modo l'esecuzione»  dell'altrui
suicidio -, la formulazione letterale legittima, o meglio impone,  di
dare rilevanza sul piano oggettivo a qualunque condotta di terzi che,
secondo i consueti criteri di accertamento della causalita', si ponga
quale antecedente necessario rispetto alla morte. 
    Non vi sono, sempre sul piano testuale, elementi che  autorizzano
a letture restrittive: ne'  considerando  il  verbo  utilizzato,  dal
momento che l'impiego del termine «agevolare» (anziche', sul  modello
degli articoli 575 e 589 del codice penale, quello di  «causare»)  si
presta senz'altro a  ricomprendere  mere  facilitazioni,  e  potrebbe
semmai condurre, all'opposto di quanto supposto dalla Procura, a dare
rilievo persino a  condotte  che  non  sono  condicio  sine  qua  non
dell'evento; ne' tantomeno considerando la locuzione  avverbiale  «in
qualsiasi modo», che, anzi, rivela in modo espresso e  incontentabile
la latitudine della fattispecie, spingendola alla massima estensione. 
    Del resto,  sul  piano  sistematico,  non  puo'  dimenticarsi  la
funzione residuale, di chiusura del sistema dei reati a tutela  della
vita, che l'art. 580 del codice penale assumeva secondo la concezione
del  legislatore  storico  e   l'impianto   originario   del   codice
(circostanza di cui si ha traccia nei lavori preparatori  al  codice,
ove pure e' ribadita la massima ampiezza dell'ambito di  applicazione
della norma). Con la precisazione che  tale  funzione,  che  accomuna
l'art. 580 all'art. 579 del  codice  penale,  non  e'  stata  affatto
smentita dai principi ricavabili dalla recente  giurisprudenza  della
Corte costituzionale, ove anzi e' stata ribadita - da ultimo in  modo
esplicito,  in  occasione  della  sentenza  di  inammissibilita'  del
referendum per  l'abrogazione  dell'omicidio  del  consenziente  - il
valore costituzionalmente  necessario  di  norme  incriminatrici  che
reprimano  offese  al  bene  vita  anche  in  presenza  del  consenso
dell'interessato. 
    Deve quindi ritenersi, anche secondo una  lettura  aggiornata  ai
valori costituzionali, che il codice dia rilievo,  almeno  sul  piano
della tipicita', a tutte le  condotte  dotate  di  efficacia  causale
rispetto  all'evento  morte  (secondo  la  struttura   tipica   delle
fattispecie a forma libera), a prescindere dal modo in cui questo  e'
stato cagionato. 
    Criterio di rilevanza  della  condotta,  per  tutte  le  condotte
lesive del bene vita, sara' appunto il giudizio causale, da  condurre
secondo gli strumenti offerti dalla teoria  condizionalistica,  senza
possibilita' di distinguere tra  antecedenti  necessari  rilevanti  a
seconda  che  venga  in  rilievo  la  figura  generale  dell'omicidio
volontario, dell'omicidio del consenziente o dell'aiuto al suicidio. 
    Una simile distinzione sarebbe peraltro irragionevole, in  quanto
priva di alcuna  ragione  giustificativa,  posto  che  determinare  o
contribuire a determinare la morte di un uomo contro il suo  consenso
o con il suo consenso e' pur sempre cagionare la morte  di  un  uomo,
almeno  in  termini  materiali  (potendo   trovare   sede   ulteriori
bilanciamenti di interessi in diverse categorie sistematiche). 
    Peraltro, tornando a un argomento di carattere testuale,  occorre
sottolineare che la conclusione a cui qui si giunge non  e'  scalfita
dalla circostanza  che  il  Legislatore,  nell'art.  580  del  codice
penale,  abbia  adottato  una  formulazione   peculiare,   collegando
l'agevolazione (e dunque la  causazione)  non  al  suicidio  (o  alla
morte) in quanto tale, bensi' alla sua «esecuzione». 
    Questa formulazione si puo' spiegare non tanto come frutto  della
scelta di restringere l'ambito delle  condotte  penalmente  rilevanti
rispetto  all'omicidio,  bensi'  come  riflesso  della   peculiarita'
dell'evento  del  reato.  Il  legislatore  presuppone  infatti,   per
l'applicazione dell'art.  580  (anziche'  dell'art.  579  del  codice
penale), che il gesto autolesivo avvenga «in  solitudine»,  o  meglio
che sia riferibile esclusivamente, sul  piano  psicologico  ma  prima
ancora materiale, a un'azione della persona titolare del  bene  vita,
che sulla stessa azione conserva appunto  il  proprio  «dominio»:  e'
consequenziale  a  questa  impostazione  che   la   condotta   tipica
nell'ambito dell'art. 580 del codice penale non abbia,  come  termine
di relazione causale immediata, la  morte,  bensi'  l'esecuzione  del
suicidio, che invece resta appannaggio del suicida stesso. 
    Sulla base di quanto visto fin qui, va ribadita la  rilevanza  di
tutte le condotte che rappresentano antecedenti necessari - nel senso
proprio della teoria condizionalistica della  causalita'  -  rispetto
alla realizzazione dell'atto autosoppressivo. 
    Per escludere  la  tipicita'  non  potranno  essere  invocati,  a
differenza di quanto sostenuto dall'Ufficio di Procura, il  grado  di
distanza   cronologica   della   condotta   dal   suicidio   ne'   la
«fungibilita'» della condotta del terzo: secondo la lettura  classica
della  piu'  volte  citata  teoria  condizionalistica,  il   giudizio
controfattuale che esprime la causalita' ha sempre  come  termine  di
riferimento l'evento in  concreto,  sicche'  occorrera'  guardare  al
fatto per come storicamente verificatosi (in quei tempi,  con  quelle
modalita', in quelle circostanze). 
    Alla luce di tali principi, la condotta degli indagati  appare  a
questo  giudice  sussumibile  nell'ambito   di   applicazione   della
fattispecie di aiuto al suicidio. 
    C... ha posto in essere una condotta  concretamente  agevolatrice
mantenendo i contatti con la clinica ..., fornendo (attraverso l'A...
di cui era legale rappresentante) il supporto finanziario  necessario
per coprire i costi della procedura (non sostenibili da  parte  della
famiglia del richiedente) e provvedendo anche a pagare  le  spese  di
noleggio del mezzo che poi ha consentito il trasporto di S... in ... 
    L... e M... hanno posto  in  essere  una  condotta  concretamente
agevolatrice alternandosi alla guida del mezzo che ha prelevato  S...
da casa e lo ha condotto fino alla clinica dove poi  e'  avvenuto  il
suicidio. 
    Tutti e tre gli indagati hanno dunque tenuto condotte  che  hanno
reso  possibile,  come  antecedenti  logico-causali   necessari,   la
realizzazione del suicidio nel modo poi effettivamente  verificatosi,
posto che in loro assenza - senza (quel) denaro, senza (quel)  mezzo,
senza (quella) guida - la  morte  di  S... non  sarebbe  storicamente
avvenuta li' e allora, nei termini sopra descritti. 
2.2. La configurabilita' della causa di «non punibilita'»  dell'aiuto
al  suicidio  introdotta  dalla  sentenza  n.  242/2019  della  Corte
costituzionale 
    Ritiene questo giudice che la condotta degli indagati non  ricada
nella ipotesi di non  punibilita'  introdotta  nell'art.  580  codice
penale dalla Corte costituzionale, poiche' nel  caso  di  specie  non
risulta integrato il requisito della «dipendenza  da  trattamenti  di
sostegno vitale». 
    Gli elementi acquisiti in fase di indagine hanno infatti permesso
di accertare, per il resto, la  sussistenza  delle  altre  condizioni
sostanziali richieste, nonche' del rispetto di condizioni procedurali
equivalenti a quelle prescritte dalla legge. 
2.2.1. Le condizioni sostanziali 
    S... era affetto da sclerosi multipla, patologia  che,  stando  a
quanto dichiarato dai medici specialisti sentiti in fase di indagini,
e'   da   considerarsi,   allo   stato    attuale    delle    conosce
medico-scientifiche, malattia irreversibile, essendo da escludere una
qualsivoglia possibilita' di guarigione. 
    S... pativa sofferenze da lui stesso ritenute insostenibili. 
    La Corte costituzionale, nel definire il requisito in  esame,  ha
utilizzato la congiunzione disgiuntiva «o»: un dato grammaticale  che
autorizza senz'altro l'interprete a  ritenere  che  possa  (o  meglio
debba) essere data autonoma rilevanza sia alle sofferenze fisiche sia
a quelle esclusivamente psicologiche. 
    Altrettanto chiaro, sul piano letterale, e'  che  la  valutazione
circa la tollerabilita' delle  sofferenze  (fisiche  o  psicologiche)
spetta unicamente alla persona malata,  senza  che  al  suo  giudizio
possa essere sovrapposto quello di terzi soggetti  (parenti,  medici,
giudici), chiamati al piu' a prenderne atto  -  verificando,  se  del
caso, la lucidita' del paziente e la serieta' della sua  esternazione
- ma senza apprezzamenti  «di  merito»  alternativi,  necessariamente
ispirati a criteri eteronimi e moralisti (posto che nessuno  potrebbe
indicare ad altri quanto dolore sia sopportabile). Cio'  peraltro  e'
del  tutto  coerente  con  il  rilievo  autonomo   della   sofferenza
psicologica: una volta esclusa la possibilita' di invocare  parametri
oggettivi, appare ragionevole abbandonare distinzioni,  quali  quella
tra dimensione fisica  e  psicologica,  che  possono  (eventualmente)
riflettersi sulla fattibilita' di un  accertamento  esterno,  ma  che
sono del tutto irrilevanti per la persona che vive  un'esperienza  in
ultima analisi connotata, in entrambi i casi, da  un  medesimo  stato
psichico: una percezione dolorosa. 
