ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nei  giudizi   di   legittimita'   costituzionale   dell'articolo
dell'articolo 130 del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  30
maggio 2002, n. 115 (Testo unico  delle  disposizioni  legislative  e
regolamentari  in  materia  di  spese  di  giustizia),  promossi  dal
Tribunale ordinario di Roma con quattro ordinanze  del  21  settembre
2011, rispettivamente iscritte ai nn.  6,  7,  8  e  9  del  registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visti gli atti di costituzione di  A.  G.  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  23  ottobre  2012  il  Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    uditi gli avvocati Giampiero Amorelli e Marco Annecchino  per  A.
G. e l'avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per il  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
    Ritenuto che, con quattro ordinanze di identico contenuto,  tutte
depositate in data 21 settembre 2011, il Tribunale ordinario di  Roma
ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,  24,  secondo  e  terzo
comma, 53, primo comma, 111, primo comma, e 117, primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
130 del decreto del Presidente della Repubblica 30  maggio  2002,  n.
115 (Testo unico delle disposizioni legislative  e  regolamentari  in
materia di spese di giustizia), nella parte in cui  prevede  che,  in
caso di ammissione al beneficio della difesa a spese dello Stato  del
non abbiente in controversie in materia civile, il giudice, allorche'
provvede alla liquidazione dei compensi spettanti al difensore,  deve
tenere conto che questi «sono ridotti della meta'»; 
    che il rimettente precisa di essere chiamato  a  giudicare  sulla
opposizione proposta  da  un  avvocato  -  il  quale  ha  difeso  dei
cittadini stranieri, ammessi al patrocinio a spese  dello  Stato,  in
procedimenti civili aventi ad oggetto il riconoscimento dello  status
di rifugiato politico - avverso i decreti con i quali,  in  relazione
ai predetti giudizi, sono state liquidate le sue competenze; 
    che  fra  le  lagnanze  dell'opponente  vi   e'   quella   legata
all'avvenuta riduzione delle competenze  nella  misura  della  meta',
operata ai sensi dell'art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002; 
    che il rimettente, ricostruite  la  modalita'  applicative  della
disposizione in questione - nel senso che il giudice,  effettuata  la
liquidazione entro il limite degli importi medi previsti in  funzione
del  valore  della  controversia,  deve  dimezzare  l'importo   cosi'
determinato ed attribuirlo al professionista solo nella misura  cosi'
risultante -, ha,  preliminarmente,  escluso  la  tacita  abrogazione
della disposizione censurata per  effetto  della  entrata  in  vigore
dell'art. 2, comma  2,  del  decreto-legge  4  luglio  2006,  n.  223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, nella legge 4  agosto  2006,
n. 248, il quale prevede che «il giudice provvede  alla  liquidazione
delle spese di giudizio e dei  compensi  professionali,  in  caso  di
(...) gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale»; 
    che, in particolare,  ad  avviso  del  rimettente  la  previsione
normativa sopravvenuta -  resasi  necessaria  onde  chiarire  che  il
meccanismo di liberalizzazione delle tariffe, introdotto dallo stesso
decreto-legge n. 223 del 2006, opera  limitatamente  ai  rapporti  di
natura contrattuale fra professionista e cliente  e  non  laddove  la
liquidazione intervenga ex officio - non esclude la  operativita'  di
altri meccanismi modificativi, fissati dalla legge, atti ad  incidere
sulla liquidazione tramite tariffa; 
    che - quanto alla rilevanza della questione nei giudizi a  quibus
-  il  rimettente  precisa  di  essere  chiamato   a   sindacare   il
provvedimento di  liquidazione  emesso  sulla  base  della  normativa
censurata che egli, pertanto, e'  tenuto  ad  applicare  in  sede  di
gravame; 
    che, per cio' che concerne la non  manifesta  infondatezza  della
questione, il  rimettente  ritiene  che  la  disposizione  violerebbe
diversi parametri costituzionali: vale a dire gli artt.  3,  24,  53,
111 e 117, comma primo, della Costituzione, quest'ultimo in relazione
all'art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti umani,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; 
    che, con riferimento all'art. 3  della  Costituzione,  espressivo
del principio di  eguaglianza,  ritiene  il  Tribunale  di  Roma  che
molteplici  siano  i   profili   di   illegittimita'   costituzionale
riscontrabili nella disposizione censurata; 
