ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'articolo  1-ter,
comma  13  (recte:  articolo  1-ter,  comma  13,  lettera   c),   del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonche'
proroga di termini), introdotto dalla legge di conversione  3  agosto
2009, n. 102, promossi dal Tribunale amministrativo regionale per  le
Marche  con  ordinanza   dell'8   luglio   2011   e   dal   Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di  Reggio
Calabria, con ordinanza del 13 ottobre 2011, iscritte ai nn. 22 e  26
del registro ordinanze 2012 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica nn. 9 e 10, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  6  giugno  2012  il  Giudice
relatore Giuseppe Tesauro. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per  le  Marche  ed  il
Tribunale amministrativo regionale per  la  Calabria,  con  ordinanze
dell'8   luglio   e   del   13   ottobre   2011,   hanno   sollevato,
rispettivamente, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione  ed
agli articoli 3, 27 e 117, primo  comma,  della  Costituzione  ed  in
relazione agli articoli 6 ed 8 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (d'ora in avanti:
CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,  n.  848,
questione di legittimita' costituzionale dell'articolo  1-ter,  comma
13 (recte: articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1°
luglio 2009, n.  78  (Provvedimenti  anticrisi,  nonche'  proroga  di
termini), introdotto dalla legge di conversione  3  agosto  2009,  n.
102, il quale dispone che non possono essere ammessi  alla  procedura
di  emersione   prevista   da   detta   disposizione   i   lavoratori
extracomunitari che risultino condannati per uno dei  reati  previsti
dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale. 
    2.- L'ordinanza di rimessione del TAR per le Marche premette che,
nel giudizio principale, il ricorrente,  cittadino  del  Senegal,  ha
impugnato il provvedimento con  il  quale  «il  competente  Sportello
Unico per l'immigrazione di  Ancona,  recependo  il  parere  negativo
espresso dalla locale Questura, ha respinto la dichiarazione c.d.  di
emersione» presentata ai sensi del citato art. 1-ter  dal  datore  di
lavoro del predetto, in quanto egli e' stato condannato, con sentenza
definitiva, alla pena  di  mesi  8  e  giorni  20  di  reclusione  ed
€ 2.200,00 di multa per il  reato  previsto  e  punito  dall'articolo
171-ter, comma 2, della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione  del
diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo  esercizio),  per
avere commercializzato 52 CD e 24 DVD privi del marchio SIAE, nonche'
prodotti con marchi contraffatti. Tale reato, compreso fra quelli  di
cui all'art. 381 del codice di  procedura  penale,  in  virtu'  della
previsione  contenuta  nella  norma  censurata,  impedisce,  infatti,
l'ammissione alla procedura di emersione. 
    Il  giudice  a   quo   dubita,   tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale del richiamato  art.  1-ter,  comma  13,  lettera  c),
«nella parte in  cui  esclude  automaticamente  l'accesso  alla  c.d.
sanatoria in presenza di condanne, anche non definitive, per i  reati
di cui agli artt. 380 e 381 c.p.p., senza prevedere  una  valutazione
della concreta pericolosita' sociale del lavoratore  extracomunitario
di cui e' chiesta la  regolarizzazione»,  ritenendo  detta  questione
rilevante, poiche', «vigente la norma nella sua attuale formulazione,
il ricorso dovrebbe essere rigettato». 
    A suo avviso, contrasterebbe con i «principi di ragionevolezza  e
proporzionalita'  che  la  medesima,  grave,  conseguenza  della  non
ammissione alla procedura di emersione  (che,  merita  sottolinearlo,
vale a rendere regolari soggetti che gia' vivono da tempo e  lavorano
nel territorio dello Stato in condizioni  di  precarieta')  colpisca,
allo stesso modo, gli stranieri che hanno compiuto reati di rilevante
gravita', e che generano allarme sociale, e coloro che - al pari  del
ricorrente -  siano  incorsi  in  una  sola  azione  disdicevole,  di
scarsissimo rilievo penale, dovuta ad un oggettivo stato di bisogno e
di disperazione, e che abbiano successivamente seguito un percorso di
riabilitazione, e, avendo compreso il disvalore del proprio  operato,
abbiano in prosieguo tenuto una condotta di vita  esente  da  mende».
Inoltre, la norma violerebbe il principio di parita'  di  trattamento
(art. 3 Cost.), poiche' assoggetta ad una stessa disciplina coloro  i
quali  si  sono  resi  colpevoli  di  azioni  di  rilevanza   penale,
«profondamente diverse per gravita' e intensita' del dolo». 
    Il rimettente deduce che questioni analoghe  a  quella  in  esame
sono state dichiarate  inammissibili  o  non  fondate,  sia  pure  in
riferimento ai casi  dell'automatismo  del  diniego  di  rinnovo  del
permesso  di  soggiorno,  in  ipotesi   di   commissione   di   reati
particolarmente gravi (sentenza n. 148 del 2008). Nondimeno, sostiene
che talora (sentenza n. 180 del 2008) detta conclusione sarebbe stata
giustificata dal fatto che «la giurisprudenza (in alcuni casi)  aveva
fornito un'interpretazione piu' "morbida" della norma»; talaltra,  lo
stesso legislatore ha mitigato l'iniziale  rigore  della  disciplina,
prevedendo, con successive disposizioni,  che,  per  i  soggetti  che
hanno fatto ingresso  nel  nostro  Paese  per  ricongiungersi  con  i
familiari e/o per i soggiornanti di lungo periodo, «l'Amministrazione
non potesse respingere l'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno
per la sola preesistenza di una condanna, ma dovesse  valutare  altri
ed ulteriori elementi». 
