ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'articolo  275,
comma  3,  del  codice   di   procedura   penale,   come   modificato
dall'articolo 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009,  n.  11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto  alla
violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori),  convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n.  38,  promosso  dal
Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di  Bologna   nel
procedimento penale a carico di C.A.  con  ordinanza  del  21  giugno
2012, iscritta al n. 253 del registro  ordinanze  2012  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  45,  prima   serie
speciale, dell'anno 2012. 
    Udito nella camera di consiglio del 19  giugno  2013  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con  ordinanza  del  21  giugno  2012,  il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale di Bologna  ha  sollevato,  in  riferimento
agli articoli  3,  13,  primo  comma,  e  27,  secondo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
275, comma  3,  del  codice  di  procedura  penale,  come  modificato
dall'articolo 2 del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11  (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza
sessuale, nonche' in  tema  di  atti  persecutori),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in  cui
- nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza
in ordine al delitto di cui all'articolo 630 del  codice  penale,  e'
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -
non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano  acquisiti  elementi
specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti  che  le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Il giudice a quo premette di  dover  decidere  su  un'istanza  di
sostituzione della misura della custodia  cautelare  in  carcere  con
quella degli arresti domiciliari, proposta da una  persona  imputata,
in concorso con altri, del delitto di sequestro di persona a scopo di
estorsione (art. 630 cod. pen.) e per esso condannata in primo grado,
nelle forme del giudizio  abbreviato,  alla  pena  di  otto  anni  di
reclusione, previa concessione dell'attenuante  del  fatto  di  lieve
entita', di cui all'art. 311 cod. pen. 
    Dalle risultanze processuali sarebbe emerso che  la  vittima  del
sequestro era stata prelevata con la forza nei pressi dell'abitazione
da  quattro  persone,   che   l'avevano   costretta   a   salire   su
un'autovettura. I sequestratori  avevano  quindi  richiesto,  tramite
telefono cellulare, alla compagna del sequestrato,  quale  condizione
per la liberazione, la restituzione  della  somma  di  tremila  euro,
pagata come corrispettivo per la cessione di  sostanza  stupefacente,
rivelatasi poi essere solo «acqua e sapone», in precedenza effettuata
dalla stessa compagna dell'offeso. La privazione della  liberta'  era
durata, peraltro, solo poche ore, giacche' il sequestrato  era  stato
prontamente liberato grazie all'intervento delle  forze  dell'ordine,
che  avevano  proceduto  all'arresto   in   flagranza   dei   quattro
sequestratori. 
    Nel convalidare l'arresto, il Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Pistoia aveva applicato  la  custodia  cautelare  in
carcere solo a due degli indagati, ritenendo adeguata la misura degli
arresti domiciliari per gli altri, tra cui l'attuale istante,  stante
il ruolo minore svolto nella vicenda, e declinando al tempo stesso la
competenza a favore del  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale di Bologna. Su richiesta del pubblico ministero  bolognese,
quest'ultimo Giudice aveva quindi rinnovato, ai  sensi  dell'art.  27
cod.  proc.  pen.,  le  misure   cautelari   disposte   dal   giudice
dichiaratosi incompetente, applicando, peraltro, a tutti gli indagati
la custodia in carcere, sul rilievo che il  sequestro  di  persona  a
scopo di estorsione rientra tra i reati per i quali l'art. 275, comma
3, cod. proc. pen. prevede che, in presenza  di  esigenze  cautelari,
debba essere necessariamente disposta la misura di massimo rigore. 
    Cio' premesso, il giudice a quo rileva che le esigenze cautelari,
pur  non  essendo  venute  meno,  potrebbero   essere   adeguatamente
fronteggiate con la misura degli arresti  domiciliari,  tenuto  conto
del ruolo «defilato» avuto  dall'istante  nell'episodio  criminoso  e
della sua condizione di incensurato. All'accoglimento dell'istanza di
sostituzione della misura in atto osterebbe,  tuttavia,  il  disposto
dell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  cosi'  come  modificato
dall'art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009,  in  forza  del  quale,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati
- tra cui quello di  sequestro  di  persona  a  scopo  di  estorsione
(evocato tramite il rinvio all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.)