    La sofferenza e la sua  intollerabilita'  sono  ben  testimoniate
dalle risultanze probatorie in atti, gia' enucleate  dall'Ufficio  di
Procura. 
    E' infatti emerso  che  S...  abbia  dato  voce  ripetutamente  e
chiaramente a tale concetto: «non posso continuare cosi', dato che il
mio corpo non funziona piu', peggiora di giorno in giorno, ho estrema
difficolta' a muovermi e la malattia e' incurabile [...]  non  ce  la
faccio piu'» (cfr. e-mail a M... C...); «M... ci rispondeva  che  lui
era "intollerabile" (testuali parole dello S...)  uscire  di  casa  e
presentarsi con un pannolone», «per lui quella non era piu' una  vita
dignitosa e non aveva intenzione di continuare ad essere un peso  per
il padre e per tutti» (cfr. s.i.t. dott.ssa  C...  S...);  «M...  non
tollerava piu' di essere dipendente dal padre  convivente  [...]  per
cui si sentiva da sue testuali parole "ingabbiato con la  mente  sana
in un corpo che non funziona"» (cfr. s.i.t. dott.ssa M... G...). 
    Tali parole, anche  de  relato,  provano  che  la  condizione  di
malattia era  fonte  per  lui  di  patimento  psicologico,  che  egli
riteneva di non essere  piu'  in  grado  di  sostenere,  secondo  una
valutazione soggettiva del peso che  tale  condizione  imponeva  alla
propria volonta' e alla propria dignita'. 
    Inoltre, la decisione di  darsi  la  morte  e'  stata  concepita,
maturata e poi mantenuta fino  all'ultimo  da  S...  sempre  in  modo
libero e consapevole. 
    Occorre  rilevare  che  il   requisito   previsto   dalla   Corte
costituzionale assume un significato piu' pregnante rispetto sia alla
mera capacita' di  intendere  e  di  volere,  sia  al  dato  negativo
dell'assenza di condizionamenti esterni: esso naturalmente presuppone
tale duplice verifica, ma al contempo implica  un  giudizio  positivo
sulla riferibilita' della scelta di morire a un  processo  -  libero,
consapevole e stabile - di costruzione della volonta', che solo cosi'
puo' ritenersi autentica manifestazione di autodeterminazione. 
    In primo luogo, quanto agli aspetti  strettamente  inerenti  alla
capacita' di intendere e di volere  di  S...,  non  sembra  che  tale
condizione  sia  stata  inficiata  dalla  risalente  diagnosi  di  un
«disturbo delirante/da evitamento». Come dettagliatamente ricostruito
nelle indagini della Procura, infatti, e' emerso che: il disturbo era
ormai  tenuto  sotto  controllo  grazie  all'aiuto  di  una   terapia
farmacologica, tanto che da anni  non  si  verificano  episodi  acuti
degni di interesse (cfr. relazione clinica dott.ssa  C...  S...);  le
anomalie comportamentali erano cessate con l'esordio  della  sclerosi
malattia, coincisa con una consapevole presa di distanze dal paziente
rispetto al proprio passato (cfr. s.i.t. B...  S...);  la  dottoressa
che lo ha visitato a ... ha confermato la «completa rimessione  della
sintomatologia» e giudicato che il paziente fosse capace di intendere
e di volere, in quanto «manifesta normale capacita' di discernimento,
consapevolezza delle proprie scelte  e  delle  conseguenze  che  esse
comportano» (cfr. certificato del dott.ssa C... S...). 
    Del resto, non sembra neppure che tale quadro clinico - che, come
detto, risultava ormai  superato  -  si  sia  tradotto  in  forme  di
ideazione o di agiti suicidari, come dimostra  il  fatto  che,  prima
dell'insorgere della sclerosi multipla,  M...  non  era  apparso,  ai
medici che lo avevano seguito, propenso a tendenze auto-soppressive o
rinunciatarie nei confronti della vita («non mi sembrava un  paziente
che si lasciasse andare»: cfr. s.i.t. dott.ssa C... F...; «non  posso
affatto dire che in mia presenza vi sia mai stata [...]  volonta'  di
porre fine alla propria esistenza»: cfr. s.i.t. dott. G... M...). 
    L'assenza  di  indebite  influenze   esterne   e   l'autenticita'
dell'intento suicidario emergono a loro volta  in  modo  pacifico  da
elementi di fatto perlopiu' gia' esposti in precedenza. 
    Anzitutto, il padre - l'unica  persona  con  cui  S...  al  tempo
intrattenesse rapporti significativi - ha confermato che  nel  figlio
il proposito di morire era sorto, gia' nel ...,  in  modo  del  tutto
autonomo, all'esito di riflessioni e ricerche  svolte  personalmente;
inoltre, si e' detto che,  nei  mesi  successivi,  S...  non  risulta
essere stato condizionato ne' dagli  indagati  (per  i  quali  si  e'
infatti escluso ogni  possibile  addebito  in  termini  non  solo  di
determinazione, ma anche di istigazione) ne' da altri soggetti, posto
che anche le persone a lui piu' care (ancora una volta il padre e poi
la sorella) si sono limitate a rispettare la sua scelta, dandola come
acquisita, e hanno semmai cercato di dissuaderlo. 
    Al contrario, in  positivo,  si  puo'  ritenere  che  l'autonomia
decisione  di   morire   abbia   persino   beneficiato   dell'apporto
conoscitivo fornito dall'indagato C..., che ha permesso a S...  -  in
un  contesto,  come  quello  nazionale,  di  scarsa  se  non  assente
informazione istituzionale sul punto  -  di  valutare  in  modo  piu'
consapevole le alternative concretamente disponibili, sia  dal  punto
di vista materiale che giuridico. 
    Sempre in positivo, va sottolineato che la  decisione  di  morire
non risulta espressione di una deliberazione estemporanea, ma  appare
il  frutto   di   un   percorso   di   crescente   consapevolezza   e
stabilizzazione  del  volere,  che  attraversa  una  serie  di  tappe
progressive, prima percorse  nel  foro  interno  della  persona,  poi
esternate attraverso la manifestazione del proposito a  parenti  e  a
terzi. 
    Infine, tutti gli aspetti fin qui analizzati -  la  capacita'  di
intendere  e  di   volere,   l'assenza   di   ingerenze   esterne   e
l'autenticita'  della  scelta  di  morire  -  trovano  conferma   nei
risultati dei controlli effettuati sul paziente  da  personale  della
clinica svizzera nei mesi precedenti  al  decesso  fino  agli  ultimi
istanti di vita: controlli  dall'esito  positivo  che,  per  le  loro
caratteristiche (su cui si  dira'  qui  immediatamente  di  seguito),
provano ulteriormente che la decisione di  S...  e'  da  considerarsi
ragionevolmente «libera e consapevole»,  sia  alla  luce  di  criteri
medico-legali (cfr. appunto le  valutazioni  espresse  dal  personale
sanitario che ha avuto in carico il paziente), sia alla  luce  di  un
criterio normativo-sociale (una volonta' percepita  come  «autentica»
dalle persone piu' vicine a lui, nonche' maturata e accertata tramite
una apposita procedura). 
2.2.2. Le condizioni procedurali 
    Al profilo appena affrontato si ricollega  altresi'  la  verifica
della sussistenza delle condizioni procedurali richieste dalla  Corte
costituzionale per la liceita'  dell'aiuto  al  suicidio:  che  siano
rispettate «le modalita' previste dagli articoli 1 e  2  della  legge
n. 219/2017», che  tali  modalita'  di  esecuzione  e  le  condizioni
sostanziali legittimanti l'aiuto al suicidio «siano state  verificate
da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale» e che sia
acquisito il  «previo  parere  del  comitato  etico  territorialmente
competente». 
    Ritiene questo giudice che nel  caso  di  specie  tali  requisiti
possano  ritenersi  soddisfatti,  o  che  comunque  il  loro  mancato
rispetto formale non precluderebbe, di per se', la «non  punibilita'»
degli indagati. 
    Va premesso che anche i requisiti in esame, sebbene  generalmente
considerati  di  natura  «procedurale»,  attengono  in  realta'  alle
condizioni  sostanziali  che  rendono  lecito  l'aiuto  al  suicidio,
poiche' non solo sono  funzionali  a  verificare  la  sussistenza  di
queste ultime, ma concorrono a crearne i presupposti, quantomeno  con
riferimento alla liberta' e alla consapevolezza  della  decisione  di
morire. Cio' e' vero in particolare per  la  procedura  di  cui  agli
articoli 1 e 2 della  legge  n. 219/2017,  ossia  quella  in  origine
prevista per la manifestazione del rifiuto di  trattamenti  sanitari,
anche salvavita. 
    In  base  a  questa  disciplina,  la  rilevanza  giuridica  della
volonta'  della  persona  e'  subordinata  a:  un  primo  momento  di
informazione del paziente circa  le  sue  condizioni  di  salute,  la
prognosi e le  alternative  percorribili,  con  relativi  vantaggi  e
svantaggi (art. 1,  comma  3);  in  seguito  alla  dichiarazione  del
paziente, un secondo confronto con il personale  sanitario  (art.  1,
comma 5), che e' tenuto a illustrare conseguenze  della  decisione  e
strade  alternative,  contestualmente  mettendo  a  disposizione   un
servizio di supporto psicologico e  assicurando  la  possibilita'  di
accedere a un percorso di terapia del dolore e cure palliative. 
    Come evidente, i compiti del medico non si  limitano  a  un  mero
accertamento,  ma,  in  ottica  collaborativa   e   sinergica,   sono
funzionali  ad  assistere  il  paziente  nell'esercizio   della   sua
autodeterminazione, attraverso contributi  qualificati  di  carattere
informativo e tecnico (il  supporto  psicologico  e  la  terapia  del
dolore). 
    E'  dunque  il  carattere  «medicalizzato»  della   procedura   a
garantire, nell'ottica della Corte costituzionale, la  formazione  di
un'autentica volonta' di morire. 
    Tale requisito, cosi' inteso, nel caso di specie e' da  ritenersi
pienamente rispettato  alla  luce  della  procedura  seguita  per  la
prestazione dell'aiuto al suicidio presso la clinica ...  in  cui  e'
morto S ..., che si presenta addirittura piu' articolata e garantista
di quella che dovrebbe essere seguita in base alla legge italiana. 
    Risulta infatti che la procedura sia  consistita:  nell'invio  da
parte del richiedente di documentazione idonea  a  delineare  le  sue
condizioni cliniche  e  la  sua  storia  personale;  una  valutazione
preliminare  da  parte  della  struttura  sulla  base  del  materiale
acquisito;  una  valutazione,   anche   psicologica,   in   presenza,
articolata in due colloqui con i medici, uno il giorno dell'arrivo  e
uno  il  giorno  successivo;  la  presenza  di  testimoni  (nel  caso
concreto,  tra   gli   altri,   i   familiari)   al   momento   della
auto-somministrazione del farmaco letale, immediatamente preceduta da
un  ultimo  ammonimento  circa  la  possibilita'  di   arrestare   la
procedura. 
    Procedure dalla  scansione  analoga  -  peraltro  eseguite  nella
medesima clinica - sono state valutate «sostanzialmente  equivalenti»
a quella italiana gia' da  alcuni  organi  giudicanti,  con  pronunce
diventate definitive (cfr. Corte  d'assise  di  Milano,  sentenza  23
dicembre 2019, e Corte d'assise di Massa, sentenza  27  luglio  2020,
poi confermata da Corte d'assise d'appello  di  Genova,  sentenza  20
maggio 2021). 
    Negli  stessi  casi,  il  medesimo  giudizio  di  equivalenza  ha
«assorbito» anche la questione relativa al rispetto  degli  ulteriori
profili di disciplina procedurale. 
    E' vero che in tali casi i giudici hanno potuto  avvalersi  della
clausola  di   equivalenza   appositamente   prevista   dalla   Corte
costituzionale, nella sentenza n.  242/2019,  per  i  fatti  commessi
prima della declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 580,  ossia
quando,  per  mancanza  di  riferimenti  normativi,   sarebbe   stato
impossibile, gia' dal punto di vista logico, rispettare una procedura
introdotta soltanto ex post. 
    Nondimeno, questo giudice ritiene  che  un  analogo  giudizio  di
equivalenza sostanziale - e, per l'effetto, una medesima  conclusione
in senso positivo circa la sussistenza del  requisito  procedurale  -
possa essere  svolto  anche  nella  vicenda  in  esame,  verificatasi
interamente nel vigore della nuova disciplina. 
    In  primo  luogo,  per  cio'  che  riguarda  il  rispetto   degli
articoli 1  e  2 della  legge  n. 219/2017,  la  necessita'  che  sia
osservata una determinata  procedura  non  e'  incompatibile  con  la
circostanza che i singoli passaggi di cui tale procedura  si  compone
possano essere  accertati  secondo  un  approccio  sostanziale,  onde
verificare  se  di  volta  in  volta  siano  state  compiute   quelle
valutazioni imposte dalla scansione «tipica». Cio',  come  detto,  e'
senz'altro vero  se  si  guarda  alle  modalita'  con  cui  e'  stato
preparato e prestato l'aiuto al suicidio da parte della  clinica  ...
dove poi e' avvenuto il decesso. 
    In secondo luogo, per quanto  concerne  gli  ulteriori  requisiti
procedurali (la riserva di prestazione al Sistema sanitario nazionale
e  il  parere  del  comitato   etico),   si   impone   una   triplice
considerazione. 
    E' chiaro che, nel caso qui in esame, la circostanza che il fatto
si sia  verificato  all'esito  di  una  prestazione  offerta  da  una
struttura estera, a sua volta preceduta da un articolato percorso  di
assistenza e valutazione della  richiesta,  e'  incompatibile  con  i
passaggi ulteriori richiesti dalla Corte costituzionale, ipotizzabili
soltanto in caso  di  procedura  gestita  e  di  prestazione  erogata
interamente in Italia. 
    Inoltre, occorre osservare che il rispetto di tali condizioni non
era comunque concretamente esigibile nel caso  concreto:  sebbene  in
linea teorica al momento del fatto esistesse gia'  una  procedura  ad
hoc, questa era di  fatto  inaccessibile  al  richiedente,  che  alla
propria domanda avrebbe senz'altro visto opposto un  diniego  per  il
difetto della condizione sostanziale della dipendenza da  trattamenti
di sostegno vitale (su cui v. subito oltre). 
    Infine, ragionando in ottica sostanziale,  la  presumibile  ratio
alla base della previsione dei requisiti in esame (la tutela,  ancora
una volta, dell'autenticita'  del  volere  del  paziente,  specie  se
vulnerabile)  risulta  pienamente   soddisfatta   dalle   valutazioni
-tecniche, approfondite e indipendenti - svolte dal personale  medico
della clinica ..., la cui attivita' e' peraltro  sottoposta  su  base
casistica a vigilanza (sia pure successiva) da parte delle  autorita'
pubbliche. 
    Dunque, concludendo sul punto, se e' vero, come e' vero, che sono
state rispettate tutte le  esigenze  sostanziali  di  protezione  del
paziente e della sua autodeterminazione, nel caso di  specie  la  non
punibilita' non potrebbe essere negata agli indagati  unicamente  per
il mancato rispetto di passaggi procedurali che sarebbero stati  loro
inibiti anche ove avessero preso  l'iniziativa  in  conformita'  alla
disciplina vigente. 
    Le considerazioni svolte naturalmente non sono incompatibili  con
la circostanza che, per esigenze di chiarezza e  di  certezza,  possa
essere  la  stessa  Corte  costituzionale,  ove  ritenga  fondata  la
questione di legittimita' costituzionale sollevata in questa sede,  a
indicare erga omnes - come gia' ha fatto nella sentenza n. 242/2019 -
la possibilita' che l'area di non punibilita',  nella  sua  eventuale
nuova estensione, operi anche riguardo a fatti  anteriori  alla  data
della   stessa   declaratoria   di    incostituzionalita',    purche'
l'agevolazione al suicidio sia stata  prestata  con  modalita'  anche
diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie
sostanzialmente equivalenti. 
2.2.3. Il requisito  della  dipendenza  da  trattamenti  di  sostegno
vitale 
    Nel caso di specie va esclusa la sussistenza del requisito  della
dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale. 
    Preliminarmente, salvo  le  precisazioni  che  saranno  fatte  in
seguito, va ribadito che, in base a quanto emerge dagli  elementi  di
fatto acquisiti  in  fase  di  indagini  (attraverso  l'assunzione  a
sommarie  informazioni  di  medici  di  medicina  generale  e  medici
specialisti che hanno avuto  in  cura  il  paziente),  S...  non  era
concretamente sottoposto a trattamenti di  sostegno  vitale,  ne'  lo
stadio  di  avanzamento   della   sua   patologia   richiedeva   tali
trattamenti. 
    Questo giudice e'  consapevole  delle  diverse  letture  che  del
requisito in esame sono state  fornite  nel  dibattito  dottrinale  e
nella elaborazione giurisprudenziale che ha seguito la sentenza della
Corte costituzionale. 
    Punto di partenza generalmente  riconosciuto  e'  che  la  stessa
Corte costituzionale non ha dato, ne' nell'ordinanza n. 207/2018, ne'
nella sentenza n. 242/2019, una definizione analitica  e  sistematica
dei «trattamenti di sostegno vitale». Vi e' soltanto, nell'ordinanza,
il  riferimento  -  con  evidente   valenza   esemplificativa   -   a
«trattamenti   [...]   quali   la   ventilazione,   l'idratazione   o
l'alimentazione artificiali». Tali  indicazioni,  sia  pur  minimali,
hanno trovato facile e soddisfacente applicazione nel procedimento da
cui era sorto l'incidente di costituzionalita',  posto  che  in  quel
caso la  sopravvivenza  del  paziente  richiedeva,  tra  l'altro,  un
respiratore   artificiale   e   nutrizione   intraparietale,    ossia
trattamenti  di  immediata  e  indiscutibile  riconducibilita'   alla
condizione indicata dalla Corte costituzionale (cfr.  Corte  d'assise
di Milano, sentenza 29 dicembre 2019, p. 12). 
    I primi problemi interpretativi hanno  iniziato  a  porsi  quando
sono emerse vicende concrete in cui i pazienti, che avevano  ottenuto
l'assistenza al  suicidio  all'estero,  versavano  in  condizioni  di
salute sostanzialmente analoghe  a  quelle  prese  in  considerazione
dalla Corte costituzionale, ma - per le peculiarita' della  patologia
da cui erano affetti o per lo stadio a cui questa si  trovava  -  non
erano dipendenti da un respiratore artificiale o da altri macchinari. 
    I commentatori prima e la  giurisprudenza  di  merito  poi  hanno
presto ritenuto che una corretta  interpretazione  del  requisito  in
esame non dovesse  essere  limitata  alla  mera  «dipendenza  da  una
macchina», potendo abbracciare un ampio novero di ipotesi: quelle  in
cui il trattamento di sostegno vitale sia realizzato, oltre che  «con
l'ausilio di macchinari medici», «con  terapie  farmaceutiche  o  con
l'assistenza  di  personale  medico  o  paramedico»;   caratteristica
propria degli interventi in questione sarebbe la circostanza  che  si
tratterebbe pur sempre  di  «trattamenti  interrompendo  i  quali  si
verificherebbe la morte del malato,  anche  in  maniera  non  rapida»
(cfr. Corte d'Assise di Massa, sentenza 27 luglio 2020, p. 30-31). 
    Sulla base di tali principi, ad  esempio,  la  giurisprudenza  ha
ritenuto  esistenti  tutti   i   requisiti   indicati   dalla   Corte
costituzionale in un caso in cui la sopravvivenza  del  paziente  era
strettamente legata alla somministrazione di numerosi farmaci volti a
stabilizzare le funzioni vitali e da un delicato equilibrio nel  loro
dosaggio, nonche' dalla necessita' di intervenire periodicamente  con
manovre di  evacuazione  manuale  finalizzate  a  evitare  occlusioni
potenzialmente fatali. 
    Nel  caso  qui  in  esame,  il  requisito  della  dipendenza   da
trattamenti di sostegno vitale, dotato di questa  -  condivisibile  -
latitudine, non potrebbe pero' riconoscersi  sussistente:  da  quanto
emerso  dalle  indagini,  S...  non  beneficiava  di  alcun  supporto
meccanico (ne' in  termini  di  ventilazione,  ne'  di  nutrizione  o
idratazione, ne' altro), non era sottoposto a terapie  farmacologiche
salvavita e  non  richiedeva  manovre  di  evacuazione  o  interventi
assimilabili. 
    Occorre dunque verificare la possibilita' di letture alternative,
anche al fine di adempiere al dovere  di  tentare  un'interpretazione
costituzionalmente   conforme   della    disposizione    della    cui
illegittimita'  si  sospetta,  prima  di  investire  della   relativa
questione la Corte costituzionale. 
    Un primo possibile percorso potrebbe  consistere  nel  proseguire
nell'opera di interpretazione «estensiva» del requisito in esame. 
    Tale  soluzione,  sollecitata  nella  memoria   difensiva   degli
indagati, e' - in parte, e con le precisazioni che seguiranno -  gia'
emersa nella giurisprudenza di merito. 
    Nella sentenza della Corte d'Assise di Massa  piu'  volte  citata
(p.  35-36)  si  adombra  la  possibilita'  che  la  non  punibilita'
dell'aiuto al suicidio sia riconosciuta, al ricorrere  di  tutti  gli
altri requisiti, anche quando il paziente si  avvalga  dell'aiuto  di
terzi soggetti  che  provvedano  «ad  aiutarlo  nel  mangiare  e  nel
muoversi anche per andare al bagno». Per giungere a tali  conclusioni
la sentenza propone un ragionamento  dichiaratamente  analogico:  una
situazione in cui per l'espletamento  delle  funzioni  essenziali  e'
necessario l'aiuto di altre persone (anche solo familiari o  comunque
soggetti  privi  di  qualifiche  e  competenze   specialistiche)   ha
un'affinita' di sostanza  e  di  ratio  con  le  ipotesi  in  cui  si
richiedono   trattamenti   sanitari   (meccanici,   farmacologici   o
assistenziali) indispensabili per il supporto  alle  funzioni  vitali
della persona. In altri  termini,  il  requisito  in  esame  dovrebbe
essere interpretato in modo tale da includervi tutti i  casi  in  cui
«la sopravvivenza del malato dipende  direttamente  da  altri  [...],
siano essi cose o persone». 
    Una situazione non dissimile  potrebbe  ritenersi  esistente  nel
caso di specie, in cui S..., per quanto conservasse integre tutte  le
altre funzionalita' corporee (compreso l'utilizzo  della  muscolatura
involontaria e la capacita'  di  svuotamento  intestinale),  a  causa
della progressiva immobilizzazione degli arti richiedeva  sempre  con
maggiore frequenza l'aiuto di terzi nello  svolgimento  di  attivita'
fisiologiche quotidiane. 
    Tuttavia, ritiene questo giudice che una simile ricostruzione del
requisito in esame non sia condivisibile. 
    Il requisito della dipendenza da trattamenti di  sostegno  vitale
sembra in effetti composto, a sua volta, da due sotto-requisiti. 
    Il primo concerne l'efficacia  causale  del  trattamento  stesso,
ossia la sua natura di «sostegno vitale»: cio' potendosi  riconoscere
laddove, senza quel trattamento  -evidentemente  volto  a  supportare
funzioni vitali dell'organismo - si  verificherebbe  la  morte  della
persona, anche se in maniera non rapida. 
    Tale nozione e' dotata  di  una  propria  portata  espansiva,  in
quanto permetterebbe di dare rilievo  a  trattamenti  -  artificiali,
farmacologici o assistenziali - che, pur lungi dal rivelarsi curativi
(nel senso di  idonei  a  condurre  alla  remissione  completa  della
patologia e a una piena guarigione) e  dunque  impedire  il  decesso,
potrebbero comunque ritardare la morte per un tempo  sufficientemente
apprezzabile. Si tratta, in altri termini,  di  valutare  l'efficacia
«vitale»  del  trattamento  secondo  un  giudizio   condizionalistico
controfattuale declinato in concreto. 
    Tale riflessione e' probabilmente  alla  base  delle  riflessioni
svolte dalla giurisprudenza di merito sopra citata e richiamata anche
dalla difesa nel caso di specie, nella parte in cui  sottolineano  il
contributo  determinante  dell'aiuto  ricevuto  dall'esterno  per  la
sopravvivenza del paziente. 
    Tuttavia, il requisito in esame presuppone, ancor prima,  che  il
paziente sia sottoposto a  un  qualche  «trattamento»:  ed  e'  sulla
riconducibilita' delle ipotesi  sopra  prospettate  alla  nozione  di
trattamento qui rilevante che  devono  svolgersi  alcune  riflessioni
critiche. 
    In primo luogo, e in ordine di importanza, un dato interpretativo
cruciale e' rappresentato dalla  genesi  stessa  di  tale  condizione
sostanziale nell'ambito dell'ordinanza e della sentenza  della  Corte
costituzionale. 
    Come anche osservato da piu' voci in dottrina,  l'accertamento  e
la successiva declaratoria di  illegittimita'  si  fondano  - volendo
risalire al nucleo essenziale della decisione - sul rilievo  per  cui
la compressione dei diritti fondamentali del paziente determinata  da
un divieto penale assoluto di  aiuto  al  suicidio  e'  contraria  al
canone di ragionevolezza,  al  diritto  di  autodeterminazione  della
persona e al principio di dignita' (quantomeno) nelle  situazioni  in
cui l'ordinamento gia' riconosce tutela effettiva alla «decisione del
malato di porre fine alla propria  esistenza  tramite  l'interruzione
dei trattamenti sanitari - anche quando cio'  richieda  una  condotta
attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi  (quale  il
distacco o lo  spegnimento  di  un  macchinario,  accompagnato  dalla
somministrazione di una redazione profonda continua e di una  terapia
del dolore)». 
    Il   riferimento   esplicito   e'   a   situazioni    sostanziali
riconducibili anche alla legge n. 219/2017,  e  sono  appunto  quelle
situazioni che la Corte costituzionale contempla come  oggetto  della
propria  valutazione  (nell'ordinanza)  e,  di   conseguenza,   della
disciplina dalla stessa infine disegnata  (nella  sentenza).  Allora,
occorre pero' prendere atto di come la  legge  n.  219  -  nella  sua
elaborazione, nel suo spirito, nel suo testo e nei  suoi  riferimenti
costituzionali - concerna specificamente i trattamenti sanitari. 
    Quali  caratteristiche  connotino  la  natura   «sanitaria»   del
trattamento non e' indicato dalla legge, ma puo' ricavarsi in qualche
misura, oltre che dal ricorso a una piana interpretazione  letterale,
dalla  riflessione  maturata,  in  dottrina  e  prima  ancora   nella
letteratura  medica,  circa  la   possibilita'   di   ricondurre   ai
trattamenti   sanitari   nutrizione   e   idratazione    artificiali,
valorizzando - singolarmente e piu' spesso  congiuntamente  -  indici
quali la necessita' di previa  valutazione  medica,  la  prescrizione
medica, il ricorso a disponitivi medici, il monitoraggio da parte del
medico, etc. 
    Ora, sembra quindi che anche i «trattamenti di  sostegno  vitale»
di cui si  discute  ai  fini  della  non  punibilita'  dell'aiuto  al
suicidio  debbano  essere  intesi   propriamente   come   trattamenti
sanitari. 
    Oltre a quanto detto sulla genesi del requisito  (alla  luce  sia
del  caso  concreto  sia   del   riferimento   normativo   presi   in
considerazione dalla Corte costituzionale),  non  sembra  convincente
sostenere che l'assistenza  prestata  genericamente  da  terzi  -  ad
esempio, per accompagnare il paziente in bagno o per  agevolarlo  nel
mangiare - possa ricondursi all'insieme dei significati  attribuibili
alla parola «trattamenti», che non evoca un qualsiasi mero intervento
esterno (sia pur con efficacia di «sostegno  vitale»),  ma  una  piu'
pregnante e qualificata  ingerenza  sul  corpo  e  sulla  salute  del
paziente, nei termini sopra indicati. 
    Evidentemente, non ogni «aiuto a vivere» (sia pur  congiuntamente
agli  altri  requisiti)  puo',  allo  stato,  giustificare   la   non
punibilita' delle condotte di «aiuto a morire»: l'aiuto  deve  sempre
estrinsecarsi nelle forme di un trattamento, e piu'  precisamente  di
un trattamento sanitario, del tutto assente nel caso di specie. 
    Neppure  e'  convincente  invocare,  come  invece   fatto   dalla
giurisprudenza di merito che finora ha avuto modo di pronunciarsi sul
tema, il ricorso all'analogia (che peraltro implica,  anche  in  tale
ottica, una irriducibilita' di fondo, nel loro nucleo essenziale, tra
le situazioni di «dipendenza da  trattamenti»  e  di  «dipendenza  da
persone»). 
    Senza voler qui negare l'affinita' sostanziale (non tanto tra  le
situazioni  sostanziali,  quanto)  tra  le  esigenze  di  tutela  che
connotano tali situazioni, l'ostacolo principale nei confronti di  un
ragionamento analogico sembra  derivare  dalla  natura  «eccezionale»
della disposizione in esame. 
    Anche se qui viene in rilievo un possibile ampliamento  normativo
in bonam partem, la materia di cui si tratta presuppone delicatissimi
bilanciamenti tra interessi che, all'esito di spostamenti anche lievi
della soglia di rilevanza penale, potrebbero essere  pregiudicati  in
modo irreversibile e incompatibile con gli obblighi  di  tutela  (non
solo del diritto di autodeterminazione, ma  anche  del  diritto  alla
vita) derivanti, a carico dello Stato,  dalla  Costituzione  e  dalle
fonti sovranazionali (tra cui, in particolare, la Convenzione europea
dei diritti dell'uomo). E'  pertanto  quantomai  opportuno  che  tali
bilanciamenti non solo siano frutto  di  adeguata  meditazione  nelle
opportune sedi secondo le regole della democrazia costituzionale,  ma
che, una volta raggiunti, non possano essere messi arbitrariamente in
discussione per via di forzature ermeneutiche ad  opera  del  singolo
interprete, con effetti applicativi disomogenei e imprevedibili  che,
quand'anche favorevole al singolo  autore  del  reato,  sarebbero  in
grado di incrinare la funzione deterrente e orientativa del  precetto
rispetto alla tutela di valori essenziali -si direbbe, vitali - della
convivenza civile. Tale consapevolezza impone una prudenza ancor piu'
accentuata nel rispettare  la  divisione  dei  poteri,  e  suggerisce
all'organo giudicante di affidare la  propria  opera  ermeneutica  al
criterio  meno  instabile   e   controvertibile,   oltre   che   piu'
controllabile, ossia il criterio testuale, e a rifiutare letture che,
ponendosi al di fuori di esso, sconfinino nell'analogia. 
     Del  resto,  sembra  opportuno  osservare  che,   dilatando   il
requisito in esame fino all'estremo sopra ipotizzato, si  giungerebbe
a  includere  situazioni  non  solo  ignorate   (sottovalutate,   non
contemplate) dalla Corte costituzionale, ma da questa  verosimilmente
considerate  ed  escluse:  con  la  conseguenza  di  determinare   un
risultato non solo praeter, ma addirittura contra legem. 
    E' pertanto da  escludere  la  legittima  praticabilita'  di  una
ulteriore espansione, per via semantica, del requisito in esame. 
    Un secondo possibile percorso  viene  anch'esso  suggerito  nella
memoria della difesa, sulla scorta di quanto sostenuto dalla  Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Milano in  una  richiesta  di
archiviazione  presentata  nell'ambito  di  una  vicenda  sotto  vari
aspetti simile (anche se non identica) a quella per cui si procede. 
    Secondo   questa   ricostruzione,   che    si    propone    quale
«interpretazione  costituzionalmente  orientata  dell'art.  580   del
codice penale», potrebbero beneficiare della non punibilita' anche le
ipotesi in cui, al ricorrere  degli  altri  requisiti,  non  vi  sono
trattamenti di sostegno vitale in  atto,  qualora  cio'  dipenda  dal
fatto che il paziente stesso li abbia rifiutati in quanto  «futili  o
espressione di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non
dignitosi secondo la percezione del malato  e  forieri  di  ulteriori
sofferenze per coloro che  li  accudiscono».  In  altri  termini,  il
requisito dovrebbe  considerarsi  soddisfatto  quando  -  riprendendo
sempre parole della Procura di Milano - il  limite  di  utilita'  del
trattamento si traduce in un limite di praticabilita'  degli  stessi:
sicche', sembra di intendere, sarebbe inesigibile pretendere  che  il
paziente vi si sottoponga. 
    Tali argomenti - che peraltro, si nota per inciso,  presuppongono
pur sempre  che  il  trattamento  di  cui  si  discute  abbia  natura
«sanitaria», tanto  da  poter  essere  qualificato  come  accanimento
terapeutico  ai  sensi  della  legge   n.   219/2017,   espressamente
richiamata - non sembrano pero' condivisibili  a  questo  giudice,  e
comunque non spendibili in questo procedimento. 
    Anzitutto, va escluso che nel  caso  di  specie  ricorressero  le
condizioni   che   consentirebbero   l'operativita'   del    criterio
alternativo ora prospettato. 
    Non solo S... non era sottoposto ad alcun trattamento di sostegno
vitale, come piu' volte ribadito, ma risulta anche che: 
        egli non ha  mai  rifiutato  alcun  trattamento  di  sostegno
vitale (risulta soltanto il rifiuto  di  intraprendere,  alcuni  mesi
addietro, un percorso terapeutico piu' invasivo, di incerto successo,
e di prevalente valore analgesico); 
        rispetto alla sua condizione, i medici che lo hanno avuto  in
cura non hanno neanche ipotizzato di  intraprendere  trattamenti  che
possano considerarsi di «accanimento terapeutico». 
    Certo rimarrebbe la possibilita' di ritenere  che,  proprio  alla
luce di quest'ultimo punto, ogni trattamento possibile  a  cui  fosse
stato  sottoposto  S...  sarebbe  stato  da  considerarsi,   per   le
caratteristiche della patologia e  del  suo  stadio  di  avanzamento,
ormai  irreversibile,  «inutile  e  sproporzionato»,  e   dunque   un
«accanimento terapeutico» (ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge
n. 219/2017). Tuttavia tale impostazione si scontra con  ostacoli,  a
parere di questo giudice,  insuperabile.  Anzitutto,  pare  un  salto
logico ritenere che, quando non vi e' in corso alcun  trattamento  di
sostegno vitale a motivo del fatto che non ne esistono di compatibili
con la condizione di salute del paziente,  si  possa  dire  che  tale
situazione merita di essere equiparata  a  quelle  incluse  nell'area
della non punibilita' motivando tale affermazione con l'argomento per
cui ogni trattamento sarebbe da considerare accanimento  terapeutico,
dato che il paziente non ha bisogno di trattamenti. 
    In altri termini, si dice: siccome il paziente non  necessita  di
trattamenti  di  sostegno   vitale,   dovrebbe   esservi   sottoposto
inutilmente, e sottoporcelo  inutilmente  configurerebbe  accanimento
terapeutico. La conclusione paradossale di tale ragionamento,  pero',
sarebbe che il paziente (inguaribile e sofferente) non  sottoposto  a
trattamenti di sostegno vitale potrebbe essere lecitamente aiutato  a
morire proprio perche' non e' sottoposto a  trattamenti  di  sostegno
vitale: per qualsiasi paziente che non ne  necessiti,  evidentemente,
e' un accanimento terapeutico  essere  sottoposto  a  trattamenti  di
sostegno vitale. In tal modo, lo si vede,  si  arriva  a  una  totale
abrogazione per via interpretativa del requisito indicato dalla Corte
costituzionale. 
    Del resto, e a fortiori,  occorre  ancora  una  volta  richiamare
l'attenzione sul dato letterale  della  causa  di  «non  punibilita'»
introdotta con la sentenza n. 242/2019. 
    La disposizione vigente, a  rigore,  non  richiede  solo  che  la
persona si trovi in una  situazione  di  salute  per  cui  la  stessa
«necessita» di trattamenti  di  sostegno  vitale,  ma  richiede,  con
formulazione chiara e non controvertibile, che sia «tenuta  in  vita»
da quei trattamenti: che vi sia cioe', non  solo  una  situazione  di
bisogno (e dunque di appropriatezza medico-sanitaria), ma che vi  sia
una effettiva e attuale sottoposizione a tali trattamenti. 
    Pertanto, che il supporto vitale non sia un «passo obbligato  tra
la vita e la morte» - come sostenuto  in  questa  sede  dalla  difesa
degli indagati e richiamato nella richiesta  di  archiviazione  della
Procura di Milano - puo' essere affermazione largamente diffusa nella
comunita' medica, e condivisibile nel merito (per quanto si vedra' di
seguito), ma pur sempre attinente al piano del «dover essere» e non a
quello  descrittivo  del  diritto  positivo,  perche'  in  insanabile
contrasto con il dato normativo  vigente.  Poste  tali  premesse,  va
ribadito che, come detto, S... non era sottoposto a tali trattamenti,
ne' ha rifiutato di esserlo,  ne'  i  medici  si  sono  astenuti  dal
sottoporvelo, perche' trattamenti del genere, per la  sua  condizione
di salute, non ne esistevano ne' erano richiesti, nel momento in  cui
ha chiesto di essere aiutato a morire;  il  che  impedisce  anche  di
valutare se tali trattamenti di sostegno vitale ammontassero o meno a
un «accanimento terapeutico», problema che semmai si  sarebbe  potuto
porre in una fase piu' avanzata della malattia, quando manovre  assai
piu' invasive avrebbero forse avuto la capacita' di allungare di poco
e tra molte sofferenze - in modo allora si', inutile e sproporzionato
- la vita del paziente. 
    In conclusione, e' dunque  da  escludere  che  l'aiuto  a  morire
prestato  dagli  indagati  a  S...  possa  beneficiare   della   «non
punibilita'»  prevista  dalla  Corte  costituzionale,  anche  secondo
l'estensione che all'area di liceita' puo'  essere  attribuita  sulla
base di  letture  costituzionalmente  orientate  del  dato  normativo
vigente che si avvalgano di una interpretazione  sia  pure  estensiva
del suo tenore  letterale  e  semantico,  o,  in  alternativa,  delle
potenzialita'  offerte  dal  coordinamento  sistematico   con   altre
disposizioni dell'ordinamento. 
3. La non manifesta infondatezza della questione. 
    Ritiene  questo  giudice  che  il  requisito   costituito   dalla
necessita' che la persona sia  «tenuta  in  vita  da  trattamenti  di
sostegno  vitale»,  per  come  sopra  ricostruito,  presenti  diversi
profili di possibile contrasto con i parametri costituzionali. 
    La premessa e' che tale requisito segna, se letto in negativo, il
confine tra l'area di liceita' e l'area tuttora coperta  dal  divieto
di aiuto al suicidio, e pertanto costituisce un limite per la persona
desidera   morire   avvalendosi   dell'aiuto   altrui,   in    quanto
disincentiva, tramite minaccia della sanzione  penale,  i  terzi  che
intendessero apportare tale aiuto. 
3.1. Il contrasto con l'art. 3 della Costituzione 
    In  primo  luogo  la  disposizione,  in  tale  parte,  appare  in
contrasto con l'art.  3  della  Costituzione,  per  la  irragionevole
disparita' di  trattamento  che  determina  tra  situazioni  concrete
sostanzialmente identiche. 
    A parita' di altre condizioni (in particolare  l'irreversibilita'
della malattia, l'intollerabilita' delle sofferenze che ne derivano e
la capacita' di  autodeterminazione  dell'interessato),  la  liceita'
della condotta di terzi  finisce  per  dipendere  dal  fatto  che  la
persona sia o meno tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. 
    Anzitutto,  va  osservato   che   l'avverarsi   di   quest'ultima
condizione appare il frutto di  circostanze  del  tutto  accidentali,
legate alla multiforme variabilita' dei casi concreti,  in  relazione
alle condizioni cliniche generali della persona interessata (ad  es.,
piu' o meno dotata di resistenza organica), al modo  di  manifestarsi
della malattia da cui la persona e' affetta (ad es., connotata da uno
stadio piu' o meno avanzato, oppure da una progressione piu'  o  meno
rapida), alla natura delle  terapie  disponibili  in  un  determinato
luogo e in un determinato momento, nonche' dalle scelte che lo stesso
paziente abbia fatto (ad es., rifiutando  fin  dall'inizio  qualsiasi
trattamento). 
    La differenza nella disciplina  attuale  di  tali  situazioni  e'
irragionevole perche' l'unico elemento che in ipotesi le distingue  -
la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale - non porta con  se',
se presente, alcun elemento di segno positivo  tale  da  giustificare
una considerazione  piu'  benevola  da  parte  dell'ordinamento,  ne'
esprime, se assente, maggiore meritevolezza o  bisogno  di  pena  dei
terzi agevolatori. 
    In altri termini, il requisito-criterio in esame appare  incapace
di operare una selezione razionale tra situazioni simili. 
    Da  un  lato,  la  sussistenza  o  meno  di  tale  requisito   e'
irrilevante per la  sussistenza  e  per  l'accertamento  degli  altri
requisiti,  da  esso  indipendenti  sia  a  livello  concettuale  che
pratico.  E'  una  considerazione  intuitiva  quella  per   cui   sia
l'irreversibilita' della malattia sia la sofferenza che al malato  ne
deriva costituiscono aspetti slegati da un dato -  lo  si  ribadisce:
del tutto casuale - quale il tipo di  trattamento  che,  il  paziente
riceve in un determinato  momento:  ne'  la  dipendenza  da  sostegni
vitali  implica  irreversibilita'   della   malattia   e   sofferenza
intollerabile,  ne'  irreversibilita'  della  malattia  e  sofferenza
intollerabile implicano dipendenza da sostegni vitali (come  il  caso
in esame dimostra in modo palese). Dall'altro lato,  soprattutto,  la
sussistenza o meno di tale requisito e' irrilevante per la tutela dei
diritti e dei valori che la Corte costituzionale  ritiene  essenziali
nel bilanciamento di interessi sotteso alla regolazione della materia
dell'aiuto a morire. 
    Va infatti ricordato  che,  nell'ordinanza  n. 207/2018  e  nella
sentenza n. 242/2019, la Corte ha indicato la necessita' di temperare
le istanze di autodeterminazione e il principio di dignita' umana con
le esigenze di tutela della vita  umana,  soprattutto  delle  persone
piu' vulnerabili, presidiate dal divieto  di  cui  all'art.  580  del
codice penale. 
    La Corte costituzionale e' poi  tornata  sul  punto,  con  alcuni
importanti  chiarimenti,  nella  sentenza  n.  50/2022,  con  cui  ha
dichiarato  l'inammissibilita'  del   referendum   abrogativo   della
fattispecie di omicidio del consenziente  di  cui  all'art.  579  del
codice penale: svolgendo considerazioni estendibili  anche  al  reato
qui rilevante, la Corte ha individuato la ratio di tale micro-sistema
normativo  nella  opportunita'   -   o   meglio,   nella   necessita'
costituzionale - di tutelare non solo le persone strutturalmente piu'
fragili, bensi' qualunque soggetto da  condotte  autodistruttive  che
possano essere, per  le  ragioni  piu'  varie,  non  sufficientemente
meditate, e potenzialmente  frutto  di  una  decisione  assunta,  per
motivi anche contingenti, in condizioni di vulnerabilita' soggettiva. 
    Anche alla luce di tali principi orientativi, non sembra  che  il
ricorrere di una situazione di dipendenza da trattamenti di  sostegno
vitale possa essere un criterio regolatorio  idoneo  e  proporzionato
all'obiettivo di tutela prefissato: certamente non puo' ritenersi che
sia la sua presenza a giustificare la liceita' dell'aiuto al suicidio
sul presupposto di un minor bisogno di tutela del bene vita nel  caso
di persone che versano in tale condizione  (conclusione  all'evidenza
assurda e inaccettabile nel sistema); ma e' altrettanto vero  che  la
sua  presenza  non  apporta  alcuna  rassicurazione  in  ordine  alla
autenticita' («liberta' e consapevolezza») della decisione di morire,
o alla «vulnerabilita'» della persona che  la  assume,  pertanto  non
riveste alcun valore realmente protettivo. 
    La preoccupazione  dovrebbe  piuttosto  essere  opposta,  essendo
semmai  piu'  elevato  il  rischio  che  una  persona  dipendente  da
trattamenti di sostegno vitale, per  questo  verosimilmente  prossima
alla morte, sia colta dalla tentazione di «lasciarsi andare»  e  che,
anche a causa di pressioni esterne, possa cedere a decisioni  che  in
altre  condizioni  non  avrebbe  preso:  ma  e'   la   stessa   Corte
costituzionale che si e' fatta carico di confutare questa  obiezione,
quando, nell'ordinanza n. 207/2018, ha indicato  come  l'ordinamento,
con la legge n. 219/2017,  abbia  gia'  ammesso  la  possibilita'  di
considerare validamente espressa la volonta' di morire proveniente da
persone tenute in vita da trattamenti di  sostegno  vitale,  che,  se
capaci di autodeterminarsi, hanno diritto di ottenere  l'interruzione
delle cure. 
    Ai  profili  di  irragionevolezza  e  sproporzione  rispetto   ai
legittimi obiettivi di tutela perseguiti dalla disciplina  penale  in
materia, si aggiunge,  come  detto,  una  illegittima  disparita'  di
trattamento tra situazioni analoghe. 
    A tal  proposito,  e'  importante  segnalare  che  l'esigenza  di
evitare, anche in questa materia, una  irragionevole  discriminazione
di   trattamento   tra   categorie   di   pazienti   in    condizioni
sostanzialmente  simili  e'  stata  riconosciuta  testualmente  dalla
stessa  Corte  costituzionale,  ancora   una   volta   nell'ordinanza
n. 207/2018, quando ha indicato, quale parametro di  legittimita',  i
«principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse
condizioni soggettive» (§ 9 del «considerato in diritto»). 
    Allora i termini di confronto erano costituiti dai  pazienti  che
potevano ottenere di morire tramite l'interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale, da un lato, e i  pazienti  descritti  dalle  quattro
condizioni enucleate dalla Corte, dall'altro. 
    Oggi un parallelo simile, e una analoga esigenza  di  uguaglianza
sostanziale in rapporto alle diverse condizioni (di salute),  ricorre
evidentemente tra pazienti tenuti in vita da trattamenti di  sostegno
vitale e pazienti - quali, ad esempio, i malati oncologici o  affetti
da patologie neurodegenerative, come nel caso di  specie  -  che  non
possono accedere, spesso per le caratteristiche  (accidentali)  della
loro  patologia,  a  tali  trattamenti,   ma   che   sono   parimenti
irreversibili  e  costretti  a   patire   sofferenze   intollerabili,
esponendosi a una agonia altrettanto se non piu' lunga. 