    Pertanto, secondo il giudice a quo,  sarebbe  possibile  ritenere
che  «il  sistema  rifiuti  ogni  automatismo,  idoneo   a   generare
ingiustizie  e  disparita'»,  in  contrasto   con   i   principi   di
ragionevolezza,  parita'  di  trattamento  e  proporzionalita',   che
sarebbero  lesi  dalla  norma   censurata,   poiche'   non   consente
«all'Amministrazione che istruisce il procedimento [di]  valutare  la
gravita' del reato, l'allarme sociale che lo stesso ha procurato,  la
condotta successiva tenuta dal  soggetto»,  e,  quindi,  «la  attuale
pericolosita' di colui per il quale e' chiesta la regolarizzazione». 
    Infine, conclude il TAR per le Marche,  il  ricorrente  e'  stato
«condannato - nel 2009 - per avere venduto  supporti  audio  e  video
privi del marchio SIAE oltre a merce con marchio contraffatto,  ossia
per un  reato  che  ordinariamente  non  e'  suscettibile  di  creare
particolare allarme sociale». Dunque,  non  potrebbe  essere  escluso
«che, laddove la legge consentisse  una  valutazione  caso  per  caso
della concreta pericolosita' sociale, la  competente  Amministrazione
avrebbe potuto pervenire ad una diversa conclusione del procedimento,
previo accertamento dell'insussistenza di altre cause preclusive alla
c.d. emersione». 
    3.- L'ordinanza di rimessione del TAR per  la  Calabria  premette
che S.G.,  in  data  4  ottobre  2010,  in  esito  ad  un'istanza  di
regolarizzazione della posizione lavorativa (definita dal citato art.
1-ter, comma 3, «dichiarazione di emersione») presentata  dal  datore
di lavoro, otteneva il permesso di soggiorno. In data 20 maggio  2011
la Prefettura di Reggio Calabria disponeva, pero', l'archiviazione di
detta domanda e la revoca del  permesso  di  soggiorno,  poiche'  era
stato accertato che egli, sotto le diverse generalita' di  S.G.,  era
stato condannato con  sentenza  del  Tribunale  ordinario  di  Reggio
Calabria, per il reato di cui all'art.  582  del  codice  penale,  il
quale,   in   virtu'   della   norma   censurata,   impedisce   detta
regolarizzazione.  Il  ricorrente,  cittadino  indiano,  ha,  quindi,
impugnato il decreto di  «rigetto  della  domanda  di  emersione  dal
lavoro irregolare» presentata dal datore di lavoro, il  provvedimento
di revoca del permesso di soggiorno ed ogni altro  atto  presupposto,
deducendo di avere proposto appello avverso detta  sentenza,  per  le
ragioni di cui ha dato conto nel processo principale. 
    Secondo il TAR, il ricorso dovrebbe essere rigettato, ma potrebbe
essere accolto, qualora il citato art. 1-ter, comma 13,  lettera  c),
fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo nella  parte  in  cui
attribuisce rilievo ostativo alla regolarizzazione alla  sentenza  di
condanna non passata in giudicato e sostiene che, non potendo  essere
offerta  un'interpretazione  costituzionalmente  orientata  di   tale
norma, la questione di legittimita' costituzionale sarebbe rilevante.
Il giudice a  quo  espone,  inoltre,  di  avere  accolto  la  domanda
cautelare,  ordinando   la   sospensione   dell'efficacia   dell'atto
impugnato  sino  alla  decisione  della  questione  di   legittimita'
costituzionale. 
    3.1.- La norma censurata, ad avviso  del  rimettente,  violerebbe
anzitutto gli artt. 3 e 27 Cost. La regolamentazione dell'ingresso  e
del soggiorno dello straniero nel territorio  nazionale,  secondo  la
giurisprudenza  di  questa  Corte,  richiede  il   bilanciamento   di
molteplici  interessi,  riservato  al  legislatore  ordinario,  ferma
l'esigenza  che  le   scelte   da   questi   realizzate   non   siano
manifestamente irragionevoli. La sentenza n. 78 del 2005 ha,  quindi,
dichiarato costituzionalmente illegittimi l'art. 33, comma 7, lettera
c), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica  alla  normativa  in
materia di immigrazione e di asilo), e l'art. 1, comma 8, lettera c),
del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195 (Disposizioni  urgenti  in
materia di legalizzazione del lavoro irregolare di  extracomunitari),
convertito, con modificazioni, dalla legge 9 ottobre  2002,  n.  222,
nella parte in  cui  facevano  derivare  automaticamente  il  rigetto
dell'istanza di regolarizzazione dalla presentazione di una  denuncia
per uno dei reati indicati dagli artt. 380 e  381  cod.  proc.  pen.,
affermando  che  la  mera  denuncia   nulla   prova   riguardo   alla
colpevolezza o alla pericolosita' del denunciato, ma solo obbliga  le
autorita' competenti ad accertare se  sussistano  le  condizioni  per
l'inizio di un procedimento penale. 
