ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  11,  comma
1, lettera a), del decreto  legislativo  31  dicembre  2012,  n.  235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di
divieto di ricoprire cariche elettive  e  di  Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.  190),  in
relazione all'art. 10, comma 1,  lettera  c),  del  medesimo  decreto
legislativo, promosso dal Tribunale amministrativo regionale  per  la
Campania, sezione prima, nel procedimento vertente tra D.M.L. e altro
e il Ministero dell'interno - UTG Prefettura di Napoli e  altro,  con
ordinanza del 30  ottobre  2014,  iscritta  al  n.  29  del  registro
ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di costituzione di D.M.L. e del Comune di  Napoli,
nonche' gli atti di intervento di Capasso Elpidio, di  Minozzi  Maria
Modesta, di Caputo Salvatore  e  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  20  ottobre  2015  il  Giudice
relatore Daria de Pretis; 
    uditi gli avvocati Mario Montefusco per  Minozzi  Maria  Modesta,
Lorenzo  Lentini  per  Capasso  Elpidio,  Gaetano  Armao  per  Caputo
Salvatore, Giuseppe Russo per D.M.L.,  Fabio  Maria  Ferrari  per  il
Comune di  Napoli  e  gli  avvocati  dello  Stato  Agnese  Soldani  e
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza   del   30   ottobre   2014,   il   Tribunale
amministrativo per  la  Campania  -  sezione  prima  -  ha  sollevato
questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  comma  1,
lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di  divieto
di ricoprire cariche elettive e di  Governo  conseguenti  a  sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo
1, comma 63, della legge 6  novembre  2012,  n.  190),  in  relazione
all'art. 10, comma 1, lettera c), del medesimo  decreto  legislativo,
«perche' la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli
artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma  della
Costituzione». 
    La disposizione sottoposta all'esame di questa Corte  (intitolata
«Sospensione e decadenza di diritto degli  amministratori  locali  in
condizione di  incandidabilita'»)  statuisce  che  «Sono  sospesi  di
diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10: a) coloro
che hanno riportato una condanna non definitiva per uno  dei  delitti
indicati all'articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)». 
    L'art.   10   (intitolato   «Incandidabilita'    alle    elezioni
provinciali, comunali e circoscrizionali»), al comma 1,  lettera  c),
dispone che «Non possono essere candidati alle elezioni  provinciali,
comunali e circoscrizionali  e  non  possono  comunque  ricoprire  le
cariche  di  presidente  della  provincia,   sindaco,   assessore   e
consigliere provinciale e comunale [...] coloro che  hanno  riportato
condanna definitiva per i delitti previsti dagli articoli  314,  316,
316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter,  319-quater,  primo  comma,
320, 321, 322, 322-bis, 323,  325,  326,  331,  secondo  comma,  334,
346-bis del codice penale». 
    La questione e' sorta nel  corso  di  un  giudizio  promosso  dal
Sindaco  del  Comune  di  Napoli,   D.M.L.,   contro   il   Ministero
dell'interno - UTG Prefettura di Napoli, per  l'annullamento,  previa
sospensione dell'efficacia, del decreto del Prefetto di Napoli del 1°
ottobre  2014,  n.  87831,  con  il  quale  e'  stata  accertata   la
sospensione di D.M.L. dalla carica  di  sindaco,  per  effetto  della
condanna  -  pronunciata  in  primo  grado  dal  Tribunale  di   Roma
all'udienza del 24 settembre 2014 - per il reato di  abuso  d'ufficio
alla pena di un anno e tre mesi di reclusione e, in base all'art.  31
cod. pen., all'interdizione dai pubblici uffici  per  un  anno  (pene
sospese). 
    Nel  giudizio  a  quo,  sino  alla  pronuncia  dell'ordinanza  di
rimessione, sono intervenuti ad adiuvandum il Comune di Napoli  e  ad
opponendum Manfredi Nappi, in qualita' di  cittadino  elettore  e  di
legale rappresentante della Associazione Lotta Piccole Illegalita'  -
ALPI. 
    Con la stessa ordinanza, il TAR ha sospeso  provvisoriamente  gli
effetti del provvedimento prefettizio impugnato fino  alla  «ripresa»
del giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di
legittimita' costituzionale e ha disposto altresi' la sospensione del
giudizio. 
    1.1.- Il rimettente si sofferma, in primo  luogo,  sull'eccezione
di  difetto  di  giurisdizione  sollevata  dalla   difesa   erariale,
respingendola  sulla  base  della  considerazione  che   il   decreto
prefettizio  avrebbe  natura  costitutiva,  derivando  solo  da  esso
l'effetto sospensivo, con la conseguenza che la posizione  soggettiva
fatta valere sarebbe  di  interesse  legittimo  e  la  giurisdizione,
quindi, del giudice amministrativo. 
    Quanto al merito, dichiara manifestamente infondate le  questioni
sollevate con i motivi quinto, sesto e settimo e considera invece non
manifestamente infondata la questione di costituzionalita'  sollevata
con il  quarto  motivo  di  ricorso,  mediante  il  quale  D.M.L.  ha
contestato l'applicazione retroattiva (alla candidatura avvenuta  nel
2011, e dunque  al  mandato  gia'  in  corso)  di  una  nuova  «causa
ostativa» alla permanenza in carica, introdotta il 5 gennaio 2013 con
l'entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012. 
    Nell'argomentazione  successiva,  il  giudice  a  quo   introduce
elementi ulteriori, a suo avviso essenziali ai fini  della  decisione
sulla questione di costituzionalita'. Dopo aver  riferito  di  alcune
pronunce emesse in materia di cause ostative  all'assunzione  e  alla
conservazione di cariche elettive dal giudice amministrativo e  dalla
Corte costituzionale, sottolinea che la vicenda de qua  «riguarda  un
provvedimento di sospensione adottato a seguito e per effetto di  una
condanna penale non definitiva», e non di una  condanna  irrevocabile
come  nei  casi  giurisprudenziali  ricordati,  e  che  «una  lettura
costituzionalmente  orientata  del  dato  normativo   non   autorizza
l'interprete  a  presumere  la  sussistenza  di  una  situazione   di
indegnita' morale che  legittimi  l'inibizione  dell'accesso  ad  una
carica pubblica o la sua perdita, e  cio'  superando  il  divieto  di
retroattivita', anche nel diverso caso in cui si sia in  presenza  di
una sentenza non definitiva». 
    Il rimettente  afferma  pertanto  che  i  dubbi  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  11   per   violazione   del   divieto   di
retroattivita', «ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a
determinare  la  sospensione  dalla  carica,  si   fondano   su   due
presupposti»: il primo  e'  la  «natura  sanzionatoria  dell'istituto
della sospensione», il secondo l'«efficacia retroattiva dell'istituto
della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna
penale non definitiva». 
    Pur dando atto della finalita' cautelare attribuita  dalla  Corte
costituzionale a norme previgenti del tipo di quella in esame, il TAR
osserva che «riconoscere natura sanzionatoria, e comunque afflittiva,
agli istituti  dell'incandidabilita',  sospensione  e  decadenza  non
significa affatto negare l'esistenza di  ulteriori  finalita',  anche
principali, che la disciplina legislativa in esame pone a  fondamento
della propria giuridica esistenza», e  che  la  discrezionalita'  del
legislatore «non puo' spingersi [...] fino al punto di negare  natura
di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi  sull'esercizio
di un diritto costituzionale, quale quello di  accesso  alle  cariche
pubbliche di cui all'art. 51 della Carta». 
    A sostegno di  tale  assunto,  invoca  la  disciplina  (contenuta
nell'art.  15  del  d.lgs.  n.  235  del  2012)  del   rapporto   tra
incandidabilita' e interdizione temporanea dai pubblici uffici  e  la
previsione   dell'estinzione   dell'incandidabilita'   in   caso   di
riabilitazione. 
    Quanto al secondo presupposto, il TAR afferma che «la sospensione
di  un  amministratore  da  una  carica  per  un  fatto  storicamente
anteriore rispetto alla sua elezione, cosi' come anteriore ne  e'  il
provvedimento giudiziario che a questo  da'  a  tal  fine  rilevanza,
costituisce, oggettivamente, applicazione retroattiva  della  norma»,
che viola l'art. 51 Cost. 
    A quest'ultimo proposito, il rimettente rileva che, «ove  vi  sia
riserva  di  legge  per  la  disciplina   di   diritti   fondamentali
riconosciuti dalla  Carta,  assumono  rango  costituzionale  anche  i
principi generali che disciplinano la fonte di  produzione  normativa
primaria», fra i quali quello di irretroattivita' di cui all'art.  11
delle preleggi, e che «l'art.  51  della  Costituzione  nell'affidare
alla legge [...] la disciplina positiva per l'esercizio  del  diritto
di elettorato passivo, cio' consente nei limiti fisiologici  entro  i
quali  alla  legge  stessa   e'   consentito   operare,   cioe'   non
retroattivamente». A maggior ragione l'irretroattivita' si imporrebbe
nel caso concreto, data la natura sanzionatoria delle cause  ostative
alla carica e al suo mantenimento, e data «l'inderogabilita' assoluta
del principio di irretroattivita' nell'ambito di istituti e regimi in
buona parte assimilabili alle sanzioni penali». 
    In definitiva, ad avviso del giudice a quo  la  «questione  della
legittimita' costituzionale del superamento del limite costituito dal
divieto di retroattivita' della legge anche nell'ipotesi  in  cui  la
sospensione dalla  carica  sia  prevista  in  caso  di  condanna  non
definitiva  [...]   concerne   la   sussistenza   di   un   eccessivo
sbilanciamento»  a  favore  della   «salvaguardia   della   moralita'
dell'amministrazione   pubblica»   rispetto   ad   altri    interessi
costituzionali: diritto di elettorato passivo (art.  51  Cost.),  «da
ritenersi inviolabile ai sensi dell'art. 2 della Carta, nonche' posto
a  fondamento  del  funzionamento  delle   istituzioni   democratiche
repubblicane, secondo quanto previsto dall'art. 97, secondo comma, ed
infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione  sociale
che sia stata frutto di una libera scelta  del  cittadino,  ai  sensi
dell'art. 4, secondo comma». 
    Dunque, il TAR contesta la legittimita' costituzionale  dell'art.
11, comma 1, lettera a), in relazione all'art. 10, comma  1,  lettera
c), del  d.lgs.  n.  235  del  2012,  «perche'  la  sua  applicazione
retroattiva» contrasta con i parametri sopra indicati  (artt.  2,  4,
secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost.). 
    2.-  Dopo  la  pronuncia  dell'ordinanza  di   rimessione,   sono
intervenuti  nel  giudizio  principale  il   Movimento   Difesa   del
Cittadino, che ha chiesto il rigetto del ricorso di D.M.L.,  nonche',
ad  adiuvandum,  il  CIPS  -  Comitato   Italiano   Popolo   Sovrano,
l'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), Elpidio Capasso,
in qualita' di consigliere metropolitano, e Maria Modesta Minozzi, in
qualita' di cittadina elettrice. 
    Risulta dagli atti del presente  giudizio  che  il  Consiglio  di
Stato, con ordinanza del 20 novembre 2014, ha rigettato  gli  appelli
contro l'ordinanza cautelare del TAR,  proposti  da  Manfredi  Nappi,
ALPI e Ministero dell'interno - UTG Prefettura di Napoli. 
    Risulta ancora dagli atti che,  successivamente  alla  rimessione
della questione a questa Corte, con ricorso depositato il 25 novembre
2014 il Movimento Difesa del Cittadino ha presentato  alla  Corte  di
cassazione istanza di regolamento  preventivo  di  giurisdizione,  ai
sensi dell'art. 41 del codice di procedura civile. Con ordinanza  del
28 maggio 2015, n. 11131, la Corte  di  cassazione  a  sezioni  unite
civili ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario,  davanti
al quale ha rimesso le parti. 
    Dopo  aver  risolto   positivamente   il   problema   preliminare
dell'ammissibilita'  del  regolamento  preventivo  di   giurisdizione
sollevato in  un  giudizio  sospeso  in  pendenza  dell'incidente  di
costituzionalita', la pronuncia si pone, nel merito della  questione,
sulla linea della  giurisprudenza  di  legittimita'  che  afferma  la
giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie in materia  di
ineleggibilita', decadenza e incompatibilita', in quanto vertono  sul
diritto soggettivo di elettorato  passivo.  La  Corte  di  cassazione
desume la qualita' di diritto  soggettivo  della  posizione  tutelata
dalla natura vincolata del decreto prefettizio di sospensione,  nella
cui assunzione non spetta al Prefetto alcun  autonomo  apprezzamento,
ne' la possibilita' di modularne decorrenza o durata sulla base della
ponderazione di concorrenti interessi pubblici. 
    2.1.- Risulta dagli atti, altresi', che a seguito della pronuncia
delle sezioni unite la causa e' stata riassunta da D.M.L. davanti  al
Tribunale ordinario di Napoli, ai sensi dell'art. 59 della  legge  18
giugno 2009, n.  69  (Disposizioni  per  lo  sviluppo  economico,  la
semplificazione, la competitivita' nonche'  in  materia  di  processo
civile), e che, con  ordinanza  depositata  il  25  giugno  2015,  il
Tribunale ha accolto l'istanza  cautelare  riproposta,  disponendo  a
propria volta la sospensione degli effetti del  decreto  prefettizio,
in attesa della decisione della Corte costituzionale sulla  questione
sollevata dal TAR Campania. 
    Il  Tribunale  ha  ritenuto  di  non  proporre   l'incidente   di
costituzionalita' ma si e' limitato a prendere atto  della  questione
gia' sollevata dal giudice a quo e, come si e' detto, a reiterare  il
provvedimento  di  sospensione  degli   effetti   del   provvedimento
prefettizio,  in  attesa  della   decisione   della   Corte.   Questa
conclusione  si  fonda  sull'identita'  che,  secondo  il  Tribunale,
sussiste tra il giudizio davanti al TAR e quello riassunto davanti ad
esso, nonche' sulla positiva valutazione, gia'  operata  dal  giudice
amministrativo, della rilevanza e della  non  manifesta  infondatezza
della questione.  Ad  essa  lo  stesso  Tribunale  civile  mostra  di
ritenersi vincolato. 
    I  plurimi  reclami  cautelari  presentati   avverso   l'indicata
ordinanza sono stati dichiarati in parte inammissibili e, nel  resto,
respinti nel merito da una diversa  sezione  dello  stesso  Tribunale
ordinario di Napoli, con ordinanza depositata il 25 luglio 2015. 
    3.-  Nel  giudizio   costituzionale   si   sono   tempestivamente
costituiti D.M.L. (con atto depositato il 7 aprile 2015) e il  Comune
di Napoli (con atto depositato il 2 aprile 2015). 
    Con  atto  depositato  il  7  aprile  2015   e'   tempestivamente
intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    D.M.L. ha chiesto, preliminarmente, che il giudizio sia  trattato
insieme a quello promosso dalla Corte d'appello di Bari con ordinanza
del 29 gennaio 2015, avente ad oggetto la questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, sollevata, tra
il resto, per ragioni analoghe a  quelle  in  esame,  attinenti  alla
natura sanzionatoria-afflittiva  dell'istituto,  in  una  fattispecie
relativa alla sospensione dalla carica di un consigliere regionale. 
    Nel merito, ha osservato  che  la  norma  denunciata  prevede  la
sospensione anche a seguito di condanna non definitiva per  il  reato
di abuso  d'ufficio  (art.  323  cod.  pen.),  mentre  la  disciplina
anteriore  al  decreto  legislativo  n.   235   del   2012   limitava
l'applicazione della sospensione ai casi di condanna  non  definitiva
per reati particolarmente gravi, espressione di delinquenza  di  tipo
mafioso o di altre forme di pericolosita'  sociale,  le  quali  fanno
presumere  un'elevata  capacita'  di  inquinamento   degli   apparati
pubblici da parte delle organizzazioni criminali. L'ampliamento della
sfera di applicazione dell'istituto alle condanne non definitive  per
reati privi di  tale  valenza  presuntiva,  come  l'abuso  d'ufficio,
violerebbe, secondo la parte, i limiti di «necessita'  e  ragionevole
proporzionalita'» entro i quali  il  legislatore,  nel  bilanciare  i
principi previsti dagli artt. 51 e 97 Cost.,  dovrebbe  mantenere  le
norme che regolano la sospensione dalla carica elettiva,  ovvero  una
misura che presenterebbe una evidente natura sanzionatoria, anche  in
ragione del suo automatismo. 
    Ad avviso del ricorrente nel  processo  principale,  tale  natura
sanzionatoria si collegherebbe, altresi', all'irreversibilita'  degli
effetti che essa determina sul titolare della carica,  in  quanto  il
periodo di  durata  della  misura,  pari  a  diciotto  mesi,  non  e'
recuperabile neppure nel caso di assoluzione in secondo grado. Se  ne
dovrebbe concludere che  la  sospensione,  pur  svolgendo  anche  una
funzione cautelare, diretta a  salvaguardare  il  decoro  e  il  buon
funzionamento delle  istituzioni,  incide  comunque  sul  diritto  di
elettorato passivo in modo afflittivo, operando  come  una  "sanzione
anticipata" e alterando la corretta e libera concorrenza  elettorale,
applicandosi anche in relazione a  condotte  che,  all'epoca  in  cui
l'interessato decideva di candidarsi  alla  carica  di  sindaco,  non
comportavano la sospensione dalla carica medesima. 
    Infine, D.M.L. osserva  che  il  divieto  di  retroattivita'  non
troverebbe  applicazione  solo  in  materia   penale,   ma,   secondo
l'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo agli  artt.  6  e  7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in  ogni
ipotesi di misura punitivo-afflittiva, sicche' si dovrebbero ritenere
incostituzionali tutte le norme che, come quella in esame,  prevedono
una misura di questo tipo per condanne non definitive anche in ordine
a fatti anteriori all'entrata in vigore delle norme stesse. 
    Il Comune di Napoli ha aderito, a sua volta, alle ragioni esposte
dal rimettente  con  riguardo  alla  natura  afflittivo-sanzionatoria
della  sospensione  e  alla  illegittimita'  della  sua  applicazione
retroattiva, in quanto lesiva del diritto inviolabile  di  elettorato
passivo, le cui  limitazioni  dovrebbero  operare  soltanto  in  casi
eccezionali. A suo avviso, merita di essere rivisto, anche alla  luce
della giurisprudenza sugli artt. 6 e 7 della CEDU e della  successiva
giurisprudenza  costituzionale,  l'orientamento   di   questa   Corte
(definito "risalente") espresso  dalla  sentenza  n.  118  del  1994,
secondo la quale la condanna penale e' un requisito negativo ai  fini
della capacita' di assumere e di mantenere le cariche, e non comporta
violazione dell'art. 25, secondo comma,  Cost.,  essendo  tale  norma
applicabile solo alle sanzioni penali. Secondo il Comune  di  Napoli,
al contrario, la deroga al generale divieto  di  retroattivita',  nel
caso della sospensione dalla carica elettiva, si dovrebbe considerare
incompatibile con la riserva  di  legge  rinforzata  che  assiste  il
diritto di elettorato passivo, non rilevando che si tratti  anche  di
una   misura   cautelare,   senza   conseguenze   definitive    sulla
candidabilita' o sull'eleggibilita'. 
    Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri  ha  chiesto  che  la
questione sia dichiarata infondata. 
    In primo luogo, l'intervenuto contesta che  la  norma  denunciata
abbia natura sanzionatoria, osservando che, secondo l'orientamento di
questa Corte (sentenza n. 25 del 2002,  pronunciata  con  riferimento
all'analogo istituto gia' previsto dall'art. 15, comma 4, della legge
19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la  prevenzione
della  delinquenza  di  tipo  mafioso  e  di  altre  gravi  forme  di
manifestazione di pericolosita' sociale»), la prevista sospensione ha
sicuramente  natura  cautelare  ed  e'   finalizzata   a   proteggere
l'interesse  pubblico   nelle   more   dell'accertamento   giudiziale
definitivo. A suo avviso, non tutte le norme che incidono su  diritti
costituzionalmente   protetti   -   e   che    quindi    determinano,
obiettivamente, conseguenze afflittive - sono  per  cio'  solo  norme
sanzionatorie,  presentando  tale  natura  solo   quelle   che,   sul
presupposto della commissione di un illecito, esprimono  la  volonta'
punitiva dell'ordinamento. La  norma  denunciata,  al  contrario,  si
collega ad istituti come l'incandidabilita', l'ineleggibilita'  o  la
decadenza,  che  limitano  l'esercizio  del  diritto  di   elettorato
passivo, inerendo alle condizioni di accesso alle cariche elettive  e
non alle conseguenze penali dei reati. 
    In  secondo  luogo,  contesta  che  si  versi  in  un'ipotesi  di
applicazione retroattiva della legge in  senso  tecnico,  trattandosi
invece  della  sua  ordinaria  operativita'  immediata,  secondo   il
principio tempus regit actum,  come  ha  chiarito  questa  Corte  con
riguardo  alle  analoghe  disposizioni  previgenti.  A  suo   avviso,
inoltre, un problema di retroattivita' nemmeno si pone  nel  caso  di
specie, in quanto la sentenza di condanna del giudice  penale  -  che
costituisce il fatto assunto dall'ordinamento come condizione per  la
sospensione dalla carica - e' successiva, sia all'entrata  in  vigore
della legge, sia all'elezione. 
    Infine, l'intervenuto contesta l'assunto del  rimettente  secondo
il quale la norma sarebbe il risultato di un eccessivo sbilanciamento
a scapito  del  diritto  di  elettorato  passivo  e  a  favore  della
salvaguardia  dell'integrita'  della  funzione  elettiva.  A   questo
proposito osserva che la sentenza  di  condanna  in  primo  grado  si
colloca all'esito di un giudizio assistito dalle piene  garanzie  del
diritto  di  difesa  e  che  l'equilibrato  contemperamento  tra  gli
interessi in gioco e' reso evidente dalla temporaneita' della misura,
che cessa alla scadenza del termine di diciotto  mesi.  Si  configura
cosi', a suo avviso, un assetto normativo  nel  quale  il  prevalente
interesse alla salvaguardia dell'integrita' della  funzione  elettiva
nelle more della definizione giudiziale e' destinato a  recedere  nel
caso del prolungarsi dei tempi del processo,  che,  oltre  una  certa
durata, vede riespandersi il diritto di elettorato passivo. 
    3.1.- Nel giudizio costituzionale sono intervenuti ancora Elpidio
Capasso (con atto depositato il 7 aprile 2015), Maria Modesta Minozzi
(con atto depositato il 9 luglio 2015) e Salvatore Caputo  (con  atto
depositato il 29 luglio 2015), tutti chiedendo che  la  questione  di
legittimita' costituzionale sia accolta. 
    Come si e' detto, Elpidio Capasso e'  intervenuto  ad  adiuvandum
nel  giudizio  principale,  in   qualita'   di   consigliere   eletto
nell'assemblea   metropolitana   di   Napoli,   dopo   la   pronuncia
dell'ordinanza di rimessione del TAR. 
    Anch'egli  chiede,  in  via  preliminare,  che  il  giudizio  sia
rinviato per essere trattato congiuntamente con quello promosso dalla
Corte d'appello di Bari, avente ad oggetto analoghe questioni. 
    Nel merito, a propria volta  osserva  che  la  sospensione  dalla
carica elettiva ha natura afflittivo-sanzionatoria e che  il  divieto
di retroattivita' si applica a tutte le norme di tale  natura  e  non
solo a quelle penali, sulla base del  piu'  recente  orientamento  di
questa Corte, che ha  aderito  alla  giurisprudenza  della  Corte  di
Strasburgo sugli artt. 6 e 7 della CEDU. 
    Maria Modesta Minozzi, anch'essa intervenuta  ad  adiuvandum  nel
giudizio  principale,  quale  cittadina  elettrice,   successivamente
all'ordinanza  di  rimessione,  ripropone  le   argomentazioni   gia'
presentate al TAR, osservando che la norma denunciata viola l'art. 76
Cost., per mancanza di una delega legislativa al Governo a  prevedere
la sospensione in caso di sentenze di condanna non definitive. 
    Salvatore Caputo deduce di essere legittimato  all'intervento  in
quanto parte del giudizio principale davanti al TAR e, in ogni  caso,
in quanto portatore di un interesse di  fatto  dipendente  da  quello
azionato in  via  principale  ovvero  ad  esso  accessorio,  che  gli
consente   di   ritrarre   un   vantaggio   indiretto   e    riflesso
dall'accoglimento del ricorso.  In  particolare,  afferma  di  essere
stato dichiarato decaduto dalla carica di  deputato  regionale  nella
seduta dell'Assemblea regionale siciliana n. 48 del  giugno  2013,  a
seguito di condanna definitiva (per declaratoria di  inammissibilita'
del ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte  d'appello
di Palermo del 19 marzo 2012) ad un anno e cinque mesi di reclusione,
con il  beneficio  della  sospensione  condizionale  sia  della  pena
principale che di quella accessoria, e di avere presentato alla Corte
d'appello di  Caltanissetta  istanza  di  revisione,  sulla  base  di
documenti acquisiti dopo la definizione del giudizio. 
    Ad avviso dell'intervenuto, la sua legittimazione  a  partecipare
al giudizio non sarebbe dubitabile, in quanto  soggetto  pregiudicato
dalla norma di cui si chiede la  dichiarazione  di  illegittimita'  a
causa della sua applicazione retroattiva, ed in quanto  titolare,  al
riguardo, di un interesse diretto e concreto, essendo  incorso  nella
decadenza  dalla  carica  per  una  condanna  pronunciata  per  fatti
precedenti all'entrata in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012. In linea
con la recente giurisprudenza di merito, auspica un'"apertura"  della
giurisprudenza di questa Corte, che tende a negare al titolare di  un
interesse di mero fatto all'accoglimento della questione un interesse
qualificato   che   lo   legittimi   a   intervenire   nel   giudizio
costituzionale. 
    Nel merito, aderisce alle  ragioni  addotte  dal  ricorrente  nel
giudizio principale a proposito della applicazione retroattiva  della
norma denunciata, nonche'  alle  ragioni  esposte  nell'ordinanza  di
rimessione sulla  sua  natura  sanzionatoria  e  sui  limiti  che  il
legislatore dovrebbe rispettare  nel  determinare  le  condizioni  di
accesso alle cariche pubbliche. 
    4.-  Nell'imminenza  dell'udienza,  D.M.L.  ha   depositato   una
memoria, nella quale ribadisce che la sospensione  dalla  carica  ha,
almeno in prevalenza, natura sanzionatoria-afflittiva. A suo  avviso,
la condanna non definitiva per un reato "di  evento",  quale  l'abuso
d'ufficio (art. 323 cod. pen.), non consentirebbe al  legislatore  di
apprezzare in via generale ed astratta - come e' invece possibile per
i reati "di  condotta"  contemplati  dalla  disciplina  previgente  -
l'esigenza cautelare di allontanare dall'apparato pubblico, in attesa
della conclusione del giudizio d'appello, il soggetto condannato  per
condotte incompatibili con  il  decoro  e  il  buon  andamento  delle
istituzioni; per altro verso, la norma non rimette l'accertamento  di
effettive  esigenze  di  cautela  neppure   al   Prefetto,   il   cui
provvedimento ha  mera  natura  ricognitiva.  Ne  conseguirebbe  che,
quantomeno nel caso dell'abuso d'ufficio, la sospensione dalla carica
esplica solo una funzione sanzionatoria-afflittiva. 
    A sostegno dell'assunto, D.M.L. invoca una nozione sostanziale di
sanzione e  introduce  il  tema  dell'applicazione  automatica  delle
misure punitive, osservando che la Corte costituzionale considera gli
automatismi in contrasto con i principi costituzionali, se fondati su
presunzioni  assolute  svincolate  dalla  verifica   della   concreta
congruita' della misura con il fine (cita la recente sentenza n.  170
del 2015 sul trasferimento obbligatorio del magistrato condannato  in
sede disciplinare), e che la  Corte  di  Strasburgo  ha  espresso  un
orientamento  analogo,  proprio  con  riferimento  agli   automatismi
sanzionatori che limitano il diritto di  elettorato.  Richiama  anche
l'ordinanza con la quale le  sezioni  unite  civili  della  Corte  di
cassazione hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice a
quo. A suo avviso in essa si darebbe atto che il legislatore, con  la
norma  in  questione,  ha  inteso  far  prevalere  la  necessita'  di
comprimere il diritto di elettorato passivo del  soggetto  condannato
in via non definitiva sull'esigenza  di  tutela  del  buon  andamento
dell'amministrazione. 
    Quanto alla violazione del divieto  di  retroattivita',  contesta
che nel caso di specie operi  la  regola  tempus  regit  actum,  come
sostiene invece la difesa dello Stato, e richiama  la  giurisprudenza
di questa Corte, la  quale,  sulla  base  dell'interpretazione  degli
artt. 6 e 7 della  CEDU  ad  opera  della  Corte  di  Strasburgo,  ha
affermato il principio del necessario assoggettamento delle misure di
carattere punitivo-afflittivo alla medesima disciplina delle sanzioni
penali in senso  stretto.  Osserva,  infine,  che  la  giurisprudenza
costituzionale sulla  non  retroattivita'  delle  norme  in  tema  di
incandidabilita' e di decadenza a seguito di condanne penali,  citata
dal Presidente del Consiglio dei  ministri,  non  sarebbe  conferente
nella diversa ipotesi della sospensione per condanna non  definitiva,
in quanto, a suo avviso, tale giurisprudenza riguarda casi nei quali,
con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna,  e'  venuto
meno il requisito della dignita' morale. 
    5.- Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha  depositato
una memoria nell'imminenza della data fissata  per  l'udienza,  nella
quale  introduce  il  tema  della  possibile  inammissibilita'  della
questione per difetto di giurisdizione del TAR rimettente,  accertato
dalle sezioni unite civili della  Corte  di  cassazione  in  sede  di
regolamento preventivo. A  suo  avviso,  l'evidenza  ictu  oculi  del
difetto di giurisdizione del giudice a quo - che si traduce,  secondo
la   giurisprudenza   costituzionale,   nell'inammissibilita'   della
questione per difetto di rilevanza - e' resa  ancora  piu'  manifesta
dal fatto che  nel  caso  di  specie  il  vizio  e'  stato  accertato
dall'organo investito del potere di regolare la giurisdizione in  via
definitiva, con effetti vincolanti per ogni giudice e  per  le  parti
anche in altro processo, ai sensi dell'art. 59, comma 1, della  legge
n. 69 del 2009.  La  difesa  dello  Stato  osserva  altresi'  che  la
translatio iudicii davanti  al  giudice  ordinario,  derivante  dalla
riassunzione  del  giudizio,  fa  salvi  gli  effetti  sostanziali  e
processuali della  domanda  e  determina  la  pendenza  del  processo
principale, ma non comporta necessariamente  la  conservazione  degli
effetti dei provvedimenti assunti dal giudice privo di giurisdizione,
tra  i  quali  si  annovera  l'ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale. Inoltre, il  fatto  che  il  Tribunale  ordinario  di
Napoli, pur avendo accolto l'istanza cautelare, non abbia sollevato a
sua volta la questione di legittimita' costituzionale,  dimostrerebbe
che la questione stessa non proviene dal giudice che avrebbe avuto il
potere di proporla. 
    Nel merito, l'intervenuto osserva che  l'ampliamento  del  novero
dei  reati  per  i  quali  la  disciplina  anteriore   prevedeva   la
sospensione   dalla   carica   non   potrebbe   essere    considerato
irragionevole, in quanto tale disciplina gia' includeva i  principali
delitti  contro  la  pubblica  amministrazione.  La  nuova  norma  si
inserirebbe dunque nel  medesimo  solco,  portando  a  compimento  il
disegno del legislatore, descritto nel titolo della legge n.  55  del
1990, di «prevenzione della delinquenza di tipo mafioso  e  di  altre
gravi forme di manifestazione di pericolosita' sociale».  Infine,  la
difesa dello  Stato  richiama  gli  argomenti  esposti  nell'atto  di
intervento sulla natura  essenzialmente  cautelare  della  norma  che
prevede  la  sospensione  e  sull'equilibrato  contemperamento  degli
interessi in gioco da essa realizzato (si invoca, sul punto, anche la
motivazione della richiamata ordinanza delle sezioni unite civili). 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Campania  -
sezione prima - dubita della  legittimita'  costituzionale  dell'art.
11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.
235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e
di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.  190),  in
relazione all'art. 10, comma 1,  lettera  c),  del  medesimo  decreto
legislativo, per contrasto con gli artt. 2,  4,  secondo  comma,  51,
primo comma, e 97, secondo comma, della Costituzione. 
    L'art. 11, comma 1, lettera  a),  del  d.lgs.  n.  235  del  2012
dispone che sono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1
del precedente articolo 10 (vale a dire, dalle cariche di  presidente
della provincia,  sindaco,  assessore  e  consigliere  provinciale  e
comunale) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva  per
uno dei delitti indicati alle lettere a), b) e c) dello  stesso  art.
10, comma 1, tra i quali figura, alla lettera c), il delitto di abuso
di ufficio disciplinato all'art. 323 del codice penale. 
    La questione e' sorta nel  corso  di  un  giudizio  promosso  dal
Sindaco  del  Comune  di  Napoli,   D.M.L.,   contro   il   Ministero
dell'interno - UTG Prefettura di Napoli, per ottenere  l'annullamento
del  decreto  del  Prefetto  di  Napoli  che  ha  accertato  la   sua
sospensione dalla carica di sindaco  per  effetto  della  condanna  -
pronunciata in primo grado dal Tribunale di  Roma  per  il  reato  di
abuso d'ufficio - alla pena di un anno e tre  mesi  di  reclusione  e
alla pena accessoria dell'interdizione dai  pubblici  uffici  per  la
durata di un anno. 
    Nel caso oggetto del giudizio  a  quo,  la  sentenza  penale  non
definitiva e' stata pronunciata successivamente alla data di  entrata
in vigore del d.lgs. n. 235 del 2012 per fatti commessi anteriormente
a tale data. Sono anteriori all'entrata  in  vigore  della  normativa
censurata anche la candidatura e l'elezione a sindaco di D.M.L. 
    Il rimettente afferma che i dubbi di legittimita'  costituzionale
si fondano su due presupposti: la «natura sanzionatoria dell'istituto
della sospensione» e l'«efficacia retroattiva dell'istituto».  A  suo
avviso,  la  norma  denunciata,  nella  parte  in  cui   si   applica
retroattivamente anche nei casi di condanne non definitive, contrasta
con il diritto di elettorato passivo e con il principio  generale  di
irretroattivita' delle norme aventi natura sanzionatoria. 
    Il giudice a quo ritiene che non si possa «negare natura di  vera
e propria sanzione ad istituti tanto incisivi  sull'esercizio  di  un
diritto  costituzionale,  quale  quello  di  accesso   alle   cariche
pubbliche di cui all'art. 51 della Carta», e contesta  l'applicazione
retroattiva della norma sanzionatoria  per  violazione  dello  stesso
art. 51 Cost., osservando che, «ove vi sia riserva di  legge  per  la
disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono
rango costituzionale anche i principi generali  che  disciplinano  la
fonte di produzione normativa primaria», fra i quali vi e' quello  di
irretroattivita' previsto all'art. 11 delle disposizioni sulla  legge
in generale; e che cio'  vale  a  maggior  ragione,  data  la  natura
sanzionatoria delle cause ostative alla permanenza in carica  e  data
«l'inderogabilita'  assoluta  del   principio   di   irretroattivita'
nell'ambito di istituti e regimi in  buona  parte  assimilabili  alle
sanzioni penali». 
    In  definitiva,  secondo  il  rimettente  la   «questione   della
legittimita' costituzionale del superamento del limite costituito dal
divieto di retroattivita' della legge anche nell'ipotesi  in  cui  la
sospensione dalla  carica  sia  prevista  in  caso  di  condanna  non
definitiva  [...]   concerne   la   sussistenza   di   un   eccessivo
sbilanciamento»  a  favore  della   «salvaguardia   della   moralita'
dell'amministrazione   pubblica»   rispetto   ad   altri    interessi
costituzionali quali  il  diritto  di  elettorato  passivo  (art.  51
Cost.), «da ritenersi inviolabile ai sensi dell'art. 2  della  Carta,
nonche'  posto  a  fondamento  del  funzionamento  delle  istituzioni
democratiche repubblicane,  secondo  quanto  previsto  dall'art.  97,
secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una
funzione sociale che sia  stata  frutto  di  una  libera  scelta  del
cittadino, ai sensi dell'art. 4, secondo comma». 
    La norma denunciata, pertanto,  contrasterebbe  con  i  parametri
indicati. 
    2.-  In   via   preliminare,   va   ribadito   quanto   stabilito
nell'ordinanza della quale e' stata data lettura in udienza, allegata
al presente provvedimento, sull'inammissibilita' degli interventi  di
Elpidio Capasso, Maria Modesta Minozzi e Salvatore Caputo. 
    Maria Modesta Minozzi e Salvatore Caputo sono intervenuti infatti
nel giudizio costituzionale oltre il termine di  venti  giorni  dalla
pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica, fissato dagli artt. 3 e 4 delle  norme  integrative
per  i  giudizi  davanti  alla  Corte  costituzionale  con  riguardo,
rispettivamente, alla costituzione delle parti del giudizio a quo nel
giudizio  costituzionale  e  all'intervento  degli  altri   soggetti.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, tale  termine  ha
natura perentoria, sicche' dalla  sua  violazione  consegue,  in  via
preliminare e assorbente, l'inammissibilita' degli atti di intervento
depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis,  sentenze  n.  27  del
2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del  2009;  ordinanze
n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008). 
    Elpidio Capasso, il cui atto di intervento e' tempestivo, non  e'
tuttavia legittimato a partecipare al giudizio  costituzionale  quale
parte giudizio a quo, essendo intervenuto  in  tale  ultimo  giudizio
dopo l'ordinanza di rimessione, pronunciata dal TAR  Campania  il  30
ottobre 2014. A tale data,  secondo  la  costante  giurisprudenza  di
questa Corte, si deve fare riferimento per l'ammissione  delle  parti
al giudizio incidentale, ai sensi dell'art. 23 della legge  11  marzo
1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione  e  sul  funzionamento
della Corte costituzionale» (ex plurimis, sentenze n. 223  del  2012,
n. 220 del 2007; ordinanze n. 24 del 2015, n. 393 del 2008),  essendo
irrilevante, a questi fini, il successivo svolgimento del giudizio  a
quo. 
    Si deve escludere, altresi', che Elpidio Capasso sia  legittimato
a intervenire nel giudizio costituzionale nella qualita' di  soggetto
diverso dalle parti del giudizio a quo, in quanto, sempre secondo  il
costante orientamento di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel
giudizio incidentale di legittimita' costituzionale  «le  sole  parti
del  giudizio  principale  ed  i  terzi  portatori  di  un  interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale  dedotto
in giudizio e non semplicemente regolato,  al  pari  di  ogni  altro,
dalla norma o dalle norme oggetto di censura» (ex plurimis,  sentenze
n. 70 del 2015, n. 37 del 2015 e relativa ordinanza letta all'udienza
del 24 febbraio 2015, n. 162 del  2014  e  relativa  ordinanza  letta
all'udienza dell'8 aprile 2014, n. 304  e  relativa  ordinanza  letta
all'udienza del 4 ottobre 2011, n. 293, n. 199 e  relativa  ordinanza
letta all'udienza del 10 maggio 2011, e n. 118 del 2011, n.  138  del
2010 e relativa ordinanza letta all'udienza del 23 marzo 2010, n. 151
del 2009 e relativa ordinanza letta all'udienza del  31  marzo  2009;
ordinanze n. 240 del 2014, n.  156  del  2013,  n.  150  del  2012  e
relativa ordinanza letta all'udienza del  22  maggio  2012).  Elpidio
Capasso e' intervenuto facendo valere la sua posizione di  componente
della maggioranza  eletto  nell'Assemblea  metropolitana  di  Napoli.
Questa posizione, tuttavia, non lo rende  titolare  di  un  interesse
qualificato nei sensi delineati,  bensi'  di  un  interesse  di  mero
fatto, indiretto e  riflesso,  all'accoglimento  della  questione  di
legittimita' della norma in tema di mera sospensione dalla carica  di
sindaco. 
    3.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha   eccepito
l'inammissibilita' della questione per difetto di  giurisdizione  del
TAR rimettente, accertato all'esito  del  regolamento  preventivo  di
giurisdizione  promosso   dopo   la   pronuncia   dell'ordinanza   di
rimessione. 
    L'eccezione e' infondata. 
    3.1.- Come risulta dagli atti, successivamente alla rimessione  a
questa Corte, il difetto di giurisdizione del giudice a quo e'  stato
accertato dalle sezioni unite civili della Corte  di  cassazione.  La
circostanza deve essere valutata alla luce del principio di autonomia
del giudizio costituzionale rispetto ai vizi del giudizio a  quo  (ex
plurimis, sentenza n. 119 del 2015). 
    In un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio, questa
Corte ha respinto un'eccezione di  inammissibilita'  per  difetto  di
rilevanza fondata sull'esistenza di una decisione delle sezioni unite
civili della Corte di cassazione, le  quali,  in  un  giudizio  dello
stesso tipo di quello  in  cui  la  questione  era  stata  sollevata,
avevano dichiarato la carenza assoluta di giurisdizione  del  giudice
rimettente. La Corte ha affermato che, dall'«autonomia  del  giudizio
incidentale  di  costituzionalita'  rispetto  a  quello   principale,
discende  che,  in  sede  di   verifica   dell'ammissibilita'   della
questione,  la  Corte  medesima   puo'   rilevare   il   difetto   di
giurisdizione soltanto nei casi in cui  questo  appaia  macroscopico,
cosi'  che  nessun  dubbio  possa  aversi  sulla  sua   sussistenza»,
aggiungendo che «[l]a relativa indagine  deve,  peraltro,  arrestarsi
laddove il rimettente abbia espressamente  motivato  in  maniera  non
implausibile in ordine alla sua giurisdizione» (sentenza n.  241  del
2008; negli stessi termini, ex plurimis, sentenze n. 1 del  2014,  n.
116 e n. 106 del 2013, n. 41 del 2011 e n. 81 del 2010; ordinanza  n.
318 del 2013). 
    3.2.- L'ordinanza di rimessione motiva sulla posizione soggettiva
del ricorrente e sulla conseguente spettanza della  giurisdizione  al
giudice amministrativo in un modo che  certamente  supera  la  soglia
dell'implausibilita', facendo  riferimento  alla  natura  del  potere
esercitato dal prefetto, per legge funzionale alla  verifica  esterna
delle condizioni ostative al mantenimento della  carica  elettiva,  e
alla sua portata,  a  giudizio  del  rimettente,  costitutiva  e  non
meramente ricognitiva dell'effetto sospensivo del quale il ricorrente
si doleva nel giudizio a quo. 
    E' da escludere inoltre che la fattispecie  rendesse  di  per  se
stessa  manifesta  la  carenza  di  giurisdizione,   trattandosi   di
un'ipotesi di contenzioso  elettorale  che  -  oltre  ad  avere  gia'
condotto a una pronuncia di questa Corte di rigetto dell'eccezione di
inammissibilita'   per   difetto   di   giurisdizione   del   giudice
amministrativo (sentenza n. 288 del 1993; si veda anche  la  sentenza
n. 257 del 2010 che  decide,  sempre  nella  materia,  una  questione
sollevata dal giudice  amministrativo)  -  ha  dato  luogo  anche  di
recente a decisioni di merito dei giudici  amministrativi  (Consiglio
di Stato, sezione terza, sentenza 14 febbraio 2014, n. 730; Consiglio
di Stato, sezione quinta, sentenza 6  febbraio  2013,  n.  695).  Del
resto, lo stesso Consiglio di Stato, giudicando sull'appello proposto
contro il provvedimento  cautelare  concesso  dal  TAR  Campania  nel
giudizio  a  quo,  ha  ritenuto  "aperta"  la   questione,   con   la
considerazione che l'«eccepito difetto di giurisdizione [...] postula
una diffusa e definitiva delibazione in sede di merito» (Consiglio di
Stato, sezione terza, ordinanza 20 novembre 2014, n. 5343). 
    3.3.-  Non  presenta  infine  specifico  rilievo,  ai  fini   del
controllo di ammissibilita', il fatto  che,  dopo  la  pronuncia  sul
regolamento di giurisdizione, il processo principale  sia  proseguito
presso il giudice ordinario davanti al quale e' stato riassunto;  ne'
che lo stesso giudice ordinario, pronunciandosi a sua volta  in  sede
cautelare sull'istanza del  ricorrente,  abbia  reiterato  la  misura
cautelare - prima concessa dal giudice  amministrativo  -  in  attesa
della decisione della questione di costituzionalita' gia' sollevata e
pendente. 
    Cosi' come l'estinzione del giudizio principale  non  ha  effetti
sul giudizio davanti a questa Corte (art. 18 delle norme  integrative
per  i  giudizi  davanti  alla  Corte  costituzionale  approvate  con
Deliberazione 7 ottobre 2008, in Gazzetta Ufficiale 7 novembre  2008,
n. 261), allo stesso modo su quest'ultimo giudizio non puo'  produrre
effetti di sorta la eventuale riassunzione del giudizio a quo davanti
al giudice di un'altra giurisdizione. Tanto  meno  li  puo'  produrre
quando, come nel caso in esame, si sia in presenza  della  translatio
iudicii prevista dall'art. 59 della  legge  18  giugno  2009,  n.  69
(Disposizioni per  lo  sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la
competitivita'  nonche'  in  materia  di  processo  civile),  e   dal
successivo art. 11 del decreto legislativo  2  luglio  2010,  n.  104
(Attuazione dell'articolo 44 della  legge  18  giugno  2009,  n.  69,
recante  delega   al   governo   per   il   riordino   del   processo
amministrativo). La stessa  avvenuta  translatio,  infatti,  porta  a
ritenere  la  fattispecie   addirittura   piu'   vicina   a   quella,
fisiologica, della semplice continuazione del processo a quo,  che  a
quella della sua mera estinzione, con la conseguenza che anche  sotto
questo profilo resta esclusa ogni ragione di  inammissibilita'  della
questione. 
    4.- Nel merito la questione non e' fondata. 
    Come si e' gia'  esposto,  il  giudice  rimettente  contesta  «la
sussistenza  di  un  eccessivo   sbilanciamento»   a   favore   della
«salvaguardia della moralita' dell'amministrazione pubblica» rispetto
ad altri interessi costituzionali  quali  il  diritto  di  elettorato
passivo (art. 51 Cost.), «da ritenersi inviolabile ai sensi dell'art.
2 della Carta, nonche' posto a  fondamento  del  funzionamento  delle
istituzioni  democratiche  repubblicane,  secondo   quanto   previsto
dall'art. 97, secondo comma, ed  infine  espressione  del  dovere  di
svolgimento di una funzione sociale  che  sia  stata  frutto  di  una
libera scelta del cittadino, ai sensi dell'art. 4, secondo comma». 
    Il  TAR  Campania   cerca   di   dimostrare   questo   «eccessivo
sbilanciamento» con un'argomentazione che si fonda essenzialmente  su
tre elementi: il  carattere  sanzionatorio  della  sospensione  dalla
carica; l'applicazione retroattiva della  sospensione,  in  contrasto
con un divieto di retroattivita' che si ricaverebbe dallo stesso art.
51, primo comma, Cost.; il collegamento  della  sospensione  con  una
condanna non definitiva. L'argomentazione, pero', non risulta  idonea
a sorreggere la tesi del rimettente. 
    In primo luogo,  e'  opportuno  precisare  che,  benche'  il  TAR
invochi quattro parametri costituzionali, gli  artt.  2,  4,  secondo
comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma,  la  questione  da  esso
sollevata si regge essenzialmente sull'art. 51,  primo  comma,  Cost,
considerato nella sua relazione con  l'art.  2  Cost.,  al  quale  il
giudice a quo fa riferimento per sottolineare la  natura  di  diritto
inviolabile del diritto  di  elettorato  passivo  disciplinato  dallo
stesso art. 51. 
    Infatti,  il  diritto  di  elettorato  passivo  e'  si'  uno  dei
fondamenti delle istituzioni democratiche, ma non in virtu' dell'art.
97,  secondo  comma,  Cost.:  anzi,  il  principio  sancito  da  tale
disposizione  a  tutela  del  buon  andamento  e   dell'imparzialita'
dell'amministrazione puo' essere invocato piuttosto, come si  vedra',
a sostegno della legittimita' di una norma che prevede la sospensione
dalla carica di pubblico  amministratore  di  chi  abbia  subito  una
condanna per un reato contro la pubblica amministrazione. 
    Quanto all'art. 4, secondo comma, Cost., l'adempimento del dovere
di svolgere un'attivita'  «che  concorra  al  progresso  materiale  o
spirituale della societa'» non  e'  pregiudicato  da  una  norma  che
prevede la sospensione da  una  carica  politica  a  seguito  di  una
condanna penale. Al dovere di contribuire con la propria attivita' al
progresso della societa' ciascun  cittadino  puo'  assolvere  in  una
molteplicita' di modi e forme, che non si esauriscono in  quelli  che
derivano dall'assunzione di cariche elettive, con la conseguenza  che
la previsione  dell'art.  4,  secondo  comma,  non  puo'  logicamente
costituire un ostacolo  alla  fissazione  da  parte  della  legge  di
requisiti per il mantenimento di uffici pubblici e cariche pubbliche,
come previsto dall'art. 51, primo comma, Cost. 
    Si  puo'  quindi  concludere  che  l'intera  questione  ha   come
parametri di riferimento esclusivamente gli artt. 51, primo comma,  e
2 Cost. 
    4.1.- Cominciando dal primo degli elementi  indicati  sopra  come
essenziali  nell'argomentazione  del   TAR,   cioe'   dal   carattere
sanzionatorio della sospensione, occorre ricordare che  questa  Corte
si e' gia' pronunciata, in diverse occasioni, sulle  norme  di  legge
che hanno costituito i "precedenti" del d.lgs. n. 235 del  2012  -  e
segnatamente sull'art. 15 della legge 19 marzo  1990,  n.  55  (Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo  mafioso  e
di altre gravi forme di  manifestazione  di  pericolosita'  sociale),
come modificato dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in  materia
di elezioni e nomine presso le regioni  e  gli  enti  locali),  dalla
legge 12 gennaio 1994, n. 30 (Disposizioni modificative  della  legge
19 marzo 1990, n. 55, in materia  di  elezioni  e  nomine  presso  le
regioni e gli enti locali, e della legge 17 febbraio 1968, n. 108, in
materia di elezioni dei consigli regionali delle  regioni  a  statuto
ordinario), e  dalla  legge  13  dicembre  1999,  n.  475  (Modifiche
all'articolo  15  della  L.  19  marzo  1990,  n.  55,  e  successive
modificazioni), e sull'art. 59  del  decreto  legislativo  18  agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle  leggi  sull'ordinamento  degli  enti
locali) -, escludendo che le  misure  della  incandidabilita',  della
decadenza e della sospensione  abbiano  carattere  sanzionatorio  (si
vedano le sentenze n. 25 del 2002, n. 132 del 2001, n. 206 del  1999,
n. 295, n. 184 e n. 118 del 1994). 
    Questa Corte  ha  chiarito  che  tali  misure  non  costituiscono
sanzioni o effetti penali della condanna, ma  conseguenze  del  venir
meno  di  un  requisito  soggettivo  per   l'accesso   alle   cariche
considerate o per il loro mantenimento: «nelle ipotesi legislative di
decadenza ed anche di sospensione obbligatoria dalla carica  elettiva
previste dalle norme denunciate non si tratta  affatto  di  "irrogare
una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravita' dei reati,
bensi' di constatare che e' venuto meno un requisito  essenziale  per
continuare a ricoprire l'ufficio pubblico elettivo" (sentenza n.  295
del 1994), nell'ambito di quel potere di fissazione  dei  "requisiti"
di eleggibilita', che l'art.  51,  primo  comma,  della  Costituzione
riserva appunto  al  legislatore»  (sentenza  n.  25  del  2002).  In
sostanza   il   legislatore,   operando   le   proprie    valutazioni
discrezionali, ha ritenuto che, in  determinati  casi,  una  condanna
penale precluda  il  mantenimento  della  carica,  dando  luogo  alla
decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la  condanna  sia
definitiva o non definitiva. 
    Anche la giurisprudenza comune  ha  escluso  che  le  conseguenze
preclusive  del  mantenimento  di  determinate   cariche   pubbliche,
derivanti dalle condanne penali in base al d.lgs. n. 235 del  2012  e
alle  disposizioni  di  legge  che  lo  hanno  preceduto,  a  partire
dall'art.  15  della  legge  n.  55  del  1990,   abbiano   carattere
sanzionatorio (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27
maggio 2008, n. 13831; Corte di  cassazione,  sezione  prima  civile,
sentenza 21 aprile 2004, n. 7593; Corte di cassazione, sezione  prima
civile, sentenza 2 febbraio  2002,  n.  1362;  Corte  di  cassazione,
sezione prima civile, sentenza 26 novembre 1998, n. 12014;  Consiglio
di  Stato,  sezione  quinta,  sentenza  29  ottobre  2013,  n.  5222;
Consiglio di Stato, sezione quinta,  sentenza  6  febbraio  2013,  n.
695). 
    Una delle pronunce costituzionali citate ha dichiarato  infondata
una questione corrispondente a quella sollevata dal TAR Campania.  In
quell'occasione il giudice a quo aveva  contestato  l'art.  15  della
legge n. 55 del 1990 (come modificato dall'art. 1 della  gia'  citata
legge n. 16 del 1992), nella parte in cui disponeva che la  decadenza
di diritto da una serie di cariche elettive  (indicate  nel  medesimo
articolo), conseguente a sentenza di condanna  passata  in  giudicato
per  determinati  reati  (pure  ivi  previsti),  operasse  anche   in
relazione alle consultazioni elettorali che  si  erano  svolte  prima
dell'entrata in vigore della  legge  medesima.  Nella  sua  pronuncia
questa Corte ha precisato che la condanna penale irrevocabile  e'  un
«mero  presupposto  oggettivo  cui  e'  ricollegato  un  giudizio  di
"indegnita' morale" a  ricoprire  determinate  cariche  elettive:  la
condanna stessa viene, cioe', configurata quale "requisito  negativo"
ai fini della  capacita'  di  assumere  e  di  mantenere  le  cariche
medesime» (sentenza n. 118 del 1994). 
    Questa Corte ha, inoltre,  sottolineato  che  la  diversa  natura
delle misure in questione rispetto agli effetti penali della condanna
risulta confermata dalla previsione (in quel caso dall'art. 15, comma
4-sexies, della legge n. 55 del 1990) che la misura non si applica se
e' concessa la riabilitazione,  osservando  che  «[t]ale  statuizione
sarebbe superflua, se si trattasse di un effetto penale, destinato di
per se' ad estinguersi con la riabilitazione (art.  178  cod.  pen.):
mentre essa vale ad estendere l'effetto di rimozione, derivante dalla
riabilitazione, al di fuori dell'ambito degli  effetti  penali  della
condanna,   e   precisamente   a   questa   particolare   causa    di
ineleggibilita'» (sentenza  n.  132  del  2001).  Lo  stesso  effetto
estintivo e' ora espressamente previsto dall'art. 15,  comma  3,  del
d.lgs. n. 235 del 2012. 
    In definitiva, il primo presupposto argomentativo della questione
sollevata dal TAR  Campania,  ossia  la  natura  sanzionatoria  della
misura, prevista  dalla  norma  censurata,  della  sospensione  dalla
carica, si rivela insussistente, dal  momento  che  «[l]a  misura  in
questione,  invece,  risponde  ad  esigenze  proprie  della  funzione
amministrativa  e  della  pubblica  amministrazione  presso  cui   il
soggetto colpito presta servizio»  (sentenza  n.  206  del  1999)  e,
trattandosi   di   sospensione,   costituisce   «misura   sicuramente
cautelare» (sentenza n. 25 del 2002). 
    4.2.- Quanto alla asserita retroattivita' dell'art. 11, comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del  2012,  occorre,  in  primo  luogo,
definire con precisione  il  contenuto  della  censura  avanzata  dal
giudice rimettente. Il TAR Campania ha dichiarato di considerare  non
manifestamente infondata la questione di costituzionalita'  sollevata
con il quarto motivo di ricorso. Dalla prima parte dell'ordinanza  di
rimessione risulta  che  il  ricorrente  nel  giudizio  a  quo  aveva
contestato,  nel  quarto  motivo  del  suo  ricorso,   l'applicazione
"retroattiva" (alla  candidatura  avvenuta  nel  2011,  e  dunque  al
mandato gia' in corso) di una nuova "causa ostativa" alla  permanenza
in carica (la condanna per abuso d'ufficio), introdotta con il d.lgs.
n. 235 del 2012. 
    Nello sviluppare la propria argomentazione il giudice  a  quo  fa
riferimento,  in  alcuni   passaggi,   non   all'applicazione   della
sospensione  al  mandato  in  corso,  ma  ad   un   altro   tipo   di
retroattivita', cioe' all'applicazione della nuova norma a  un  fatto
illecito precedente la legge. Questi passaggi sarebbero rilevanti  se
a tale applicazione dovesse riconoscersi natura  sanzionatoria  -  il
che tuttavia e' stato escluso - e se, nel formulare la questione,  si
fosse fatto riferimento all'art. 25 Cost., cosa che non e'  avvenuta.
Sicche' la questione stessa va intesa nel  senso  che  la  violazione
dell'art. 51, primo comma, Cost. deriverebbe dall'applicazione  della
norma censurata ad un mandato gia' in corso. 
    4.3.- Cosi' definiti i contorni  della  retroattivita'  censurata
dal TAR Campania, occorre  ora  verificare  se  l'applicazione  della
nuova causa di sospensione ai mandati in corso produca un  sacrificio
eccessivo del diritto di elettorato passivo. 
    4.3.1.- Secondo il giudice rimettente, l'art.  51,  primo  comma,
Cost., considerato unitamente all'art. 2 Cost., vieterebbe alla legge
alla quale affida il compito di stabilire i requisiti dell'elettorato
passivo di introdurre sanzioni in via retroattiva: cio' in virtu'  di
una presunta "costituzionalizzazione" dell'art. 11 delle disposizioni
preliminari al codice civile nei casi di  riserva  di  legge  per  la
disciplina di diritti fondamentali e, inoltre, per «l'inderogabilita'
assoluta del principio di irretroattivita' nell'ambito di istituti  e
regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali». 
    Questo  divieto  di  retroattivita'  (nel  senso  di  divieto  di
allontanamento dell'eletto dal mandato assunto prima dell'entrata  in
vigore del d.lgs. n. 235 del 2012), ad  avviso  del  giudice  a  quo,
potrebbe essere superato in caso di condanna definitiva,  ma  non  in
caso di condanna non definitiva, data l'impossibilita' di presumere -
in questo secondo caso - «una situazione di indegnita' morale». 
    Ora, la tesi  della  "costituzionalizzazione"  del  principio  di
irretroattivita' in tutti i casi in cui  la  Costituzione  ponga  una
riserva  di  legge  per  la  disciplina  di  diritti  inviolabili  e'
infondata,  dato  che,  al  di  fuori  dell'ambito  di   applicazione
dell'art. 25, secondo comma, Cost. - al quale, come si e'  detto,  il
giudice rimettente non  ha  fatto  riferimento  -  le  leggi  possono
retroagire, rispettando «una serie di limiti che questa Corte  ha  da
tempo individuato e che attengono alla salvaguardia, tra l'altro,  di
fondamentali  valori  di  civilta'  giuridica  posti  a  tutela   dei
destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno
ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e  di
eguaglianza, la  tutela  dell'affidamento  legittimamente  sorto  nei
soggetti quale principio connaturato  allo  Stato  di  diritto  e  il
rispetto  delle  funzioni  costituzionalmente  riservate  al   potere
giudiziario» (ex plurimis, sentenza n. 156 del 2007). 
    4.3.2.- La  realta'  e'  che,  anche  volendo  prescindere  dalla
questione se l'applicazione di una nuova causa  ostativa  al  mandato
gia' in  corso  concreti  un  fenomeno  di  retroattivita'  in  senso
proprio, il TAR rimettente non spiega le  ragioni  per  le  quali  la
sospensione dell'eletto, ai sensi della norma de qua,  determinerebbe
un sacrificio eccessivo del diritto  di  elettorato  passivo.  Venuti
meno i due argomenti utilizzati dal giudice a quo per  contestare  la
supposta retroattivita' della sospensione,  la  violazione  dell'art.
51, primo comma, Cost. resta sostanzialmente immotivata. Se  e'  vero
che la condanna non definitiva non autorizza, in virtu' dell'art. 27,
secondo comma, Cost. - che del resto non  e'  stato  richiamato  come
parametro - a presumere accertata l'esistenza di «una  situazione  di
indegnita' morale», e' anche vero che la permanenza in carica di  chi
sia stato condannato anche in  via  non  definitiva  per  determinati
reati  che  offendono  la  pubblica  amministrazione  puo'   comunque
incidere  sugli  interessi  costituzionali  protetti  dall'art.   97,
secondo comma,  Cost.,  che  affida  al  legislatore  il  compito  di
organizzare i pubblici uffici in modo che  siano  garantiti  il  buon
andamento e l'imparzialita'  dell'amministrazione,  e  dall'art.  54,
secondo comma, Cost., che  impone  ai  cittadini  cui  sono  affidate
funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore». 
    Ben puo' quindi il legislatore, nel disciplinare i requisiti  per
l'accesso e il mantenimento delle cariche che comportano  l'esercizio
di quelle funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli  interessi  in
gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato,  e  il
buon andamento e  l'imparzialita'  dell'amministrazione,  dall'altro;
tanto piu' che il  dovere,  fissato  a  garanzia  di  questo  secondo
interesse, di  svolgere  con  onore  le  funzioni  pubbliche  incombe
precisamente sui destinatari della protezione  offerta  dall'art.  51
Cost., vale a dire - per quanto qui rileva - sugli eletti. 
    Pronunciandosi su misure dello stesso  tipo  di  quella  prevista
dalla norma censurata, questa Corte ha ritenuto che «il bilanciamento
dei valori coinvolti effettuato  dal  legislatore  "non  si  appalesa
irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente  sul  sospetto  di
inquinamento o, quanto meno, di perdita dell'immagine degli  apparati
pubblici,  che  puo'  derivare  dalla  permanenza   in   carica   del
consigliere eletto, che abbia riportato una condanna,  anche  se  non
definitiva, per i delitti indicati e sulla  constatazione  del  venir
meno  di  un  requisito  soggettivo  essenziale  per  la   permanenza
dell'eletto nell'organo elettivo"» (sentenza  n.  352  del  2008;  si
vedano anche le sentenze n. 118 del 2013, n. 257 del 2010, n. 25  del
2002, n. 206 del 1999, n. 141 del 1996). 
    Nell'esercizio della  sua  discrezionalita',  il  legislatore  ha
ritenuto  che  una  condanna  per  abuso  d'ufficio  faccia   sorgere
l'esigenza cautelare di  sospendere  temporaneamente  l'eletto  dalla
carica, a tutela degli interessi appena indicati. Il TAR Campania non
spende argomenti per dimostrare  la  manifesta  irragionevolezza  del
bilanciamento legislativo.  Anzi,  nel  respingere  il  quinto  e  il
settimo motivo di ricorso, il  giudice  rimettente  ha  espressamente
negato che l'inclusione dell'abuso d'ufficio  fra  i  reati  ostativi
possa essere considerata irragionevole  o  sproporzionata.  Cio'  che
contesta e',  come  gia'  visto,  l'applicazione  della  nuova  causa
ostativa - rappresentata da una condanna  non  definitiva  per  abuso
d'ufficio - ai mandati in corso. 
    Nemmeno sotto tale profilo, tuttavia,  la  norma  censurata  puo'
essere considerata frutto di  un  bilanciamento  irragionevole  degli
interessi in gioco, dal momento che  anche  l'applicazione  immediata
delle nuove cause ostative in essa previste - a chi sia stato  eletto
prima della sua entrata in vigore - costituisce ragionevole  risposta
all'esigenza alla quale la normativa stessa tende a corrispondere. Di
fronte  a  una  grave  situazione  di  illegalita'   nella   pubblica
amministrazione, infatti,  non  e'  irragionevole  ritenere  che  una
condanna (non definitiva) per determinati  delitti  (per  quanto  qui
interessa, contro la  pubblica  amministrazione)  susciti  l'esigenza
cautelare di sospendere temporaneamente il condannato  dalla  carica,
per evitare un "inquinamento" dell'amministrazione  e  per  garantire
«la "credibilita'" dell'amministrazione presso il pubblico, cioe'  il
rapporto di fiducia  dei  cittadini  verso  l'istituzione,  che  puo'
rischiare di essere incrinato dall'"ombra"  gravante  su  di  essa  a
causa dell'accusa da cui e' colpita una persona attraverso  la  quale
l'istituzione stessa opera» (sentenza n. 206 del 1999). Tali esigenze
sarebbero vanificate  se  l'applicazione  delle  norme  in  questione
dovesse essere riferita soltanto  ai  mandati  successivi  alla  loro
entrata in vigore. 
    Non a caso  l'applicazione  immediata  delle  cause  ostative  ai
mandati in corso non rappresenta affatto una novita'  del  d.lgs.  n.
235 del 2012, ma ha sempre caratterizzato le precedenti norme  (sopra
citate) che apprestavano strumenti di tutela degli interessi protetti
dall'art. 97, secondo comma, e dall'art. 54, secondo comma, Cost.,  a
fronte del pregiudizio che  deriva  alle  istituzioni  pubbliche  dal
coinvolgimento degli eletti in vicende penali. 
    Come questa Corte ha gia' rilevato in relazione alla normativa di
cui all'art. 1 della legge n.  16  del  1992,  «non  appare,  invero,
affatto irragionevole che questa operi con effetto immediato anche in
danno di chi sia stato legittimamente eletto prima della sua  entrata
in vigore: costituisce, infatti, frutto di una  scelta  discrezionale
del  legislatore  certamente  non   irrazionale   l'aver   attribuito
all'elemento  della  condanna  irrevocabile  per  determinati   gravi
delitti una rilevanza  cosi'  intensa,  sul  piano  del  giudizio  di
indegnita' morale del soggetto,  da  esigere,  al  fine  del  miglior
perseguimento delle richiamate finalita'  di  rilievo  costituzionale
della legge in esame, l'incidenza negativa della disciplina  medesima
anche sul mantenimento delle cariche elettive  in  corso  al  momento
della sua entrata in vigore» (sentenza n. 118 del 1994). 
    Cosi'  come  la  condanna  irrevocabile  puo'   giustificare   la
decadenza dal mandato in corso, per le stesse ragioni la condanna non
definitiva  puo'  far  sorgere  l'esigenza  cautelare  di  sospendere
temporaneamente l'eletto da tale mandato, sicche' si deve  concludere
che la  scelta  operata  dal  legislatore  nell'esercizio  della  sua
discrezionalita'  non  ha  superato  i  confini  di  un   ragionevole
bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco.