ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 2, 3,  4,
7, 11 e 18 della legge della Regione  autonoma  Valle  d'Aosta/Vallee
d'Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale  7
giugno 1999, n. 12 recante  "Principi  e  direttive  per  l'esercizio
dell'attivita' commerciale"), promosso dal Presidente  del  Consiglio
dei ministri con ricorso notificato il 9-14 maggio  2013,  depositato
in cancelleria il 14 maggio 2013 ed iscritto al n.  60  del  registro
ricorsi 2013. 
    Visto  l'atto  di  costituzione  della  Regione  autonoma   Valle
d'Aosta; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  marzo  2014  il   Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    uditi l'avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente  del
Consiglio dei ministri e l'avvocato Francesco Saverio Marini  per  la
Regione autonoma Valle d'Aosta. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso iscritto al n. 60 del registro ricorsi  dell'anno
2013, il Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di
legittimita' costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, 3,  4,  7,
11 e 18 della  legge  della  Regione  autonoma  Valle  d'Aosta/Vallee
d'Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale  7
giugno 1999, n. 12 recante  "Principi  e  direttive  per  l'esercizio
dell'attivita' commerciale"). 
    Il ricorrente premette che l'art. 3,  primo  comma,  lettera  a),
della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4  (Statuto  speciale
per la Valle d'Aosta), attribuisce alla Regione potesta'  legislativa
di integrazione e di  attuazione  delle  leggi  della  Repubblica  in
materia di commercio e che ai sensi dell'art. 2 del medesimo statuto,
tale potesta' deve esplicarsi nel rispetto  della  Costituzione,  dei
principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e degli obblighi
internazionali. Osserva, inoltre, come in forza  dell'art.  10  della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3  (Modifiche  al  titolo  V
della parte seconda della Costituzione), la  Regione  deve  ritenersi
titolare della competenza residuale in materia di commercio. 
    Cio' considerato, l'Avvocatura rileva che l'art.  2  della  legge
reg. n. 5 del 2013 inserisce nella legge della Regione autonoma Valle
d'Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e  direttive  per  l'esercizio
dell'attivita' commerciale), l'art. 1-bis il quale  attribuisce  alla
Giunta regionale, sentite le associazioni delle imprese esercenti  il
commercio  maggiormente  rappresentative  in  ambito  regionale,   il
compito  di  individuare,  sulla  base   di   criteri   oggettivi   e
trasparenti, gli indirizzi per il conseguimento  degli  obiettivi  di
equilibrio  della  rete  distributiva,  in  rapporto   alle   diverse
categorie e dimensioni degli esercizi, con particolare riguardo  alle
grandi strutture di vendita,  tenuto  conto  della  specificita'  dei
singoli territori e dell'interesse  dei  consumatori  alla  qualita',
alla varieta', all'accessibilita' e alla convenienza dell'offerta. 
    Ad avviso del ricorrente, tale disposizione, sarebbe suscettibile
di reintrodurre surrettiziamente limiti all'accesso  e  all'esercizio
di attivita' economiche dal momento che il criterio in base al  quale
la Giunta deve determinare gli indirizzi  («obiettivi  di  equilibrio
della rete distributiva») sarebbe talmente  generico  da  lasciare  a
detto organo una discrezionalita' troppo ampia, che quindi renderebbe
possibile l'introduzione di vincoli  quantitativi  alla  apertura  di
esercizi commerciali non giustificati da  esigenze  di  tutela  della
salute,  dei  lavoratori,  dei  beni  culturali  e  del   territorio,
richiamate dal comma 1-bis dell'art. 1 della legge  reg.  n.  12  del
1999. 
    Per  tale  ragione  la  disposizione,  potendo  determinare   una
ingiustificata  limitazione   alla   apertura   di   nuovi   esercizi
commerciali, si porrebbe in contrasto con i principi di tutela  della
concorrenza e del  mercato,  in  violazione  dell'art.  117,  secondo
comma, lettera e), della Costituzione. 
    L'Avvocatura censura inoltre l'art. 3 della legge reg. n.  5  del
2013, il quale sostituisce l'art. 3 della legge reg. n. 12  del  1999
che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle  attivita'
commerciali.  La  disposizione  in  parola  prescrive  che   per   lo
svolgimento  di  attivita'  commerciale  nel   settore   merceologico
alimentare, anche laddove effettuata nei confronti di una determinata
cerchia di persone, e' necessario il possesso di  uno  dei  requisiti
professionali di cui all'art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26
marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai
servizi nel mercato interno). 
    Tale ultima disposizione  -  rileva  il  ricorrente  -  e'  stata
modificata dall'art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n.  147
(Disposizioni integrative e correttive  del  decreto  legislativo  26
marzo 2010, n. 59, recante attuazione  della  direttiva  2006/123/CE,
relativa ai servizi nel mercato interno). Nella  nuova  formulazione,
la norma statale non richiede piu' per lo svolgimento di attivita' di
vendita di prodotti alimentari e di somministrazione  di  alimenti  e
bevande, effettuate non al pubblico ma nei confronti di  una  cerchia
ristretta di persone (spacci  interni)  il  possesso  di  determinati
requisiti professionali. 
    La disposizione regionale continuando  invece  a  richiederne  il
possesso anche per tale tipologia di attivita', contrasterebbe con la
normativa nazionale posta a tutela della concorrenza, cosi'  violando
l'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. 
    E' impugnato, ancora, l'art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013  il
quale introduce l'art. 3-bis nella legge reg. n. 12  del  1999.  Esso
disciplina gli orari  di  apertura  e  chiusura  delle  attivita'  di
commercio al dettaglio, in armonia con quanto disposto  dall'art.  3,
comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge  4  luglio  2006,  n.  223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1  della  legge  4
agosto 2006, n. 248. 
    Tuttavia la disposizione regionale esclude dal proprio ambito  di
operativita'  le  attivita'  commerciali  che  si  svolgono  su  area
pubblica. In tal modo, ad avviso dell'Avvocatura, essa si porrebbe in
contrasto con quanto statuito dall'art. 28,  comma  13,  del  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina  relativa
al settore del commercio, a norma dell'articolo  4,  comma  4,  della
legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dal  d.lgs.  n.  59  del
2010, in forza del quale eventuali limiti  temporali  possono  essere
posti solo per esigenze di sostenibilita' ambientale o sociale e  non
gia' per ragioni economiche. 
    Pertanto, l'art. 4 sarebbe illegittimo per  violazione  dell'art.
117, secondo comma, lettera e), Cost.  nella  parte  in  cui  esclude
dalla applicazione delle norme di  liberalizzazione  degli  orari  di
apertura e  chiusura  delle  attivita'  commerciali  quelle  su  area
pubblica. 
    Anche l'art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013  violerebbe  l'art.
117,  secondo  comma,  lettera  e),  Cost.  Tale  disposizione,   nel
sostituire l'art. 5 della  legge  reg.  n.  12  del  1999,  il  quale
disciplina le medie  e  grandi  strutture  di  vendita,  al  comma  4
stabilisce che per i centri di vendita  con  superficie  superiore  a
1.500 metri quadrati il rilascio dell'autorizzazione all'apertura, al
trasferimento  di  sede  e  all'ampliamento   della   superficie   e'
subordinato al parere della struttura regionale competente in materia
di commercio, che attesta la conformita' dell'attivita' oggetto della
richiesta agli indirizzi di cui all'art. 1-bis, introdotto  dall'art.
2 della legge in esame. 
    Anche questa norma presenterebbe i medesimi vizi evidenziati  con
riguardo all'art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999  dal  momento
che  essa  sarebbe  suscettibile  di   limitare   ingiustificatamente
l'apertura di nuovi  esercizi  commerciali  e  di  medie  e/o  grandi
strutture di vendita, in violazione  dei  principi  di  tutela  della
concorrenza e del mercato  e  quindi  in  violazione  dell'art.  117,
secondo comma, lettera e), Cost. 
    E' impugnato, altresi', l'art. 11 della legge censurata il  quale
stabilisce  il  divieto,  nei   centri   storici,   di   apertura   e
trasferimento  di  sede  delle  grandi  strutture  commerciali.  Tale
divieto, il quale e' prescritto in via assoluta e riferito  non  solo
all'ipotesi di apertura, ma anche di trasferimento di  sede,  sarebbe
eccessivamente  restrittivo   e,   quindi,   anticoncorrenziale,   in
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. 
    Ad avviso del ricorrente le disposizioni  della  legge  regionale
incidono sulla sfera di  «tutela  della  concorrenza»  di  competenza
esclusiva dello Stato. Osserva infatti l'Avvocatura che  «in  materia
di apertura degli esercizi  pubblici  di  vendita  al  dettaglio,  la
molteplicita' di discipline a livello locale in materia non puo'  che
produrre distorsione del mercato, con evidente danno per l'utenza». 
    Infine, e' stato impugnato l'art. 18 della legge reg.  n.  5  del
2013, il quale stabilisce  che  varie  disposizioni  contenute  nella
medesima legge, ivi comprese  quelle  che  inaspriscono  le  sanzioni
amministrative  conseguenti  a  violazioni,  si  applicano  anche  ai
procedimenti in corso alla data di  entrata  in  vigore  della  legge
stessa. 
    Il ricorrente ritiene che tale disposizione contrasterebbe con il
principio tempus  regit  actum  il  quale,  nell'ambito  del  diritto
sanzionatorio amministrativo, comporta che la sanzione  da  irrogarsi
sia quella applicabile sulla base della norma vigente  nel  tempo  in
cui fu  commesso  l'illecito,  sia  in  ipotesi  di  previsione  piu'
sfavorevole che favorevole. Pertanto, essa violerebbe gli artt. 25  e
117, secondo comma, lettera  l),  Cost.  «con  riferimento  a  quanto
ribadito dalla disposizioni dell'art.  11  delle  disposizioni  sulla
legge in generale (preleggi) anteposte al Codice civile, in  base  al
quale la legge non dispone che per l'avvenire». 
    2.- Si e'  costituita  in  giudizio  la  Regione  autonoma  Valle
d'Aosta la quale ha chiesto il rigetto delle censure. 
    Riguardo all'impugnato art. 2, la difesa regionale osserva che si
tratta di una norma meramente procedurale che non pone  alcun  limite
quantitativo  alla  apertura  di  nuovi  esercizi   commerciali,   ma
attribuisce un mero potere di indirizzo  alla  Giunta  regionale,  al
quale non sarebbe connesso alcun potere sanzionatorio  o  inibitorio.
Inoltre, il comma 1-bis dell'art. 1 della stessa legge chiarisce  che
l'apertura, il trasferimento  e  l'ampliamento  di  superficie  degli
esercizi commerciali non sono  soggetti  a  contingenti  numerici,  a
limiti territoriali, a vincoli  merceologici  o  di  qualsiasi  altra
natura. D'altra parte, l'eventuale violazione di questa norma sarebbe
al piu' sindacabile davanti al giudice amministrativo. 
    Inoltre, l'attribuzione di tale potere di indirizzo  alla  Giunta
sarebbe rispettoso della tutela della concorrenza in quanto basato su
parametri oggettivi. 
    Infine,  le  censure  non  terrebbero  conto   delle   competenze
legislative della Regione in materia di  commercio.  La  disposizione
impugnata non avrebbe finalita' di regolare la concorrenza,  ma  solo
di  assicurare   una   equilibrata   razionalizzazione   della   rete
distributiva in rapporto alle  varie  categorie  e  dimensioni  degli
esercizi commerciali. 
    Riguardo alle censure concernenti l'art. 3, la  difesa  regionale
sostiene che l'abrogazione da parte del legislatore  nazionale  delle
norme che prescrivono il possesso dei requisiti di cui  all'art.  71,
comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 non comporterebbe  automaticamente
l'illegittimita' delle norme regionali che continuino  a  prevederli,
posto che la direttiva 12 dicembre 2006,  n.  2006/123/CE  (Direttiva
del Parlamento europeo  e  del  Consiglio  relativa  ai  servizi  nel
mercato  interno),  lascerebbe  liberta'  ai  legislatori  statali  e
regionali, di mantenere  la  previsione  di  tali  requisiti  per  il
settore merceologico alimentare. 
    Inoltre, l'abrogazione dei  requisiti  in  parola  da  parte  del
legislatore  statale  avrebbe  rimesso  al   legislatore   regionale,
nell'esercizio delle sue  competenze  in  materia  di  commercio,  il
potere discrezionale di individuare i requisiti  per  esercitare  una
determinata attivita' commerciale. 
    Infondata sarebbe, altresi', la censura concernente l'art.  4  in
quanto con tale disposizione il  legislatore  regionale  non  avrebbe
affatto  disciplinato  l'attivita'  commerciale  su  area   pubblica,
limitandosi solo ad escluderla dal suo ambito  di  applicazione.  Per
tale ragione non avrebbe introdotto alcun limite al suo esercizio. 
    Ma anche a voler ritenere diversamente, la Regione  osserva  come
tale tipo di attivita', essendo strettamente correlata all'uso di una
proprieta' pubblica, richiederebbe una disciplina speciale. Lo stesso
art. 28, comma 13, del d.lgs. n.  114  del  1998  consentirebbe  alle
Regioni e agli  enti  locali  di  stabilire  limiti  e  modalita'  di
utilizzo delle aree pubbliche in quanto a disponibilita' limitata. 
    In ordine alle censure aventi ad  oggetto  l'art.  7,  la  difesa
richiama le argomentazioni gia'  svolte  con  riguardo  alle  censure
relative all'art. 2 della legge regionale. 
    Quanto all'art. 11 della legge regionale, la  resistente  osserva
come tale disposizione, nel vietare nei centri storici  l'apertura  o
il  trasferimento  di  sede  delle  grandi   strutture   commerciali,
costituirebbe esercizio non solo della potesta' esclusiva in  materia
di commercio,  ma  anche  di  quella  in  materia  di  pianificazione
territoriale e di governo del territorio prevista dallo  statuto.  Al
riguardo, la difesa regionale richiama la giurisprudenza della  Corte
di giustizia dell'Unione europea (sentenza 22 ottobre 2009, in  causa
C-348/08, Choque Cabrera) che  ha  riconosciuto  la  legittimita'  di
limitazioni all'accesso al mercato giustificate da motivi  imperativi
di interesse generale, purche'  non  sorrette  da  ragioni  puramente
economiche. Pertanto, le limitazioni  poste  dalla  norma  in  parola
sarebbero conformi alla giurisprudenza comunitaria. 
    Infine,  la  censura  avente  ad  oggetto   l'art.   18   sarebbe
inammissibile o infondata. 
    Tale disposizione avrebbe infatti una valenza solo procedimentale
non  introducendo  alcun   effetto   retroattivo   nella   disciplina
sanzionatoria, in quanto le sanzioni in  essa  previste  regolano  le
fattispecie che si sono verificate sotto la sua vigenza. 
    3.-  In  prossimita'  dell'udienza  pubblica,   la   Regione   ha
depositato una memoria nella  quale,  oltre  a  ribadire  le  proprie
difese, ha richiamato il parere  reso  dall'Autorita'  garante  della
concorrenza e del mercato in data 11 dicembre 2013,  in  ordine  alla
modifica dell'art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201  (Disposizioni  urgenti  per  la   crescita,   l'equita'   e   il
consolidamento dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, ad  opera
dell'art. 30, comma 5-ter, del decreto-legge 21 giugno  2013,  n.  69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 9  agosto  2013,  n.
98. 
    Si afferma che in tale parere l'Autorita' avrebbe chiarito che le
Regioni potranno legittimamente  introdurre  restrizioni  per  quanto
riguarda  le  aree  di  insediamento  di   attivita'   produttive   o
commerciali,  purche'  siano  rispettose   del   principio   di   non
discriminazione e giustificate  dal  perseguimento  di  un  interesse
pubblico costituzionalmente rilevante. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con il ricorso  indicato
in epigrafe ha  promosso  questioni  di  legittimita'  costituzionale
degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge  della  Regione  autonoma
Valle d'Aosta/Vallee d'Aoste 25 febbraio 2013,  n.  5  (Modificazioni
alla legge regionale  7  giugno  1999,  n.  12  recante  "Principi  e
direttive   per   l'esercizio   dell'attivita'   commerciale"),    in
riferimento agli artt. 25 e 117, secondo comma,  lettere  l)  ed  e),
della Costituzione. 
    Il ricorrente impugna innanzitutto l'art. 2 della legge reg. n. 5
del 2013, il quale  nell'inserire  l'art.  1-bis  nella  legge  della
Regione autonoma Valle d'Aosta 7  giugno  1999,  n.  12  (Principi  e
direttive per l'esercizio  dell'attivita'  commerciale),  attribuisce
alla  Giunta  regionale  il  compito  di  individuare,   sentite   le
associazioni delle imprese, gli indirizzi per il conseguimento  degli
obiettivi di equilibrio della  rete  distributiva  in  rapporto  alle
diverse categorie e alla dimensione  degli  esercizi,  tenendo  conto
anche dell'interesse dei consumatori alla  qualita',  alla  varieta',
all'accessibilita'   e   alla   convenienza   dell'offerta.   Ritiene
l'Avvocatura dello Stato che tale disposizione violerebbe l'art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost. in quanto riconoscerebbe alla Giunta
regionale una discrezionalita' troppo ampia, suscettibile di limitare
ingiustificatamente l'apertura di nuovi  esercizi  commerciali  e  di
medie e/o grandi  strutture  di  vendita  per  tutelare  «non  meglio
specificati obiettivi di equilibrio della rete distributiva». 
    L'Avvocatura censura, inoltre, l'art. 3 della legge reg. n. 5 del
2013, il quale ha sostituito l'art. 3 della  legge  reg.  n.  12  del
1999, stabilendo che anche per l'esercizio dell'attivita' commerciale
nel settore merceologico alimentare effettuata nei confronti  di  una
determinata cerchia di persone e' necessario il possesso di  uno  dei
requisiti professionali previsti dall'art. 71, comma 6,  del  decreto
legislativo  26  marzo  2010,  n.  59  (Attuazione  della   direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). In tal modo  la
disposizione in parola violerebbe l'art. 117, secondo comma,  lettera
e), Cost. in quanto si porrebbe in contrasto con l'art. 71, comma  6,
del d.lgs. n. 59 del  2010,  il  quale,  a  seguito  delle  modifiche
introdotte dall'art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n.  147
(Disposizioni integrative e correttive  del  decreto  legislativo  26
marzo 2010, n. 59, recante attuazione  della  direttiva  2006/123/CE,
relativa ai servizi  nel  mercato  interno),  non  richiede  piu'  il
possesso di tali requisiti per le attivita' commerciali  nel  settore
merceologico alimentare effettuate nei confronti di  una  determinata
cerchia di persone. 
    E' altresi' impugnato l'art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il
quale, nell'inserire l'art. 3-bis nella legge reg. n.  12  del  1999,
dispone che le attivita' commerciali siano svolte senza  il  rispetto
di orari di apertura o di  chiusura  e  senza  obblighi  di  chiusura
domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale,  «Fatta
eccezione per  l'attivita'  di  commercio  su  area  pubblica».  Tale
disposizione, nell'escludere dall'ambito della liberalizzazione degli
orari  di  apertura  e  chiusura  il  commercio  su  area   pubblica,
violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. ponendosi  in
contrasto  con  le   disposizioni,   preposte   alla   tutela   della
concorrenza,  contenute  nell'art.  28,   comma   13,   del   decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina  relativa
al settore del commercio, a norma dell'articolo  4,  comma  4,  della
legge  15  marzo  1997,  n.  59),  per  il  quale  sono   ammissibili
limitazioni solo per esigenze di sostenibilita' ambientale o sociale. 
    Ad avviso del ricorrente, anche l'art. 7 della legge  reg.  n.  5
del 2013 violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Esso
infatti, nel sostituire l'art. 5 della legge reg.  n.  12  del  1999,
introdurrebbe  l'obbligo  dell'autorizzazione  per   l'apertura,   il
trasferimento di sede e l'ampliamento della superficie di una media o
grande  struttura  di   vendita,   e   subordinerebbe   il   rilascio
dell'autorizzazione per i centri di vendita con superficie  superiore
a 1.500 metri quadrati al parere della struttura regionale competente
in materia di commercio che  attesta  la  conformita'  dell'attivita'
agli indirizzi individuati dalla Giunta regionale previsti  dall'art.
1-bis.  In   tal   modo   la   disposizione   impugnata   limiterebbe
ingiustificatamente l'apertura di nuovi  esercizi  commerciali  e  di
medie e/o grandi strutture di vendita. 
    E' impugnato, altresi', l'art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013,
il quale ponendo il  divieto,  nei  centri  storici,  di  apertura  e
trasferimento   di   sede   delle   grandi   strutture    commerciali
contrasterebbe con l'art. 117, secondo comma, lettera  e),  Cost.  in
quanto, introducendo una preclusione assoluta  e  riferita  non  solo
alla  apertura  ma  anche   al   trasferimento   di   sede,   sarebbe
eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale. 
    Infine il ricorrente censura l'art. 18 della legge reg. n. 5  del
2013, il quale stabilisce che le disposizioni contenute  nella  legge
medesima,  ivi  comprese  quelle   che   inaspriscono   le   sanzioni
amministrative, trovano applicazione anche nei procedimenti in  corso
alla data di entrata in vigore della legge  stessa.  Tale  previsione
contrasterebbe con gli artt. 25 e 117,  secondo  comma,  lettera  l),
Cost. in quanto violerebbe il principio  generale  del  tempus  regit
actum ribadito anche dall'art. 11 delle preleggi in base al quale  la
legge non dispone che per l'avvenire. 
    2.- La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della
legge reg. Valle d'Aosta n. 5 del 2013 e' fondata. 
    L'art.  1,  comma  1-bis,  della  legge  reg.  n.  12  del  1999,
introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge censurata,  dispone  che
«l'apertura,  il  trasferimento  di  sede   e   l'ampliamento   della
superficie di nuovi esercizi commerciali sul territorio regionale non
sono soggetti  a  contingenti  numerici,  a  limiti  territoriali,  a
vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura,  e  possono  essere
vietati o limitati esclusivamente quando siano in  contrasto  con  la
normativa in materia di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni
culturali, del territorio e  dell'ambiente,  ivi  incluso  l'ambiente
urbano con  particolare  riferimento  alla  tutela  e  allo  sviluppo
equilibrato dello spazio vitale  urbano  e  alla  necessita'  di  uno
sviluppo organico  e  controllato  del  territorio  e  del  traffico,
secondo quanto stabilito [...]  dagli  indirizzi  regionali  volti  a
promuovere e a mantenere un mercato distributivo aperto per la tutela
della collettivita' dei consumatori». 
    Il ricorrente ha impugnato l'art. 2 della legge  reg.  n.  5  del
2013 il quale inserisce l'art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999.
Esso dispone che: «La Giunta regionale, con propria  deliberazione  e
sentite  le  associazioni  delle  imprese  esercenti   il   commercio
maggiormente  rappresentative  in  ambito  regionale,  definisce  gli
indirizzi di cui all'articolo 1, comma 1-bis, per la  determinazione,
sulla base di criteri e parametri  oggettivi  e  nell'osservanza  dei
vincoli di cui al medesimo articolo, degli  obiettivi  di  equilibrio
della rete distributiva in rapporto alle  diverse  categorie  e  alla
dimensione degli  esercizi,  con  particolare  riguardo  alle  grandi
strutture di vendita, tenuto conto  della  specificita'  dei  singoli
territori  e  dell'interesse  dei  consumatori  alla  qualita',  alla
varieta', all'accessibilita' e alla convenienza dell'offerta». 
    2.1.- La  disposizione  in  parola  incide  sulla  materia  della
«tutela della concorrenza» spettante, ai sensi dell'art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva  del  legislatore
statale. 
    Com'e' noto, infatti, la recente giurisprudenza costituzionale ha
affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante  in
ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori  che
a titolo principale  incidono  sulla  concorrenza,  quali  le  misure
legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i
comportamenti delle imprese che incidono  negativamente  sull'assetto
concorrenziale dei mercati e che  ne  disciplinano  le  modalita'  di
controllo,  eventualmente  anche  di  sanzione;  b)  sia  le   misure
legislative di promozione, che  mirano  ad  aprire  un  mercato  o  a
consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o
eliminando   vincoli   al   libero   esplicarsi    della    capacita'
imprenditoriale e della competizione tra imprese,  rimuovendo  cioe',
in generale, i vincoli alle modalita' di  esercizio  delle  attivita'
economiche (ex multis: sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n.  160  del
2009, n. 430 e n. 401 del 2007)». Inoltre, la Corte ha affermato  che
la  materia  «tutela  della  concorrenza»,  dato  il  suo   carattere
finalistico, non e' una materia di estensione certa o delimitata,  ma
e' configurabile come  trasversale,  «corrispondente  ai  mercati  di
riferimento delle attivita' economiche incise  dall'intervento  e  in
grado  di  influire  anche  su  materie  attribuite  alla  competenza
legislativa, concorrente o residuale, delle regioni» (cosi',  tra  le
piu' recenti, sentenza n. 38 del 2013; si veda, inoltre, la  sentenza
n. 299 del 2012). 
    Dalla natura trasversale della competenza esclusiva  dello  Stato
in materia di «tutela  della  concorrenza»  la  Corte  ha  tratto  la
conclusione «che il titolo  competenziale  delle  Regioni  a  statuto
speciale in materia di commercio non e' idoneo ad impedire  il  pieno
esercizio della suddetta  competenza  statale  e  che  la  disciplina
statale della concorrenza costituisce un limite alla  disciplina  che
le medesime  Regioni  possono  adottare  in  altre  materie  di  loro
competenza» (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012). 
    Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in
questa  materia  e'  stato  ritenuto  l'art.   31,   comma   2,   del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  22
dicembre 2011, n. 214. Tale  disposizione  detta  una  disciplina  di
liberalizzazione  e  di  eliminazione   di   vincoli   all'esplicarsi
dell'attivita' imprenditoriale nel settore commerciale stabilendo che
«costituisce  principio  generale   dell'ordinamento   nazionale   la
liberta' di apertura di nuovi  esercizi  commerciali  sul  territorio
senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli  di  qualsiasi
altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della  salute,  dei
lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei  beni
culturali». 
    2.2.- Il censurato  art.  2  della  legge  reg.  n.  5  del  2013
conferisce alla Giunta regionale un potere di  indirizzo  volto  alla
determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva  in
rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi.  La
previsione e la conformazione di tale potere e'  tale  da  consentire
alla Giunta di incidere e condizionare l'agire  degli  operatori  sul
mercato, incentivando o viceversa limitando l'apertura degli esercizi
commerciali in relazione alle diverse tipologie  merceologiche,  alle
loro dimensioni, ovvero al territorio. E' evidente,  dunque,  che  la
previsione in esame, autorizzando la Giunta  "a  definire  indirizzi"
per assicurare l'equilibrio della rete  distributiva,  consente  alla
Regione  interventi  che  ben  possono  risolversi  in  limiti   alle
possibilita' di accesso sul mercato degli operatori economici.  Ma  -
come gia' rilevato da  questa  Corte  -  e'  ancor  prima  la  stessa
attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale in  una  materia
devoluta  alla  competenza  legislativa  esclusiva  dello   Stato   a
determinare la lesione dell'art.  117,  secondo  comma,  lettera  e),
Cost. (sentenza n. 38 del 2013). 
    Pertanto deve essere dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013. 
    3.- Al riconoscimento della illegittimita'  costituzionale  della
disposizione ora esaminata segue la fondatezza della  censura  avente
ad oggetto l'art.  7  della  legge  reg.  n.  5  del  2013  il  quale
disciplina le medie e grandi strutture di vendita. 
    Il  comma  1  di  tale  disposizione  subordina  l'apertura,   il
trasferimento di sede e l'ampliamento della superficie di una media o
grande struttura di vendita ad apposita  «autorizzazione  rilasciata,
nel  rispetto  delle  determinazioni  assunte  nel  piano  regolatore
generale comunale urbanistico e paesaggistico (PRG) e degli indirizzi
di cui all'articolo  1-bis,  dallo  sportello  unico  competente  per
territorio  ai  sensi  dell'articolo  10  della  legge  regionale  n.
12/2011». 
    Il comma 4, impugnato dallo Stato, stabilisce che: «Limitatamente
alle strutture con superficie  di  vendita  complessiva  superiore  a
1.500  metri  quadrati,  l'autorizzazione  di  cui  al  comma  1   e'
subordinata al parere della struttura regionale competente in materia
di commercio,  rilasciato  entro  trenta  giorni  dalla  richiesta  e
attestante la conformita' agli indirizzi di cui  all'articolo  1-bis.
Decorso  inutilmente  il  predetto  termine,  il  parere  si  intende
favorevolmente espresso». 
    Tale   disposizione,   dunque,   fa   dipendere    il    rilascio
dell'autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita
dall'attestazione della conformita'  agli  indirizzi  definiti  dalla
Giunta regionale ai sensi dell'art. 1-bis della legge reg. n. 12  del
1999, introdotto - come si e' visto - dall'art. 2 della legge reg. n.
5 del 2013. La norma impugnata rende evidente che - a  differenza  di
quanto sostenuto dalla difesa regionale, secondo la quale  il  potere
di indirizzo sarebbe sfornito di potesta' inibitoria o  sanzionatoria
- tale potere incide direttamente sulla possibilita'  di  accesso  al
mercato  degli  operatori  economici,  dal   momento   che   preclude
l'apertura, il trasferimento di sede e l'ampliamento  degli  esercizi
commerciali in esso previsti  laddove  non  risultino  conformi  agli
indirizzi fissati dalla Giunta. 
    Pertanto, stante il nesso che lega la disposizione in questione a
quella di cui all'art.  2  sopra  esaminata,  all'accoglimento  della
censura   relativa   a   questa   norma   consegue   l'illegittimita'
costituzionale anche  dell'art.  7  impugnato,  nella  parte  in  cui
subordina il  rilascio  dell'autorizzazione  in  esso  prevista  alla
attestazione del rispetto degli indirizzi di cui all'art. 1-bis della
legge reg. n. 12 del 1999. 
    4.- Il ricorrente impugna, altresi', l'art. 3 della legge reg. n.
5 del 2013 il quale sostituisce l'art. 3 della legge reg. n.  12  del
1999 che disciplina i requisiti  di  accesso  e  di  esercizio  delle
attivita' commerciali. 
    Oggetto di censura e' il comma 5 il quale  stabilisce:  «Oltre  a
quanto previsto nei commi 1, 2, 3  e  4,  l'esercizio,  in  qualsiasi
forma, di un'attivita' di commercio relativa al settore  merceologico
alimentare,  anche  se  effettuata  nei  confronti  di  una   cerchia
determinata di persone, e' consentito a coloro che siano in possesso,
alla data di presentazione della segnalazione certificata  di  inizio
attivita' (SCIA) di cui  all'articolo  22  della  legge  regionale  6
agosto 2007, n. 19 (Nuove disposizioni  in  materia  di  procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti  amministrativi),
o della domanda per il rilascio dell'autorizzazione, anche di uno dei
requisiti professionali  elencati  dall'articolo  71,  comma  6,  del
D.Lgs. 59/2010». 
    Lo  Stato  censura  la  disposizione  regionale  per   violazione
dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si porrebbe
in contrasto con l'art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59  del  2010  che
esclude la necessita' del possesso dei requisiti in esso previsti nel
caso in cui l'attivita' sia esercitata nei confronti di  una  cerchia
determinata di persone. 
    4.1.- La disposizione statale richiamata dal ricorrente, e cui la
norma regionale censurata rinvia, individua i requisiti di accesso  e
di esercizio delle  attivita'  commerciali.  Con  specifico  riguardo
all'attivita'  di  commercio  al  dettaglio   relativa   al   settore
merceologico alimentare o  di  un'attivita'  di  somministrazione  di
alimenti e bevande e' richiesto  il  possesso  di  uno  dei  seguenti
requisiti professionali: 
    «a) avere frequentato con esito positivo un  corso  professionale
per  il  commercio,  la  preparazione  o  la  somministrazione  degli
alimenti, istituito o riconosciuto dalle  regioni  o  dalle  province
autonome di Trento e di Bolzano; 
    b) avere, per  almeno  due  anni,  anche  non  continuativi,  nel
quinquennio precedente, esercitato in proprio attivita' d'impresa nel
settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e
bevande o avere prestato la propria opera, presso  tali  imprese,  in
qualita'  di  dipendente  qualificato,   addetto   alla   vendita   o
all'amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualita'
di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o,  se  trattasi
di   coniuge,   parente   o   affine,   entro   il    terzo    grado,
dell'imprenditore, in qualita' di  coadiutore  familiare,  comprovata
dalla iscrizione all'Istituto nazionale per la previdenza sociale; 
    c)  essere  in  possesso  di  un  diploma  di  scuola  secondaria
superiore o  di  laurea,  anche  triennale,  o  di  altra  scuola  ad
indirizzo professionale, almeno triennale, purche' nel corso di studi
siano previste materie attinenti al commercio,  alla  preparazione  o
alla somministrazione degli alimenti». 
    Nel testo originario la norma statale richiedeva espressamente il
possesso di uno di tali requisiti anche nel caso in  cui  l'attivita'
fosse svolta «nei confronti di una cerchia determinata  di  persone».
L'art. 8 del d.lgs. n. 147 del 2012, modificando l'art. 71, comma  6,
del d.lgs. n. 59 del 2010 ha soppresso tale  inciso  di  tal  che  la
norma statale non richiede piu' il possesso  dei  suddetti  requisiti
per tale tipologia di attivita'. 
    A differenza della disposizione statale ora esaminata,  l'art.  3
della legge reg. n. 5 del 2013 - pur se tale legge e'  stata  emanata
successivamente alla modifica dell'art. 71 del d.lgs. n. 59 del  2010
- continua a richiedere il possesso degli stessi  requisiti  previsti
dalla norma statale anche nel caso in cui  l'attivita'  di  commercio
nel settore merceologico alimentare sia svolta nei confronti  di  una
cerchia determinata di persone. 
    4.2.- La censura proposta avverso tale  disposizione  legislativa
non e' fondata. 
    I requisiti richiesti dall'art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del
2010 consistono - come si e' visto - nell'aver frequentato  un  corso
professionale ad hoc, ovvero nella pregressa specifica esperienza nel
settore alimentare per un certo periodo di tempo, ovvero  ancora  nel
possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio
di  materie  attinenti  al  commercio,  alla  preparazione   o   alla
somministrazione degli alimenti. 
    Tali requisiti, considerata la loro natura,  appaiono  funzionali
ad  assicurare  che  coloro  che  svolgono  attivita'   nel   settore
merceologico alimentare siano dotati di una specifica preparazione ed
esperienza  professionale  all'evidente  scopo  di  salvaguardare  la
salute dei consumatori in un settore delicato e fondamentale qual  e'
quello alimentare, assicurando che coloro che maneggiano, preparano e
commerciano alimenti abbiano maturato una adeguata  professionalita'.
Questa conclusione e' avvalorata dalla considerazione  che  l'art.  3
del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per  il
rilancio  economico   e   sociale,   per   il   contenimento   e   la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di  contrasto  all'evasione  fiscale),  convertito,  con
modificazioni, dall'art.  1  della  legge  4  agosto  2006,  n.  248,
stabilisce che, «al fine di  garantire  la  liberta'  di  concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il  corretto  ed  uniforme
funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'
all'acquisto di prodotti e  servizi  sul  territorio  nazionale»,  le
attivita' commerciali sono svolte senza limiti  e  prescrizioni,  tra
cui il possesso di requisiti professionali soggettivi. Tuttavia, poi,
fa espressamente «salvi quelli riguardanti il  settore  alimentare  e
della somministrazione degli alimenti e delle bevande» (art. 3, comma
1, lettera a). Cio' attesta che  lo  stesso  legislatore  statale  ha
ritenuto che i requisiti in esame  non  incidano  sul  profilo  della
liberalizzazione del  mercato,  apparendo  necessari  per  soddisfare
esigenze di sicurezza alimentare. 
    Tali considerazioni portano ad escludere che la  norma  impugnata
attenga alla materia della «tutela della concorrenza» ponendo  limiti
o barriere all'accesso  al  mercato  con  effetti  restrittivi  della
concorrenza. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della
salute», attribuita dall'art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza
legislativa concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a
salvaguardare la salute dei consumatori. 
    Pertanto, l'art. 3 impugnato,  nel  richiedere  il  possesso  dei
requisiti di cui all'art. 71, comma 6, del  d.lgs.  n.  59  del  2010
anche laddove le attivita' nel settore merceologico alimentare  siano
svolte nei confronti di una cerchia limitata di persone,  costituisce
espressione  della  potesta'  concorrente  della  Regione  ai   sensi
dell'art.  117,  terzo  comma,  Cost.,  non  limitata   da   principi
fondamentali della legislazione statale che vengano ad impedirla. 
    5.- L'art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il  quale  inserisce
l'art. 3-bis nella  legge  reg.  n.  12  del  1999,  dispone  che  le
attivita' commerciali siano svolte senza  il  rispetto  di  orari  di
apertura o di chiusura e senza  obblighi  di  chiusura  domenicale  e
festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per
l'attivita' di commercio su area pubblica». 
    Il ricorrente  sostiene  che  tale  disposizione,  nell'escludere
dalla applicazione delle norme di  liberalizzazione  degli  orari  di
apertura e  chiusura  delle  attivita'  commerciali  quelle  su  area
pubblica, si porrebbe in contrasto con  l'art.  117,  secondo  comma,
lettera e), Cost. in quanto violerebbe le disposizioni, preposte alla
tutela della concorrenza,  contenute  nell'art.  28,  comma  13,  del
d.lgs. n. 114 del 1998 per il quale sono ammissibili limitazioni solo
per esigenze di sostenibilita' ambientale o sociale. 
    5.1.- La questione e' fondata. 
    Occorre al riguardo considerare che il profilo degli orari e  dei
giorni  di  apertura  e  chiusura  degli  esercizi   commerciali   e'
disciplinato dall'art. 3, comma 1, lettera d-bis) del d.l. n. 223 del
2006, come modificato dall'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale
stabilisce che «al fine di garantire la liberta' di concorrenza [...]
le attivita' commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto - tra l'altro - di
orari di apertura e chiusura, dell'obbligo della chiusura  domenicale
e festiva,  nonche'  di  quello  della  mezza  giornata  di  chiusura
infrasettimanale. 
    Nell'interpretare la citata normativa, questa Corte  ha  ritenuto
«che essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo  vincoli
e limiti alle modalita' di esercizio delle attivita' economiche, e ha
cosi' proseguito: "L'eliminazione dei limiti agli orari e  ai  giorni
di apertura al  pubblico  degli  esercizi  commerciali  favorisce,  a
beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato piu' dinamico e
piu' aperto all'ingresso di nuovi operatori e amplia la  possibilita'
di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti  con
l'obiettivo di promuovere la  concorrenza,  risultando  proporzionate
allo scopo di  garantire  l'assetto  concorrenziale  del  mercato  di
riferimento relativo alla distribuzione commerciale" (sentenza n. 299
del 2012 [...])» (sentenza n. 38 del 2013). 
    Ora, tra le attivita' commerciali disciplinate dal d.lgs. n.  114
del 1998, cui l'art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 fa riferimento, vi e'
anche quella che si svolge su aree pubbliche (artt. 27 e seguenti) di
tal  che,  anche  per  queste  il  legislatore  statale   ha   inteso
espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari  di  apertura  e
chiusura dell'attivita'. 
    Le uniche limitazioni che e'  possibile  porre  allo  svolgimento
dell'attivita' di commercio su area pubblica sono quelle  individuate
dall'art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998,  come  modificato
dal  d.lgs.  n.  59  del   2010,   riconducibili   ad   esigenze   di
sostenibilita' ambientale e sociale, a finalita' di tutela delle zone
di pregio artistico, storico, architettonico  e  ambientale,  nonche'
quelle individuate dall'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011. 
    L'art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, pur eliminando i vincoli
alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua espressamente  dal
suo  ambito  di  applicazione  le  attivita'  di  commercio  su  area
pubblica. Il chiaro tenore letterale della disposizione  consente  di
ritenere che il principio di liberalizzazione  degli  orari  in  essa
affermato non si applichi all'attivita' commerciale su area pubblica.
In tal modo pero', essa si presta a reintrodurre limiti e vincoli  in
contrasto  con  la  normativa  statale  di  liberalizzazione,   cosi'
invadendo la potesta' legislativa esclusiva dello Stato in materia di
tutela della concorrenza e  violando,  quindi,  l'art.  117,  secondo
comma, lettera e), Cost. 
    Pertanto, deve essere dichiarata l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 4 nella  parte  in  cui,  nel  disporre  che  le  attivita'
commerciali sono svolte senza il rispetto di orari di apertura  o  di
chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e  festiva  o  della
mezza giornata infrasettimanale, esclude l'attivita' di commercio  su
area pubblica. 
    6.- E' impugnato l'art. 11 della legge reg. n.  5  del  2013,  il
quale inserisce nell'art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il  comma
2-bis  disponendo  che   «In   attuazione   dei   principi   previsti
dall'articolo  1,  comma  1-bis,  nei  centri  storici  sono  vietate
l'apertura e il trasferimento  di  sede  delle  grandi  strutture  di
vendita». 
    Il ricorrente sostiene che la previsione di un  divieto  assoluto
tanto  alla  apertura  quanto  al  trasferimento  di  sede  di  dette
strutture di vendita nei  centri  storici,  incidendo  nella  materia
della «tutela della  concorrenza»,  violerebbe  l'art.  117,  secondo
comma, lettera e), Cost. in quanto sarebbe eccessivamente restrittivo
e dunque anticoncorrenziale. 
    Ad avviso della difesa regionale la norma impugnata costituirebbe
esercizio legittimo della potesta' legislativa esclusiva regionale in
materia  di  «commercio»,  nonche'  in  materia   di   pianificazione
territoriale prevista dall'art. 2, primo  comma,  lettera  g),  della
legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per  la
Valle d'Aosta). L'esercizio di tale potesta' sarebbe reso  necessario
dalle peculiari caratteristiche territoriali della Regione  e  «dalla
limitata ampiezza degli spazi vitali». La difesa regionale ha inoltre
richiamato la giurisprudenza della  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea (sentenza 11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio  Group,
e sentenza 24 marzo 2011,  in  causa  C-400/08,  Commissione  europea
contro Regno di Spagna) che avrebbe riconosciuto la  legittimita'  di
limitazioni dell'accesso al mercato giustificate da motivi imperativi
di interesse generale, purche'  non  sorrette  da  ragioni  puramente
economiche.  Infine,  la  Regione  ha  richiamato  il   parere   reso
dall'Autorita' garante della concorrenza in data  11  dicembre  2013,
sull'art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011,  nel  quale  avrebbe
riconosciuto la legittimita'  di  misure  regionali  che  introducono
restrizioni relativamente alle  aree  di  insediamento  di  attivita'
produttive e commerciali, purche' rispettose  del  principio  di  non
discriminazione. 
    6.1.- La censura e' fondata. 
    Occorre preliminarmente  osservare  come  la  evocata  competenza
primaria in materia di urbanistica deve in ogni  caso  svolgersi,  ai
sensi dell'art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto  regionale,
«In  armonia  con  la  Costituzione  e  i  principi  dell'ordinamento
giuridico  della   Repubblica   e   col   rispetto   degli   obblighi
internazionali e  degli  interessi  nazionali,  nonche'  delle  norme
fondamentali  delle  riforme  economico-sociali  della   Repubblica».
Inoltre, questa Corte ha osservato come  il  disposto  dell'art.  31,
comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, il quale sancisce la  liberta'  di
apertura  di  nuovi  esercizi  commerciali  sul   territorio,   senza
contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura,
«deve essere ricondotto nell'ambito della tutela  della  concorrenza,
rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui
all'art. 117, secondo comma, lettera e),  Cost.,  norma  in  presenza
della quale i titoli competenziali delle  Regioni,  anche  a  statuto
speciale, in materia di commercio e di  governo  del  territorio  non
sono idonei ad impedire l'esercizio della  detta  competenza  statale
(ex  multis:  sentenza  n.  299  del  2012  citata,  punto  6.1.  del
Considerato in diritto),  che  assume  quindi  carattere  prevalente»
(sentenza n. 38 del 2013; si veda, altresi', la sentenza  n.  25  del
2009). 
    Non pertinente  appare,  poi,  il  richiamo  alla  giurisprudenza
comunitaria fatto dalla difesa  regionale.  Come  gia'  affermato  da
questa Corte,  la  sentenza  della  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea in data 24 marzo  2011  (in  causa  C-400/08)  «riguarda,  in
riferimento a grandi esercizi commerciali, restrizioni alla  liberta'
di stabilimento, che siano applicabili senza  discriminazioni  basate
sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere  giustificate  da
motivi imperativi d'interesse generale, a condizione che siano idonee
a garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito e  non  vadano
oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i  motivi
imperativi riconosciuti dalla  Corte  figurano,  tra  gli  altri,  la
protezione dell'ambiente e la razionale gestione del territorio. Come
si vede, si tratta di una fattispecie diversa da quella qui in esame,
sia per la diversita' del principio evocato (liberta' di stabilimento
e non tutela della concorrenza), sia per le caratteristiche di  fatto
delle due vicende» (sentenza n. 38 del 2013). 
    Le stesse argomentazioni possono essere svolte anche nel caso  in
esame. 
    L'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011 consente di introdurre  limiti
alla apertura di nuovi esercizi commerciali  per  ragioni  di  tutela
dell'ambiente  «ivi  incluso  l'ambiente  urbano»  e  riconosce  alle
Regioni la possibilita' di  prevedere  «anche  aree  interdette  agli
esercizi  commerciali,  ovvero  limitazioni  ad  aree  dove   possano
insediarsi  attivita'  produttive   e   commerciali».   Tuttavia   la
disposizione  statale  stabilisce  che  cio'  debba  avvenire  «senza
discriminazioni tra gli operatori». 
    Lo stesso parere dell'Autorita' garante della concorrenza  e  del
mercato citato dalla difesa regionale, nel richiamare la possibilita'
riconosciuta alle  Regioni  dalla  normativa  statale  di  introdurre
restrizioni con riguardo alle aree di  insediamento  delle  attivita'
commerciali,  afferma  che  cio'  puo'  avvenire  a  condizione   del
«rigoroso   rispetto   dei   principi   di   stretta   necessita'   e
proporzionalita' della limitazione, oltre che del  principio  di  non
discriminazione». 
    L'art. 11 censurato,  nel  vietare  con  legge  l'apertura  e  il
trasferimento nei centri storici delle grandi strutture  di  vendita,
preclude del tutto e  a  priori  detta  possibilita'.  Tale  divieto,
proprio per la sua  assolutezza,  costituisce  una  limitazione  alla
liberta' di  apertura  di  nuovi  esercizi  commerciali  e  viene  ad
incidere «direttamente  sull'accesso  degli  operatori  economici  al
mercato e, quindi, si risolve  in  un  vincolo  per  la  liberta'  di
iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere  attivita'  di
vendita» (sentenza n. 38 del 2013). 
    Per  tali  ragioni,  deve  essere   dichiarata   l'illegittimita'
costituzionale di tale disposizione. 
    7.- Il ricorrente ha, infine, impugnato  l'art.  18  della  legge
reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che «Le disposizioni  di  cui
agli articoli 1, 1-bis, 3, 4, 4-bis, 5, commi 1, 2 e 4,  9  e  11-ter
della  legge  regionale  n.  12/99,  come  modificati,  sostituiti  o
inseriti dalla presente legge, si  applicano  anche  ai  procedimenti
autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore della  medesima
legge». 
    L'Avvocatura dello Stato sostiene che la norma impugnata  farebbe
riferimento  anche  alle  disposizioni  che   inaspriscono   sanzioni
amministrative e che pertanto, stabilendo che esse si applicano anche
ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore  della  legge
medesima, si porrebbe in contrasto  con  il  principio  tempus  regit
actum in virtu' del quale la sanzione  da  irrogarsi  sarebbe  quella
applicabile in base alla norma vigente nel tempo in cui  fu  commesso
l'illecito. Conseguentemente,  l'articolo  impugnato  violerebbe  gli
artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost.  con  riferimento  a
quanto ribadito  dall'art.  11  delle  Disposizioni  sulla  legge  in
generale, secondo cui la legge non dispone che per l'avvenire. 
    La difesa regionale sostiene che le censure  sarebbero  infondate
in quanto l'art. 18 avrebbe valenza solo procedimentale e non avrebbe
invece alcun effetto retroattivo. 
    7.1.- Preliminarmente deve essere  dichiarata  l'inammissibilita'
della censura formulata in relazione  all'art.  117,  secondo  comma,
lettera l), Cost. dal momento che tale  parametro  risulta  meramente
evocato dal ricorrente  il  quale  non  ha  tuttavia  in  alcun  modo
motivato la censura (ex plurimis, sentenza n. 272 del 2013). 
    7.2.- La questione sollevata con riferimento all'art. 25 Cost. e'
fondata. 
    Benche' il ricorrente evochi il principio tempus regit actum, dal
contenuto della censura appare  chiaro  che  in  realta'  lamenta  la
violazione del principio di irretroattivita' delle  disposizioni  che
introducono sanzioni amministrative. 
    L'esame di tale censura deve prendere le mosse dalla sentenza  n.
196 del  2010  nella  quale  questa  Corte  ha  affermato  che  dalla
giurisprudenza    della     Corte     di     Strasburgo     formatasi
sull'interpretazione degli artt. 6 e 7  della  CEDU,  si  ricava  «il
principio  secondo  il   quale   tutte   le   misure   di   carattere
punitivo-afflittivo devono essere soggette alla  medesima  disciplina
della sanzione penale in senso stretto». 
    Detto  principio  e'  peraltro  desumibile  anche  dall'art.  25,
secondo  comma,  Cost.,  «il  quale  -  data  l'ampiezza  della   sua
formulazione («Nessuno puo'  essere  punito  [...]»)  -  puo'  essere
interpretato nel senso che ogni intervento  sanzionatorio,  il  quale
non abbia prevalentemente la funzione  di  prevenzione  criminale  (e
quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a  vere  e  proprie
misure di sicurezza), e' applicabile soltanto  se  la  legge  che  lo
prevede risulti gia' vigente al momento della commissione  del  fatto
sanzionato» (sempre sentenza n. 196 del 2010). 
    Analogo principio e' sancito altresi' dalla  disciplina  generale
relativa  agli  illeciti  amministrativi  prevista  dalla  legge   24
novembre 1981, n.  689  (Modifiche  al  sistema  penale),  la  quale,
all'art. 1, pone la regola per cui nessuno puo' essere assoggettato a
sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia  entrata
in vigore prima  della  commissione  della  violazione;  tale  regola
costituisce un principio generale di quello specifico sistema. 
    L'art. 18 impugnato, nell'indicare le varie disposizioni da  esso
introdotte, le quali devono avere applicazione anche ai  procedimenti
in corso, richiama espressamente l'art. 11-ter della legge reg. n. 12
del 1999 introdotto dall'art. 12, comma 1, della legge reg. n. 5  del
2013. 
    Tale   disposizione   prevede   l'irrogazione   della    sanzione
amministrativa pecuniaria del pagamento di una  somma  di  denaro  da
euro 1.800 a euro  6.000  per  coloro  che  esercitino  le  attivita'
commerciali di  cui  all'art.  4,  senza  aver  presentato  la  SCIA.
Assoggetta inoltre alla sanzione amministrativa del  pagamento  della
somma da euro 800 a  euro  3.000  coloro  che  non  comunichino  ogni
variazione relativa a stati, fatti, condizioni e titolarita' indicati
nella SCIA entro trenta giorni dal suo verificarsi. 
    La  disposizione   censurata,   dunque,   prevede   la   sanzione
amministrativa anche per comportamenti posti in essere  anteriormente
alla sua entrata in vigore, in tal  modo  violando  il  principio  di
irretroattivita' sancito dall'art. 25 Cost. 
    Conseguentemente,   deve   essere   dichiarata   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 18 della legge reg.  n.  5  del  2013  nella
parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite  da
tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si  applicano
ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.