    La sentenza n. 148 del 2008 ha, invece, dichiarato non fondata la
questione avente ad oggetto il  combinato  disposto  degli  artt.  4,
comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(Testo   unico   delle   disposizioni   concernenti   la   disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione  dello  straniero),  nella
parte in cui prevede quale causa ostativa al rinnovo del permesso  di
soggiorno la condanna definitiva a  seguito  di  patteggiamento,  per
reati  inerenti  agli  stupefacenti,  senza  alcuna  valutazione   in
concreto  della  pericolosita'  del  condannato  e  senza  attribuire
rilievo alla sussistenza delle  condizioni  per  la  concessione  del
beneficio della sospensione della pena. 
    Ad avviso del giudice a quo, dette pronunce non potrebbero essere
richiamate  in  relazione  alla  norma  censurata,   poiche'   questa
attribuisce rilevanza ostativa alla  regolarizzazione  anche  ad  una
sentenza di  condanna  non  definitiva  e,  quindi,  disciplina  «una
fattispecie, in un certo senso,  a  meta'  strada  tra  le  due  gia'
vagliate dalla Corte  costituzionale».  Da  dette  pronunce  sarebbe,
tuttavia, desumibile il principio secondo il quale «la compatibilita'
costituzionale della scelta legislativa  sussiste  esclusivamente  se
quest'ultima  e'  predicativa  di  pericolosita'  o  colpevolezza  in
relazione a reati considerati gravi, essendo solo  in  siffatti  casi
ragionevolmente prefigurabile l'espulsione». Pertanto, in difetto  di
una sentenza definitiva di condanna,  la  pericolosita'  sociale  non
potrebbe essere presunta,  ma  dovrebbe  costituire  frutto  di  «una
valutazione prognostica basata su dati concreti e significativi circa
la  specifica  potenzialita'  di   reiterazione   del   comportamento
delittuoso, oltre che sul fumus commissi delicti». 
    Ad avviso del TAR, «se la ragione che ha indotto il legislatore a
determinarsi per l'ostativita', anche in presenza di un  accertamento
non definitivo, e' la sussistenza della colpevolezza in  ordine  alla
commissione di un  reato  considerato  grave,  allora  la  violazione
dell'art. 27 della Cost. (...) e' del tutto manifesta»,  poiche',  in
virtu' di tale parametro, nessuna «sanzione, penale o  amministrativa
basata sulla colpevolezza» potrebbe essere irrogata in difetto «della
definitivita'  dell'accertamento  giudiziario».  Diversamente,   «ove
invece, come il  Collegio  ritiene,  il  disposto  normativo  intenda
sorreggersi su una valutazione implicita di  pericolosita'  derivante
dal fumus di colpevolezza rappresentato dalla  sentenza  di  condanna
non definitiva, e' l'art. 3 della Costituzione  ed  il  principio  di
ragionevolezza ad essere violato». Siffatto fumus, rilevante ai  fini
cautelari, non potrebbe «giustificare  sanzioni  definitive»,  lesive
dei diritti fondamentali riconosciuti dall'art. 2 Cost., che  privano
il  lavoratore  extracomunitario  «del  lavoro  e   delle   relazioni
familiari»,   in   difetto   dell'accertamento    definitivo    della
colpevolezza, «senza il preliminare vaglio dell'autorita' giudiziaria
in ordine alla pericolosita'  specifica  dell'imputato  o,  comunque,
senza  una  previa  valutazione  amministrativa   circa   l'effettiva
pericolosita'»  dello  straniero,  «avuto  riguardo  alla  natura   e
gravita'  dei  fatti  contestati  ed  all'andamento  della  sua  vita
pregressa e postuma del medesimo». 
    In   definitiva,   la   norma,   «determinando    automaticamente
l'espulsione a titolo definitivo»  dello  straniero  «condannato  con
sentenza non ancora passata in giudicato per reati che potrebbero  in
concreto finanche essere insufficienti a legittimare  un  arresto  in
flagranza», avrebbe accolto un  concetto  di  pericolosita'  che  non
ragionevolmente   prescinde   dall'accertamento   definitivo    della
colpevolezza. 
    3.2.- Secondo il giudice a quo,  la  norma  in  esame  violerebbe
anche l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione  all'art.  8  della
CEDU. 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo (infra, anche  Corte  EDU)
ha riconosciuto il potere degli Stati di controllare l'ingresso dello
straniero  nel  proprio  territorio  e  di   espellerlo,   a   tutela
dell'ordine pubblico interno, qualora  commetta  un  delitto  (Grande
Camera, sentenza del 18 ottobre 2006, Üner c.  Paesi  Bassi),  ma  ha
precisato che tale misura deve essere  «giustificata  da  un  bisogno
sociale imperativo» e dalla proporzionalita'  della  stessa  rispetto
allo scopo perseguito» (sentenze  del  19  febbraio  1998,  Dalia  c.
Francia; 9 ottobre 2003, Slivenko c. Lettonia; 23 giugno 2008, Maslov
c. Austria) e,  quindi,  soltanto  ragioni  peculiarmente  rilevanti,
quali appunto la gravita' del reato commesso, potrebbero  legittimare
il rifiuto del rilascio di un titolo di soggiorno. 
