ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 1,
secondo periodo, del decreto legislativo 23  febbraio  2006,  n.  109
(Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f,  della  legge  25  luglio
2005, n. 150), promossi dalla  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
civili, con ordinanza del 21 maggio 2014, e dal  Consiglio  superiore
della magistratura -  sezione  disciplinare,  con  ordinanza  del  14
luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 182 e 204  del  registro
ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 45 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visti gli atti di costituzione di D.P.M. e di M.T.; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  23  giugno  2015  il  Giudice
relatore Paolo Grossi; 
    uditi gli avvocati Gianfranco Iadecola e  Carmine  Di  Zenzo  per
D.P.M. e Francesco Saverio Marini per M.T. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio di legittimita' -  promosso  avverso
la sentenza con cui la sezione disciplinare del  Consiglio  superiore
della  magistratura  ha   dichiarato   il   ricorrente   responsabile
dell'incolpazione di cui all'art. 2, comma 1, lettera a), del decreto
legislativo 23 febbraio  2006,  n.  109,  recante  «Disciplina  degli
illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della
procedura  per  la  loro  applicabilita',  nonche'   modifica   della
disciplina in tema  di  incompatibilita',  dispensa  dal  servizio  e
trasferimento di ufficio dei magistrati,  a  norma  dell'articolo  1,
comma  1,  lettera  f),  della  legge  25  luglio  2005,   n.   150»,
infliggendogli le sanzioni della censura e del trasferimento di sede,
perche',  quale  magistrato  con  funzioni  di  giudice  aveva   (con
negligenza inescusabile)  omesso  di  dichiarare  tempestivamente  la
perdita di efficacia della misura cautelare degli arresti domiciliari
di due imputati, con un ritardo di cinquantasei giorni per entrambi -
la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza emessa il
21 maggio 2014 (iscritta al n. 182 del registro  ordinanze  dell'anno
2014),  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 13,  comma  1,  secondo  periodo,  del  menzionato  decreto
legislativo. 
    La  norma  -  che  al  primo  periodo  dispone  che  «La  sezione
disciplinare   del   Consiglio    superiore    della    magistratura,
nell'infliggere  una  sanzione  diversa  dall'ammonimento   e   dalla
rimozione, puo' disporre il trasferimento  del  magistrato  ad  altra
sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza
nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto  con  il
buon  andamento  dell'amministrazione  della   giustizia»   -   viene
censurata,  per  violazione  dell'art.  3   della   Costituzione,   e
limitatamente alle parole da «quando ricorre» a «nonche'», la'  dove,
nel periodo  successivo  prevede  che  «Il  trasferimento  e'  sempre
disposto quando ricorre una delle violazioni  previste  dall'articolo
2, comma 1, lettera a), nonche'  nel  caso  in  cui  e'  inflitta  la
sanzione della sospensione dalle funzioni». 
    Il Collegio rimettente afferma (in termini di rilevanza)  la  non
fondatezza dei motivi di impugnazione svolti  dal  ricorrente.  Sulla
base della propria giurisprudenza, la Corte di cassazione esclude, da
un lato, che la  menzionata  lettera  a)  del  comma  1  dell'art.  2
riguardi solo comportamenti del magistrato  intenzionalmente  diretti
ad arrecare ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti  e
non gia' le condotte colpose riferite (come nella specie) al  difetto
del  dovere  di  diligenza.  E  rileva,  dall'altro,  come   la   non
configurabilita' della scarsa rilevanza del fatto,  di  cui  all'art.
3-bis del medesimo d.lgs. sia stata adeguatamente vagliata e motivata
dal giudice a quo. 
    Nel merito, le sezioni unite rimettenti osservano che  -  vigente
la regola in base alla quale, per tutti gli illeciti puniti  con  una
sanzione diversa da  quella  minima,  l'irrogazione  della  ulteriore
sanzione   del   trasferimento   e'   facoltativa   e    condizionata
all'accertamento   dell'incompatibilita'   della    permanenza    del
magistrato  nella  sede  o  nell'ufficio  con   il   buon   andamento
dell'amministrazione della giustizia - solo nel caso delle violazioni
previste dalla lettera a) del comma 1 dell'art. 2,  il  trasferimento
stesso deve essere sempre  e  comunque  disposto,  con  un  meccanico
automatismo che si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza
e di uguaglianza. 
    Per il Collegio a quo - a fronte di una sanzione  particolarmente
afflittiva per  il  magistrato,  sotto  il  profilo  sia  morale  che
materiale - imporne indefettibilmente l'irrogazione come  conseguenza
di tutti i «comportamenti che, violando doveri  di  cui  all'art.  1,
arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle  parti»  (e
quindi di  ogni  condotta  contraria  al  dovere  del  magistrato  di
esercitare le funzioni attribuitegli «con imparzialita', correttezza,
diligenza,  laboriosita',  riserbo  e  equilibrio»,  oltre  che   nel
rispetto della «dignita' della  persona»)  comporta  l'equiparazione,
sotto il profilo sanzionatorio, di un  ampio  ventaglio  di  illeciti
disciplinari.  I   quali   sono   bensi'   accomunati   dall'elemento
dell'ingiusto danno o dell'indebito vantaggio per una delle parti, ma
possono risultare  di  ben  diversa  gravita',  essendovi  ricompresi
comportamenti sia intenzionali sia soltanto colposi,  che  consistono
inoltre nell'inosservanza di doveri non  tutti  di  pari  importanza.
Pertanto,   al   giudice   disciplinare,    in    violazione    della
«indispensabile    gradualita'    sanzionatoria»    connessa     alla
irrazionalita' di ogni  automatismo  sanzionatorio,  e'  impedito  di
tenere conto di volta in volta di queste differenze e  di  verificare
se l'applicazione della sanzione accessoria  sia  necessaria  per  il
conseguimento dello scopo, che le e' proprio, di evitare il contrasto
con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia, derivante
dalla permanenza del magistrato nella sede o nell'ufficio. 
    2.-  Si  e'  costituito  D.P.M.,  il  magistrato  ricorrente  nel
giudizio a quo, che, in via  principale,  contesta  il  principio  di
diritto affermato dalla Corte rimettente, nella parte in cui  esclude
la configurabilita' di  qualsiasi  rapporto  di  specialita'  tra  le
violazioni disciplinari di cui alle lettere  a)  e  g)  dell'art.  2,
comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, ed  afferma  che  le  violazioni
sanzionate sub lettera a) abbiano natura non  solo  dolosa  ma  anche
colposa. 
    In  subordine,  la  parte  privata  costituita  concorda  con  le
argomentazioni svolte a  sostegno  della  richiesta  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale della norma  censurata,  rimarcando  il
vulnus ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza arrecato da  un
sistema punitivo fondato sull'automatismo ed assolutamente disattento
alla  consistenza  e  gravita'  delle   singole   svariate   condotte
sanzionabili indiscriminatamente, ai sensi del citato art.  2,  comma
1, lettera a), con identico rigore  e  severita'  a  prescindere  dal
disvalore delle specifiche  violazioni  consumate  dal  magistrato  e
dalle loro rilevanza dolosa o colposa. 
    3.- Nel corso di un procedimento  disciplinare  a  carico  di  un
magistrato - incolpato  degli  illeciti  disciplinari  previsti,  tra
l'altro, dagli artt. 1 e 2, comma 1, lettere a) e g), del  d.lgs.  n.
109 del 2006  (perche'  incorso,  contro  i  doveri  di  diligenza  e
correttezza,  in  qualita'  di  giudice   delegato   alla   procedura
fallimentare relativa ad una srl dichiarata fallita con sentenza  del
Tribunale,  «in  grave  violazione  di  legge  dovuta  a   negligenza
inescusabile, disattendendo le disposizioni di cui agli artt. 25 e 31
L.F. che prevedono - ratione temporis - obblighi di direzione,  oltre
che di controllo e vigilanza, sull'operato del curatore fallimentare,
determinando  un  ingiusto  danno  ai   creditori   del   fallimento,
consistito nel  mancato  incasso  integrale  di  un  credito  IVA  di
elevatissimo  valore  nominale»)  -  la  sezione   disciplinare   del
Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza  emessa  il  14
luglio 2014 (iscritta al n.  204  del  registro  ordinanze  dell'anno
2014), ha sollevato identica questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 13,  comma  1,  secondo  periodo,  del  menzionato  decreto
legislativo,  limitatamente  alle  parole  da  «quando   ricorre»   a
«nonche'». 
    La rimettente - «Considerato, ai  fini  della  valutazione  della
rilevanza della questione di legittimita' costituzionale, prospettata
anche dalla Procura Generale, che  nel  caso  di  specie  la  Sezione
disciplinare   ravvisa   un'ipotesi   di   negligenza   non    grave,
caratterizzata da un ingiusto danno alla massa fallimentare,  la  cui
reale consistenza impone una graduazione della  sanzione  commisurata
all'entita' del danno  stesso  e  alla  misura  della  negligenza»  -
ritiene che la questione in esame non  sia  manifestamente  infondata
proprio alla luce di quanto condivisibilmente osservato  dalla  sopra
riportata ordinanza di rimessione delle sezioni  unite  civili  della
Corte di cassazione, da «intendersi integralmente richiamata». 
    4.- Si e' costituito il magistrato incolpato nel giudizio a  quo,
concludendo per l'accoglimento della questione. 
    La parte, in particolare, osserva che  -  poiche'  il  menzionato
art. 2, comma 1, lettera a), contempla una vasta  gamma  di  illeciti
disciplinari, che  comprendono  anche  comportamenti  non  tipizzati,
inerenti la violazione da parte del magistrato dei generici doveri di
imparzialita', correttezza,  diligenza,  laboriosita'  ed  equilibrio
(ovvero comportamenti  che,  ancorche'  legittimi,  compromettano  la
credibilita' personale, il prestigio  e  il  decoro  dell'istituzione
giudiziaria) di cui al precedente art. 1, punibili sia  a  titolo  di
dolo che di colpa - l'automatismo previsto dalla norma censurata  non
consente  alla  sezione  disciplinare   di   valutare   la   gravita'
dell'addebito contestato, l'eventuale intensita'  del  dolo  o  della
colpa,  la  gravita'  o  meno  della   negligenza,   il   pregiudizio
effettivamente   arrecato   al   prestigio   della    amministrazione
giudiziaria, l'entita' del danno o  del  vantaggio  arrecati  ad  una
delle parti. Sicche' (richiamata la giurisprudenza costituzionale  in
materia)  la  parte  ribadisce  che  detto  automatismo  vulnera   il
principio  di  razionalita'  connesso  a  quello  di   indispensabile
gradualita'  sanzionatoria,  che  presuppone  la   necessita'   della
valutazione della condotta del soggetto e la verifica della effettiva
lesione del bene giuridico tutelato dalla previsione sanzionatoria. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, sezioni unite civili,  e  la  sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura  censurano  -
per violazione dell'art. 3 della Costituzione - l'art. 13,  comma  1,
secondo periodo, del decreto legislativo 23  febbraio  2006,  n.  109
(Disciplina  degli  illeciti  disciplinari  dei   magistrati,   delle
relative sanzioni e  della  procedura  per  la  loro  applicabilita',
nonche'  modifica  della  disciplina  in  tema  di  incompatibilita',
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio  dei  magistrati,  a
norma dell'articolo 1, comma 1, lettera  f,  della  legge  25  luglio
2005, n. 150), che dispone l'obbligatorieta'  del  trasferimento  del
magistrato ad altra sede o ad altro ufficio quando ricorre una  delle
violazioni previste dall'art. 2, comma 1, lettera  a),  dello  stesso
d.lgs. 
    2.- I giudizi, avendo ad oggetto  la  medesima  questione,  vanno
riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia. 
    3.- Preliminarmente, va dichiarata la manifesta  inammissibilita'
della questione sollevata dalla sezione  disciplinare  del  Consiglio
superiore della magistratura. 
