ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  35,  comma
3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni  urgenti  in
materia  di  semplificazione  e   di   sviluppo),   convertito,   con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4  aprile  2012,  n.
35, promosso dal Tribunale amministrativo regionale  del  Lazio,  nel
procedimento vertente tra Esposito Andrea Pietro e il Ministero della
giustizia ed altro, con ordinanza del 22 marzo 2013, iscritta  al  n.
134 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 6 novembre  2013  il  Giudice
relatore Paolo Grossi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio  amministrativo  -  proposto  da  un
magistrato ordinario, che ha impugnato la  delibera  del  7  febbraio
2013 (con cui il Consiglio superiore della magistratura ha pubblicato
le  sedi  vacanti  ai  fini  della   procedura   di   trasferimento),
chiedendone l'annullamento della lettera a), in cui e'  stabilito  il
termine del decorso di un triennio di servizio  nel  posto  ricoperto
quale requisito di legittimazione  al  trasferimento  per  tutti  gli
aspiranti senza distinzioni - il Tribunale  amministrativo  regionale
del  Lazio  (sospeso  l'atto  impugnato,  ma  non  esaurita  la  fase
cautelare), con ordinanza emessa  il  22  marzo  2013,  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35, comma  3,  del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in  materia
di semplificazione e di  sviluppo),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35,  che  dispone
che l'art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12  (Ordinamento
giudiziario), «si interpreta nel senso che il  rispetto  del  termine
ivi previsto e' richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari». Secondo il rimettente, il censurato art. 35  si
pone in contrasto con gli artt. 3, 102  e  111,  primo  comma,  della
Costituzione, «nella parte in cui esso rende l'art. 194 del  R.d.  n.
12 del  1941  applicabile  ai  magistrati  (tra  cui  il  ricorrente)
trasferiti d'ufficio a sede disagiata, ai sensi della  legge  n.  133
del 1998, prima dell'entrata in vigore della norma impugnata». 
    Premette, in fatto, il Tar che il ricorrente ha prestato servizio
in una tale sede per un periodo superiore a due  anni  alla  data  di
deliberazione e pubblicazione del bando, e che ha percio' maturato il
requisito della permanenza biennale nell'ufficio, in virtu' di quanto
previsto (ove la legge non stabilisca diversamente), dal paragrafo V,
punto 20, della circolare del Consiglio superiore della magistratura,
terza commissione, 8 giugno 2009, n. 12046; e ritiene  che  il  bando
impugnato (del 7 febbraio 2013), nello stabilire (alla lettera a) che
«il termine di legittimazione  per  tutti  gli  aspiranti  e'  quello
triennale», escluda che il magistrato proveniente da  sede  disagiata
possa sottrarsi a tale previsione. E che  quindi  -  nonostante  che,
all'epoca della assegnazione  a  sede  disagiata,  al  ricorrente  si
potesse opporre,  per  tale  profilo,  esclusivamente  il  limite  di
permanenza biennale discrezionalmente introdotto dal Consiglio per  i
trasferimenti d'ufficio, con la menzionata  circolare  n.  12046  del
2009 - l'art. 194 dell'ordinamento giudiziario,  come  autenticamente
interpretato dalla norma censurata, impone oggi di affermare  che  il
requisito di permanenza triennale  ivi  indicato  trovi  applicazione
ogni qual volta il magistrato venga trasferito, e percio' anche a chi
sia  stato   trasferito   d'ufficio   a   seguito   di   consenso   o
disponibilita'. 
    Il rimettente precisa che  il  dubbio  di  costituzionalita'  non
riguarda affatto la scelta "a regime" del  legislatore  di  applicare
anche al magistrato in sede disagiata il limite indicato  dal  citato
art. 194, ma la investe per la sola parte in cui tale scelta pretende
di applicarsi anche a chi fosse stato assegnato d'ufficio a tale sede
prima dell'entrata in vigore  della  norma  impugnata.  Da  cio',  la
rilevanza della  questione  giacche',  in  applicazione  della  norma
censurata, la domanda giudiziale  proposta  dal  ricorrente  dovrebbe
essere rigettata, essendo egli soggetto all'art. 194 dell'ordinamento
giudiziario;  al  contrario,  la  domanda  dovrebbe  essere  accolta,
qualora fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale della  norma
medesima in parte qua. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza della questione - premesse
ampie ed articolate argomentazioni  circa  la  natura,  caratteri  ed
effetti  della  normazione  interpretativa,  nonche'  circa  la   sua
coerenza con l'impianto costituzionale - il  rimettente  rileva  che,
«quale che sia l'approccio piu' convincente sul piano teorico,  [...]
in ogni caso la autoqualificazione in  termini  interpretativi  della
legge non e' priva di conseguenze normative», essendo «noto, infatti,
che un limite alla retroattivita'  della  legge  e'  stato  enucleato
dalla  giurisprudenza  costituzionale  con  riferimento  alla  tutela
dell'affidamento che i consociati  riponevano  in  un  certo  assetto
normativo, quando il legislatore pretenda invece di  alterarlo  anche
per il passato». 
    Il  rimettente   denuncia   quindi   la   norma   interpretativa,
innanzitutto, per violazione degli artt. 3, 102 e 111,  primo  comma,
Cost. dubitando, «in  termini  generali,  che  il  legislatore  possa
pretendere di dettare una norma per il passato,  e  nel  contempo  di
escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in  forza  della
natura interpretativa che le viene conferita (e  cio'  a  prescindere
dal fatto che l'intervento in oggetto sia davvero  interpretativo,  o
sia solo camuffato come tale)»; nonche' dubitando  che  «la  funzione
legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiche'
essa e' riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art.  102
Cost.), che la esercita in  forma  diffusa,  recependo  e  conferendo
forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti  sul  significato
da attribuire alle norme». Secondo il  rimettente  -  mentre  con  la
legge retroattiva «il legislatore persegue gli obiettivi di  certezza
del diritto e di uguaglianza innanzi alla legge, forte della  propria
prerogativa di dettare norme per il passato, e con cio' si assoggetta
ai limiti costituzionali imposti alle norme  retroattive»  -  con  la
legge  interpretativa,  invece,  egli  «cerca   illegittimamente   di
aggirare quei limiti, finendo non  per  rafforzare  la  certezza  del
diritto, ma piuttosto per  indebolirla»,  giacche',  «a  processo  in
corso, o  comunque  fino  a  che  la  fattispecie  e'  potenzialmente
assoggettabile alla giurisdizione in caso di lite, i consociati  sono
privati delle aspettative che ragionevolmente potevano riporre su  di
un favorevole esito giudiziale, per venire invece assoggettati ad una
decisione prodotta secondo i  ben  diversi  criteri  di  opportunita'
politica del legislatore, e dunque inevitabilmente imprevedibile,  ma
ugualmente somministrata "in via interpretativa"»,  cosi'  assorbendo
la potestas iudicandi nella funzione legislativa. 
    Ove la Corte ritenesse che la  Costituzione  ammetta  in  termini
generali la figura  della  legge  di  interpretazione  autentica,  il
rimettente  denuncia  la  medesima  normativa  anche  per  violazione
dell'art. 3  Cost.,  in  quanto  la  norma  censurata  ha  attribuito
all'art. 194 dell'ordinamento giudiziario una portata  che  esso  non
poteva avere quando la disposizione impugnata e' entrata  in  vigore,
non trovando essa applicazione  nei  confronti  dei  magistrati  gia'
trasferiti  d'ufficio  a  sede  disagiata.  Ricostruita  l'evoluzione
normativa che ha fatto si'  che  la  norma  interpretata  fosse  resa
compatibile con i soli trasferimenti a  domanda,  ovvero  presso  una
sede «chiesta» dal magistrato, il rimettente rileva che - quand'anche
si ritenesse che il legislatore fosse partito invece dall'intento  di
uniformare  la  disciplina  del  trasferimento  a   domanda   e   del
trasferimento d'ufficio sotto la comune previsione dell'art. 194 - in
ogni caso andrebbe rilevato che tale operazione non si e'  sviluppata
adeguatamente sul piano normativo. A suo  avviso,  infatti,  la  sola
conclusione oggettivamente traibile da tale quadro  normativo,  e  su
cui il magistrato poteva riporre affidamento quando  aveva  accettato
il trasferimento d'ufficio verso la sede disagiata,  e'  che,  venuta
meno un'espressa previsione di legge, trovasse applicazione  solo  la
disciplina suppletiva promanante dal CSM in tema di legittimazione  a
seguito  di  trasferimento  d'ufficio  (il  rimettente  richiama   la
precedente circolare sui tramutamenti del 30 novembre 1993, n. 15098,
il cui paragrafo V, punto 22, gia' stabiliva quanto oggi e'  ribadito
dal vigente paragrafo V, punto 20, della indicata circolare n.  12046
del 2009, nonche' la prassi  seguita  dal  Consiglio  nei  precedenti
bandi di concorso. 
    Infine, in terzo luogo,  il  rimettente  denuncia  la  violazione
dell'art. 3 Cost., poiche' se, in linea di principio, negare  che  il
legislatore possa interpretare la legge non equivale a privarlo della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti  giuridici  con  norme
retroattive - non potendosi  escludere  che  si  manifestino  ragioni
imperative d'interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e'
affidato  alla  discrezionalita'  legislativa  -tuttavia,   vi   sono
interessi  di  rilievo  costituzionale   che   non   possono   venire
pretermessi, tra cui,  in  particolare,  la  tutela  dell'affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto».  E,  secondo  il
Tar,  il  periodo  minimo  di  permanenza  nella   sede,   assicurato
dall'ordinamento giuridico al tempo  in  cui  essa  viene  accettata,
«costituisce  una   componente   essenziale   e   costitutiva   della
fattispecie legale  alla  quale  si  chiede  adesione  da  parte  del
pubblico  dipendente»,  non  essendo   «negabile   che   l'estensione
dell'arco temporale  di  servizio  presso  quest'ultima  sia  fattore
determinante per la scelta, non meno degli incentivi economici  e  di
carriera». 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
eccependo preliminarmente l'inammissibilita'  per  irrilevanza  della
sollevata questione:  da  un  lato,  in  ragione  del  fatto  che  il
magistrato ricorrente nel giudizio a quo non ha maturato  il  termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della  entrata
in vigore della normativa censurata; e, dall'altro  lato,  in  quanto
l'interpretazione fornita dalla norma censurata  e'  considerata,  da
una parte della giurisprudenza amministrativa, l'unica corretta  gia'
sotto il vigore dell'art. 194 dell'ordinamento giudiziario, tanto che
la  richiesta  "eliminazione"  della  norma  interpretativa   sarebbe
tamquam non esset. 
    Nel merito, l'Avvocatura deduce la manifesta  infondatezza  della
questione con riferimento a tutti i parametri evocati, affermando  in
primo luogo che la norma censurata e' sopravvenuta in un contesto  in
cui la prassi del CSM era gia' nel senso di affermare che il  termine
triennale di permanenza nel posto (sancito dall'art. 194) costituisse
requisito generale per la mobilita' di sede, ritenendolo  applicabile
ad ogni genere di trasferimento, quale ne fosse l'origine e la causa,
senza distinguere tra trasferimenti  volontari  ed  officiosi,  cosi'
assegnando   alla   disposizione    interpretata    un    significato
riconoscibile come una delle sue possibili  letture.  Ne',  in  senso
contrario, vale il riferimento alla  previsione  vigente  di  cui  al
paragrafo V, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del  2009,
non potendosi non  considerare  che,  venuta  meno  la  copertura  di
legislazione primaria, la disposizione della circolare  non  potrebbe
da sola (stante la riserva  di  legge  di  cui  all'art.  108  Cost.)
rappresentare la disciplina esclusiva dei limiti alla  mobilita'  dei
magistrati. 
    Infine, con riferimento alla retroattivita' della norma  ed  alla
connessa denunciata lesione dell'affidamento, la difesa  dello  Stato
esclude  che  la  norma  di  interpretazione  autentica,  in   quanto
retroattiva, non sia compatibile con  l'assetto  costituzionale,  non
interferendo necessariamente con la sfera del potere giudiziario;  ed
osserva  che,  nella  specie,  sono  agevolmente  rinvenibili  motivi
imperativi  di  interesse  generale  (connessi  alla  gestione  della
mobilita' generale della magistratura, coerente  con  l'obiettivo  di
una congrua stabilita' funzionale  minima  dell'organizzazione  degli
uffici  giudiziari)   ovvero   principi   di   preminente   interesse
costituzionale  (posto  che  la  continuita'   nell'esercizio   della
funzione giudiziaria garantita dal  generalizzato  termine  triennale
risponde  alle  esigenze  di  buona  organizzazione  della   macchina
giudiziaria, ai  sensi  degli  artt.  97  e  107  Cost.)  sottesi  al
censurato intervento normativo e giustificativi dello stesso. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il  Tribunale  amministrativo  regionale  del  Lazio  censura
l'art.  35,  comma  3,  del  decreto-legge  9  febbraio  2012,  n.  5
(Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e  di  sviluppo),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  4
aprile 2012, n. 35. La disposizione prevede che l'art. 194 del  regio
decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento  giudiziario)  -  secondo
cui «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di
funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo' essere  trasferito  ad
altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno
in  cui  ha  assunto  effettivo  possesso  dell'ufficio,  salvo   che
ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di  servizio  o
di famiglia» - «si interpreta nel senso che il rispetto  del  termine
ivi previsto e' richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari». 
    A  giudizio  del  rimettente,  la  denunciata   disposizione   di
interpretazione autentica - nella  parte  in  cui  rende  il  termine
triennale  previsto  dall'art.   194   dell'ordinamento   giudiziario
applicabile (in luogo dei due anni  previsti,  in  difetto  di  altra
statuizione di legge, dal paragrafo V, punto 20, della circolare  del
Consiglio superiore della magistratura, terza commissione,  8  giugno
2009,  n.  12046)  anche  ai  magistrati  (tra  cui  il   ricorrente)
trasferiti d'ufficio a sede disagiata prima  dell'entrata  in  vigore
della norma impugnata (ai sensi della legge 4 maggio  1998,  n.  133,
recante  «Incentivi  ai  magistrati  trasferiti  d'ufficio   a   sedi
disagiate e introduzione delle tabelle infradistrettuali») - si  pone
in contrasto: a) con gli artt. 3,  102  e  111,  primo  comma,  della
Costituzione,  essendo  dubbio,  «in   termini   generali,   che   il
legislatore possa pretendere di dettare una norma per il  passato,  e
nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso  proprio,
in forza della natura interpretativa che le viene conferita (e cio' a
prescindere  dal  fatto  che  l'intervento  in  oggetto  sia  davvero
interpretativo, o sia solo camuffato come  tale)»;  nonche'  che  «la
funzione    legislativa    possa    appropriarsi    della    funzione
interpretativa, poiche'  essa  e'  riservata  dalla  Costituzione  al
potere giudiziario  (art.  102  Cost.),  che  la  esercita  in  forma
diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto  tra
gli interpreti sul significato da  attribuire  alle  norme»;  b)  con
l'art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha  attribuito  all'art.
194 dell'ordinamento giudiziario una  portata  che  esso  non  poteva
avere quando la disposizione impugnata  e'  entrata  in  vigore,  non
trovando  essa  applicazione  nei  confronti  dei   magistrati   gia'
trasferiti d'ufficio a sede disagiata; c) con l'art. 3 Cost., poiche'
se,  in  linea  di  principio,  negare  che  il   legislatore   possa
interpretare la legge che ha prodotto non equivale a  privarlo  della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti  giuridici  con  norme
retroattive - non potendosi  escludere  che  si  manifestino  ragioni
imperative d'interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e'
affidato alla  discrezionalita'  legislativa  -,  tuttavia,  vi  sono
interessi  di  rilievo  costituzionale   che   non   possono   venire
pretermessi, tra cui,  in  particolare,  la  tutela  dell'affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto». 
    2.-   Preliminarmente,   vanno   esaminate   le   eccezioni    di
inammissibilita', per irrilevanza, delle sollevate  questioni,  mosse
dalla difesa dello  Stato  sul  duplice  assunto:  a)  della  mancata
maturazione da parte del ricorrente nel giudizio a  quo  del  termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della  entrata
in vigore  della  normativa  censurata;  b)  della  inutilita'  della
richiesta "eliminazione" della norma censurata, la  quale  fornirebbe
una interpretazione dell'art. 194 dell'ordinamento  giudiziario  gia'
in  precedenza  considerata,  da  una  parte   della   giurisprudenza
amministrativa, come l'unica corretta. 
    Entrambe le eccezioni sono prive di fondamento. 
    Da un lato, infatti, il rimettente -  chiamato  ad  annullare  la
lettera a) della delibera del 7 febbraio 2013  (con  cui  il  CSM  ha
indicato le sedi vacanti, ai fini della procedura di  trasferimento),
nella parte in cui  impone,  quale  requisito  di  legittimazione  al
trasferimento, la permanenza nel posto per un triennio, come previsto
dall'art. 194  del  regio  decreto  n.  12  del  1941,  a  tutti  gli
aspiranti, e quindi anche ai magistrati gia'  assegnati  d'ufficio  a
sede disagiata, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 133  del  1998  -
rileva espressamente che il ricorrente (trasferito in detta sede  con
delibera del 6 luglio 2010 e successiva presa di servizio in data  20
settembre 2010) ha prestato servizio a tale  titolo  per  un  periodo
superiore a due anni alla data di deliberazione e  pubblicazione  del
bando; e che egli ha, percio', maturato il requisito della permanenza
biennale nell'ufficio, secondo quanto  previsto  (ove  la  legge  non
stabilisca diversamente) dal paragrafo 5, punto 20, della  richiamata
circolare n. 12046 del 2009 del Consiglio. E chiarisce altresi'  che,
viceversa, qualora egli fosse soggetto alla previsione dell'art.  194
dell'ordinamento giudiziario (cosi' come interpretato), in difetto di
un effettivo esercizio della funzione presso la sede  disagiata  pari
ad  almeno  tre  anni,  gli  verrebbe  negata  la  legittimazione  al
trasferimento. 
    Dall'altro  lato,  la  dedotta  inutilita'   di   una   pronuncia
caducatoria della disposizione censurata -  in  quanto  attribuirebbe
alla disposizione  autenticamente  interpretata  l'unico  significato
corretto -  costituisce  profilo  attinente  al  merito  e  non  alla
ammissibilita' delle sollevate questioni. 
    3.- Le  quali  sono,  invece,  inammissibili  per  i  motivi  che
seguono. 
    3.1.-  Muovendo  dal   presupposto   «che   in   ogni   caso   la
autoqualificazione in termini interpretativi della legge non e' priva
di conseguenze normative», il rimettente formula la questione (da lui
ritenuta pregiudiziale rispetto alle altre) della compatibilita'  con
la Costituzione della efficacia retroattiva della censurata norma  di
interpretazione. In particolare - nel contestare il contrario assunto
secondo cui la  norma  stessa  (finalizzata  a  risolvere  un  dubbio
ermeneutico   in   ordine   alla   applicabilita'    dell'art.    194
dell'ordinamento giudiziario per  il  conferimento  a  domanda  delle
funzioni  direttive)  non  ne  abbia  mutato  la  portata  di  regola
destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda e  non  anche
quelli disposti d'ufficio - il  Tar  osserva  che  la  lettera  della
disposizione impugnata e' univoca nell'estendere il  requisito  della
permanenza triennale a «tutti i trasferimenti», per funzioni  «anche»
superiori o comunque diverse da quelle  ricoperte;  giacche'  (a  suo
dire),  se  il  legislatore  avesse  voluto  occuparsi   delle   sole
assegnazioni alle funzioni  «superiori»,  non  avrebbe  avuto  alcuna
necessita'  di  regolare  trasferimenti  di  altra  natura,   essendo
viceversa  palese  l'intenzione  di  accomunare  sotto  la   medesima
previsione normativa ogni ipotesi di destinazione del  magistrato,  a
domanda o d'ufficio, per imporre in tutti i casi un periodo minimo di
permanenza pari a tre anni. 
    Nel contempo, peraltro, il rimettente da' atto che,  in  effetti,
la posizione fatta valere dal ricorrente nel giudizio  a  quo  trova,
allo stato, conforto in pronunce di altra sezione  del  medesimo  Tar
(di cui cita la sentenza della sezione I, del  1°  ottobre  2012,  n.
8229) e del Consiglio di Stato  (sezione  IV,  ordinanze  7  febbraio
2012, n. 528, e 22 gennaio 2013, n. 188), che negano l'applicabilita'
della norma censurata a casi simili, in ragione  del  fatto  che  «il
legislatore sarebbe intervenuto a risolvere un dubbio  interpretativo
nato in giurisprudenza in ordine alla applicabilita' dell'art. 194 ai
fini  del  conferimento,  a   domanda,   delle   funzioni   direttive
propendendo  per  la  soluzione  positiva»,  per   cui   l'intervento
interpretativo non «potrebbe mutarne la natura di norma  destinata  a
disciplinare  i  soli  trasferimenti  a  domanda,  e  giammai  quelli
disposti d'ufficio». 
    3.2.- Questa Corte si e' ripetutamente espressa nel senso che  va
riconosciuto carattere interpretativo alle norme che  hanno  il  fine
obiettivo di chiarire  il  senso  di  norme  preesistenti  ovvero  di
escludere  o  di  enucleare  uno  dei  sensi  fra   quelli   ritenuti
ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo  di
imporre a chi e' tenuto ad applicare la disposizione  considerata  un
determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993).  Ed  ha
chiarito che il legislatore puo' adottare  norme  di  interpretazione
autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di
una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la
scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso
del  testo  originario,  cosi'  rendendo  vincolante  un  significato
ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n.  15  del
2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010). 
    Cio' premesso, va rilevato che il testo originario dell'art.  194
dell'ordinamento giudiziario, secondo cui: «Il magistrato  destinato,
per tramutamento o per promozione, ad una  sede  da  lui  chiesta  od
accettata, non puo' essere, di regola, trasferito in altre sedi prima
di  due  anni  dal  giorno  in  cui  ha  assunto  effettivo  possesso
dell'ufficio, salvo che ricorrano  motivi  di  salute  o  ragioni  di
servizio», e' stato, dapprima, sostituito dall'art. 2 della legge  16
ottobre 1991, n. 321 (Interventi straordinari  per  la  funzionalita'
degli uffici giudiziari e per il personale dell'Amministrazione della
giustizia), per il quale «Il magistrato destinato, per  trasferimento
o per conferimento di  funzioni,  ad  una  sede  da  lui  chiesta  od
accettata, non puo' essere trasferito ad altre sedi  o  assegnato  ad
altre funzioni prima di quattro anni dal giorno  in  cui  ha  assunto
effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute
ovvero gravi ragioni di servizio  o  di  famiglia.  [...]»,  e,  poi,
modificato  dall'art.  2  della  legge  8  novembre  1991,   n.   356
(Conversione  in  legge,  con  modificazioni,  del  decreto-legge   9
settembre 1991, n. 292, recante disposizioni in materia  di  custodia
cautelare,  di  avocazione  dei  procedimenti  penali  per  reati  di
criminalita' organizzata e di trasferimenti di ufficio di  magistrati
per  la  copertura  di  uffici  giudiziari  non  richiesti)  con   la
soppressione delle parole «od accettata». Il testo vigente del citato
art. 194 (introdotto dall'art. 4, comma 2, della  legge  n.  133  del
1998) prevede che «Il magistrato destinato, per trasferimento  o  per
conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo' essere
trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima  di  tre
anni dal giorno in cui ha assunto  effettivo  possesso  dell'ufficio,
salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero  gravi  ragioni  di
servizio o di famiglia». 
    A fronte di  tale  evoluzione  normativa,  il  rimettente  stesso
osserva che, fin dall'approvazione  della  legge  n.  356  del  1991,
l'art.  194  dell'ordinamento  giudiziario  ha  limitato  la  propria
portata applicativa ai soli trasferimenti a domanda. E sottolinea che
siffatto ambito di  efficacia  (conseguente  alla  limitazione  della
sfera di  operativita'  della  norma,  rimasta  applicabile  ai  soli
trasferimenti verso una sede non soltanto «accettata»,  ma  «chiesta»
dal magistrato) non e'  mutato  neanche  a  seguito  dell'abrogazione
dell'art. 4-bis della citata legge n. 321 del  1991  (in  virtu'  del
quale «I magistrati trasferiti d'ufficio a norma della presente legge
[...] non possono essere trasferiti a domanda prima di tre  anni  dal
giorno in cui hanno assunto effettivo  possesso  dell'ufficio,  salvo
che ricorrano specifici e gravi motivi di salute») ad opera del comma
2 dell'art. 1 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143 (Interventi
urgenti  in  materia  di  funzionalita'  del  sistema   giudiziario),
convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n.  181.
Cio' in quanto  a  detta  abrogazione  non  si  e'  accompagnata  una
parallela riscrittura dell'art. 194, capace di  renderlo  compatibile
anche con la fattispecie del  trasferimento  d'ufficio,  intendendosi
come tale «ogni tramutamento della sede di servizio per il quale  non
sia stata proposta  domanda  dal  magistrato,  ancorche'  egli  abbia
manifestato il consenso o  la  disponibilita',  e  che  determini  lo
spostamento in una delle sedi disagiate [...]» (art. 1 della legge n.
133 del 1998, quale sostituito dall'art. 1, lettera b,  del  d.l.  n.
143 del 2008). 
    3.3. - In questo contesto di norme, va rilevato che, da parte del
rimettente,  non  risulta   esperito   il   doveroso   tentativo   di
sperimentare  la  possibilita'  di  dare  alla  norma  censurata   un
significato costituzionalmente conforme, tale da renderla compatibile
con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012). 
    Al riguardo occorre,  in  primo  luogo,  ribadire  che  le  leggi
interpretative «vanno definite tali in relazione  al  loro  contenuto
normativo, nel senso che la loro natura va desunta da un rapporto fra
norme - e non fra disposizioni - tale che il sopravvenire della norma
interpretante non fa venir meno la norma  interpretata,  ma  l'una  e
l'altra si saldano fra loro  dando  luogo  a  un  precetto  normativo
unitario» (sentenza n.  424  del  1993).  In  particolare,  la  norma
interpretativa, isolando uno dei possibili significati gia'  presenti
nella  disposizione  interpretata  ed  escludendone  gli  altri  (che
avrebbero snaturato la sua essenza), non ne modifica il testo. 
    In secondo luogo, di conseguenza, va posto  in  rilievo  che  non
risulta  esplicitata  ne'   congruamente   motivata   (in   relazione
all'indicato  dato  letterale  della  norma  che   si   autoqualifica
interpretativa) l'idoneita' della stessa ad  espungere  la  locuzione
«ad  una  sede  da  lui  chiesta»,   contenuta   nella   disposizione
interpretata. Motivazione tanto piu' necessaria in quanto, in difetto
di un diritto vivente in senso contrario (e non essendo  decisivo  il
richiamo ad una diversa ratio legis che non sia  ancorata  ad  idonei
termini  formali),  solo  l'esplicita  elisione   del   richiamo   ai
trasferimenti a domanda potrebbe connotare  diversamente  la  portata
della  suddetta  disposizione  interpretata,  in  modo  da  cambiarne
radicalmente l'ambito di operativita' - estendendone l'applicazione a
sedi a loro tempo assegnate d'ufficio - ed attribuirle un significato
non desumibile (per  stessa  affermazione  del  rimettente)  dal  suo
tenore letterale. 
    3.4.- Pertanto, la  mancata  esplorazione  di  diverse  soluzioni
ermeneutiche, al fine di far fronte al  dubbio  di  costituzionalita'
ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione
in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 198 del 2013 e
n. 240 del 2012) rende  inammissibili,  sotto  tutti  i  profili,  le
sollevate questioni.