    Ad avviso del rimettente, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera
c), attribuisce, invece, efficacia ostativa a tutti i reati  previsti
dall'art. 381  cod.  proc.  pen.,  benche'  essi,  in  considerazione
dell'eventuale, particolare, tenuita' del fatto in concreto commesso,
possano «esprimere un cosi' basso grado di allarme sociale da inibire
persino l'arresto in flagranza». Inoltre, qualora il  reato  non  sia
stato accertato con sentenza  definitiva,  i  dubbi  in  ordine  alla
sussistenza della «condizione di necessarieta' alla luce  del  citato
criterio di proporzionalita', diventano numerosi e consistenti». 
    Secondo il TAR, la Corte EDU richiede, poi, che  la  «valutazione
della gravita' ai fini  della  necessarieta'  deve  essere  fatta  in
concreto» (sentenza del 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera) e che  la
misura dell'espulsione sia proporzionata al suo  scopo  ed  ha  anche
indicato gli elementi rilevanti a detto fine. Siffatti  elementi  non
sarebbero stati, invece,  presi  in  considerazione  dal  legislatore
italiano, il quale ha previsto «un automatismo espulsivo prescindendo
dalla gravita' in concreto del reato, dalla personalita'  del  reo  e
dalla sua condizione socio-economica  e  familiare»,  ricollegandolo,
peraltro,  «ad  un  accertamento  non  definitivo,   obliterando   il
principio generale di non colpevolezza comune agli Stati contraenti». 
    3.3.- La norma in esame violerebbe, infine, l'art. 6 della  CEDU,
il  quale  stabilisce  garanzie  concernenti  anche   gli   stranieri
extracomunitari e, quindi, lo Stato  incontra  limiti  nell'esercizio
del potere  di  vietarne  l'ingresso  o  la  permanenza  sul  proprio
territorio, in ragione della salvaguardia del diritto degli stessi  a
partecipare personalmente ai processi nei  quali  risultano  imputati
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 1° marzo  2006,  Sejdovic  c.
Italia; sentenza 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia). 
    Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata comporterebbe
l'espulsione dello straniero, in pendenza  del  processo  di  appello
promosso dallo stesso, per accertare  la  sua  innocenza  e,  benche'
l'art.  17  (recte:  art.  15)  della  legge  6  marzo  1998,  n.  40
(Disciplina  dell'immigrazione  e  norme   sulla   condizione   dello
straniero), consenta allo straniero sottoposto a procedimento  penale
di rientrare in Italia  per  il  tempo  strettamente  necessario  per
l'esercizio del diritto di difesa, l'espulsione dallo Stato potrebbe,
comunque,  costituire  fattore  di  notevole  ostacolo  all'effettiva
partecipazione  al  processo,  non  riconducibile  al   comportamento
dell'espulso, tenuto conto della presunzione di non colpevolezza. 
    In definitiva, secondo il TAR, il citato art.  1-ter,  comma  13,
lettera c), sarebbe costituzionalmente illegittimo  «nella  parte  in
cui  dispone  che  non  possono  essere  ammessi  alla  procedura  di
emersione tutti coloro che risultino condannati, anche  con  sentenza
non definitiva, per uno dei reati previsti dagli articoli 380  e  381
del codice di procedura penale, senza consentire  all'amministrazione
alcuna valutazione in ordine alle circostanze soggettive ed oggettive
del caso concreto ed alla pericolosita'» attuale dello straniero. 
    4.- In entrambi i giudizi davanti a questa Corte  e'  intervenuto
il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  che  le  questioni
siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate. 
    Secondo l'interveniente, la questione sollevata dal  TAR  per  le
Marche  sarebbe  inammissibile,  in  quanto  questa   Corte   avrebbe
dichiarato inammissibili questioni analoghe (sentenza n. 206 del 2007
- recte: n. 206 del 2006 -; ordinanze n. 126 del 2005, n. 44 del 2006
- recte: n. 44 del 2007 - e n.  218  del  2007),  affermando  che  la
disciplina dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri richiede  la
ponderazione di una  pluralita'  di  interessi,  riservata  all'ampia
discrezionalita' del legislatore ordinario (sentenza n. 62 del 1994).
Siffatte pronunce, a suo avviso,  comporterebbero  l'inammissibilita'
della questione per difetto di motivazione sulla  rilevanza,  poiche'
il rimettente avrebbe indicato in modo generico ed apodittico,  senza
nessun riferimento alla fattispecie  sottoposta  al  suo  esame,  gli
elementi che la differenzierebbero da quelle gia'  decise  da  queste
Corte. Inoltre, il TAR neppure avrebbe «esplorato la possibilita'  di
pervenire a  un'interpretazione  delle  norme  impugnate  conforme  a
Costituzione». 
    4.1.-  Nel  merito,  ad  avviso  dell'Avvocatura   generale,   la
questione sarebbe infondata. 
    La  valutazione  della  pericolosita'  sociale   del   lavoratore
extracomunitario dovrebbe essere  «garantita  solo  per  l'espulsione
come misura di sicurezza», costituendo il c.d. automatismo  espulsivo
«il riflesso del principio di stretta legalita' che  permea  l'intera
disciplina  dell'immigrazione  e  che  costituisce  anche   per   gli
stranieri presidio ineliminabile dei  loro  diritti,  consentendo  di
scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorita' amministrativa»
(sentenza n. 129 del 1995, ordinanza n.  146  del  2002).  La  scelta
realizzata con la norma censurata non sarebbe, quindi, manifestamente
irragionevole e neppure determinerebbe una disparita' di trattamento,
mentre la sentenza n. 78 del 2005 avrebbe censurato la disciplina che
prevedeva il rigetto dell'istanza di regolarizzazione del  lavoratore
extracomunitario nel caso di denuncia del lavoratore extracomunitario
per uno dei reati di cui agli articoli 380 e  381  cod.  proc.  pen.,
esclusivamente in  quanto  la  denuncia  «e'  atto  che  nulla  prova
riguardo alla colpevolezza o alla pericolosita'» del  denunciato.  La
disposizione in esame stabilisce, invece, che l'emersione dal  lavoro
irregolare e'  impedita  non  dalla  mera  denuncia,  bensi'  da  una
sentenza  penale  che  «costituisce  adeguata  e  ragionevole  "prova
riguardo alla colpevolezza e pericolosita' del soggetto indicato come
autore degli atti che il  denunciante  riferisce"»,  con  conseguente
infondatezza delle censure proposte dal TAR per le Marche. 
    4.2.- In relazione  alla  questione  sollevata  dal  TAR  per  la
Calabria, l'interveniente deduce che la norma censurata prevede quale
ragione ostativa della regolarizzazione la pronuncia di una  sentenza
di condanna, non la mera denuncia, in coerenza con la  giurisprudenza
costituzionale, secondo la quale la condanna per  un  delitto  punito
con  pena  detentiva  puo'  assumere   rilievo   ostativo   ai   fini
dell'accettazione  dello  straniero  nel  territorio   dello   Stato.
Inoltre, la sentenza n. 78 del 2005 di questa Corte permetterebbe  di
ritenere che,  se  la  mera  denuncia  e'  inidonea  ad  impedire  la
regolarizzazione,  a  diversa  conclusione  potrebbe  pervenirsi   in
presenza di una sentenza di condanna di primo grado, che implica  una
valutazione di merito da parte dell'autorita' giudiziaria. 
    Infine, il citato art.  1-ter,  comma  13,  lettera  c),  secondo
l'Avvocatura generale,  non  avrebbe  neppure  carattere  innovativo,
poiche' l'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce  che
tutte le sentenze di condanna, anche non definitive,  impediscono  il
rilascio del permesso di soggiorno e, quindi,  non  introdurrebbe  un
elemento   discriminatorio   ed   irragionevole   nella    disciplina
dell'immigrazione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per  le  Marche  ed  il
Tribunale  amministrativo  regionale  per   la   Calabria   dubitano,
rispettivamente, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione  ed
agli articoli 3, 27 e 117, primo  comma,  della  Costituzione  ed  in
relazione agli articoli 6 ed 8 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (infra:  CEDU),
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,  n.  848,  della
legittimita' costituzionale dell'articolo  1-ter,  comma  13  (recte:
articolo 1-ter, comma 13, lettera c),  del  decreto-legge  1°  luglio
2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonche'  proroga  di  termini),
introdotto dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102. 
    2.- I giudizi hanno ad oggetto  la  stessa  norma,  censurata  in
riferimento  a  parametri   costituzionali,   per   profili   e   con
argomentazioni in parte coincidenti, e, quindi,  vanno  riuniti,  per
essere decisi con un'unica sentenza. 
    3.- L'art. 1-ter del d.l. n. 78 del 2009, introdotto dalla  legge
di conversione n. 102 del 2009, disciplina, per quanto qui interessa,
la  regolarizzazione  della  posizione  lavorativa   dei   lavoratori
extracomunitari (definita «emersione») i  quali,  alla  data  del  30
giugno 2009, svolgevano attivita' di assistenza in favore del  datore
di lavoro o di componenti della famiglia del predetto, ancorche'  non
conviventi,  affetti  da  patologie  o  handicap  che   ne   limitano
l'autosufficienza, ovvero espletavano attivita' di  lavoro  domestico
di sostegno al bisogno familiare. 
    Il comma 13, lettera c), di detta disposizione stabilisce che non
possono ottenere detta regolarizzazione i lavoratori  extracomunitari
«che risultino condannati, anche con sentenza non  definitiva,  (...)
per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381»  del  codice  di
procedura penale. Secondo il TAR per le Marche, tale norma violerebbe
l'art.  3  Cost.  anzitutto  in  quanto  assoggetta  ad  una   stessa
disciplina coloro i  quali  si  sono  resi  colpevoli  di  azioni  di
rilevanza penale «profondamente diverse per gravita' e intensita' del
dolo»,  non  permettendo  «all'Amministrazione   che   istruisce   il
procedimento [di] valutare la gravita' del reato,  l'allarme  sociale
che lo  stesso  ha  procurato,  la  condotta  successiva  tenuta  dal
soggetto», e, quindi, «la attuale pericolosita' di colui per il quale
e' chiesta la regolarizzazione». Inoltre, essa  recherebbe  vulnus  a
detto parametro costituzionale, poiche', in violazione  dei  principi
di ragionevolezza e proporzionalita', non consente di ammettere  alla
procedura di emersione sia i lavoratori extracomunitari colpevoli  di
reati di rilevante gravita', che generano allarme sociale, sia quelli
di essi «che - al pari del ricorrente - siano  incorsi  in  una  sola
azione disdicevole, di  scarsissimo  rilievo  penale,  dovuta  ad  un
oggettivo  stato  di  bisogno  e  di  disperazione,  e  che   abbiano
successivamente seguito un  percorso  di  riabilitazione,  e,  avendo
compreso il disvalore  del  proprio  operato,  abbiano  in  prosieguo
tenuto una condotta di vita esente da mende». 