    In  conclusione  sul  punto,  si  ripropone  la  situazione  gia'
osservata dalla  Corte  costituzionale  in  relazione  all'originario
divieto assoluto di aiuto al suicidio: l'incriminazione, anche  nella
sua attuale portata, discrimina tra diverse categorie di pazienti, in
modo irragionevole e sproporzionato, senza che tale disparita'  possa
«ritenersi   preordinata   alla    tutela    di    altro    interesse
costituzionalmente apprezzabile»  (ordinanza  n. 207/2018,  §  9  del
«considerato in diritto»). 
3.2. Il contrasto con gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione 
     Le considerazioni svolte sin qui fanno emergere in parte profili
di  contrasto  tra  la  disciplina  vigente  e  ulteriori   parametri
costituzionali. 
    Infatti, in una materia caratterizzata, al fondo, da un  costante
bilanciamento tra tutela della vita e liberta' di scelta (la classica
coppia di opposti life/choice), la sospetta  violazione  dell'art.  3
della Costituzione rappresenta per cosi' dire la prova e la misura di
una conseguente violazione delle istanze di  liberta':  cio'  proprio
perche', ferma l' inevitabilita' di una qualche forma di arretramento
dell'autodeterminazione nel confronto con il valore  antagonista  (il
bene vita), l'attuale assetto  normativo,  in  quanto  irragionevole,
rende tale sacrificio sproporzionato, sconfinando  dalla  (legittima)
compressione del diritto alla sua (illegittima) violazione. 
    L'impossibilita'  di  accesso  al  suicidio  assistito   per   le
categorie  di  pazienti  irreversibili  e  sofferenti  ma  privi  del
requisito di cui alla lettera c) si  traduce  in  una  ingiustificata
lesione  dei  loro  diritti  fondamentali,  e  in  particolare  della
«liberta'  di  autodeterminazione  del  malato  nella  scelta   delle
terapie, comprese quelle finalizzate a  liberarlo  dalle  sofferenze,
scaturente  dagli  articoli  2,  13  e  32,  secondo   comma,   della
Costituzione»  (Corte  costituzionale,  §  9  del   «considerato   in
diritto»). 
    Va osservato,  infatti,  che  la  dipendenza  da  trattamenti  di
sostegno vitale certamente non e' una condizione di esistenza di tale
diritto, ma ne rappresenta un limite, in quanto tale  legittimo  solo
se giustificato da contro-interessi di analogo rilievo,  che  invece,
come visto al punto precedente, non sembrano sussistere. 
    Al contrario,  la  fattispecie  costitutiva  del  diritto  sembra
risultare da due sole componenti essenziali, che emergono nitidamente
dalle parole della Corte costituzionale - la malattia e la sofferenza
- mentre non vi rientra affatto il trattamento che  tale  malattia  o
tale sofferenza eventualmente ricevano. 
    Ma vi e' di piu'. Pretendere che, per poter  ottenere  un  lecito
aiuto a morire da parte di terzi, il malato sofferente sia «tenuto in
vita da trattamenti di sostegno vitale» non solo limita  la  liberta'
del paziente, restringendone le possibilita' di manifestazione, ma ne
condiziona    l'esercizio    in    modo    perverso,     trasformando
l'autodeterminazione nel suo  contrario.  Come  osservato  da  alcuni
commentatori, infatti, il requisito in esame puo' indurre la  persona
ad acconsentire a trattamenti di sostegni vitale con l'unico fine  di
soddisfare, in modo puramente formalistico,  la  condizione  indicata
dalla Corte costituzionale, per poi, subito dopo, chiedere  l'accesso
alla procedura per la morte assistita. Cio', appunto,  anche  quando,
senza tale condizionamento, la persona avrebbe interrotto ben prima i
trattamenti, o addirittura li avrebbe rifiutati fin dall'origine. 
    Lo scenario che cosi' si delinea e' palesemente in contrasto  con
l'assetto ordinamentale, ormai cristallizzato dall'art. 1,  comma  5,
della legge n. 219/2017, che rimette unicamente alla scelta -  libera
- della persona la scelta se e come curarsi. Un paradosso reso  ancor
piu'  netto  dalla  circostanza  che  tale  innegabile   compressione
dell'autodeterminazione   sarebbe    presentata    come    funzionale
all'esercizio  della  stessa  autodetermina,  quando  invece   questo
obiettivo  sarebbe  raggiungibile  senza  passare  da  alcun   previo
sacrificio, ossia non imponendo de facto  al  paziente  di  accettare
trattamenti, anche indesiderati. Ne' tale sacrificio appare meramente
teorico e «giuridico»: e' facile  rappresentarsi  situazioni  in  cui
ulteriori trattamenti, in ipotesi anche proporzionati  dal  punto  di
vista clinico, costituirebbero, per il paziente, fonte di  sofferenze
aggiuntive quantomai concrete. 
    Il dato che si vuole evidenziare e' che, in  una  disciplina  che
dovrebbe tutelare adeguatamente non solo la vita, ma anche il diritto
di autodeterminazione (terapeutica), la criticita'  sta  proprio  nel
richiedere che il paziente sia sottoposto a un trattamento, quale che
esso sia: come detto, un ostacolo e una negazione del diritto che una
consolidata tradizione interpretativa, da ultimo positivizzata  dalla
legge n. 219/2017, fonda nel combinato disposto degli articoli 2,  13
e 32, secondo comma, della Costituzione. 
    Concludendo sul punto, anche qui si ripropone la situazione  gia'
osservata dalla  Corte  costituzionale  in  relazione  all'originario
divieto assoluto di aiuto al suicidio: l'incriminazione, anche  nella
sua attuale  portata,  comprime  in  modo  sproporzionato  i  diritti
fondamentali  del  paziente,  ancora  una  volta   senza   che   tale
limitazione  possa  «ritenersi  preordinata  alla  tutela  di   altro
interesse costituzionalmente apprezzabile». 
3.3. Il contrasto con il principio di dignita'. 
    Il principio della dignita' umana e' stato invocato  dalla  Corte
costituzionale nell'ordinanza n. 207/2018 ai  fini  dell'accertamento
dell'illegittimita'  dell'art.  580  del  codice  penale  nella   sua
versione previgente. 
    Gli argomenti  gia'  spesi  dalla  Corte  costituzionale  restano
validi anche per  l'assetto  normativo  attuale.  La  violazione  del
principio, in tale occasione, era stata ravvisata  nella  circostanza
per cui il divieto assoluto di aiuto  al  suicidio  -  ossia  di  una
condotta che accelerasse i  tempi  del  decesso,  anche  rispetto  al
decorso patologico naturale - avrebbe imposto alla persona  «un'unica
modalita' per congedarsi dalla vita» (l'interruzione dei  trattamenti
di sostegno vitale) e comunque esposto il paziente (anche  una  volta
interrotte le terapie) «a subire un processo piu' lento,  in  ipotesi
meno corrispondente alla propria visione della dignita' nel  morire»,
anche nella prospettiva delle sofferenze cui cio' poteva esporre,  di
riflesso, «le persone che gli sono care». 
    E' evidente, da tali passaggi, il  collegamento  con  il  profilo
della dimensione temporale della  morte:  si  tratta  infatti  di  un
aspetto del diritto di  autodeterminazione  (la  scelta  sul  come  e
quando morire) che ha un peso primario nella decisione del  paziente,
che verosimilmente si orientera' nel senso della richiesta di aiuto a
morire proprio nei casi in cui il decorso naturale sia percepito come
troppo lento. In effetti, e'  di  senso  comune  l'idea  per  cui  la
prolungata attesa della morte possa comportare un maggior  carico  di
sofferenza e di «pregiudizio» per i valori della persona, legato  non
solo al dolore derivante dalla malattia, ma anche alla contemplazione
ormai disperata della propria agonia e della propria  sorte,  nonche'
al  fatto  che  a  tale  inevitabile  declino  possano  assistere  (o
addirittura siano di fatto costrette ad assistere)  persone  care;  a
quest'ultimo proposito puo' essere anche valorizzato, quale forma  di
estrinsecazione della personalita', l'interesse che il paziente  puo'
avere a lasciare di se' una certa immagine, coerente con  l'idea  che
egli ha di se'. 
    Queste  esigenze   -   prettamente   concrete   e   nient'affatto
ideologiche - possono trovare adeguata espressione  nel  concetto  di
dignita', inteso come rispetto della persona umana  in  quanto  tale,
nella  sua  dimensione  soggettiva  e  nella  dimensione  della   sua
esperienza sensibile. 
    Muovendosi in  questa  prospettiva,  anche  il  quadro  normativo
vigente si espone a dubbi di legittimita'  costituzionale  in  quanto
finisce  per  imporre  al  paziente  irreversibile  e  sofferente  di
attendere, anche per lungo tempo, quello che  ormai  e'  inevitabile,
ossia che la malattia si aggravi fino allo stadio  in  cui  si  renda
necessaria l'attivazione di trattamenti di sostegno  vitale  (momento
da cui peraltro andra' computato un ulteriore lasso di tempo  per  la
procedura che porta alla morte assistita). 
    Cosi' facendo, da un  lato,  si  frustra  l'esigenza  sostanziale
sottesa  alla  ratio  della  decisione  della  Corte   costituzionale
(risparmiare alla persona morente un lento avvicinamento alla  morte,
consentendo l'intervento di  terzi  che  lo  abbrevino):  e'  infatti
proprio chi non dipende da  un  trattamento  di  sostegno  vitale,  e
dunque  non  potrebbe   morire   semplicemente   interrompendo   tale
trattamento, che necessita dell'aiuto esterno per congedarsi  secondo
la propria idea di dignita' (intesa, come detto,  anche  in  funzione
della variabile tempo). 
    Dall'altro lato, inoltre, una simile disciplina puo'  addirittura
rappresentare un fattore di pericolo per la  conservazione  del  bene
vita e per il rispetto della dignita' della persona: che  l'aiuto  al
suicidio rientri nella dimensione della «legalita'» solo a condizione
che la malattia degeneri  fino  a  una  fase  terminale,  rischia  di
incentivare agiti suicidari da parte soggetti che,  comprensibilmente
non intenzionati  ad  attendere  la  fine  inesorabile,  non  potendo
ricorrere all'aiuto di terzi, decidano di darsi la morte in  completa
autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal  circuito
«legale» e con  modalita'  prive  di  adeguata  supervisione  medica,
spesso anche cruente e certo non conformi  al  concetto  generalmente
riconosciuto di dignita'. 
    Situazioni del genere, in cui la persona (malata  e  sofferente),
pur non di non attendere inerme la morte, e' abbandonata e  costretta
a ricorrere ai  mezzi  piu'  disparati  per  darsi  la  morte,  rende
indubbiamente la scelta di morire, di per se' gia' «scelta  tragica»,
anche  «crudele»  (secondo  l'espressione  utilizzata   dalla   Corte
costituzionale del Canada per descrivere  la  condizione  di  chi  si
trova costretto a togliersi la vita in solitudine per timore  di  non
poter ottenere un lecito aiuto da altri). D'altra  parte,  richiedere
che ai fini della liceita' dell'aiuto al suicidio il  paziente  debba
spingersi ai propri limiti - vedendo la propria condizione di  salute
degenerare e sobbarcandosi  un  carico  aggiuntivo  di  sofferenze  -
significa pretendere - in mancanza di concreti obiettivi di tutela  a
cui cio' potrebbe essere funzionale - una resistenza e uno spirito di
sacrificio giustificabili solo  con  una  malintesa  idea  di  etica,
virtu'  e  «perfezione  morale»,  inammissibile  in  un   ordinamento
ispirato al principio personalista, di cui il principio  di  dignita'
puo' ritenersi un riflesso. 
3.4. Il contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali. 
    Del resto,  il  requisito  della  dipendenza  da  trattamenti  di
sostegno  vitale  risulta  distonico  anche   rispetto   al   sistema
sovranazionale di tutela  dei  diritti  fondamentali  della  persona,
rilevante come parametro interposto di legittimita' costituzionale ai
sensi dell'art. 117 della Costituzione. 
    In particolare, in ambito della Convenzione europea  dei  diritti
dell'uomo, nella materia dell'aiuto vengono in  rilievo  i  due  poli
costituiti dall'art. 2 (diritto alla vita) e dall'art. 8 (Diritto  al
rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione. 
    Secondo il quadro desumibile  dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo (sin dalla  sentenza  29  aprile  2002,
Pretty comma Regno Unito), le disposizioni che limitano  la  liceita'
dell'aiuto al suicidio rappresentano interferenze nella  liberta'  di
autodeterminazione  della  persona  che,  a  livello   convenzionale,
rientra nel diritto di cui all'art. 8. Il criterio per verificare  la
legittimita'  di  misure  legislative  restrittive  di  tale  diritto
fondamentale e' rappresentato dal par. 2 dell'art. 8,  che  legittima
ingerenze dello Stato solo in quanto volte  a  un  fine  legittimo  e
necessarie, tra  le  altre  ipotesi,  a  «proteggere  ...  i  diritti
altrui»,  tra  cui  indubbiamente  rientra  il  diritto  alla   vita,
riconosciuto dall'art. 2 della stessa Convenzione. 
    Ora, subordinare l'aiuto al suicidio di  una  persona  capace  di
autodeterminarsi al requisito  della  dipendenza  da  trattamenti  di
sostegno vitale rappresenta senz'altro  -  come  qualsiasi  forma  di
limitazione della liberta' della persona di  decidere  tempi  e  modi
della propria morte - una compressione del diritto al rispetto  della
vita privata e familiare; una compressione che tuttavia,  per  quanto
visto in precedenza, non appare funzionale (e tantomeno «necessaria»,
come richiederebbe la Convenzione) alla tutela del diritto alla vita,
o che comunque sacrifica in modo sproporzionato l'interesse a  morire
della persona che  abbia  preso  tale  decisione  in  modo  libero  e
consapevole. 
    Ferma la mancata giustificazione,  e  comunque  la  sproporzione,
dell'ingerenza  statale  nel  diritto   di   autodeterminazione   del
paziente, si potrebbe sostenere che lo  Stato  mantenga  comunque  un
margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra tali diritti,
compreso nello spazio tra la necessita' di assicurare  un  minimo  di
tutela  alle  persone  vulnerabili  (garantito  dall'art.  2),  e  la
necessita' di assicurare uno spazio di effettivita' alla liberta'  di
autodeterminazione nelle questioni di fine vita (garantito  dall'art.
8):  margine  di   apprezzamento   di   cui   l'ordinamento   farebbe
applicazione  nel  prevedere,  tra  le  altre,  la   «dipendenza   da
trattamenti  di  sostegno  vitale»  quale  condizione   di   liceita'
dell'aiuto al suicidio. 
    Tuttavia, un simile ragionamento trova  un  ulteriore  e  diverso
ostacolo convenzionale nell'art.  14  della  Convezione  europea  dei
diritti dell'uomo: una volta che  la  normativa  statale  ammette  la
liberta' di essere aiutati a morire  per  i  malati  irreversibili  e
sofferenti, il godimento di tale liberta' - che,  come  detto,  trova
fondamento anche nella Convenzione - «deve  essere  assicurato  senza
nessuna discriminazione» in  base  non  solo  ai  criteri  «consueti»
(razza, sesso, opinioni, etc.), ma anche  a  «ogni  altra  condizione
personale», tra cui evidentemente rientra la condizione -  del  tutto
accidentale - di chi si trovi sottoposto o meno a un  trattamento  di
sostegno vitale. 
    Quello  che  oggi  non   rappresenta   un   esito   imposto   del
bilanciamento  di  interessi  che  la  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
affida allo  Stato,  lo  diventa  una  volta  che  lo  Stato  stesso,
esercitando il proprio  legittimo  margine  di  apprezzamento,  abbia
stabilito un determinato assetto  di  disciplina,  nel  calibrare  il
quale rimane appunto libero, ma con il limite - questo si' vincolante
- del principio di non discriminazione nella tutela e  nel  godimento
dei diritti convenzionalmente riconosciuti. 
4. L'intervento richiesto alla Corte costituzionale. 
    Si chiede alla Corte  costituzionale  di  dichiarare  illegittimo
l'art. 580 del codice penale, nella versione modificata dalla  stessa
Corte con sentenza n. 242 del 2019, nella parte in cui  richiede  che
la non punibilita' di chi agevola l'altrui suicidio  sia  subordinata
alla circostanza che l'aiuto sia prestato a una  persona  «tenuta  in
vita da trattamenti  di  sostegno  vitale»,  per  contrasto  con  gli
articoli 2, 3, 13, 32  e  117  della  Costituzione,  quest'ultimo  in
riferimento agli articoli  8  e  14  della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    Occorre sottolineare che cio' non significa chiedere una smentita
dei principi gia' enunciati dalla Corte nella sentenza  n.  242/2019,
ne' tanto  meno  una  impugnazione  surrettizia  della  sentenza,  in
violazione dell'art. 137, comma 3, della Costituzione. 
    In tale occasione la Corte ha infatti individuato un  minimum  di
tutela da riconoscersi ai diritti fondamentali del  paziente  (soglia
sotto  la  quale  ha  definitivamente  accertato  che   si   verifica
senz'altro    una    intollerabile     compressione     di     valori
costituzionalmente protetti), prendendo in considerazione -  sia  nel
valutare  l'illegittimita'  della  disciplina  previgente,  sia   nel
disegnare il perimetro della nuova area di liceita' - «specificamente
situazioni come quella oggetto del giudizio a quo» (cfr. ordinanza n.
207/2018, § 8 del «considerato in diritto»). 
    Evidentemente cio' non impedisce che lo stimolo  derivante  dalla
casistica, e in particolare dalla variabile  conformazione  di  nuove
fattispecie concrete, possa determinare la  Corte  -  analogamente  a
quanto  avvenuto  nel  giudizio  che   ha   portato   alla   sentenza
n. 242/2019, e analogamente a quanto avviene  in  altre  materie  con
ripetuti interventi demolitori a carattere puntuale - a  pronunciarsi
nuovamente: il senso di tale intervento e' infatti la  necessita'  di
sfaldare progressivamente il divieto di aiuto  al  suicidio  previsto
dal  codice  penale,  che,  gia'  superato   nella   sua   originaria
assolutezza, conserva ancora una portata sovraestesa,  che  necessita
di ulteriore erosione, per  eliminare  i  residui  di  illegittimita'
costituiti non tanto dai requisiti della  «non  punibilita'»,  bensi'
-guardando la fattispecie in  negativo  -  dai  perduranti  spazi  di
rilevanza  penale  della  condotta,  che  solo  la  prassi   consente
progressivamente di individuare e censurare alla luce  dei  parametri
costituzionali, cosi' come oggi interpretati.