    che, essa, infatti, determinerebbe una disparita' di  trattamento
in funzione della natura, civile o penale, del processo in  relazione
al quale sono stati liquidati i compensi  al  professionista  il  cui
cliente sia stato ammesso al beneficio del patrocinio a  spese  dello
Stato, posto che l'abbattimento dei compensi  liquidati  dal  giudice
non opera in materia penale; 
    che  -  non  ignaro  che  analoga   questione   di   legittimita'
costituzionale gia' e' stata in passato decisa da questa  Corte,  nel
senso  della   sua   manifesta   infondatezza,   sulla   base   della
incomparabilita' fra i due  modelli  processuali  cui  fa  sfondo  la
diversita' degli interessi coinvolti dai  medesimi  -  il  rimettente
auspica  un  superamento  di  tali  decisioni,  argomentando  che  la
diversita'  degli  interessi  coinvolti  non  comporta   che   quelli
implicati nei giudizi civili siano di minore dignita' ed  importanza,
potendo, come nei giudizi a quibus, concernere  diritti  fondamentali
della persona; 
    che, aggiunge, la  diversita'  fra  i  due  modelli  processuali,
frutto   della   diversita'   degli    interessi    implicati,    non
giustificherebbe  comunque   la   diversita'   fra   i   criteri   di
remunerazione degli avvocati interessati, in  quanto  la  distinzione
fra le situazioni soggettive tutelate riguarderebbe solo le parti dei
giudizi non anche i loro difensori che hanno uguale diritto a  vedere
compensato il proprio impegno; 
    che,  per  il   rimettente,   un'ingiustificata   disparita'   di
trattamento sarebbe ravvisabile, nell'ambito dello stesso sistema del
processo civile, fra la posizione dell'avvocato che abbia difeso  una
parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e quella di chi abbia
difeso una parte ordinaria, posto che i criteri di determinazione dei
compensi professionali degli avvocati sono ancorati a fattori - quali
il valore della  controversia,  la  sua  complessita',  la  quantita'
dell'opera prestata, la sua qualita' nonche' il risultato  conseguito
-  per  i  quali  e'  indifferente  se  a  pagare  il  compenso   sia
direttamente il cliente ovvero un terzo, che in  questo  caso  e'  lo
Stato a cio' tenuto  dall'esigenza  di  adempiere  ad  un  dovere  di
solidarieta' sociale; 
    che sarebbe  percio'  privo  di  ragionevole  giustificazione  lo
"svilimento" dell'opera professionale resa dal difensore di  soggetto
ammesso al patrocinio a spese dello  Stato  e  la  "devalorizzazione"
delle identiche prestazioni in funzione del fatto che siano  prestate
o meno in favore di persona ammessa al detto beneficio; 
    che, prosegue il rimettente,  cio'  avrebbe  altresi'  l'effetto,
stante la  minore  remunerativita'  della  prestazione  professionale
offerta in favore di chi sia stato  ammesso  al  patrocinio  a  spese
dello Stato, di restringere il  numero  degli  avvocati  cui  il  non
abbiente potra' rivolgersi rispetto a quello da cui potra'  attingere
il cliente che paghi direttamente il professionista; 
    che pertanto, chiarisce il rimettente,  la  minore  appetibilita'
degli  incarichi  di  patrocinio  a  spese   dello   Stato   per   il
professionista che esercita in materia civile fa si' che  il  cliente
non abbiente si trovi a poter scegliere il proprio  avvocato  fra  un
numero inferiore di professionisti rispetto  a  quelli  da  cui  puo'
attingere il cliente ordinario; 
    che tale discriminazione, fondata su ragioni economiche, e', come
tale, "sospetta" di illegittimita' costituzionale; 
    che essa,  aggiunge  il  rimettente,  non  e',  peraltro,  frutto
immediato della disparita' economica esistente fra diversi cittadini,
ma e' la conseguenza del dettato legislativo che, anziche'  rimuovere
gli ostacoli di  ordine  economico  che  limitano  l'eguaglianza  dei
cittadini, ne erige uno dove  non  esisteva,  ne'  aveva  ragione  di
esistere; 
    che il rimettente osserva ancora come la descritta disparita'  di
trattamento puo' manifestarsi anche all'interno del singolo processo,
ove una delle parti sia stata ammessa al  patrocinio  a  spese  dello
Stato, risultando violato, in tali casi il principio  della  "parita'
delle armi" nel processo, garantito dall'art. 111 della Costituzione; 
    che, ritiene il giudice a quo, le predette violazioni contrastino
anche con il dettato dell'art.  24,  secondo  e  terzo  comma,  della
Costituzione, nonche' dell'art. 117, primo comma, della Costituzione,
stante il contrasto della disposizione censurata con l'art. 6,  primo
comma, della CEDU, il quale assicura "l'effettivita' dell'accesso  al
tribunale" e la "parita' delle armi"; 
    che l'unica finalita' rinvenuta dal rimettente nel censurato art.