    Detta disposizione,  ad  avviso  del  TAR  per  la  Calabria,  si
porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui  dispone
il diniego  automatico  della  regolarizzazione  anche  nel  caso  di
condanna irrogata con sentenza non  definitiva,  in  virtu'  di  «una
valutazione implicita di pericolosita' derivante dal  mero  fumus  di
colpevolezza», in riferimento ai reati previsti  dall'art.  381  cod.
proc. pen., i quali, tuttavia, «potrebbero esprimere un  cosi'  basso
grado di allarme sociale da inibire persino l'arresto in  flagranza».
Tale  fumus,  secondo  il   rimettente,   non   giustificherebbe   un
automatismo che, in violazione  del  principio  di  ragionevolezza  e
degli altri  parametri  costituzionali  sopra  indicati,  incide  sui
diritti fondamentali del lavoratore extracomunitario e lo priva  «del
lavoro e delle relazioni  familiari»,  in  difetto  dell'accertamento
definitivo della penale responsabilita' del predetto e di una  previa
valutazione in ordine all'effettiva pericolosita' del medesimo, avuto
riguardo  «alla  natura  e   gravita'   dei   fatti   contestati   ed
all'andamento della sua vita pregressa e postuma». 
    4.- Preliminarmente, va osservato che il TAR per la  Calabria  ha
accolto  la  domanda  cautelare,  disponendo   la   sospensione   del
provvedimento  impugnato  sino  all'esito   della   decisione   della
questione di legittimita' costituzionale e, quindi, non  ha  esaurito
la propria potestas iudicandi, con la conseguenza che,  sotto  questo
profilo, la questione e' ammissibile (tra le piu' recenti,  ordinanza
n. 307 del 2011). 
    5.- L'eccezione di inammissibilita' per difetto di motivazione in
ordine alla rilevanza  della  questione  sollevata  dal  TAR  per  le
Marche,  proposta  dall'Avvocatura  generale  sul  rilievo   che   il
rimettente non avrebbe indicato gli elementi  che  differenzierebbero
la fattispecie in esame da quelle oggetto di questioni analoghe,  non
accolte da questa Corte, non e' fondata.  Indipendentemente  da  ogni
considerazione concernente la pertinenza  dei  precedenti  richiamati
dall'interveniente,  la  mancata,  specifica  valutazione  di  questi
ultimi e di argomenti eventualmente gia' svolti da questa  Corte  non
puo', infatti, influire sulla rilevanza  della  sollevata  questione,
che e' stata plausibilmente motivata dal giudice a quo. 
    Del pari non fondata e' l'ulteriore eccezione di inammissibilita'
formulata, sostenendo che detto rimettente non avrebbe verificato  la
possibilita' di un'interpretazione della norma censurata  conforme  a
Costituzione,  poiche'  il  TAR  ha  implicitamente,  ma  chiaramente
indicato gli argomenti che, tenuto conto  della  chiara  formulazione
lessicale del citato art. 1-ter, comma 13,  lettera  c),  impediscono
una tale esegesi. 
    6.-  In  linea  ancora  preliminare,  occorre  precisare  che  le
questioni di legittimita' costituzionale sono rilevanti limitatamente
alla parte della norma in esame che non consente  di  ammettere  alla
procedura di emersione il lavoratore  extracomunitario  condannato  -
con sentenza definitiva, secondo il TAR per le Marche,  ovvero  anche
con sentenza non definitiva, ad avviso del TAR per la Calabria -  per
uno dei reati previsti dall'art. 381 cod. proc. pen. 
    Infatti, i ricorrenti nei giudizi principali non  hanno  ottenuto
la regolarizzazione della propria  posizione  lavorativa,  in  quanto
hanno riportato condanna, ciascuno, per uno dei reati contemplati  da
quest'ultima norma. Inoltre,  entrambi  i  rimettenti  denunciano  la
violazione dell'art. 3 Cost., sostenendo, sia pure con argomentazioni
solo in  parte  coincidenti,  che  l'automatismo  del  diniego  della
regolarizzazione sarebbe manifestamente irragionevole, anche  perche'
correlato alla condanna per uno di detti reati, benche' non siano  di
rilevante gravita' e tali da suscitare particolare  allarme  sociale,
tenuto conto che per essi e' previsto come facoltativo  l'arresto  in
flagranza. 
    7.- Nel merito, la questione e' fondata con riferimento  all'art.