    La   rimettente   -   trascritta   l'incolpazione   oggetto   del
procedimento disciplinare sottoposto al suo giudizio, e rilevato  che
«con  ordinanza  interlocutoria  n.  11228  del  2014,  la  Corte  di
cassazione ha sollevato la questione di  legittimita'  costituzionale
del D.Lgs. 23 febbraio 2006,  n.  109,  art.  13,  comma  1,  secondo
periodo, limitatamente alle parole da "quando ricorre"  a  "nonche'",
in relazione all'art. 3 Cost.» - si limita, da un lato, ad  affermare
la rilevanza della questione (ravvisando, in concreto, «un'ipotesi di
negligenza non grave, caratterizzata da un ingiusto danno alla  massa
fallimentare, la cui reale consistenza impone una  graduazione  della
sanzione commisurata all'entita' del danno stesso e alla misura della
negligenza»);  e,  dall'altro  lato,  in  termini  di  non  manifesta
infondatezza, a  riportarsi  a  «quanto  condivisibilmente  osservato
dalla richiamata ordinanza interlocutoria n. 11228/2014  della  Corte
di cassazione che qui deve intendersi integralmente richiamata». 
    Ove anche si volesse prescindere (in termini di sufficienza della
motivazione circa la rilevanza della questione nel  giudizio  a  quo)
dalla  portata  non  del  tutto  esauriente  della  assai   sintetica
argomentazione  svolta  in  tal  senso  -  in  base  alla  quale   la
riconducibilita'   della   condotta   ascritta   all'incolpato   alla
fattispecie di cui alla lettera a), comma 1, dell'art. 2  del  d.lgs.
n. 109 del 2006 (e di conseguenza anche al  dovere  di  applicare  la
sanzione accessoria previsto dalla norma censurata)  si  evince  solo
indirettamente,   in   ragione   della   mera   affermazione    della
configurabilita', nel caso concreto, dei presupposti della negligenza
e del danno ingiusto, che caratterizzano detta ipotesi  sanzionatoria
rispetto  a  quella  contemplata  dalla  successiva  lettera   g)   -
viceversa, quanto al requisito della non manifesta infondatezza della
questione, la sezione disciplinare rimettente ha esclusivamente fatto
riferimento al contenuto argomentativo della richiamata ordinanza  di
rimessione  pronunciata,  in   altro   processo,   dal   giudice   di
legittimita'. 
    Orbene, la consolidata giurisprudenza  di  questa  Corte  esclude
che, nei giudizi incidentali di costituzionalita'  delle  leggi,  sia
ammessa  la  cosiddetta  motivazione  per  relationem.  Infatti,   il
principio di autonomia di ciascun giudizio  di  costituzionalita'  in
via incidentale, quanto ai requisiti  necessari  per  la  sua  valida
instaurazione,  e  il  conseguente  carattere  autosufficiente  della
relativa ordinanza di rimessione,  impongono  al  giudice  a  quo  di
rendere espliciti, facendoli propri, i  motivi  della  non  manifesta
infondatezza, non potendo limitarsi ad un  mero  richiamo  di  quelli
evidenziati  dalle  parti  nel  corso  del  processo  principale  (ex
plurimis, sentenze n. 49, n. 22 e n. 10 del 2015; ordinanza n. 33 del
2014), ovvero anche in altre ordinanze di  rimessione  emanate  nello
stesso o in altri giudizi (sentenza n. 103 del 2007; ordinanze n. 156
del 2012 e n. 33 del 2006). 
    4.- Dal canto loro,  le  sezioni  unite  civili  della  Corte  di
cassazione censurano l'art. 13, comma 1, secondo periodo, del  d.lgs.
n. 109 del 2006, che - rispetto alla previsione  generale  del  primo
periodo  dello  stesso  articolo,  in  base  al  quale  «La   sezione
disciplinare   del   Consiglio    superiore    della    magistratura,
nell'infliggere  una  sanzione  diversa  dall'ammonimento   e   dalla
rimozione, puo' disporre il trasferimento  del  magistrato  ad  altra
sede o ad altro ufficio quando, per la condotta tenuta, la permanenza
nella stessa sede o nello stesso ufficio appare in contrasto  con  il
buon andamento dell'amministrazione della giustizia»  -  nel  periodo
successivo prevede che «Il trasferimento e'  sempre  disposto  quando
ricorre una delle  violazioni  previste  dall'articolo  2,  comma  1,
lettera a), nonche' nel caso in cui e'  inflitta  la  sanzione  della
sospensione dalle funzioni». 
    La Corte rimettente denuncia la violazione dell'art. 3 Cost., per
irragionevolezza  e  disparita'  di  trattamento,   poiche'   imporre
indefettibilmente  l'irrogazione  di  una  sanzione   particolarmente
afflittiva per il magistrato, sotto il profilo e morale e  materiale,
come conseguenza di tutti i «comportamenti che,  violando  doveri  di
cui all'art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio  ad  una
delle parti» (e quindi  a  ogni  condotta  contraria  al  dovere  del
magistrato   di   esercitare   le   funzioni    attribuitegli    «con
imparzialita',  correttezza,  diligenza,  laboriosita',   riserbo   e
equilibrio», oltre che nel rispetto della «dignita' della  persona»),
comporta   l'irragionevole   equiparazione,    sotto    il    profilo
sanzionatorio, di un ampio ventaglio di  illeciti  disciplinari,  che
sono  bensi'   accomunati   dall'elemento   dell'ingiusto   danno   o
dell'indebito vantaggio per una delle parti, ma possono risultare  di
ben  diversa  gravita',  essendovi   ricompresi   comportamenti   sia
intenzionali   sia   soltanto   colposi,   che   consistono   inoltre
nell'inosservanza di doveri non tutti  di  pari  importanza.  Con  la
conseguenza  che  al  giudice  disciplinare,  in   violazione   della
«indispensabile    gradualita'    sanzionatoria»    connessa     alla
irrazionalita' di ogni  automatismo  sanzionatorio,  e'  impedito  di
tenere conto di volta in volta di queste differenze e  di  verificare
se l'inflizione della  sanzione  accessoria  sia  necessaria  per  il
conseguimento dello scopo, che le e' proprio, di evitare il contrasto
con il buon andamento dell'amministrazione della giustizia, derivante
dalla permanenza del magistrato nella sede o nell'ufficio. 
    Il  giudice  a   quo   chiede,   quindi,   la   declaratoria   di
incostituzionalita' della norma, limitatamente alle parole da «quando
ricorre»  a  «nonche'»,  cosi'  da  determinare  l'eliminazione  (dal
contenuto precettivo della disposizione censurata)  della  automatica
applicabilita' della sanzione accessoria del trasferimento  nel  caso
di accertamento delle sole violazioni previste dall'art. 2, comma  1,
lettera a), con l'effetto di  far  riespandere  anche  rispetto  alla
fattispecie punitiva de qua la regola  generale  prevista  dal  primo
periodo della stessa norma. 
    5.- Preliminarmente, vanno rigettate le obiezioni  (peraltro  non
tradotte in una formale eccezione  di  irrilevanza  della  questione)
mosse  dalla  parte  costituita,  che  ripropone  nel   giudizio   di
costituzionalita' le medesime difese  svolte  a  sostegno  del  primo
motivo di ricorso in cassazione. Con esso,  il  ricorrente  lamentava
che la  sezione  disciplinare,  nell'escludere  che  il  fatto,  come
contestato, potesse essere sanzionabile  alternativamente  ai  sensi,
sia della lettera a), sia della lettera g) del comma  1  dell'art.  2
del  d.lgs.  n.  109  del  2006,  avesse  erroneamente  ritenuto   la
sussistenza della prima anziche' della seconda di tali  disposizioni;
e conseguentemente avesse irrogato,  oltre  alla  censura,  anche  la
sanzione del trasferimento di  sede,  comminata  dall'art.  13  dello
stesso decreto legislativo come  effetto  automatico  di  «una  delle
violazioni previste dall'art. 2, comma  1,  lettera  a)».  Tale  tesi
difensiva viene basata dalla parte sulla ritenuta  specialita'  della
ipotesi disciplinare sub lettera g) rispetto a  quella  di  cui  alla
lettera a), applicabile  unicamente  in  caso  di  comportamenti  del
magistrato  «contrassegnati  da  intenzionalita'  volitiva  dei  suoi
doveri primari [...] e non da mera  colpa»:  configurandosi  da  cio'
«ragioni  ed  argomenti  per  avallare   una   lettura   ispirata   a
ragionevolezza», onde escludere  nella  fattispecie  l'applicabilita'
della ipotesi disciplinare di cui alla  lettera  a)  e  quindi  anche
della sanzione accessoria. 
    5.1.-  Questa  Corte  rileva   che,   viceversa,   nel   contesto
dell'ordinanza  di  rimessione,  ad  espressa  confutazione  di  tali
argomentazioni,  le   sezioni   unite   civili   hanno   sottolineato
espressamente, da un lato, come (riguardo alla specifica  ipotesi  di
ritardo nella  scarcerazione  di  imputati  o  indagati)  la  propria
giurisprudenza  si  sia  «stabilmente  orientata  nel  senso  che  le
previsioni delle lettere a) e g) dell'articolo 2, comma 1 del decreto
legislativo n. 109/2006 sono  entrambe  contestualmente  applicabili,
poiche' non  sussiste  tra  loro  un  rapporto  di  specialita',  che
comporti l'esclusione dell'una o dell'altra»  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili, 29 luglio 2013, n. 18191, 22  aprile  2013,  n.
9691 ed 11 marzo 2013, n. 5943). E, dall'altro,  come,  alla  stregua
della suddetta  giurisprudenza,  risulti  «altresi'  da  disattendere
l'assunto del ricorrente, secondo cui la lettera a) attiene  soltanto
a comportamenti del magistrato intenzionalmente diretti  ad  arrecare
ingiusto danno o indebito vantaggio ad  una  delle  parti»;  cio'  in
quanto tale disposizione configura l'illecito disciplinare di cui  si
tratta  come  conseguente  alle  violazioni  dei   «doveri   di   cui
all'articolo 1» (secondo cui  «Il  magistrato  esercita  le  funzioni
attribuitegli    con    imparzialita',    correttezza,     diligenza,
laboriosita', riserbo e  equilibrio  e  rispetta  la  dignita'  della
persona nell'esercizio delle funzioni»), tra le quali sono certamente
comprese anche quelle colpose, in quanto riferite,  tra  l'altro,  al
dovere della «diligenza» nell'esercizio delle funzioni attribuite  al
magistrato. 
    La Corte rimettente, dunque (nel rigettare i motivi  addotti  dal
ricorrente a sostegno della impugnazione, ed in tal modo qualificando
il fatto ascritto all'incolpato, oltre  che  escludendone  la  scarsa
rilevanza), ha confermato integralmente il  giudizio  espresso  dalla
sezione disciplinare,  che  aveva  ritenuto  appunto  applicabile  la
lettera a), comma 1, dell'art. 2, a fronte del difetto  di  diligenza
addebitato al magistrato, per non essersi avveduto della scadenza del
termine massimo della misura degli  arresti  domiciliari,  cui  erano
sottoposte due persone nei cui confronti procedeva il suo ufficio, in
un procedimento a lui affidato. 
    Dal mancato accoglimento delle ragioni addotte  quali  motivi  di
impugnazione - articolato sulla base di  uno  sviluppo  argomentativo
del tutto  coerente,  fondato  su  una  interpretazione  in  se'  non
implausibile - consegue, dunque,  la  rilevanza  della  questione  di
legittimita' costituzionale, essendo il Collegio rimettente  chiamato
ad applicare la misura del trasferimento del magistrato ad altra sede
o ad altro ufficio nel modo prescritto dalla norma censurata. 
    6.- Nel merito la questione e' fondata. 
    6.1.- La giurisprudenza di questa  Corte  e'  da  tempo  costante
nell'affermare come il "principio di proporzione",  fondamento  della
razionalita'  che  domina  "il  principio  di  eguaglianza",  postuli
l'adeguatezza  della  sanzione  al  caso  concreto;   e   come   tale
adeguatezza non possa essere raggiunta se non attraverso la  concreta
valutazione  degli  specifici  comportamenti  messi  in  atto   nella
commissione dell'illecito, valutazione che soltanto  il  procedimento
disciplinare consente (sentenze n. 447 del 1995, n. 197 del 1993,  n.
16 del 1991, n. 40 del 1990 e n. 971 del 1988). 
    Ferma, dunque, restando la discrezionalita'  del  legislatore  di
prevedere l'indefettibile adozione  di  sanzioni  accessorie,  quando
cio' sia giustificato dalla peculiarita'  della  situazione  fattuale
generatrice dell'illecito, nonche' dalla sussistente correlazione tra
tale situazione e la gravita' della sanzione  (sentenza  n.  112  del
2014), l'ordinamento e' orientato verso la tendenziale esclusione  di
previsioni  sanzionatorie  rigide,  la  cui  applicazione   non   sia
conseguenza di un riscontrato confacente rapporto di adeguatezza  col
caso concreto, e rispetto  alle  quali  l'indispensabile  gradualita'
applicativa non sia oggetto di  specifica  valutazione  nel  naturale
contesto del procedimento giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 7
del 2013, n. 31 del  2012  e  n.  363  del  1996)  ovvero  in  quello
disciplinare (ex plurimis, sentenze n. 329 del 2007, n. 212 e n.  195
del 1998, n. 363 del 1996). 
    D'altronde, data la ratio  di  tale  orientamento,  non  ci  sono
motivi per escluderne l'applicazione nei  confronti  dei  magistrati;
riguardo ai  quali,  peraltro,  nei  suoi  interventi  normativi,  il
legislatore  (fermo  il  presupposto  della  spettanza   del   potere
disciplinare   al   Consiglio   superiore   della   magistratura,   e
l'attribuzione del suo esercizio alla sezione disciplinare) e'  stato
indotto  a  configurare  tale  procedimento  «secondo  paradigmi   di
carattere giurisdizionale» (sentenza n. 497 del 2000) per  l'esigenza
precipua di tutelare in forme piu'  adeguate  specifici  interessi  e
situazioni connessi allo statuto di indipendenza  della  magistratura
(sentenze n. 87 del 2009 e n. 262 del 2003). 
    6.2.- Cio' premesso, va (sotto altro  profilo)  sottolineato  che
l'illecito disciplinare di cui all'art. 2, comma 1, lettera  a),  del
d.lgs. n. 109  del  2006,  si  configura  quale  "norma  di  parziale
chiusura" del sistema disciplinare in cui la  compatibilita'  tra  la
previsione di un  precetto  cosiddetto  "a  condotta  libera"  ed  il
principio informatore di tipicita' della riforma  risulta  assicurata
dallo  specifico  riferimento  dei  "comportamenti"  sanzionabili  ai
doveri  di  "imparzialita',  correttezza,  diligenza,   laboriosita',
riserbo e equilibrio", nonche' a quelli di  rispetto  della  dignita'
della persona, cui il magistrato, ai sensi dell'art. 1, comma 1,  del
d.lgs.  n.  109  del  2006,  deve  improntare  la  propria   condotta
nell'esercizio delle proprie funzioni (Corte di  cassazione,  sezioni
unite civili, 15 febbraio 2011, n. 3669). 
    Peraltro, va altresi' rilevato che  le  ipotesi  trasgressive  de
quibus configurano fattispecie di illecito "di evento", in  cui,  non
diversamente da quanto si  verifica  in  campo  penale  per  analoghe
figure di reato, la consumazione non si  esaurisce  con  la  condotta
tipica, ma esige che si  verifichi  un  "ingiusto  danno  o  indebito
vantaggio ad una delle parti", ossia un concreto accadimento  lesivo,
in danno del soggetto passivo, che costituisca la conseguenza diretta
dell'azione o omissione vietata (anche Corte di  cassazione,  sezioni
unite civili, 22 aprile 2013, n. 9691 e 11 marzo 2013, n. 5943,  gia'
citate). 
    Risulta, quindi, di agevole constatazione il fatto  che  vi  sono
violazioni dei doveri  del  magistrato,  stabiliti  dall'art.  1  del
medesimo    decreto    (imparzialita',    correttezza,     diligenza,
laboriosita', riserbo ed equilibrio, rispetto  della  dignita'  della
persona), che pur non  traducendosi  in  gravi  violazioni  di  legge
determinate da ignoranza o negligenza inescusabile, tuttavia arrecano
ingiusto danno o  indebito  vantaggio  a  una  delle  parti,  e  sono
pertanto perseguibili a norma della lettera a), comma 1, dell'art.  2
del decreto (in tal senso, anche Corte di cassazione,  sezioni  unite
civili, n. 5943 del 2013, citata). 
    6.3.-  Orbene,  nonostante  l'ampio   ventaglio   dei   possibili
"comportamenti"  caratterizzati  da  siffatti   requisiti,   la   cui
configurabilita' in termini di illecito disciplinare non richiede una
particolare connotazione di gravita',  ne'  uno  specifico  grado  di
colpa, quella di cui alla lettera a) costituisce l'unica ipotesi, tra
le molteplici, di illecito funzionale (tutte  tipizzate  dall'art.  2
del d.lgs. n. 109 del 2006) alla  quale  consegue  -  come  ulteriore
sanzione imposta dalla norma censurata - l'obbligatorio trasferimento
ad altra sede o ad altro ufficio del magistrato condannato. 
    La necessaria adozione di tale misura punitiva appare  basata  su
una presunzione assoluta,  del  tutto  svincolata  -  oltre  che  dal
controllo di proporzionalita' da parte  del  giudice  disciplinare  -
anche dalla verifica  della  sua  concreta  congruita'  con  il  fine
(ulteriore e diverso rispetto a  quello  repressivo  dello  specifico
illecito disciplinare) di evitare che, data la  condotta  tenuta  dal
magistrato, la sua permanenza nella stessa sede o ufficio  appaia  in
contrasto con il buon andamento della amministrazione della giustizia
(come, invece previsto dalla regola generale disciplinata  dal  primo
periodo del comma 1 dell'art. 13 del d.lgs. n. 109 del 2006). 
    Ne consegue, da un lato, un vulnus al principio  di  uguaglianza,
derivante  dal  diverso  (e  piu'  grave)  trattamento  sanzionatorio
riservato   (senza   alcun   concreto   riferimento   alla   gravita'
dell'elemento  materiale  ovvero  di  quello  psicologico)  al   solo
illecito funzionale de quo; dall'altro lato, l'irragionevolezza della
deroga alla regola posta dal primo periodo del comma 1  dell'art.  13
del d.lgs. n.  109  del  2006,  giacche'  la  ratio  della  soluzione
normativa scrutinata non sembra  potersi  rinvenire  neppure  in  una
particolare gravita'  dell'illecito,  desumibile  dalla  peculiarita'
della condotta, dalla misura della pena o  dal  rango  dell'interesse
protetto; laddove siffatti parametri sembrerebbero  doversi  ritenere
significativi (quali indici di adeguatezza dell'intervento repressivo
della condotta illecita) non solo in sede di giudizio di colpevolezza
e irrogazione della pena principale, ma  anche  nella  determinazione
della sanzione accessoria. 
    Cio' tanto piu' in quanto tale sanzione comporta un effetto molto
gravoso per il  magistrato,  giacche'  concreta  una  eccezione  alla
regola della inamovibilita', che incide direttamente sul prestigio  e
sulla credibilita' dello stesso. Invero non pare  trascurabile  -  in
una cornice che, doverosamente, privilegii il principio di necessaria
adeguatezza tra il "tipo" di sanzione  e  la  "natura"  e  "gravita'"
dell'illecito disciplinare (ontologicamente diversificato in  ragione
della varieta' delle condotte addebitabili) - la circostanza  che  la
misura obbligatoria del trasferimento di  ufficio  si  aggiunge  alla
sanzione  disciplinare  tipica,  aumentandone  significativamente  la
portata afflittiva, anche sul  piano  del  prestigio  personale  (non
scisso da quello professionale) che il magistrato  condannato  vedra'
significativamente compromesso, attesa la rilevanza  esterna  che  la
misura stessa presenta (si pensi alla pubblicita'  del  trasferimento
in una media  o  piccola  sede  giudiziaria).  Il  tutto,  non  senza
sottolineare ulteriormente come la misura del trasferimento, ove  non
congruamente  supportata   da   valide   ragioni   che   la   rendano
"funzionalmente" giustificata, potrebbe finire per profilare  aspetti
di dubbia compatibilita' con lo stesso  principio  di  inamovibilita'
dei giudici costituzionalmente sancito dall'art. 107 Cost. 
    6.4.- L'art. 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 109  del
2006   va,   dunque,   dichiarato   costituzionalmente   illegittimo,
limitatamente alle parole da «quando ricorre» a «nonche'».