130 del d.P.R. n. 115 del 2002 e' quella di realizzare  un  risparmio
di spesa in favore dell'Erario, finalita' che, piu' volte,  la  Corte
di Strasburgo ha ritenuto insufficiente a giustificare il  sacrificio
di un diritto garantito dalla Convenzione ; 
    che,  segnala  il  giudice  a  quo,  la  riduzione  dei  compensi
determinata dall'art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002  opererebbe,  in
maniera del tutto eterogenea rispetto al predetto  scopo,  anche  nel
caso di condanna della controparte del non  abbiente  alla  rifusione
delle spese giudiziali in favore di questo, in una ipotesi, cioe', in
cui non sarebbero, comunque, interessate le finanze dello Stato; 
    che, per il  rimettente,  la  disposizione  censurata  violerebbe
altresi' l'art. 53 della Costituzione; 
    che, osserva il rimettente, l'utilita' economica della  attivita'
prestata  dall'avvocato,  liquidata  in  base  a  tariffe  legalmente
approvate, corrisponde alla somma  determinata,  in  applicazione  di
quelle, dal giudice; 
    che da cio' conseguirebbe il credito, da parte dell'avvocato  che
abbia prestato la propria opera a difesa di un  non  abbiente  in  un
giudizio civile, della integrale somma liquidata dal giudice; 
    che di essa, pero', egli ne  riceve  solo  una  quota  pari  alla
meta', la quale, aggiungendosi alle altre entrate del professionista,
va a costituire il suo reddito imponibile,  sul  quale  calcolare  la
relativa imposta; 
    che il restante 50% rimane nella  disponibilita'  dell'Erario  il
quale, pertanto, consegue un beneficio economico equivalente a quello
che realizzerebbe ove il professionista,  ricevuta  integralmente  la
somma a lui dovuta, ne dovesse riversare allo Stato,  in  aggiunta  a
quanto deve versare a titolo di imposta, la meta'; 
    che siffatta attribuzione patrimoniale a favore dello  Stato  e',
per il rimettente, assimilabile ad un'entrata tributaria; 
    che gli effetti  favorevoli  per  l'Erario  di  tale  meccanismo,
secondo la ricostruzione operata  dal  rimettente,  sarebbero  ancora
piu' evidenti nel caso in cui la parte ammessa al patrocinio a  spese
dello Stato sia risultata vittoriosa in  giudizio,  poiche'  in  tale
ipotesi il giudice, nel condannare  il  soccombente  a  corrispondere
alle  casse  dello  Stato  le  spese  di  lite,  non   potrebbe   che
determinarne l'ammontare applicando, senza abbattimenti,  le  tariffe
forensi, con la conseguenza che l'Erario incassera'  dal  soccombente
l'intera somma liquidata dal giudice, ma ne riversera'  al  difensore
della parte ammessa al beneficio solo la meta', trattenendo il resto,
fatto che costituisce una vera e propria entrata tributaria; 
    che, non essendo  quest'ultima  calcolata  in  base  ad  aliquote
previste  per  legge  ne'  rapportata  al  reddito   imponibile   del
professionista e prescindendo il suo ammontare da ogni considerazione
in  ordine   alla   capacita'   contributiva   di   quest'ultimo   o,
eventualmente, della parte abbiente  soccombente,  la  norma  che  la
dispone e' in contrasto con l'art. 53 della Costituzione; 
    che in  ciascuno  degli  incidenti  di  costituzionalita'  si  e'
costituito, con comparse di identico  contenuto,  il  ricorrente  nei
giudizi a quibus, contestando in linea di principio la ammissibilita'
della questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  130  del
d.P.R. n. 115 del 2002 in quanto tale norma deve intendersi  abrogata
per effetto della  entrata  in  vigore  dell'art.  2,  comma  2,  del
decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con  modificazioni,  nella
legge n. 248 del 2006; 
    che, se tale tesi non  fosse  condivisa  dalla  Corte,  la  parte
privata si associa alla richiesta di dichiarazione di  illegittimita'
costituzionale; 
    che e' intervenuto nel giudizio,  rappresentato  e  difeso  dalla
Avvocatura generale dello Stato,  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri concludendo per la infondatezza della questione; 
    che la difesa pubblica ricorda, infatti, come  la  giurisprudenza
della Corte abbia gia' escluso la illegittimita' costituzionale della
disposizione censurata, osservando che: a) la garanzia del diritto di
difesa non esclude che il legislatore lo moduli sulla base di  scelte
discrezionali non irragionevoli;  b)  la  differente  disciplina  del
processo  penale  e  di   quello   civile   e'   giustificata   dalla
incomparabilita' dei due modelli processuali; c) la diversita'  degli
interessi  in  giuoco  nel  processo  penale  ed  in  quello   civile
giustifica la diversa disciplina  della  liquidazione  degli  onorari
spettanti agli avvocati  che  si  siano  impegnati  in  essi;  d)  la
circostanza che il difensore del non abbiente nel processo civile sia
tenuto a prestare la propria  opera  per  un  compenso  inferiore  ai
minimi  tariffari,  a  prescindere  dall'avvenuta  abrogazione  della
inderogabilita' di questi, non e' fonte  di  illegittimita'  trovando
fondamento in una norma di legge; 
    che l'affermata menomazione del diritto di difesa della parte non
abbiente e la paventata frustrazione  del  diritto  di  accesso  alla
giustizia in condizione di parita' delle armi, presuppongono  che  il
difensore di questa, in ragione della minore prospettiva di guadagno,
offra una prestazione professionale non adeguata; 
    che tale dato non puo' essere sostenuto in via di principio  come
effetto della norma censurata, rilevando, qualora si verificasse  nel
singolo caso, sul piano della deontologia forense; 
    che, in assenza di valide ragioni per discostarsene, l'Avvocatura
chiede che siano confermate le precedenti decisioni della Corte; 
    che la difesa privata ha depositato, peraltro tardivamente, ampie
memorie illustrative a conferma delle gia' rassegnate conclusioni. 
    Considerato che, con quattro ordinanze di identico contenuto,  il
Tribunale ordinario di Roma ha  sollevato  questione  incidentale  di
legittimita'  costituzionale  dell'articolo  130  del   decreto   del
Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia), nella parte in cui prevede che, in caso di ammissione  al
beneficio della difesa a  spese  dello  Stato  del  non  abbiente  in
controversie in materia civile, il giudice, allorche'  provvede  alla
liquidazione dei compensi spettanti al difensore, deve  tenere  conto
che questi «sono ridotti della meta'»; 
    che, secondo  l'avviso  del  rimettente,  detta  disposizione  si
porrebbe in contrasto con gli artt. artt.  3,  24,  secondo  e  terzo
comma, 53, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione; 
    che, in particolare, il principio di eguaglianza sarebbe  violato
in ragione del deteriore  criterio  di  determinazione  dei  compensi
spettanti ai professionisti che difendono i soggetti non abbienti,  e
pertanto ammessi al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, nei
giudizi  civili  (recte:  in   considerazione   di   quanto   dispone
l'intitolazione del Titolo IV del d.P.R.  n.  115  del  2002  al  cui
interno  e'  inserito  il  censurato  art.  130:  nonche'  in  quelli
amministrativi, tributari  e  contabili),  rispetto  a  quello,  piu'
vantaggioso, applicabile ai professionisti che difendono  i  soggetti
non abbienti nei giudizi penali; 
    che,  secondo  il  rimettente,  la  disparita'  di   trattamento,
sarebbe, altresi', ravvisabile,  anche  fra  difensori  operanti  nel
comune  ambito  del  processo  civile  (recte:  nonche'   in   quelli
amministrativi, tributari  e  contabili),  nel  diverso  criterio  di
determinazione ope iudicis dei compensi in ragione della  circostanza
che la difesa sia resa in  favore  di  soggetto  abbiente  ovvero  di
soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato; 
    che,  ancora,  sarebbe  violato  il  principio  di   eguaglianza,
poiche', data la  minore  rimunerativita'  delle  difese  svolte  nei
giudizi civili (recte: nonche' in quelli amministrativi, tributari  e
contabili) in favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese  delle
Stato, questi ultimi si troverebbero a  poter  scegliere  il  proprio
patrono attingendo da un bacino di professionisti piu'  ristretto  di
quello da cui possono attingere gli altri litiganti; 
    che, secondo il  rimettente,  sarebbero,  in  tal  modo,  violati
anche: a) l'art. 24,  secondo  e  terzo  comma,  della  Costituzione,
stante la derivante violazione del diritto di difesa; b) l'art.  111,
primo comma, della Costituzione, data la violazione del principio  di
"parita' delle armi" fra le parti nel processo; c) l'art. 117,  primo
comma, della Costituzione, in  relazione  all'art.  6,  primo  comma,
della Convenzione  europea  dei  diritti  umani,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto, in  assenza  di
uno scopo legittimo, sarebbe limitata, per  il  soggetto  ammesso  al
patrocinio a  spese  dello  Stato,  l'effettivita'  del  "diritto  di
accesso al tribunale"; 
    che,  prosegue  il  rimettente,  la  disposizione  in   esame   -
realizzando un prelievo tributario,  nella  misura  della  meta'  dei
compensi liquidabili  al  professionista  che  abbia  difeso  il  non
abbiente   nel   giudizio   civile   (recte:   nonche'   in    quelli
amministrativi, tributari e contabili), a carico o del professionista
medesimo ovvero, in caso di condanna del contraddittore  di  chi  sia
stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese  dello  Stato  alla
rifusione delle spese di lite, di quest'ultimo soggetto -  violerebbe
l'art. 53 della Costituzione prescindendo il predetto prelievo sia da
aliquote  predeterminate  che  dalla  "capacita'  contributiva"   dei
soggetti incisi; 
    che i giudizi scaturiti dalla quattro  ordinanze  di  rimessione,
data la identita' della questione da essi sollevata,  debbono  essere
riuniti per essere definiti con un'unica decisione; 
    che, preliminarmente, deve  essere  valutata,  sotto  il  profilo
della perdurante rilevanza della sollevata questione di  legittimita'
costituzionale, la incidenza sul presente giudizio della  entrata  in
vigore del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni  urgenti
per  la  concorrenza,  lo  sviluppo   delle   infrastrutture   e   la
competitivita'), convertito, con modificazioni, nella legge 24  marzo
2012, n. 27, che, all'art. 9, prevede, rispettivamente al comma 1, la
abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema
ordinistico (fra le quali vi e' la professione forense), e, al  comma
5,  che  «sono  abrogate  le  disposizioni  vigenti   che,   per   la
determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe
di cui al comma 1»; 
    che,  tuttavia,  precisa  il  comma  3  del   medesimo   art.   9
(significativamente  inserito  in  sede  di  conversione   in   legge
dell'originario decreto), «le tariffe  vigenti  (...)  continuano  ad
applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle  spese  giudiziali,
fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali  di  cui
al comma 2» (vale a dire dei provvedimenti con  cui  sono  fissati  i
parametri di riferimento sulla base dei quali deve  essere  liquidato
il compenso del professionista nel caso di determinazione da parte di
un organo giurisdizionale); 
    che, per cio' che concerne le professioni vigilate dal  Ministero
della giustizia (fra  le  quali  vi  e'  quella  forense),  e'  stato
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  195  del  22
agosto 2012, per il fine sopra indicato, il decreto  ministeriale  20
luglio 2012,  n.  140  (Regolamento  recante  la  determinazione  dei
parametri per la liquidazione da parte di un  organo  giurisdizionale
dei compensi per le professioni regolarmente vigilate  dal  Ministero
della Giustizia ai sensi dell'articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio
2012, n. 1, convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2012,
n. 27), il quale, per quanto qui interessa, prevede, all'art. 41, che
le disposizioni in esso  contenute  si  applicano  alle  liquidazioni
successive alla sua entrata in vigore, fissata, dal  successivo  art.
42, nel giorno successivo a quello di  pubblicazione  nella  Gazzetta
Ufficiale; 
    che, pertanto, siffatto ius novum non interferisce sui giudizi  a
quibus, concernenti liquidazioni di compensi gia'  da  tempo  operate
sulla base della scrutinanda previgente normativa, sicche', quanto al
profilo ora esaminato, la questione  prospettata  dal  rimettente  e'
tuttora rilevante; 
    che, sempre  in  limine  litis,  va  esaminata  la  eccezione  di
inammissibilita' della questione -  dedotta  dalla  costituita  parte
privata nei giudizi a quibus e ribadita  di  fronte  a  questa  Corte
anche in sede di discussione orale -  argomentata  sulla  base  della
asserita implicita abrogazione della disposizione censurata a seguito
della entrata in vigore dell'art. 2, comma  2,  del  decreto-legge  4
luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il  contenimento  e  la  razionalizzazione  della  spese
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, nella  legge  4
agosto 2006, n. 248, secondo  il  quale  «il  giudice  provvede  alla
liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in
caso  di  (...)  gratuito  patrocinio,  sulla  base   della   tariffa
professionale»; 
    che siffatta eccezione  va  disattesa  in  quanto  e'  del  tutto
plausibile l'interpretazione fornita  dal  Tribunale  di  Roma  nelle
ordinanze di rimessione, secondo  cui  l'indicazione  della  "tariffa
professionale" quale base di calcolo per la  liquidazione  giudiziale
dei compensi spettanti al difensore di chi sia ammesso al  patrocinio
a spese dello Stato - tale e', infatti, chiaramente l'istituto che il
legislatore intende richiamare allorche' si  riferisce  al  "gratuito
patrocinio"- non impedisce che  tale  indicazione  sia  integrata  da
altre equiordinate disposizioni normative  che,  senza  contraddirlo,
modulino, in funzione di specifiche esigenze,  il  predetto  criterio
generale; 
    che la questione  e'  manifestamente  infondata,  sotto  tutti  i
profili dedotti dal rimettente; 
    che, con riferimento  alla  asserita  disparita'  di  trattamento
esistente fra avvocati i quali, in  difesa  di  soggetti  ammessi  al
patrocinio a spese dello  Stato,  esercitino  il  loro  ministero  di
fronte agli organi della giustizia penale, ed avvocati  che,  invece,
operino, in difesa di soggetti aventi la medesima caratteristica,  di
fronte  agli  organi  della  giurisdizione  civile,   amministrativa,
contabile  o  tributaria,  questa  Corte  osserva  che  la   relativa
questione  gia'  e'  stata  esaminata  e  definita  nel  senso  della
manifesta infondatezza, sulla base del rilievo che, per un verso, «la
intrinseca diversita' dei modelli del processo  civile  e  di  quello
penale non consente alcuna comparazione» fra le  discipline  ad  essi
applicabili (ordinanza. n. 350 del 2005) e che, per altro  verso,  la
«diversita' di disciplina fra la liquidazione  degli  onorari  e  dei
compensi nel processo civile e nel processo penale  trova  fondamento
nella diversita' delle situazioni comparate» (ordinanza  n.  201  del
2006 che, a sua volta, riprende l'ordinanza n. 350 del 2005), laddove
e' di tutta evidenza  che  nel  rimarcarsi  la  diversita'  fra  «gli
interessi civili» e le «situazioni tutelate che sorgono  per  effetto
dell'esercizio della azione penale» non si vuole affatto alludere  ad
una gerarchia di valori fra gli uni e  le  altre,  ma  esclusivamente
alla indubbia distinzione fenomenica esistente fra di loro,  tale  da
escludere una valida comparazione fra istituti che concernano ora gli
uni ora le altre; 
    che, riguardo alla disparita' di trattamento  fra  avvocati  che,
parimenti operando di fronte agli organi della giurisdizione  civile,
amministrativa,  tributaria  o  contabile,  vedono  i  loro  compensi
ridotti della meta' nell'ipotesi in cui  la  liquidazione  giudiziale
concerna difese apprestate  nei  confronti  di  soggetti  ammessi  al
patrocinio a spese dello  Stato,  questa  Corte  ritiene  di  doverla
escludere; 
    che, neppure in questo caso, la  diversa  disciplina  applicabile
alle distinte fattispecie, una delle quali, quella  relativa  ai  non
abbienti,  e'  connotata  da  «peculiari   connotati   pubblicistici»
(ordinanza n. 387 del 2004)  -  che  hanno  indotto  questa  Corte  a
ritenere (sentenza n. 114 del 1964), in  vigenza  di  una  precedente
formulazione dell'art. 128, secondo comma, del  codice  di  procedura
penale, che prevedeva, in  materia  penale,  l'obbligo  della  difesa
gratuita  dei   non   abbienti,   non   fondata   la   questione   di
costituzionalita' allora posta con riferimento agli  artt.  24  e  35
Cost. in quanto si trattava di una prestazione obbligatoria, radicata
nell'art.  23  Cost.,  che  aveva  «la  sua  ragione   nell'interesse
pubblico» - non riscontrabili nell'altra, esula rispetto  al  margine
di ampia discrezionalita' di cui il legislatore gode nel  dettare  le
norme processuali (da ultimo ordinanza  n.  26  del  2012),  nel  cui
novero sono comprese anche quelle in materia di  spese  di  giustizia
(ordinanza n. 446 del 2007); 
    che, sempre con riferimento alla  violazione  dell'art.  3  della
Costituzione - questa volta sospettata nella esistenza  di  una  piu'
ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile,
amministrativa,   tributaria   o   contabile,    data    la    minore
rimunerativita' di tale attivita', i soggetti ammessi al patrocinio a
spese dello Stato, rispetto a quella cui puo' attingere  il  soggetto
ordinario - questa Corte  ritiene,  per  un  verso,  che  la  censura
sollevata dal  rimettente  si  risolva  palesemente  nella  doglianza
avverso un - peraltro solo postulato -  inconveniente  di  fatto  non
direttamente  riconducibile  alla  applicazione  della   disposizione
censurata ma, semmai, cagionato  da  scelte  professionali  del  ceto
forense; 
    che, per altro verso, piu' volte,  questa  Corte  ha  escluso  la
illegittimita' costituzionale di disposizioni normative che impongono
dei  limiti  nella  scelta  del  difensore  -   ora   attraverso   la
individuazione di speciali elenchi da cui attingere (ordinanza n. 387
del 2004; ordinanza n. 374 del 2003)  ora  determinando  al  medesimo
scopo, ambiti territoriali di riferimento (sentenza n. 394 del  2000)
- ogniqualvolta ne sia comunque assicurata una ampia possibilita'  di
scelta, circostanza quest'ultima senza dubbio riscontrabile nel  caso
di specie, tenuto conto che  lo  stesso  rimettente  indica,  per  il
circondario di sua  competenza,  in  alcune  migliaia  il  numero  di
professionisti abilitati al patrocinio a spese dello Stato; 
    che  l'insussistenza  dei  predetti  vizi  di   costituzionalita'
esclude anche la  fondatezza  delle  censure  aventi  ad  oggetto  la
violazione degli artt. 24, secondo e terzo comma, 111, primo comma, e
117, primo comma, della Costituzione, data la loro derivazione  dalla
affermata violazione del principio di uguaglianza; 
    che, infine, anche per quanto concerne l'asserito  contrasto  fra
la  richiamata   disposizione   legislativa   e   l'art.   53   della
Costituzione,  la  questione  di   legittimita'   costituzionale   e'
manifestamente infondata; 
    che, per un verso, deve essere escluso - diversamente da  quanto,
invece, sostenuto dal rimettente - che, ove sia pronunziata  condanna
alle spese di  giudizio  a  carico  della  controparte  del  soggetto
ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi  sia  una
iniusta locupletatio dell'Erario, atteso che, anche recentemente,  la
giurisprudenza di legittimita' ha puntualizzato che la somma che,  ai
sensi dell'art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello
Stato deve coincidere con quella che lo Stato  liquida  al  difensore
del soggetto non abbiente (Corte di cassazione,  Sez.  VI  penale,  8
novembre 2011, n. 46537); 
    che, per altro verso,  nel  meccanismo  attraverso  il  quale  si
procede alla liquidazione dei compensi  spettanti  al  difensore  che
abbia difeso in giudizi diversi da quelli penali la parte ammessa  al
patrocinio a spese dello Stato, e che comporta  l'abbattimento  nella
misura della meta'  della  somma  risultante  in  base  alle  tariffe
professionali, non e'  dato  riscontrare  alcuna  forma  di  prelievo
tributario, trattandosi semplicemente di una,  parzialmente  diversa,
modalita' di determinazione dei compensi medesimi - giustificata, per
come dianzi dimostrato, dalla diversita', rispetto a  quelli  penali,
dei procedimenti giurisdizionali cui si riferisce - tale da  condurre
ad un risultato economicamente inferiore rispetto  a  quello  cui  si
sarebbe giunti applicando il criterio ordinario.