ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  55,  comma
1, lettera d), del  decreto-legge  22  giugno  2012,  n.  83  (Misure
urgenti per la crescita del paese),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134,  sostitutivo
dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89,  promosso  dalla  Corte
d'appello di Bari, prima sezione civile,  nel  procedimento  vertente
tra D'Aversa Concettina e il Ministero della giustizia, con ordinanza
del 18 marzo 2013, iscritta al n. 151 del registro ordinanze  2013  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  26,  prima
serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 15 gennaio  2014  il  Giudice
relatore Aldo Carosi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d'appello di  Bari,
prima  sezione  civile,  ha  sollevato  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 55, comma 1, lettera d),  del  decreto-legge
22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita  del  Paese),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  7
agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  6,  paragrafo  1,  della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Riferisce il  giudice  a  quo  che  la  ricorrente  del  giudizio
principale, lavoratrice dipendente di  un  imprenditore  individuale,
nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di  lavoro,
per  ottenere  il  pagamento  di   alcune   differenze   retributive.
Interrottosi il giudizio a causa del  fallimento  del  convenuto,  in
data 27 marzo 1997 la ricorrente aveva chiesto di essere  ammessa  al
passivo fallimentare,  ottenendo  l'ammissione  del  credito  per  un
importo pari ad euro 6.878,47. Di  tale  somma  la  ricorrente  aveva
ricevuto dei pagamenti parziali (nel 2002 e nel 2010) per  un  totale
di  euro  6.541,32.  Ancora  creditrice  del  residuo,  con   ricorso
depositato il 19  dicembre  2012,  aveva  adito  la  Corte  d'appello
rimettente, chiedendo l'indennizzo  del  danno  non  patrimoniale  da
eccessiva durata della procedura concorsuale  (quantificato  in  euro
8.000,00), oltre accessori e spese legali, sebbene  detta  procedura,
come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare del
14 febbraio 2013,  fosse  ancora  pendente  e  non  fosse  definitiva
l'attribuzione della minor somma rispetto a quella ammessa al passivo
fallimentare. 
    1.1.- Ad avviso del giudice a quo, l'art. 4 della legge 24  marzo
2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del
termine ragionevole del processo e  modifica  dell'articolo  375  del
codice di procedura civile) - come sostituito dall'art. 55, comma  1,
lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012  -  prevedendo  nel  testo
attualmente in vigore che «La  domanda  di  riparazione  puo'  essere
proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in  cui  la
decisione che  conclude  il  procedimento  e'  divenuta  definitiva»,
precluderebbe la  proposizione  della  domanda  di  equa  riparazione
durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si
assume verificata. 
    Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l'art. 3  Cost.,  in
quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi  lamenti  l'eccessiva
durata di un processo che si e' concluso, e non anche a chi si  dolga
dell'eccessiva durata  di  quello  ancora  pendente,  nonostante  nel
secondo caso la lesione appaia piu' grave.  Siffatta  discriminazione
non sarebbe giustificata dall'esigenza di permettere una  valutazione
unitaria dell'intero  processo,  considerato  che  l'improponibilita'
della domanda sussisterebbe anche in caso di  notevole  ritardo  gia'
maturato,  peraltro  con  riferimento  al   diritto   primario   alla
retribuzione lavorativa. 
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  inoltre,  la  norma  censurata
violerebbe l'art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il diritto di
agire  per  l'equa  riparazione  costituisce  ormai  una   forma   di
attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo
presupposto». 
    Il rimettente, infine, ritiene che il  testo  dell'art.  4  della
legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto) attualmente  in  vigore
violi l'art.  117,  primo  comma,  Cost.  in  relazione  all'art.  6,
paragrafo 1, della CEDU. Sostiene al riguardo che tale  disposizione,
pur obbligando gli Stati aderenti a garantire il diritto delle  parti
all'esame della loro causa entro un tempo ragionevole, non imponga la
previsione di specifici rimedi risarcitori  in  caso  di  violazione.