3 Cost., nei termini di seguito precisati. 
    7.1.- La regolamentazione dell'ingresso  e  del  soggiorno  dello
straniero  nel  territorio  nazionale,  secondo   la   giurisprudenza
costituzionale, e' collegata al bilanciamento di molteplici interessi
pubblici, che spetta in via primaria  al  legislatore  ordinario,  il
quale possiede in materia un'ampia discrezionalita' (sentenze n.  206
del 2006 e n. 62 del 1994).  In  essa  rientrano  la  fissazione  dei
requisiti necessari per le autorizzazioni che consentono ai cittadini
extracomunitari  di  trattenersi  e  lavorare  nel  territorio  della
Repubblica (sent.  n.  78  del  2005)  ed  il  c.d.  automatismo  che
caratterizza taluni profili  della  disciplina  del  rilascio  o  del
rinnovo del permesso di soggiorno (sentenza n. 148 del 2008),  oppure
dell'espulsione (ordinanze n. 463 del 2005, n. 146 del 2002)  e  che,
per alcuni aspetti, connotava  anche  la  legalizzazione  del  lavoro
irregolare dei  predetti,  stabilita  dalla  disciplina  anteriore  a
quella fissata dalla norma  censurata  (sentenza  n.  206  del  2006;
ordinanze n. 218 del 2007, n. 44 del 2007), ferma l'esigenza  di  uno
specifico  giudizio  di  pericolosita'  sociale,  nel  caso  in   cui
l'espulsione dal territorio nazionale sia  disposta  come  misura  di
sicurezza (sentenze n. 148 del 2008, n. 58 del 1995). In particolare,
siffatto  automatismo  costituisce  «un  riflesso  del  principio  di
stretta legalita' che permea l'intera  disciplina  dell'immigrazione»
ed e' «anche per  gli  stranieri,  presidio  ineliminabile  dei  loro
diritti,  consentendo  di  scongiurare  possibili  arbitri  da  parte
dell'autorita' amministrativa» (tra le molte,  sentenza  n.  148  del
2008; ordinanza n. 146 del 2002). 
    L'esercizio di tale discrezionalita', come  pure  e'  stato  piu'
volte ribadito, incontra, tuttavia, i  limiti  segnati  dai  precetti
costituzionali e, per essere in armonia con l'art. 3  Cost.,  occorre
che sia conforme a criteri di intrinseca ragionevolezza (sentenze  n.
206 del 2006 e n. 62 del 1994). Questa Corte ha, quindi, escluso  che
violi tale parametro costituzionale la previsione del  diniego  della
regolarizzazione del  lavoratore  extracomunitario  conseguente  alla
pronuncia di un provvedimento  di  espulsione  da  eseguire  mediante
accompagnamento alla frontiera, ma  ha  espressamente  valorizzato  a
detto fine la peculiare rilevanza di tale  provvedimento,  in  quanto
«non era correlato  a  lievi  irregolarita'  amministrative  ma  alla
situazione di  coloro  che  avessero  gia'  dimostrato  la  pervicace
volonta' di rimanere in Italia in una posizione di irregolarita' tale
da sottrarli ad ogni normale controllo o di coloro che tale  volonta'
lasciassero presumere all'esito di una valutazione dei  singoli  casi
condotta sulla base di specifici elementi» (sentenza n. 206 del 2006;
ordinanze n.  44  del  2007,  n.  218  del  2007).  Analogamente,  ha
giudicato non in contrasto con  l'art.  3  Cost.,  l'automatismo  del
rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, qualora  lo
straniero extracomunitario abbia riportato una condanna per un  reato
inerente agli stupefacenti, ma avendo cura  di  sottolineare  la  non
manifesta irragionevolezza di tale  previsione  anche  perche'  detta
ipotesi delittuosa, tra l'altro, spesso implica «contatti, a  diversi
livelli, con appartenenti ad organizzazioni criminali»  (sentenza  n.
148 del 2008). 
    L'inesistenza di un'incompatibilita', in linea di principio,  del
citato automatismo con l'art. 3 Cost. non  implica,  quindi,  che  le
fattispecie nelle quali esso e' previsto siano sottratte al controllo
di  non  manifesta  arbitrarieta'.  Il  legislatore  puo',  pertanto,
subordinare la regolarizzazione del rapporto di lavoro al  fatto  che
la permanenza nel territorio dello Stato non sia  di  pregiudizio  ad
alcuno degli interessi coinvolti dalla disciplina  dell'immigrazione,
ma la relativa scelta deve costituire il risultato di un  ragionevole
e proporzionato bilanciamento degli stessi,  soprattutto  quando  sia
suscettibile di incidere sul godimento dei diritti  fondamentali  dei
quali e' titolare anche lo straniero  extracomunitario  (sentenze  n.
245 del 2011, n. 299 e  n.  249  del  2010),  perche'  la  condizione
giuridica dello straniero non deve essere «considerata -  per  quanto
riguarda la tutela di  tali  diritti  -  come  causa  ammissibile  di
trattamenti diversificati o peggiorativi» (sentenza n. 245 del 2011).
Inoltre,  questa  Corte  ha  anche  affermato  il  principio  -   qui
richiamabile, benche' sia  stato  enunciato  in  riferimento  ad  una
differente materia - in virtu' del quale  «le  presunzioni  assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano
il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali,  cioe'
se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula    dell'id    quod    plerumque     accidit»,     sussistendo
l'irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in  cui
sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenze  n.
231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010). 
    7.2.- Nel quadro di tali principi,  a  conforto  della  manifesta
irragionevolezza della norma censurata assume  anzitutto  rilievo  la
considerazione  che  il  diniego  della   regolarizzazione   consegue
automaticamente alla pronuncia di una sentenza di condanna anche  per
uno dei reati di cui all'art. 381 cod. proc. pen., nonostante che gli
stessi non siano necessariamente sintomatici della  pericolosita'  di
colui che li ha commessi. In tal  senso  e',  infatti,  significativo
che, essendo possibile procedere  per  detti  reati  «all'arresto  in
flagranza soltanto se la misura e' giustificata  dalla  gravita'  del
fatto ovvero dalla  pericolosita'  del  soggetto  desunta  dalla  sua
personalita' o dalle circostanze del fatto» (art. 381, comma 4,  cod.
proc. pen.), e' gia'  l'applicabilita'  di  detta  misura  ad  essere
subordinata  ad  una  specifica  valutazione  di  elementi  ulteriori
rispetto a quelli consistenti nella mera prova della commissione  del
fatto. 
    La manifesta irragionevolezza della  disciplina  stabilita  dalla
norma censurata, nella parte qui rilevante, e',  inoltre,  confermata
dalla  circostanza  che  l'automatismo   concerne   una   fattispecie
connotata  da  profili  peculiari  tra  quelle  aventi   ad   oggetto
l'accertamento della sussistenza dei requisiti per la permanenza  nel
territorio dello Stato. La regolarizzazione in esame riguarda i  soli
stranieri  extracomunitari  i  quali  da  un   tempo   ritenuto   dal
legislatore apprezzabile svolgevano, sia pure in  una  situazione  di
irregolarita', attivita' di assistenza in favore del datore di lavoro
o  di  componenti  della  famiglia  del   predetto,   ancorche'   non
conviventi, affetti  da  patologie  o  disabilita'  che  ne  limitano
l'autosufficienza, ovvero attivita' di lavoro domestico  di  sostegno
al bisogno familiare. Sono, queste, infatti, attivita'  che,  per  il
loro contenuto e per la circostanza di essere svolte  all'interno  di
una famiglia, da un canto,  agevolano  l'accertamento  dell'effettiva
pericolosita'   dello   straniero.   Dall'altro,   evidenziano    che
l'automatismo, nel caso  di  assistenza  in  favore  di  quanti  sono
affetti da patologie o disabilita' che ne limitano l'autosufficienza,
rischia di pregiudicare irragionevolmente  gli  interessi  di  questi
ultimi. E', invero, notorio che, soprattutto  quando  tale  attivita'
sia stata svolta per  un  tempo  apprezzabile,  puo'  instaurarsi  un
legame peculiare e forte con chi ha bisogno di assistenza costante  e
che, quindi, puo' essere leso da un diniego disposto  in  difetto  di
ogni  valutazione  in  ordine  alla  effettiva  imprescindibilita'  e
proporzionalita' dello  stesso  rispetto  all'esigenza  di  garantire
l'ordine pubblico e la sicurezza  dello  Stato,  nonostante  che  sia
agevole ipotizzare, ed accertare, l'esistenza di situazioni contrarie
alla generalizzazione posta a base  della  presunzione  assoluta  che
fonda l'automatismo. 
    La  specificita'  della  fattispecie  rende,  quindi,   manifesta
l'irragionevolezza del diniego  di  regolarizzazione  automaticamente
correlato alla pronuncia di una sentenza  di  condanna  per  uno  dei
reati di cui all'art. 381 cod. proc. pen.,  senza  che  sia  permesso
alla pubblica amministrazione di apprezzare al giusto  gli  interessi
coinvolti e di accertare se il lavoratore extracomunitario sia o meno
pericoloso  per  l'ordine  pubblico  o  la  sicurezza  dello   Stato.
L'arbitrarieta' di  tale  disciplina  risulta,  infine,  ancora  piu'
palese in relazione al caso, oggetto dell'ordinanza del  TAR  per  la
Calabria, di pronuncia di una sentenza non definitiva di condanna per
uno  dei  reati  contemplati  da  detta  norma.  Dalla  sentenza  non
definitiva sono, infatti, desumibili elementi in grado  di  orientare
la formulazione del giudizio di pericolosita'; urta, invece, in  modo
manifesto con il principio di ragionevolezza che siano collegate alla
stessa, in difetto del giudicato ed in modo  automatico,  conseguenze
molto   gravi,    spesso    irreversibili,    per    il    lavoratore
extracomunitario, nonostante che, per le considerazioni sopra svolte,
la stessa commissione  del  reato  potrebbe  non  essere  sicuramente
sintomatica della pericolosita' sociale del medesimo. 
    Deve essere pertanto dichiarata, in riferimento all'art. 3 Cost.,
l'illegittimita' costituzionale del  citato  art.  1-ter,  comma  13,
lettera c), nella parte in cui fa derivare automaticamente il rigetto
dell'istanza  di  regolarizzazione  del  lavoratore  extracomunitario
dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza  di  condanna  per
uno dei reati per  i  quali  l'art.  381  cod.  proc.  pen.  permette
l'arresto facoltativo in flagranza, senza prevedere che  la  pubblica
amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una
minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. 
    Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura.