ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 69,  quarto
comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della  legge  5
dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale  e  alla  legge  26
luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva,
di  giudizio  di  comparazione  delle  circostanze  di  reato  per  i
recidivi, di usura e di prescrizione), promosso dalla Corte d'appello
di Ancona nel procedimento penale a carico di S.L., con ordinanza del
3 aprile 2015, iscritta al n.  165  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  36,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 2016  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte d'appello di Ancona, con ordinanza del 3 aprile 2015
(r.o. n. 165 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e
27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del  codice  penale,  come
sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in  materia  di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione  delle
circostanze di reato per i recidivi, di  usura  e  di  prescrizione),
nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza
attenuante dell'art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi  stati  di  tossicodipendenza)  sulla  recidiva   reiterata,
prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. 
    Il giudice a quo ricorda che  con  sentenza  emessa  in  data  11
luglio 2014  il  Giudice  per  l'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario  di  Ancona,  all'esito  del  giudizio  abbreviato,   aveva
dichiarato S.L. - imputato del reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n.
309 del 1990 e del reato di cui agli artt. 110 cod.  pen.  e  73  del
d.P.R.  n.  309  del  1990,  per  aver  illecitamente   detenuto   un
chilogrammo di marijuana e 85 grammi di cocaina - colpevole dei reati
ascrittigli unificati dal vincolo  della  continuazione  e  lo  aveva
condannato alla pena di quattro anni e  otto  mesi  di  reclusione  e
24.000 euro di multa, ritenendo la  recidiva  specifica  reiterata  e
infraquinquennale equivalente alle  concesse  circostanze  attenuanti
generiche. 
    Avverso la sentenza di  primo  grado  l'imputato  aveva  proposto
appello non contestando l'applicazione della recidiva ma chiedendo il
riconoscimento della circostanza attenuante  prevista  dall'art.  73,
comma 7, del d.P.R. n. 309 del 1990 e la conseguente riduzione  della
pena inflitta. 
    A sostegno dell'impugnazione, l'imputato aveva richiamato la nota
del 20 marzo 2015 della Direzione distrettuale antimafia  di  Ancona,
che attestava «la completa, vasta  ed  incondizionata  collaborazione
posta in essere dal S. (anche e  soprattutto)  dopo  la  sentenza  di
primo grado». 
    La Corte  rimettente  ritiene  che  la  questione  sollevata  sia
rilevante nel giudizio a quo, perche', «in caso di  accoglimento,  si
dovrebbe irrogare una pena di gran lunga inferiore rispetto a  quella
inflitta dal primo giudice, atteso  che  la  ampiezza  ed  intensita'
della collaborazione prestata  dall'imputato  indurrebbe  a  ritenere
l'attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73, co.  7°,  d.P.R.
n. 309/1990 sicuramente prevalente sulla recidiva».  Questo  giudizio
di prevalenza e', tuttavia, impedito dal divieto posto dall'art.  69,
quarto comma, cod. pen., e secondo  il  giudice  a  quo  non  sarebbe
possibile escludere la recidiva riconosciuta dalla sentenza di  primo
grado, ancorche' facoltativa, sia «perche'  la  relativa  statuizione
non e'  stata  oggetto  di  specifico  motivo  di  appello  da  parte
dell'imputato  (cfr.  Cassazione  penale,  sez.  II,  3/10/2013,   n.
47025)», sia «perche' nel caso in esame le  condanne  gia'  riportate
dall'imputato, in relazione alla natura e al tempo di commissione dei
reati indicano che il reato sub iudice e' espressione della  medesima
"devianza" gia' denotata in occasione dei  precedenti  reati,  ed  e'
percio' sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosita'
dell'imputato». 
    La questione sarebbe inoltre  non  manifestamente  infondata,  in
riferimento al principio di ragionevolezza di cui all'art.  3  Cost.,
«perche'  la  preclusione  assoluta  di  poter  ritenere   prevalente
l'attenuante della collaborazione ex  art.  73,  co.  7°,  d.P.R.  n.
309/1990 ai recidivi reiterati  introduce  un  evidente  elemento  di
irrazionalita' secondo lo scopo della disposizione anzidetta». 
    Il settimo comma  dell'art.  73  del  d.P.R.  n.  309  del  1990,
infatti, prevede  una  circostanza  attenuante  ad  effetto  speciale
«diretta a premiare e stimolare il ravvedimento  post-delittuoso  del
responsabile».  In  tal  modo  il  legislatore  mira  a  favorire  la
dissociazione e la collaborazione operosa, tramite il  riconoscimento
di una rilevante diminuzione di  pena  (dalla  meta'  a  due  terzi);
poiche' pero', secondo il  giudice  rimettente,  non  solo  non  puo'
escludersi, ma e' anzi molto probabile che il reo che collabora abbia
riportato una pluralita' di condanne, essendo inserito  nel  traffico
di   sostanze   stupefacenti,   la   norma   censurata    impedirebbe
all'attenuante premiale di spiegare la propria efficacia dato che  il
recidivo reiterato non  troverebbe  alcun  vantaggio  a  collaborare.
L'irragionevolezza della norma impugnata, inoltre, rileverebbe «anche
nell'ottica di sistema», considerato che la circostanza attenuante ad
effetto speciale di cui all'art. 8 del decreto-legge 13 maggio  1991,
n. 152 (Provvedimenti urgenti in  tema  di  lotta  alla  criminalita'
organizzata  e  di  trasparenza  e  buon   andamento   dell'attivita'
amministrativa), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,
della legge 12 luglio 1991, n.  203,  caratterizzata  dalla  medesima
ratio di quella che viene in questione nel giudizio  a  quo,  non  e'
soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze  eterogenee  ed
e' obbligatoria, qualora ne ricorrano le condizioni. 
    Infatti, se prima della riforma attuata dalla legge  n.  251  del
2005 questo trattamento differenziato riconosciuto  al  collaboratore
inserito in un contesto mafioso era ragionevole, in quanto  anche  al
collaboratore di cui all'art. 73, comma 7,  del  d.P.R.  n.  309  del
1990, benche' recidivo reiterato, «era offerto un incentivo concreto,
essendo possibile, nel caso di giudizio di  prevalenza,  ottenere  il
previsto  rilevantissimo  sconto  di  pena»,  successivamente  questa
ragionevolezza sarebbe venuta meno, perche'  «il  recidivo  reiterato
non potra' mai beneficiare di tale sconto di pena». 
    Sussisterebbe,  inoltre,  la   «violazione   del   principio   di
proporzionalita'  della  pena  (principalmente  nella  sua   funzione
rieducativa, ma anche in quella retributiva),  di  cui  all'art.  27,
terzo comma, Cost., perche' una pena che non tenga  in  debito  conto
della  proficua  collaborazione   prestata   per   effetto   di   una
dissociazione post-delictum, spesso sofferta, e che  puo'  esporre  a
gravissimi  rischi  personali  e  familiari,  da  un  lato  non  puo'
correttamente  assolvere  alla  funzione  di   ristabilimento   della
legalita' violata, dall'altro - soprattutto - non potra'  mai  essere
sentita dal condannato come rieducatrice». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile  o,
comunque, non fondata. 
    Ad avviso della difesa dello Stato,  il  giudice  rimettente  non
avrebbe  descritto  sufficientemente  la  fattispecie   oggetto   del
giudizio, in quanto non avrebbe spiegato i  motivi  per  i  quali  la
sentenza di primo grado ha  riconosciuto  le  circostanze  attenuanti
generiche,  non  consentendo,   pertanto,   di   verificare   se   il
riconoscimento  era  fondato  proprio  sulla  condotta  collaborativa
dell'imputato.  In  questo  caso  infatti  l'avvenuta  collaborazione
avrebbe comunque spiegato efficacia  sul  trattamento  sanzionatorio,
neutralizzando  l'aumento  di  pena  conseguente  alla   riconosciuta
recidiva. 
    L'Avvocatura generale dello Stato ritiene  inoltre  la  questione
non fondata. La modifica dell'art. 69, quarto comma,  cod.  pen.,  ad
opera della legge n. 251 del  2005,  volta  a  «inasprire  il  regime
sanzionatorio di coloro che  versano  nella  situazione  di  recidiva
reiterata, impedendo che tale importante  circostanza  sia  sottratta
alla  commisurazione  della  pena  in  concreto»,  costituirebbe  una
«scelta discrezionale del legislatore immune dalle censure denunciate
dal giudice remittente». 
    La norma censurata non sarebbe in contrasto con il  principio  di
ragionevolezza,  in  quanto  tenderebbe  ad  attuare  «una  forma  di
prevenzione generale della recidiva reiterata, inasprendone il regime
sanzionatorio».  Essa,  inoltre,   non   comporterebbe   una   misura
sproporzionata della pena, perche' sanziona coloro che hanno commesso
un altro reato essendo gia' recidivi, cosi'  dimostrando  un  alto  e
persistente grado di antisocialita'. 
    Non si potrebbe ragionevolmente ritenere  che  la  previsione  di
trattamenti sanzionatori piu' rigorosi per i recidivi reiterati possa
determinare l'applicazione di una pena di per se'  sproporzionata,  e
cio' sarebbe sufficiente per escludere anche qualsiasi conflitto  con
la funzione rieducativa della pena.  La  commisurazione  della  pena,
sottolinea  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  «demandata  al
giudice alla stregua dei principi fissati dal legislatore», che,  nel
caso di specie, avrebbe inteso sanzionare il fenomeno della  recidiva
reiterata in se', a prescindere dalla gravita'  dei  fatti  commessi,
dai loro tempi e modi, e dalle sanzioni irrogate, in quanto «il fatto
stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali  che  esse
siano,  dimostra  che  la  funzione   rieducativa   non   ha   potuto
efficacemente esplicarsi nei confronti  del  soggetto,  e  quindi  e'
necessario  assicurare  la  possibilita'  (quantomeno  escludendo  la
prevalenza delle attenuanti)  che,  attraverso  l'applicazione  della
pena, tale funzione trovi una nuova occasione di svolgimento». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di Ancona, con ordinanza del 3 aprile 2015
(r.o. n. 165 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e
27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del  codice  penale,  come
sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in  materia  di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione  delle
circostanze di reato per i recidivi, di  usura  e  di  prescrizione),
nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza
attenuante dell'art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi  stati  di  tossicodipendenza)  sulla  recidiva   reiterata,
prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. 
    Il giudice rimettente denuncia la  violazione  del  principio  di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. 
    Da un lato, «la preclusione assoluta di poter ritenere prevalente
l'attenuante della collaborazione ex  art.  73,  co.  7°,  d.P.R.  n.
309/1990 ai recidivi reiterati introdu[rrebbe] un  evidente  elemento
di irrazionalita' secondo lo scopo della disposizione anzidetta».  Il
settimo comma dell'art. 73 del  d.P.R.  n.  309  del  1990,  infatti,
prevede una circostanza attenuante ad  effetto  speciale  «diretta  a
premiare   e   stimolare   il   ravvedimento   post-delittuoso    del
responsabile»,  ma  la  norma  censurata,  impedendo   all'attenuante
premiale di spiegare la propria efficacia nei confronti del  recidivo
reiterato, ne vanificherebbe la ratio perche' non  gli  consentirebbe
di giovarsi della diminuzione di pena. 
    Dall'altro lato, la  norma  impugnata  sarebbe  irragionevole  in
un'«ottica di sistema». Infatti, mentre la circostanza attenuante  ad
effetto speciale dell'art. 8 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152
(Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
e di trasparenza e  buon  andamento  dell'attivita'  amministrativa),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  12
luglio 1991, n. 203, caratterizzata dalla medesima  ratio  di  quella
che viene in questione  nel  giudizio  a  quo,  non  e'  soggetta  al
giudizio  di  bilanciamento  tra   circostanze   eterogenee   ed   e'
obbligatoria, la circostanza attenuante dell'art. 73,  comma  7,  del
d.P.R.  n.  309  del  1990  non  solo  e'  soggetta  al  giudizio  di
bilanciamento, ma, in seguito alla riforma attuata dalla legge n. 251
del 2005, non puo' neppure prevalere sulla recidiva reiterata, con la
conseguenza che «il recidivo reiterato non potra' mai beneficiare  di
tale sconto di pena». 
    L'ordinanza di rimessione  denuncia  inoltre  la  violazione  del
principio di proporzionalita'  della  pena  (art.  27,  terzo  comma,
Cost.), perche' l'irrogazione di una sanzione  che  non  tenga  conto
della «collaborazione  prestata  per  effetto  di  una  dissociazione
post-delictum, spesso sofferta,  e  che  puo'  esporre  a  gravissimi
rischi personali e familiari», non solo non assolve alla funzione  di
ristabilimento della legalita' violata, ma non  puo'  neanche  essere
sentita dal condannato come rieducativa. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' della questione per difetto di  motivazione  sulla
rilevanza, sostenendo che il  giudice  rimettente  non  ha  descritto
sufficientemente la fattispecie oggetto del giudizio, impedendo cosi'
di verificare se l'avvenuta applicazione delle  attenuanti  generiche
fosse motivata proprio dalla condotta collaborativa dell'imputato. 
    L'eccezione e' infondata. 
    La Corte rimettente ha adeguatamente  descritto  la  fattispecie,
specificando che la  collaborazione,  resa  in  gran  parte  dopo  la
sentenza di condanna e per questo  non  considerata  dal  giudice  di
primo grado, era stata «completa, vasta  ed  incondizionata»,  ed  ha
aggiunto che «la ampiezza ed intensita' della collaborazione prestata
dall'imputato indurrebbe a ritenere l'attenuante ad effetto  speciale
di cui all'art. 73, co. 7°, d.P.R. n. 309/1990 sicuramente prevalente
sulla recidiva». Da qui la rilevanza della questione, in quanto,  «in
caso di accoglimento, si dovrebbe irrogare una  pena  di  gran  lunga
inferiore rispetto a quella inflitta dal primo giudice». 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    4.- L'art. 73, comma 7, del d.P.R. n. 309 del  1990  prevede  una
circostanza  attenuante  ad  effetto  speciale,  che   comporta   una
diminuzione delle pene previste dai commi  da  1  a  6  del  medesimo
articolo «dalla meta' a due terzi per chi si adopera per evitare  che
l'attivita' delittuosa sia portata  a  conseguenze  ulteriori,  anche
aiutando  concretamente  l'autorita'   di   polizia   o   l'autorita'
giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione
dei  delitti».  Quando   pero'   questa   attenuante   concorre   con
l'aggravante della recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod.
pen., la diminuzione e' impedita dalla norma impugnata dell'art.  69,
quarto comma, cod. pen. 
    Come  questa  Corte  ha  gia'  rilevato,  l'attuale  formulazione
dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., costituisce il punto di arrivo
di un'evoluzione legislativa dei criteri  di  bilanciamento  iniziata
con l'art. 6 del decreto-legge 11 aprile 1974, n.  99  (Provvedimenti
urgenti  sulla  giustizia  penale),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 7  giugno  1974,  n.  220,  che  ha
esteso il  giudizio  di  comparazione  alle  circostanze  autonome  o
indipendenti  e  a  quelle  inerenti  alla  persona  del   colpevole.
«L'effetto e' stato quello di consentire il  riequilibrio  di  alcuni
eccessi di penalizzazione, ma anche quello di  rendere  modificabili,
attraverso il giudizio di comparazione, le cornici edittali di alcune
ipotesi  circostanziali,   di   aggravamento   o   di   attenuazione,
sostanzialmente diverse  dai  reati  base;  ipotesi  che  solitamente
vengono individuate dal legislatore attraverso la previsione di  pene
di specie diversa o di  pene  della  stessa  specie,  ma  con  limiti
edittali  indipendenti  da  quelli  stabiliti  per  il  reato   base»
(sentenza n. 251 del 2012; in seguito, sentenze n. 106 e n.  105  del
2014). 
    Rispetto a questo tipo di circostanze «il criterio generalizzato,
introdotto con la modificazione  dell'art.  69,  quarto  comma,  cod.
pen., ha mostrato delle  incongruenze,  inducendo  il  legislatore  a
intervenire con regole derogatorie, come e' avvenuto con l'aggravante
della  "finalita'  di   terrorismo   o   di   eversione   dell'ordine
democratico" (art. 1, decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, recante
"Misure  urgenti  per  la  tutela  dell'ordine  democratico  e  della
sicurezza pubblica", convertito, con  modificazioni,  nella  legge  6
febbraio 1980, n. 15), e, in seguito, con varie  altre  disposizioni,
generalmente adottate per impedire il bilanciamento della circostanza
c.d. privilegiata, di regola un'aggravante, o per limitarlo, in  modo
da escludere la soccombenza di tale  circostanza  nella  comparazione
con le attenuanti; ed e' appunto questo il risultato che si e' voluto
perseguire con la norma impugnata» (sentenza  n.  251  del  2012;  in
seguito, sentenze n. 106 e n. 105 del 2014). 
    Si  tratta  di  deroghe  rientranti  nell'ambito   delle   scelte
riservate al legislatore, che questa Corte  ha  ritenuto  sindacabili
«soltanto  ove  trasmodino   nella   manifesta   irragionevolezza   o
nell'arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ed e' sotto questo  aspetto
che va considerata la questione in esame. 
    5.- La circostanza prevista dall'art. 73, comma 7, del d.P.R.  n.
309 del 1990 e' espressione di una scelta di  politica  criminale  di
tipo  premiale,  volta  a   incentivare,   mediante   una   sensibile
diminuzione  di  pena,  il  ravvedimento  post-delittuoso  del   reo,
rispondendo, sia all'esigenza di tutela del  bene  giuridico,  sia  a
quella  di  prevenzione  e  repressione  dei  reati  in  materia   di
stupefacenti. 
    Quando nei confronti dell'imputato viene riconosciuta la recidiva
reiterata  pero'  la  norma  censurata  impedisce  alla  disposizione
premiale di produrre pienamente i suoi effetti e cosi' ne frustra  in
modo manifestamente irragionevole la ratio, perche'  fa  venire  meno
quell'incentivo  sul  quale  lo  stesso   legislatore   aveva   fatto
affidamento per stimolare l'attivita' collaborativa. 
    Va inoltre considerato che tra i criteri da cui  in  genere  puo'
desumersi la capacita' a delinquere del reo, e dei quali  il  giudice
deve tener conto, oltre che nella determinazione  della  pena,  anche
nella comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti, vi  e'  la
condotta del reo contemporanea o  susseguente  al  reato  (art.  133,
secondo comma, numero 2, cod. pen.), la cui  rilevanza  nel  caso  in
oggetto verrebbe totalmente disconosciuta dalla norma  impugnata.  E'
anche sotto questo aspetto che  la  scelta  normativa  di  escludere,
nell'ipotesi prevista dall'art.  99,  quarto  comma,  cod.  pen.,  il
potere del giudice di diminuire la pena «per chi [dopo aver  commesso
un reato in materia di sostanze stupefacenti] si adopera per  evitare
che l'attivita' delittuosa sia portata a  conseguenze  ulteriori»  si
pone in manifesto contrasto con il principio di ragionevolezza. 
    Si  attribuisce,  infatti,  una   rilevanza   insuperabile   alla
precedente attivita' delittuosa del reo -  quale  sintomo  della  sua
maggiore  capacita'  a  delinquere  -  rispetto  alla   condotta   di
collaborazione  successiva  alla  commissione  del   reato,   benche'
quest'ultima possa  essere  in  concreto  ugualmente,  o  addirittura
prevalentemente, indicativa dell'attuale capacita' criminale del  reo
e della sua complessiva personalita'. 
    E' vero che l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, del  d.P.R.
n.  309  del  1990  non  richiede  la  spontaneita'  della   condotta
collaborativa  e  non  comporta  necessariamente  una   resipiscenza,
perche' puo' essere il frutto di un mero calcolo, ma  e'  altrettanto
vero che si tratta in ogni caso di una condotta significativa,  anche
perche' comporta il  distacco  dell'autore  del  reato  dall'ambiente
criminale nel quale la sua attivita' in materia di  stupefacenti  era
inserita e trovava alimento, e lo espone non  di  rado  a  pericolose
ritorsioni, determinando  cosi'  una  situazione  di  fatto  tale  da
indurre in molti casi un cambiamento di vita. 
    Come questa Corte ha  gia'  avuto  occasione  di  rilevare  nella
sentenza n.  183  del  2011  -  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 62-bis,  secondo  comma,  cod.  pen.,  nella
parte in cui stabilisce che,  ai  fini  dell'applicazione  del  primo
comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta
del reo susseguente al reato - la rigida presunzione di  capacita'  a
delinquere desunta  dall'esistenza  di  una  recidiva  reiterata  «e'
inadeguata ad assorbire e  neutralizzare  gli  indici  contrari,  che
possono desumersi, a favore del reo, dalla condotta susseguente,  con
la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario  collegamento.
Mentre la recidiva rinviene nel fatto di  reato  il  suo  termine  di
riferimento, la condotta susseguente si proietta nel  futuro  e  puo'
segnare una radicale discontinuita' negli atteggiamenti della persona
e nei suoi  rapporti  sociali»,  rendendo  privo  di  ogni  razionale
giustificazione  l'effetto  preclusivo  riconosciuto  alla   recidiva
reiterata. 
    6.- Deve  pertanto  dichiararsi  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come  sostituito  dall'art.  3
della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di
prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma  7,
del  d.P.R.  n.  309  del  1990  sulla  recidiva  reiterata  prevista
dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. 
    La censura relativa all'art. 27 Cost. rimane assorbita.