Tuttavia, quale forma di attuazione del principio  di  sussidiarieta'
nella tutela del diritto,  il  rimedio  previsto  dalla  legge  Pinto
sarebbe visto con favore dalla Corte EDU,  tanto  da  rimettere  alla
giurisdizione interna le  richieste  di  risarcimento  del  danno  da
eccessiva durata del processo in  quegli  ordinamenti  in  cui  erano
state assunte omologhe iniziative legislative. In tale  contesto,  il
predetto   rimedio   dovrebbe    essere    dotato    del    carattere
dell'effettivita' e consentire la massima conformazione possibile del
giudice  nazionale  alla  CEDU,  come  interpretata  dalla  Corte  di
Strasburgo. Diversamente, la norma censurata avrebbe configurato solo
in apparenza un adempimento al  vincolo  convenzionale,  impedendo  -
secondo il significato univocamente  attribuibile  alla  disposizione
censurata,     che      ne      precluderebbe      un'interpretazione
«convenzionalmente»  orientata  -  l'esperibilita'  del  rimedio   in
relazione ai cosiddetti processi presupposti non ancora  definiti  ma
gia' di durata irragionevole.  Con  riferimento  ad  essi,  la  parte
danneggiata potrebbe soltanto rivolgersi alla Corte EDU per  ottenere
il risarcimento, anche in casi, come nella specie, di  grave  ritardo
nella  soddisfazione  di  un  diritto  primario.  Tale   preclusione,
peraltro, non si giustificherebbe con il fine  di  ridimensionare  la
problematica  dell'eccessiva  durata  dei  processi,  che  rimarrebbe
inalterata. 
    1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente premette che,  secondo
la giurisprudenza di legittimita', per il creditore  fallimentare  la
durata della  procedura,  rilevante  ai  fini  della  valutazione  di
ragionevolezza, si calcola dalla data di proposizione  della  domanda
di ammissione al passivo, mentre il dies a quo del termine semestrale
di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione e'
individuato nel momento in cui il decreto di chiusura del  fallimento
assume definitivita'  o  con  quello  dell'eventuale  soddisfacimento
integrale del credito ammesso al passivo,  senza  che  abbia  rilievo
l'esecuzione di ripartizioni parziali in corso  di  procedura.  Sulla
base di tali premesse, la Corte d'appello  di  Bari  esclude  che  la
domanda di equa riparazione formulata dalla ricorrente  sia  tardiva,
in mancanza di definizione della procedura presupposta e  di  rilievo
dei riparti parziali, ritenendola peraltro prematura alla stregua del
nuovo testo dell'art. 4, che non contiene piu' l'inciso  secondo  cui
la domanda di riparazione «puo' essere proposta durante  la  pendenza
del procedimento nel cui ambito la violazione si assume  verificata».
Tale eliminazione, unitamente al mantenimento del termine  semestrale
di decadenza, avrebbe  il  significato  univoco  di  precludere,  dal
momento di  entrata  in  vigore  del  predetto  testo  di  legge,  la
proposizione della domanda di equa riparazione quando il procedimento
presupposto sia ancora pendente. 
    Nel caso di specie, poiche' la ricorrente del giudizio principale
ha  agito  per  l'equa  riparazione  nel   corso   del   procedimento
presupposto, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 89 del  2001  -  nel
testo applicabile ratione temporis  -  la  domanda,  diversamente  da
quanto in precedenza previsto, non sarebbe  proponibile,  sebbene  il
fallimento duri da un tempo (oltre quindici anni)  ben  superiore  al
termine di sei anni considerato ragionevole dall'art. 2, comma 2-bis,
della legge Pinto, per la conclusione di  procedure  concorsuali  non
particolarmente complesse. 
    2.- Con atto depositato il  16  luglio  2013  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso    dall'Avvocatura    generale    dello    Stato,    deducendo
l'inammissibilita' e l'infondatezza della questione sollevata. 
    2.1.- Secondo il Presidente del Consiglio, la  questione  sarebbe
inammissibile  per  insufficiente   descrizione   della   fattispecie
sottoposta all'esame del rimettente, il  quale  non  avrebbe  fornito
nessuna concreta indicazione  sullo  stato  attuale  della  procedura
fallimentare, impedendo di ritenere la  sicura  applicabilita'  della
norma censurata nel giudizio a quo. 
    Inoltre, ad avviso della difesa statale, la pretesa  indennitaria
vantata dalla ricorrente nel  giudizio  principale,  quantificata  in
euro  8.000,00,  potrebbe  ritenersi   inaccoglibile   alla   stregua
dell'art. 2-bis, comma 3, della legge n. 89 del 2001, secondo cui  la
misura dell'indennizzo non puo' mai superare il valore della causa o,
se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero
sulla rilevanza della questione sollevata. 
    2.2.- Ad  avviso  del  Presidente  del  Consiglio,  la  questione
sarebbe in ogni caso infondata nel merito. 
    La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell'ambito  di  un
piu'  ampio  intervento  normativo  finalizzato  ad   accelerare   la
procedura per ottenere l'indennizzo da eccessiva durata dei processi,
nell'intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt.  24  e
111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole
durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il
contenzioso  davanti  alla  Corte  EDU  per  l'eccessiva  durata  dei
processi e per il ritardo nel pagamento degli  indennizzi  liquidati,
cosi'  come  riconosciuto  nel  maggio  del  2013   dall'Ufficio   di
monitoraggio dell'esecuzione delle decisioni CEDU. 
    L'intervenuto sostiene che l'art. 4 della legge n. 89  del  2001,
nella originaria formulazione, che consentiva la proponibilita' della
domanda di equa riparazione in  pendenza  del  processo  presupposto,
comportava la difficolta' pratica di determinare la  maturazione  del
diritto ed il frazionamento della pretesa,  con  onerose  conseguenze
per il bilancio dello Stato. La sostituzione operata dall'art. 55 del
d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all'adozione del modulo del ricorso
monitorio ed alla  previsione  di  criteri  corrispondenti  a  quelli
enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU  quanto  a
durata ragionevole e misura  dell'indennizzo,  non  precluderebbe  il
soddisfacimento  del  diritto,   ma   solo   il   suo   differimento,
giustificato alla stregua delle esigenze menzionate. Si evita, in tal
modo, un inutile dispendio di risorse  pubbliche  per  effetto  della
deflazione del contenzioso, assicurando al contempo il buon andamento
dell'amministrazione della giustizia. Le considerazioni che precedono
escluderebbero  la  denunciata  disparita'  di  trattamento   ed   il
contrasto della norma censurata con l'art. 3 Cost.  Il  differimento,
inoltre, non inciderebbe sull'effettivita' del rimedio  indennitario,
che rimarrebbe intatto nella sostanza, salvo essere posticipato, alla
definizione del giudizio presupposto, cosi' imponendo alla parte  una
correttezza di comportamento in  linea  con  l'esigenza  generale  di
economia processuale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d'appello di  Bari,
prima  sezione  civile,  ha  sollevato  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 55, comma 1, lettera d),  del  decreto-legge
22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita  del  Paese),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  7
agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,
e 117, primo comma, della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  6,  paragrafo  1,  della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Il giudice  a  quo  riferisce  che  la  ricorrente  del  giudizio
principale, lavoratrice dipendente di  un  imprenditore  individuale,
nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore  di  lavoro
per  ottenere  il  pagamento  di   alcune   differenze   retributive.
Interrottosi il giudizio a causa del  fallimento  del  convenuto,  in
data 27 marzo 1997 aveva chiesto ed ottenuto  di  essere  ammessa  al
passivo fallimentare.  Ricevuti  dei  pagamenti  parziali  ed  ancora
creditrice del residuo, con ricorso depositato il  19  dicembre  2012
aveva adito la Corte d'appello rimettente, chiedendo, ai sensi  della
legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di
violazione  del  termine  ragionevole   del   processo   e   modifica
dell'articolo 375 del codice di procedura civile) - cosiddetta  legge
Pinto - l'indennizzo del danno non patrimoniale da  eccessiva  durata
della  procedura   concorsuale,   sebbene   quest'ultima,   come   da
attestazione della  cancelleria  del  tribunale  fallimentare,  fosse
ancora pendente. 
    Ad avviso del giudice a quo, l'art. 4 della legge  Pinto  -  come
sostituito dall'art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012
- precluderebbe la proposizione della  domanda  di  equa  riparazione
durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si
assume verificata. 
    Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l'art. 3  Cost.,  in
quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi  lamenti  l'eccessiva
durata di un processo che si  e'  concluso  e  non  a  chi  si  dolga
dell'eccessiva durata di quello che  non  si  e'  ancora  concluso  -
nonostante nel secondo caso la lesione  appaia  piu'  grave  -  anche
quando sia gia' maturato un notevole ritardo e con riferimento ad  un
diritto primario quale quello alla retribuzione lavorativa. 
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  inoltre,  la  norma  censurata
violerebbe l'art. 111, secondo comma, Cost., in quanto il diritto  di
agire  per  l'equa  riparazione  costituirebbe  ormai  una  forma  di
attuazione  indiretta  del  diritto  alla  ragionevole   durata   del
cosiddetto processo presupposto. 
    Il rimettente, infine, ritiene che la versione dell'art. 4  della
legge  Pinto  applicabile  alla  fattispecie  oggetto  del   giudizio
principale violi l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art.
6, paragrafo 1, della CEDU. Il rimedio interno previsto  dalla  legge
Pinto  dovrebbe  essere  dotato  del  carattere  dell'effettivita'  e
consentire la massima conformazione possibile del  giudice  nazionale
alla CEDU come interpretata dalla  Corte  di  Strasburgo.  Cosi'  non
sarebbe per effetto della norma censurata, che configurerebbe solo in
apparenza  un  adempimento  al   vincolo   convenzionale,   impedendo
l'esperibilita' del rimedio in relazione ai processi presupposti  non
ancora definiti ma gia' di durata irragionevole. 
    E' intervenuto  in  giudizio  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, secondo il quale la  questione  sarebbe  inammissibile  per
insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all'esame  del
rimettente, che non  avrebbe  fornito  nessuna  concreta  indicazione
sullo  stato  attuale  della  procedura  fallimentare,  impedendo  di
ritenere la sicura applicabilita' della norma censurata. 
    Inoltre, ad  avviso  dell'intervenuto,  la  pretesa  indennitaria
vantata dalla ricorrente nel  giudizio  principale,  quantificata  in
euro 8.000,00 a fronte dell'ammissione al  passivo  fallimentare  per
euro 6.878,47, sarebbe inaccoglibile alla  stregua  dell'art.  2-bis,
comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell'indennizzo non
puo' mai superare il valore della causa o, se inferiore,  quello  del
diritto accertato dal giudice, con riverbero  sulla  rilevanza  della
questione sollevata. 
    Nel merito, secondo il  Presidente  del  Consiglio  la  questione
sarebbe infondata. 
    La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell'ambito  di  un
piu'  ampio  intervento  normativo  finalizzato  ad   accelerare   la
procedura per ottenere l'indennizzo dovuto per l'eccessiva durata dei
processi, nell'intento di rendere effettivi i principi  di  cui  agli
artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e  di
ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre,  mirerebbe
a ridurre il contenzioso  davanti  alla  Corte  EDU  per  l'eccessiva
durata dei processi e per il ritardo nel pagamento  degli  indennizzi
accordati. 
    Secondo l'intervenuto, l'art. 4  della  legge  Pinto,  nella  sua
originaria formulazione, consentendo la proponibilita' della  domanda
di equa riparazione in pendenza del processo presupposto,  comportava
la difficolta' pratica di determinare la maturazione del  diritto  ed
il frazionamento  della  pretesa,  con  onerose  conseguenze  per  il
bilancio dello Stato. La sua  sostituzione  ad  opera  dell'art.  55,
comma  1,  lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012,   accompagnata
all'adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla  previsione  di
criteri  corrispondenti  a  quelli  enunciati  dalla   giurisprudenza
nazionale e della Corte EDU quanto  a  durata  ragionevole  e  misura
dell'indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma
solo il suo differimento, giustificato alla  stregua  delle  esigenze
menzionate,  evitando  un  inutile  dispendio  di  risorse  pubbliche
attraverso la deflazione del contenzioso ed assicurando  al  contempo
il buon andamento dell'amministrazione della giustizia. 
    2.- Prima di affrontare l'esame della questione proposta e  delle
eccezioni sollevate dalla difesa erariale, e'  opportuno  dar  conto,
seppur sinteticamente, della genesi della legge Pinto, intervenuta in
un  contesto  di  riconoscimento  del   bene   costituzionale   della
ragionevole durata del processo, «che, gia'  implicito  nell'art.  24
Cost., e' ora oggetto  di  specifica  enunciazione  nel  nuovo  testo
dell'art. 111 Cost., sulla scia dell'art. 6 della Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali» (ordinanza n. 305 del 2001). 
    Le ragioni che hanno determinato l'approvazione della legge n. 89
del 2001 si individuano nella  necessita'  di  prevedere  un  rimedio
giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei
processi, in modo da  realizzare  la  sussidiarieta'  dell'intervento
della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall'art.  35  della
CEDU - secondo cui: «la Corte non  puo'  essere  adita  se  non  dopo
l'esaurimento delle vie di ricorso interne [...]» - e su cui si fonda
il sistema europeo di protezione  dei  diritti  dell'uomo.  Da  detto
principio di sussidiarieta' deriva il dovere degli  Stati  che  hanno
ratificato la Convenzione di garantire agli individui la  tutela  dei
diritti da essa riconosciuti in modo «effettivo» (ai sensi  dell'art.
13 della CEDU), ossia tale da porre rimedio alla doglianza, senza  la
necessita' di adire la Corte EDU. Prima della legge n.  89  del  2001
non esisteva nell'ordinamento italiano un  rimedio  interno,  con  la
conseguenza che i ricorsi contro l'Italia per la violazione dell'art.
6  della  CEDU  venivano  indirizzati  direttamente  alla  Corte   di
Strasburgo,  sovraccaricandone  il  ruolo.   A   fronte   di   simile
situazione, la Corte EDU rilevava come  le  inadempienze  dell'Italia
riflettessero una situazione perdurante, «alla quale non si e' ancora
rimediato e per la quale i soggetti  a  giudizio  non  dispongono  di
alcuna via di ricorso interna.  Tale  accumulo  di  inadempienze  e',
pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione»
(sentenze 28 luglio 1999, Bottazzi contro  Italia,  Di  Mauro  contro
Italia, Ferrari contro Italia ed A.P. contro Italia). 
    L'originario tessuto normativo della legge  n.  89  del  2001  ha
subito significative modifiche - appresso meglio precisate - ad opera
dell'art. 55 del d.l. n. 83 del 2012. 
    In particolare, l'art. 4 della legge Pinto  e'  stato  sostituito
dalla norma impugnata. 
    La  disposizione  originaria  prevedeva  che:  «La   domanda   di
riparazione puo' essere proposta durante la pendenza del procedimento
nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena  di
decadenza, entro sei mesi  dal  momento  in  cui  la  decisione,  che
conclude il medesimo procedimento, e' divenuta definitiva». 
    A  seguito  della  sostituzione,  l'art.  4  della  legge   Pinto
stabilisce che: «La domanda di riparazione puo'  essere  proposta,  a
pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che
conclude il procedimento e' divenuta definitiva». 
    Il nuovo  testo,  sul  piano  puramente  letterale,  non  esclude
espressamente la proponibilita' della  domanda  di  equa  riparazione
durante la pendenza del processo presupposto. 
    Alla    esclusione    tuttavia     si     perviene     attraverso
un'interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull'intenzione
del legislatore, come emerge: a) dal  fatto  che  la  nuova  versione
differisce dalla previgente unicamente per  l'espunzione  dell'inciso
che consentiva la proponibilita' «durante  la  pendenza»,  altrimenti
inspiegabile; b) dalla lettura della disposizione unitamente all'art.
3 della legge Pinto, che al comma 1 prevede che «La domanda  di  equa
riparazione  si  propone  con  ricorso  al  presidente  della   corte
d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi
dell'articolo 11 del codice  di  procedura  penale  a  giudicare  nei
procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto e' concluso o
estinto relativamente ai gradi di  merito  il  procedimento  nel  cui
ambito la violazione si assume verificata.  [...]»  ed  al  comma  3,
lettera  c),  dispone  che:  «Unitamente  al  ricorso   deve   essere
depositata copia autentica dei seguenti atti: [...] il  provvedimento
che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con  sentenza
od ordinanza irrevocabili» - previsioni, queste,  che  non  avrebbero
senso ove dovesse continuarsi ad ammettere  la  proponibilita'  della
domanda nel corso del processo presupposto; c) dal condizionamento di
an e quantum del diritto all'indennizzo (tale qualificato dalla legge
medesima)  alla  definizione  del  giudizio,   come   meglio   verra'
precisato; d) dall'obbiettivo dichiarato nella relazione  al  disegno
di legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2012  di  ridurre
il carico gravante sulle corti d'appello  rappresentato  dai  ricorsi
per equa riparazione;  e)  dai  lavori  preparatori  della  legge  di
conversione. 
    Alla luce delle considerazioni che precedono,  si  deve  ritenere
che la norma censurata precluda la proposizione della domanda di equa
riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione
della ragionevole durata si assume essersi verificata. 
    3.-    Tanto    premesso,    sono    infondate    le    eccezioni
d'inammissibilita' sollevate dalla difesa erariale. 
    In primo luogo, essa  deduce  l'insufficiente  descrizione  della
fattispecie da parte del rimettente, che non avrebbe fornito  nessuna
concreta   indicazione   sullo   stato   attuale   della    procedura
fallimentare, impedendo di ritenere senz'altro applicabile  la  norma
censurata. 
    La  circostanza  e'  chiaramente   smentita   dall'ordinanza   di
rimessione, in cui il giudice a quo riferisce  espressamente  che  la
domanda di equa riparazione -  cui,  ratione  temporis,  deve  essere
applicata la norma impugnata - e' stata proposta quando la  procedura
concorsuale era ancora pendente, come certificato  dalla  cancelleria
del tribunale fallimentare. 
    In secondo luogo, il  Presidente  del  Consiglio  assume  che  la
domanda avanzata nel giudizio principale non potrebbe essere  accolta
in ragione dell'art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto,  secondo  cui
la misura dell'indennizzo non puo' mai superare il valore della causa
o, se inferiore, quello del diritto accertato dal  giudice.  Cio'  in
quanto la ricorrente ha quantificato l'indennizzo richiesto  in  euro
8.000,00 a fronte di un credito ammesso al passivo fallimentare  solo
per l'ammontare di euro 6.878,47. 
    L'eccezione deve essere  respinta,  atteso  che  il  ricorso  ben
potrebbe essere accolto per  il  minore  importo  rispetto  a  quello
domandato, come peraltro  e'  implicitamente  previsto  dall'art.  3,
comma 6, della legge Pinto, laddove consente l'opposizione  nel  caso
di accoglimento parziale. 
    4.-  Nondimeno,  la  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 55, comma 1, lettera  d),  del  d.l.  n.  83  del  2012  in
riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma,  e  117,  primo  comma,
Cost. - quest'ultimo in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU
- e'  inammissibile  per  due  ordini  di  ragioni,  inscindibilmente
connessi. Infatti, l'intervento additivo invocato  dal  rimettente  -
consistente  sostanzialmente  in  un'estensione   della   fattispecie
relativa all'indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso
a  quella  caratterizzata  dalla  pendenza  del  giudizio  -  non  e'
possibile,  sia  per  l'inidoneita'   dell'eventuale   estensione   a
garantire l'indennizzo della violazione verificatasi in assenza della
pronuncia irrevocabile, sia perche' la modalita' dell'indennizzo  non
potrebbe essere definita "a rime obbligate" a causa della  pluralita'
di  soluzioni  normative  in  astratto  ipotizzabili  a  tutela   del
principio della ragionevole durata del processo. 
    4.1.- Per dar conto di tali ragioni di  inammissibilita'  occorre
preliminarmente descrivere, seppur sinteticamente, il complesso delle
modifiche apportate dall'art. 55 del d.l. n. 83 del 2012  alla  legge
n. 89 del 2001. 
    Alcune di esse hanno riguardato  il  procedimento  attraverso  il
quale riconoscere l'equa riparazione per  l'irragionevole  durata  e,
mantenendo la competenza della corte  d'appello  in  unico  grado  di
merito, ora in composizione monocratica,  prevedono  che  la  domanda
venga proposta e decisa su base documentale,  secondo  un  meccanismo
simile a quello del procedimento per decreto ingiuntivo (art. 3 della
legge Pinto, come sostituito dall'art. 55, comma 1,  lettera  c,  del
d.l.  n.  83  del  2012).  L'instaurazione  del  contraddittorio   e'
posticipata  alla  successiva  ed  eventuale  fase  di   opposizione,
proposta dall'amministrazione  o  dal  ricorrente  insoddisfatto  (in
tutto o in parte) della pronuncia, da svolgersi  davanti  alla  corte
d'appello in composizione collegiale secondo  le  forme  semplificate
del  procedimento  camerale  (art.  5-ter  della  legge  Pinto,  come
introdotto dall'art. 55, comma 1, lettera  f,  del  d.l.  n.  83  del
2012). Il ricorso ad  un  procedimento  di  tipo  monitorio  e'  reso
possibile dal fatto che la nuova normativa, rifacendosi in gran parte
all'elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della  Corte  di
cassazione, indica anche i  termini  entro  i  quali  la  durata  del
processo non puo' essere dichiarata irragionevole (art. 2,  commi  da
2-bis a 2-quater, della legge  Pinto,  come  aggiunti  dall'art.  55,
comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 83 del 2012)  e  la  misura
dell'indennizzo per anno o frazione di  anno  superiore  a  sei  mesi
eccedente il termine di ragionevole  durata  (art.  2-bis,  comma  1,
della legge Pinto, come aggiunto dall'art. 55, comma  1,  lettera  b,
del d.l. n. 83 del 2012). 
    Ulteriori modifiche apportate dall'art. 55 del  d.l.  n.  83  del
2012 alla legge n. 89 del 2001 hanno dato rilievo  normativo  ad  una
serie di circostanze incidenti sull'an (art. 2) e sul  quantum  (art.
2-bis) dell'indennizzo. 
    In  particolare,  l'art.  2,  comma  2-ter,  della  legge   Pinto
considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata se  il
giudizio  viene  definito  in  modo  irrevocabile  in  un  tempo  non
superiore  a  sei  anni.  E'  evidente  che  la  norma  in  questione
presuppone la conclusione del processo,  solo  all'esito  potendosene
constatare la durata complessiva. 
    Similmente, postulano la definizione del giudizio le  ipotesi  di
esclusione dell'indennizzo contemplate dal  medesimo  art.  2,  comma
2-quinquies,  lettere  a)  (a  favore  della  parte  condannata   per
cosiddetta "lite temeraria" a norma dell'art. 96 cod. proc. civ.), b)
(nel caso di accoglimento  della  domanda  in  misura  non  superiore
all'eventuale proposta conciliativa: art. 91,  primo  comma,  secondo
periodo, cod. proc. civ.), c) (nel caso in cui il  provvedimento  che
definisce il giudizio  corrisponda  interamente  al  contenuto  della
proposta  nella  mediazione  finalizzata  alla  conciliazione   delle
controversie civili  e  commerciali:  art.  13,  primo  comma,  primo
periodo, del  decreto  legislativo  4  marzo  2010,  n.  28,  recante
«Attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009,  n.  69,  in
materia  di   mediazione   finalizzata   alla   conciliazione   delle
controversie civili e commerciali») e d) (nel caso di estinzione  del
reato per intervenuta  prescrizione  connessa  a  condotte  dilatorie
della parte). 
    Infine,   in   ordine   alla    determinazione    della    misura
dell'indennizzo, l'art. 2-bis, comma 2, lettera a), della legge Pinto
impone di tenere conto dell'esito del processo, mentre il  successivo
comma 3 esclude che detta misura possa eccedere il valore della causa
o quello del diritto accertato dal giudice, se  inferiore  al  primo.
Evidentemente, questi criteri possono operare solo  a  seguito  della
conclusione del procedimento presupposto. 
    Condizionando l'an ed il  quantum  dell'indennizzo,  l'art.  2  e
l'art. 2-bis  della  legge  Pinto  -  rispettivamente  modificato  ed
introdotto dall'art. 55 del d.l. n.  83  del  2012  -  finiscono  per
conformare  in  modo  peculiare  il  diritto  all'equa   riparazione,
riconoscendolo solo all'esito, e non anche in pendenza, del  processo
presupposto. 
    Nel  descritto  contesto  normativo  i   meccanismi   indennitari
introdotti dall'art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 prevedono  condizioni
irrealizzabili con riguardo  alla  fattispecie  di  cui  si  vorrebbe
parificare la disciplina. 
    Quanto considerato preclude l'intervento additivo richiesto. 
    In ogni caso, peraltro, esso non sarebbe "a  rime  obbligate"  in
ragione della  pluralita'  di  soluzioni  normative  configurabili  a
tutela del principio della ragionevole durata del processo. 
    Occorre rammentare che «A partire dalle sentenze n. 348 e n.  349
del 2007, questa Corte ha costantemente ritenuto che "le norme  della
CEDU - nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione)  -  integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali"»  (sentenza  n.  264
del 2012). 
    Ha chiarito la Corte EDU che «l'articolo 6 § 1 impone agli  Stati
contraenti l'obbligo di organizzare i propri  sistemi  giudiziari  in
modo tale che i loro giudici possano  soddisfare  ciascuno  dei  suoi
requisiti,  compreso  l'obbligo  di  trattare  i  casi  in  un  tempo
ragionevole [...]. Laddove  il  sistema  giudiziario  e'  carente  in
questo senso, la soluzione piu' efficace e' quella  di  un  mezzo  di
ricorso inteso a snellire il  procedimento  per  evitare  che  questo
diventi eccessivamente lungo. Un  tale  mezzo  di  ricorso  offre  un
innegabile vantaggio rispetto ad un mezzo  di  ricorso  che  fornisca
solo un indennizzo, in quanto evita anche  di  constatare  violazioni
successive rispetto al medesimo tipo di  procedimento  e  non  ripara
meramente la violazione a posteriori come fa, ad esempio, il tipo  di
mezzo di ricorso risarcitorio previsto dalla  legge  italiana.  [...]
Appare inoltre chiaro che per i paesi dove esistono  gia'  violazioni
legate alla durata del procedimento, un mezzo di  ricorso  inteso  ad
accelerare il procedimento, per quanto  auspicabile  per  l'avvenire,
potrebbe non essere adeguato a riparare  una  situazione  in  cui  il
procedimento stesso e' gia' stato  palesemente  troppo  lungo.  [...]
Diversi tipi di mezzo di ricorso possono riparare  la  violazione  in
modo adeguato. [...] Inoltre, taluni Stati [...]  hanno  compreso  la
situazione perfettamente, decidendo di combinare due tipi di mezzo di
ricorso, uno volto a snellire il procedimento e l'altro a fornire  un
indennizzo [...]. Tuttavia, gli  Stati  possono  anche  scegliere  di
introdurre solo dei mezzi di ricorso risarcitori, cosi' come ha fatto
l'Italia, senza  che  tale  mezzo  di  ricorso  non  sia  considerato
effettivo» (Grande Camera, sentenza 29 marzo  2006,  Scordino  contro
Italia). 
    Sempre secondo la Corte EDU, «Quando uno  Stato  ha  compiuto  un
passo significativo introducendo un rimedio  risarcitorio,  la  Corte
deve lasciare allo Stato un margine di  valutazione  piu'  ampio  per
consentirgli di organizzare il rimedio in un  modo  coerente  con  il
proprio ordinamento giuridico [...]»  e  «[...]  puo'  effettivamente
avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente
le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento
danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili
nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che  rispetti
al meglio il carattere obbligatorio di "effettivita'" [...]»  (Grande
Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). 
    Dunque,  la  Convenzione  accorda  allo  Stato   aderente   ampia
discrezionalita' nella scelta del  tipo  di  rimedio  interno  tra  i
molteplici  ipotizzabili,  ma  nel  caso  in  cui  opti  per   quello
risarcitorio,   detta    discrezionalita'    incontra    il    limite
dell'effettivita', che deriva dalla natura obbligatoria dell'art.  13
CEDU (Grande Camera, sentenza  29  marzo  2006,  Cocchiarella  contro
Italia), secondo il quale: «Ogni persona  i  cui  diritti  e  le  cui
liberta' riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati,
ha diritto ad un ricorso effettivo  davanti  a  un'istanza  nazionale
[...]». 
    E' specificamente  sotto  tale  profilo  -  peraltro  oggetto  di
censura da parte del  rimettente  -  che  il  rimedio  interno,  come
attualmente disciplinato dalla legge Pinto, risulta carente. La Corte
EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell'esperibilita'  del
ricorso alla definizione  del  procedimento  in  cui  il  ritardo  e'
maturato ne pregiudichi l'effettivita' e lo renda incompatibile con i
requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio
2009, Lesjak contro Slovenia). 
    Il vulnus riscontrato e la necessita' che l'ordinamento  si  doti
di un rimedio effettivo a fronte della violazione  della  ragionevole
durata del processo, se non inficiano - per le ragioni gia' esposte -
la ritenuta inammissibilita' della questione e se non pregiudicano la
«priorita' di valutazione da parte del legislatore  sulla  congruita'
dei mezzi per  raggiungere  un  fine  costituzionalmente  necessario»
(sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che  non
sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in
ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza  n.
279 del 2013).