ha pronunciato la seguente ORDINANZA nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 1, primo comma, 5, primo comma, e 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi dal Tribunale ordinario di Vicenza, sezione fallimentare, con due ordinanze del 13 giugno 2014, iscritte ai nn. 89 e 90 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 2015. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2016 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli. Ritenuto che - nella fase prefallimentare di un giudizio implicante la possibilita' della dichiarazione di fallimento della persona fisica insolvente (resistente in quel processo) - il Tribunale ordinario di Vicenza, sezione fallimentare, ha sollevato, con ordinanza depositata il 13 giugno 2014, questione incidentale di legittimita' costituzionale degli artt. 1, primo comma, e 5, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), «nella parte in cui assoggettano a fallimento l'imprenditore individuale persona fisica, e non autonomamente la sola impresa individuale intesa come attivita', ovvero alternativamente [la sottolineatura e' nel dispositivo dell'ordinanza] nella parte in cui assoggettano a fallimento l'imprenditore individuale anziche' limitarsi a dichiararne l'insolvenza, o a dichiarare soltanto l'insolvenza dell'impresa della persona fisica come attivita'»; che, secondo il rimettente, dette disposizioni violerebbero, infatti, gli artt. 2, 3, commi primo e secondo, e 41, secondo comma, della Costituzione, in ragione della «inadeguatezza dell'uso del termine "fallito"», in esse riferito a colui la cui impresa sia in stato di insolvenza, trattandosi di termine che «non e' solo [...] tecnico giuridico», ma avrebbe «anche, e soprattutto,» una «portata ben piu' ampia che coinvolge la persona nella sua globalita', in tutte le sue sfere e relazioni sociali, e nel suo piu' intimo sentire ed amor proprio»; che, in altro analogo giudizio in fase prefallimentare, la stessa sezione del Tribunale ordinario di Vicenza, con altra ordinanza in pari data, ha sollevato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 147, primo comma, e 5, primo comma, del citato r.d. n. 267 del 1942, «nella parte in cui determinano il fallimento del socio illimitatamente responsabile di societa' fallita, anziche' limitarsi a determinarne la dichiarazione di insolvenza, in conseguenza della dichiarazione di fallimento (o di insolvenza) della societa'»; che, secondo il Collegio a quo (che, con riguardo alla posizione del socio illimitatamente responsabile, reitera sostanzialmente le argomentazioni gia' svolte nella precedente ordinanza, nei confronti dell'imprenditore individuale persona fisica), la normativa denunciata contrasterebbe, in particolare, con il principio di eguaglianza per la disparita' di trattamento, che comporterebbe, tra un soggetto fallibile ed un soggetto non fallibile, agli effetti della «capitis deminutio sociale conseguente alla attribuzione dell'appellativo "fallito", che viene dato con sentenza ad una persona fisica, per l'insolvenza della sua impresa, o della societa' di cui e' socio illimitatamente responsabile». E sconterebbe «lo iato di sensibilita' (sociale e giuridica) rispetto alla vigente Costituzione materiale, che piu' non tollera nel proprio sentire che un soggetto persona fisica debba essere qualificato "fallito", sol perche' la sua impresa commerciale (e solo essa) non abbia funzionato a dovere, eventualmente anche per cause esterne al suo volere»; che, nei due giudizi introdotti dinanzi a questa Corte, i quali per connessione possono riunirsi, e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato, ha identicamente concluso per l'inammissibilita' o, in subordine, per la non fondatezza di entrambe le sollevate questioni. Considerato che la questione - di legittimita' costituzionale degli artt. 1, primo comma, e 5, primo comma, del r.d. n. 267 del 1942 - sollevata con la prima ordinanza, e' manifestamente inammissibile, sia per il carattere virtuale della sua rilevanza (solo apoditticamente affermata, in carenza di alcun, pur necessario, previo accertamento in ordine alla sussistenza in concreto dei presupposti suscettibili di condurre alla declaratoria di fallimento prevista dalla normativa censurata), sia per il carattere dichiaratamente ancipite del suo petitum (per tutte, ordinanze n. 41 del 2015, n. 248 del 2014 e n. 328 del 2011); che anche la questione - di legittimita' costituzionale degli artt. 147, primo comma, e 5, primo comma, del medesimo r.d. n. 267 del 1942 - sollevata con la seconda ordinanza, e', a sua volta, manifestamente inammissibile, per analoga inadeguatezza della motivazione sulla rilevanza, oltreche' per il carattere non obbligato, e sostanzialmente addirittura creativo, della auspicata pronunzia additiva; che, infatti, l'obiettivo del mutamento del nomen iuris dell'istituto in questione, che il rimettente si propone di conseguire attraverso l'incidente di costituzionalita' - seppur apprezzabile nella delineata prospettiva di una piu' sensibile attenzione al valore della dignita' della persona - presuppone, comunque, una valutazione, in ordine alla denominazione piu' appropriata di aspetti pertinenti alla disciplina del fallimento, certamente eccentrica rispetto ai poteri del Giudice delle leggi ed attinente invece proprium delle scelte riservate al legislatore. Come, del resto, dimostrato, de iure condendo, dal criterio direttivo individuato dal recente schema di disegno di legge recante «Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza», elaborato dalla Commissione ministeriale istituita dal Ministro della giustizia con decreto 24 febbraio 2015, consistente proprio nella previsione della sostituzione del termine «fallimento», con espressioni equivalenti, quali «insolvenza» o «liquidazione giudiziale». Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.