- «e' applicata la custodia cautelare in  carcere,  salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari». 
    Secondo il rimettente, tale preclusione - non superabile  tramite
una interpretazione costituzionalmente orientata, stante l'univocita'
del testo normativo - si porrebbe in contrasto con gli artt.  3,  13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost. 
    Al riguardo, il giudice a quo rileva come la Corte costituzionale
- con la sentenza n. 265 del 2010 e plurime  decisioni  successive  -
abbia gia' dichiarato costituzionalmente illegittima, per  violazione
dei medesimi parametri, la norma censurata, nella parte  in  cui  non
consentiva  l'adozione  di  misure  cautelari   diverse   da   quella
carceraria in relazione a tutta una serie di ipotesi criminose. 
    Le medesime considerazioni poste  a  base  di  tali  decisioni  -
sinteticamente ripercorse nell'ordinanza di rimessione  -  varrebbero
anche in rapporto al delitto di  sequestro  di  persona  a  scopo  di
estorsione, che non potrebbe essere assimilato, sotto il profilo  che
interessa, ai delitti di mafia, in rapporto ai quali la Corte  -  con
l'ordinanza  n.  450  del  1995  -  ha  ritenuto  giustificabile   la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare  in
carcere. 
    L'originaria previsione dell'art. 630  cod.  pen.  e'  stata,  in
effetti, oggetto di numerose modifiche  legislative,  intese  per  lo
piu' ad inasprire  il  trattamento  sanzionatorio  della  fattispecie
criminosa a fronte dello straordinario incremento, registratosi negli
anni 1970-1980, dei  sequestri  di  persona  a  scopo  di  estorsione
realizzati  da  pericolose  organizzazioni  criminali  in  vista  del
conseguimento di ingentissimi profitti e caratterizzati da privazioni
della liberta' protratte per anni, oltre che da episodi  di  efferata
crudelta' nei confronti delle vittime. Alla luce  di  un  consolidato
orientamento della  giurisprudenza  di  legittimita',  rientrerebbero
tuttavia nel  campo  applicativo  della  norma  incriminatrice  anche
ipotesi diverse e assai meno gravi di quelle ora indicate,  quale  la
privazione della liberta' di una persona finalizzata a  conseguire  -
come nel caso oggetto del giudizio a quo - il pagamento di un  debito
derivante da un pregresso rapporto di natura illecita. 
    Proprio in base a tale considerazione, la Corte costituzionale ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 630 cod. pen., nella
parte in cui non prevede una circostanza attenuante per i  fatti  «di
lieve entita'», corrispondente a  quella  prefigurata  dall'art.  311
cod. pen. in rapporto al delitto - strutturalmente  omologo,  ma  che
aggredisce interessi di rango piu' elevato - del sequestro di persona
a scopo di terrorismo o di eversione. La stessa Corte  costituzionale
avrebbe, dunque, gia' riconosciuto che possono esservi  sequestri  di
persona a scopo di estorsione «di lieve  entita'»  per  le  modalita'
esecutive del fatto e il danno arrecato alla vittima. In tali casi  -
nei  quali  l'azione  criminosa  puo'  essere  frutto  di  iniziative
contingenti, che non implicano  un'organizzazione  di  persone  e  di
mezzi e  che  recano  solo  una  limitata  offesa  ai  beni  protetti
(liberta' personale e patrimonio) - la sottrazione al  giudice  della
possibilita'  di  applicare  misure  cautelari  diverse   da   quella
carceraria risulterebbe priva di base razionale. 
    Per questo verso, la  norma  censurata  violerebbe,  dunque,  sia
l'art. 3 Cost., tenuto conto  anche  del  fatto  che  la  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria non e'  prevista
in rapporto a reati di maggior disvalore e  piu'  severamente  puniti
(quali la strage o l'omicidio  pluriaggravato);  sia  gli  artt.  13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost., in quanto detta  presunzione
assoluta non risulterebbe basata sulla specificita' della fattispecie
penale di riferimento e impedirebbe al giudice di tenere conto  delle
particolarita' del caso concreto, in contrasto con il  principio  del
«minimo sacrificio necessario». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di  Bologna
dubita della legittimita' costituzionale dell'articolo 275, comma  3,
del codice di procedura penale, come modificato dall'articolo  2  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente  di  applicare
misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in  carcere
alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in  ordine  al
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art.  630  del
codice penale). 
    Il giudice a quo reputa estensibili ai  procedimenti  relativi  a
detto reato le considerazioni che hanno gia' indotto questa  Corte  a
dichiarare  costituzionalmente  illegittima  la  norma  censurata  in
rapporto a numerose altre figure criminose. Al pari di queste ultime,
neppure il delitto previsto dall'art. 630 cod. pen.  potrebbe  essere
assimilato ai delitti di mafia, in relazione ai  quali  la  Corte  ha
ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza  della
sola custodia cautelare  in  carcere,  stabilita  dalla  disposizione
sottoposta  a   scrutinio.   Alla   luce   dei   correnti   indirizzi
giurisprudenziali, infatti, il sequestro di persona a scopo estorsivo
puo' essere integrato da fattispecie concrete di disvalore fortemente
differenziato, tanto sul piano delle  modalita'  della  condotta  che
dell'offesa  agli  interessi  protetti,  le  quali  potrebbero   bene
proporre anche esigenze cautelari suscettibili di essere  soddisfatte
con misure diverse dalla custodia carceraria. 
    La  presunzione  censurata  si  porrebbe,  di   conseguenza,   in
contrasto - conformemente a quanto gia' deciso dalla Corte  -  con  i
principi di eguaglianza e di  ragionevolezza  (art.  3  Cost.)  e  di
inviolabilita' della responsabilita' penale (art.  13,  primo  comma,
Cost.), nonche' con la presunzione  di  non  colpevolezza  (art.  27,
secondo comma, Cost.). 
    2.- La questione e' fondata. 
    Come ricorda il giudice a quo, la norma denunciata e' gia'  stata
oggetto di plurime dichiarazioni di illegittimita' costituzionale  di
questa Corte, nella parte in cui prefigura una presunzione assoluta -
anziche' soltanto relativa  -  di  adeguatezza  della  sola  custodia
cautelare in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti
della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per una serie
di delitti. Cio' e' avvenuto, in particolare, con riguardo ai delitti
a sfondo sessuale di cui agli artt. 600-bis, primo comma,  609-bis  e
609-quater  cod.  pen.  (sentenza  n.  265  del  2010);  all'omicidio
volontario (sentenza n. 164 del 2011); alla  fattispecie  associativa
di cui all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre  1990,  n.  309,  recante  il
«Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e sostanze psicotrope, cura e riabilitazione dei  relativi  stati  di
tossicodipendenza» (sentenza n. 231 del 2011);  all'associazione  per
delinquere finalizzata alla commissione dei  delitti  previsti  dagli
artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del 2012). 
    Ad analoga declaratoria di illegittimita' costituzionale la Corte
e' pervenuta, altresi', successivamente all'ordinanza di  rimessione,
con riguardo ai procedimenti per i delitti commessi avvalendosi delle
condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen., ovvero  al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dal   medesimo
articolo (sentenza n. 57 del 2013). 
    E' stata dichiarata, inoltre, costituzionalmente illegittima, nei
medesimi termini, l'omologa presunzione  assoluta  sancita  dall'art.
12, comma 4-bis, del decreto  legislativo  25  luglio  1998,  n.  286
(Testo   unico   delle   disposizioni   concernenti   la   disciplina
dell'immigrazione e norme  sulla  condizione  dello  straniero),  nei
confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti di
favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, previsti dal  comma  3
del medesimo art. 12 (sentenza n. 331 del 2011). 
    3.- Nelle decisioni ora citate, questa Corte  ha  rilevato  come,
alla luce dei principi costituzionali di riferimento -  segnatamente,
il principio di inviolabilita' della  liberta'  personale  (art.  13,
primo comma, Cost.) e la presunzione di non  colpevolezza  (art.  27,
secondo comma, Cost.) - la disciplina delle  misure  cautelari  debba
essere ispirata al criterio del «minore  sacrificio  necessario»:  la
compressione della liberta' personale va contenuta,  cioe',  entro  i
limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze  cautelari  del
caso  concreto.  Cio'  impegna  il  legislatore,  da  una  parte,   a
strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralita'
graduata», predisponendo una gamma di misure  alternative,  connotate
da  differenti  gradi  di   incidenza   sulla   liberta'   personale;
dall'altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti»  del
trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle
singole situazioni concrete.  Canoni  ai  quali  non  contraddice  la
disciplina generale del codice  di  procedura  penale,  basata  sulla
tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravita' crescente (artt.
281-285)  e   sulla   correlata   enunciazione   del   principio   di
«adeguatezza» (art. 274, comma 1), alla luce del quale il giudice  e'
tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente
idonee a  soddisfare  le  esigenze  cautelari  ravvisabili  nel  caso
concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura "massima" (la
custodia in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata
(art. 275, comma 3, primo periodo). 
    4.- Discostandosi in modo marcato da tale  regime,  il  novellato
art. 275, comma 3, cod. proc. pen. sottrae, per converso, al  giudice
ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre la misura maggiormente
rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorche'  la  gravita'
indiziaria attenga  a  determinate  fattispecie  di  reato.  Siffatta
soluzione normativa si traduce in una valutazione legale di idoneita'
della sola custodia carceraria a fronteggiare le  esigenze  cautelari
(presunte, a loro volta, iuris tantum). 
    A tale proposito, questa Corte ha,  peraltro,  ribadito  che  «le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto  fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati   di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque   accidit.   In   particolare,   l'irragionevolezza   della
presunzione assoluta si coglie tutte le volte in  cui  sia  "agevole"
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta alla base della presunzione stessa» (sentenze n. 331, n. 231  e
n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). 
    L'evenienza  ora  indicata  era  puntualmente  riscontrabile   in
rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte  in  cui
risultava  riferita  ai  delitti  dianzi  elencati.  A  dette  figure
delittuose non poteva, infatti, estendersi  la  ratio  giustificativa
del regime derogatorio,  precedentemente  ravvisata  dalla  Corte  in
rapporto ai delitti di mafia (i soli considerati dall'art. 275, comma
3, cod. proc. pen. prima della novella del 2009)  (ordinanza  n.  450
del 1995): ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle
sue  connotazioni  criminologiche  -  legate  alla  circostanza   che
l'appartenenza ad associazioni di tipo  mafioso  implica  un'adesione
permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel
territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di   collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella
generalita' dei casi e secondo una regola di esperienza  generalmente
condivisa, una esigenza  cautelare  alla  cui  soddisfazione  sarebbe
adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure  "minori"
sufficienti  a  troncare  i  rapporti  tra  l'indiziato  e   l'ambito
delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). 
    Connotazioni analoghe non erano riscontrabili  in  rapporto  alle
figure criminose sopra elencate. Pur nella loro indubbia  gravita'  e
riprovevolezza   -   destinata   a   pesare   opportunamente    nella
determinazione  della  pena  inflitta  all'autore,  quanto   ne   sia
riconosciuta in via definitiva la colpevolezza - i  suddetti  delitti
abbracciano, infatti, ipotesi concrete  marcatamente  eterogenee  tra
loro e  suscettibili  soprattutto  di  proporre,  in  un  numero  non
marginale di casi, esigenze  cautelari  adeguatamente  fronteggiabili
con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. 
    Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l'art. 275, comma  3,  cod.
proc.  pen.  violasse,  in  parte  qua,  sia  l'art.  3  Cost.,   per
l'ingiustificata parificazione dei  procedimenti  relativi  ai  reati
considerati a quelli concernenti i  delitti  di  mafia,  nonche'  per
l'irrazionale assoggettamento a un medesimo  regime  cautelare  delle
diverse  ipotesi  concrete  riconducibili   ai   relativi   paradigmi
punitivi;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale   referente
fondamentale del regime ordinario delle  misure  cautelari  privative
della liberta' personale; sia,  infine,  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost., per essere  attribuiti  alla  coercizione  processuale  tratti
funzionali tipici della pena. 
    5.- Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche  in  rapporto
al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, al quale il
regime cautelare speciale e' esteso  dal  secondo  periodo  dell'art.
275, comma 3, cod. proc. pen.  tramite  il  richiamo  "mediato"  alla
norma processuale di cui all'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. 
    Questa Corte ha avuto gia' modo di rilevare, ad altro fine,  come
l'attuale   assetto   sanzionatorio   del   delitto   considerato   -
caratterizzato da  una  risposta  punitiva  edittale  di  eccezionale
asprezza (reclusione da venticinque a trenta anni, quanto all'ipotesi
semplice)  -  rappresenti  l'epilogo  di  una  serie  di   interventi
normativi, risalenti agli anni 1974-1980 e  aventi  i  tratti  tipici
della legislazione "emergenziale". Detti interventi  costituirono  la
risposta normativa  al  rilevante  allarme  sociale  generato  «dallo
straordinario, inquietante incremento, in quel periodo, dei sequestri
di persona a scopo estorsivo, operati  da  pericolose  organizzazioni
criminali, con efferate modalita'  esecutive  (privazione  pressoche'
totale della liberta' di movimento della vittima, sequestri protratti
per lunghissimi tempi, invio di parti anatomiche del  sequestrato  ai
familiari  come  mezzo  di  pressione)  e   richieste   di   riscatti
elevatissimi». Come attesta l'esperienza  giudiziaria,  tuttavia,  la
descrizione del fatto incriminato dall'art. 630 cod. pen.  -  rimasta
invariata rispetto alle origini («chiunque sequestra una persona allo
scopo di conseguire, per se' o per altri, un ingiusto  profitto  come
prezzo della liberazione») -  si  presta  «a  qualificare  penalmente
anche episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico  e  del
tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira  dal  legislatore
dell'emergenza»: episodi «che - a fronte della marcata flessione  dei
sequestri di persona a scopo estorsivo perpetrati "professionalmente"
dalla criminalita' organizzata, registratasi a partire dalla  seconda
meta' degli anni '80 [...] - hanno finito, di fatto, per assumere  un
peso di tutto rilievo, se non pure preponderante, nella piu'  recente
casistica dei sequestri estorsivi» (sentenza n. 68 del 2012). 
    Rientra in tale ambito, tra le altre,  l'ipotesi  -  oggetto  del
giudizio a quo - del sequestro  di  persona  effettuato  al  fine  di
ottenere una prestazione  patrimoniale,  pretesa  sulla  base  di  un
pregresso rapporto di natura illecita con la vittima: ipotesi  che  -
secondo  un  indirizzo  ormai  costante   della   giurisprudenza   di
legittimita', dopo l'intervento chiarificatore  delle  Sezioni  unite
della Corte di cassazione (sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004,
n. 962) - e' idonea ad integrare il delitto in questione,  ricorrendo
il requisito dell'«ingiustizia» del profitto perseguito  dall'agente,
dato che la pretesa che egli mira a soddisfare e' sfornita di  tutela
legale, in quanto avente titolo in un negozio con causa illecita. 
    In  queste  e  consimili  evenienze,  «il  fatto  criminoso  puo'
assumere, tuttavia - e non di rado assume - connotati ben diversi  da
quelli delle manifestazioni criminose che il legislatore  degli  anni
dal 1974 al 1980 intendeva contrastare: cio', sia per la piu' o  meno
marcata "occasionalita'" dell'iniziativa delittuosa (la quale  spesso
prescinde da una significativa organizzazione di uomini e di  mezzi);
sia per l'entita' dell'offesa recata alla vittima,  quanto  a  tempi,
luoghi e modalita'  di  privazione  della  liberta'  personale;  sia,
infine, per  l'ammontare  delle  somme  pretese  quale  prezzo  della
liberazione» (sentenza n. 68 del 2012). 
    Proprio sulla scorta  di  tali  rilievi,  la  Corte  ha,  quindi,
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 630 cod. pen., nella
parte in cui - diversamente da quanto stabilito  dall'art.  311  cod.
pen. in rapporto al delitto, strutturalmente omologo, di sequestro di
persona  a  scopo  terroristico  o  eversivo  -  non  prevedeva   una
diminuzione della pena «quando per la natura, la specie, i mezzi,  le
modalita'  o  circostanze  dell'azione,  ovvero  per  la  particolare
tenuita' del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entita'»
(sentenza n. 68 del 2012). 
    6.- Le considerazioni ora ricordate, svolte in sede di  scrutinio
del trattamento sanzionatorio della  fattispecie  criminosa,  valgono
anche ad escludere che la presunzione assoluta di  adeguatezza  della
sola custodia carceraria, sancita in  rapporto  a  detta  fattispecie
dalla norma denunciata, possa ritenersi sorretta da una congrua "base
statistica". Pur nella particolare gravita' che il fatto assume nella
considerazione legislativa, anche nel caso in esame detta presunzione
non puo' considerarsi, infatti, rispondente a un dato  di  esperienza
generalizzato,  ricollegabile  alla   «struttura   stessa»   e   alle
«connotazioni criminologiche» della figura criminosa. 
    Dal paradigma legale  tipico  esula,  in  specie,  il  necessario
collegamento dell'agente con una  struttura  associativa  permanente.
Alla luce della descrizione del fatto  incriminato,  non  e'  neppure
escluso che questo possa costituire frutto  di  iniziativa  meramente
individuale. Ma quando pure - come avviene nella generalita' dei casi
- il sequestro risulti ascrivibile ad una pluralita' di persone, esso
puo'  comunque  mantenere  un  carattere   puramente   episodico   od
occasionale, basarsi su una organizzazione solo rudimentale di  mezzi
e recare  una  limitata  offesa  agli  interessi  protetti  (liberta'
personale e patrimonio): evenienze che - stando a quanto si riferisce
nell'ordinanza di rimessione - si sarebbero,  del  resto,  verificate
nel caso oggetto del giudizio a quo. 
    In sostanza, dunque, la fattispecie criminosa cui la  presunzione
e' riferita puo' assumere le piu'  disparate  connotazioni  concrete:
dal fatto commesso "professionalmente" e con  modalita'  efferate  da
organizzazioni criminali rigidamente strutturate e dotate di  ingenti
dotazioni di mezzi e di uomini; all'illecito realizzato una tantum da
singoli o da gruppi  di  individui,  quale  reazione  ad  una  altrui
condotta apprezzata come scorretta (nella specie, una  patita  truffa
"in  re  illicita")  e  al  solo  fine  di  eliderne  le  conseguenze
patrimoniali (nella specie, recuperare la modesta somma  versata  dai
sequestratori al truffatore). Dal che deve conclusivamente  inferirsi
che in un numero non  trascurabile  di  casi  le  esigenze  cautelari
potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive della
custodia carceraria. 
    7.- Come gia' precisato da  questa  Corte,  cio'  che  vulnera  i
valori costituzionali non  e'  la  presunzione  in  se',  ma  il  suo
carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione
di rilievo  al  principio  del  «minore  sacrificio  necessario».  Di
contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza
della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del
procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del  fenomeno
criminoso considerato, ma comunque superabile da  elementi  di  segno
contrario - non eccede i  limiti  di  compatibilita'  costituzionale,
rimanendo per tal verso non censurabile  l'apprezzamento  legislativo
circa la ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari  nel  grado
piu' intenso (sentenze n. 57 del 2013, n. 110 del 2012,  n.  331,  n.
231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010). 
    L'art.  275,  comma  3,  secondo  periodo,  cod.  proc.  pen.  va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella  parte  in
cui  -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi   indizi   di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all'articolo 630 del  codice
penale, e' applicata la custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che
siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure.