ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 3,
della legge della Regione Marche 6 agosto 1997, n. 51 (Norme  per  il
sostegno dell'informazione  e  dell'editoria  locale),  promosso  con
ordinanza del 31 ottobre 2013 dal Tribunale ordinario di  Ancona  nei
procedimenti civili riuniti vertenti tra M.R. e  F.S.  e  la  Regione
Marche, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2014  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  40,  prima   serie
speciale, dell'anno 2014. 
    Visto l'atto di costituzione della Regione Marche; 
    udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice relatore
Giuliano Amato; 
    udito l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche. 
    Ritenuto che nel corso di due giudizi  civili  riuniti,  promossi
nei confronti della Regione Marche da due  dipendenti  regionali,  il
Tribunale ordinario di Ancona, con ordinanza del 31 ottobre 2013,  ha
sollevato, «in riferimento agli artt. 3  e  117  della  Costituzione,
artt. 1, comma 3, e 45 del decreto legislativo n. 165/2001 ed artt. 9
comma 5 e 10 della legge  n.  150/2000»,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche
6 agosto 1997, n. 51  (Norme  per  il  sostegno  dell'informazione  e
dell'editoria locale); 
    che ai sensi della disposizione censurata «Il personale regionale
di ruolo iscritto all'ordine dei giornalisti e  che  svolge  mansioni
giornalistiche negli uffici stampa della Regione puo' optare  per  il
trattamento economico previsto dal  contratto  collettivo  di  lavoro
giornalistico. In tal caso il rapporto di lavoro  e'  trasformato  in
rapporto a tempo indeterminato non di ruolo»; 
    che il rimettente premette che i ricorrenti hanno  esercitato  il
diritto di opzione previsto dal richiamato art. 7, comma 3, e che, di
fronte al rifiuto opposto dalla Regione  Marche,  hanno  chiesto  che
essa sia condannata ad applicare nei loro  confronti  il  trattamento
economico proprio  del  contratto  nazionale  giornalistico  a  tempo
indeterminato, con il riconoscimento della qualifica di redattore con
trenta mesi di  attivita',  con  conseguente  obbligo  di  iscrizione
all'Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani  e  con
diritto al pagamento delle differenze retributive; 
    che in  ordine  alla  rilevanza  delle  questioni,  il  Tribunale
ordinario  di  Ancona  deduce  che  dall'applicazione   della   norma
impugnata dipenderebbe l'accoglimento dei  ricorsi,  in  quanto  essa
comporterebbe non solo l'estensione di  un  contratto  collettivo  di
diritto comune ai dipendenti degli enti locali  addetti  agli  uffici
stampa,  con  le  correlate  complessive  conseguenze  economiche   e
giuridiche, ma anche un incremento del loro trattamento retributivo; 
    che il rimettente rileva, altresi', che la Regione Marche non  ha
contestato  l'esistenza  dei  requisiti  per   l'applicazione   della
normativa invocata dai ricorrenti e, in particolare,  la  circostanza
dello svolgimento di attivita' giornalistica; 
    che quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, viene
lamentata la violazione degli artt. 117 e 3 Cost.; 
    che il giudice a quo  richiama,  in  proposito,  la  sentenza  di
questa Corte n. 189 del 2007, ritenendo che le censure  sollevate  in
quell'occasione valgano anche con riguardo alla norma  impugnata  nel
presente giudizio; 
    che a suo avviso, infatti, anche il legislatore marchigiano,  nel
prevedere che, a domanda del singolo  dipendente,  gli  addetti  agli
uffici  stampa  della  Regione  possano  optare  per  il  trattamento
economico previsto dal contratto collettivo di lavoro  giornalistico,
avrebbe violato i limiti della propria  potesta'  legislativa  e,  in
particolare, il principio generale desumibile dagli artt. 2 e 45  del
decreto  legislativo  30  marzo  2001,   n.   165   (Norme   generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche), secondo il quale il trattamento economico dei  dipendenti
pubblici, il cui rapporto  di  lavoro  e'  stato  privatizzato,  deve
essere disciplinato dalla contrattazione collettiva; 
    che viene richiamato, a questo riguardo, l'art. 1, comma  3,  del
menzionato decreto legislativo, ai sensi del quale  «Le  disposizioni
del presente decreto costituiscono  principi  fondamentali  ai  sensi
dell'articolo 117 della Costituzione. Le Regioni a statuto  ordinario
si attengono ad esse tenendo conto delle peculiarita' dei  rispettivi
ordinamenti. I principi desumibili dall'articolo  2  della  legge  23
ottobre 1992, n. 421, e successive modificazioni, e dall'articolo 11,
comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni
ed integrazioni, costituiscono altresi', per  le  Regioni  a  statuto
speciale e per le province autonome di Trento  e  di  Bolzano,  norme
fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica»; 
    che, inoltre, secondo il  rimettente,  sarebbe  altresi'  violato
l'art. 9, comma 5, della legge 7  giugno  2000,  n.  150  (Disciplina
delle attivita' di informazione e di  comunicazione  delle  pubbliche
amministrazioni),  ai  sensi   del   quale   «Negli   uffici   stampa
l'individuazione e la regolamentazione dei profili professionali sono
affidate alla contrattazione collettiva nell'ambito di  una  speciale
area  di  contrattazione,  con  l'intervento   delle   organizzazioni
rappresentative della categoria dei giornalisti. Dall'attuazione  del
presente comma non devono derivare nuovi o maggiori  oneri  a  carico
della finanza pubblica»; 
    che anche tale disposizione, infatti, sarebbe dotata di copertura
costituzionale nei confronti  del  legislatore  regionale,  in  forza
dell'art. 10 della stessa legge n. 150 del 2000, il quale dispone che
«Le   disposizioni   del   presente   capo   costituiscono   principi
fondamentali ai sensi  dell'articolo  117  della  Costituzione  e  si
applicano, altresi', alle regioni a statuto speciale e alle  province
autonome di Trento e di Bolzano  nei  limiti  e  nel  rispetto  degli
statuti e delle relative norme di attuazione»; 
    che  l'applicazione  della  disposizione   impugnata,   pertanto,
comporterebbe  un   sicuro   incremento   della   retribuzione,   con
conseguente aggravio della finanza pubblica; 
    che con atto depositato il 13 ottobre 2014 si  e'  costituita  in
giudizio  la  Regione  Marche,  chiedendo  che  le  questioni   siano
dichiarate inammissibili o, comunque, infondate; 
    che secondo la Regione, sia il censurato art. 7, comma 3, sia  le
norme statali invocate come  parametri  interposti,  sono  precedenti
all'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001,  n.
3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); ne'
i  richiamati  parametri  interposti  hanno  subito  alcuna  modifica
rispetto alla loro formulazione originaria; 
    che tali norme, pertanto, dovrebbero essere collocate all'interno
del quadro legislativo e costituzionale anteriore  alla  riforma  del
Titolo V; in quel contesto, sia le disposizioni del d.lgs. n. 165 del
2001, sia quelle della legge n. 150 del 2000,  costituivano  principi
fondamentali nella materia di legislazione  concorrente  «ordinamento
degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti  dalla  Regione»,
come confermato dallo stesso art. 1, comma 3, del d.lgs. n.  165  del
2001; 
    che nella vigenza del  vecchio  Titolo  V  la  sopravvenienza  di
principi fondamentali incompatibili  con  le  disposizioni  regionali
previgenti ne comportava l'abrogazione, ai sensi dell'art.  10  della
legge 10 febbraio 1962, n. 53  (Costituzione  e  funzionamento  degli
organi regionali); 
    che tale norma, prevedendo che «[l]e leggi della  Repubblica  che
modificano  i  principi  fondamentali   di   cui   al   primo   comma
dell'articolo precedente abrogano le norme  regionali  che  siano  in
contrasto con esse. I Consigli regionali dovranno portare alle  leggi
regionali  le  conseguenti  necessarie  modificazioni  entro  novanta
giorni», si configurava  alla  stregua  di  una  clausola  abrogativa
espressa ad effetto permanente, ancorche' l'effetto abrogativo  fosse
differito allo scadere del termine di novanta giorni previsto ai fini
dell'adeguamento,  da  parte  delle  Regioni,   ai   nuovi   principi
fondamentali dettati dal legislatore statale; 
    che dunque, in applicazione del richiamato art. 10, l'abrogazione
dell'art. 7, comma 3, della legge regionale n. 51 del  1997,  avrebbe
avuto luogo il novantunesimo giorno  dopo  l'entrata  in  vigore  dei
nuovi principi fondamentali con esso contrastanti, poiche' la Regione
non si era adeguata a questi ultimi  entro  il  termine  previsto;  e
quindi, a partire dal 6 settembre 2000, laddove si ritenga che  dagli
artt. 9, comma 5, e 10, della legge  n.  150  del  2000  (entrata  in
vigore il 7 giugno 2000), fosse gia' ricavabile  il  principio  della
regolazione  mediante  contrattazione  collettiva   del   trattamento
economico dei dipendenti pubblici il cui  rapporto  di  lavoro  fosse
stato "privatizzato"; ovvero, al piu' tardi, a partire dal 29  giugno
2001, qualora si ritenga, invece, che tale principio fosse  piu'  che
altro desumibile dagli artt. 2 e  45  del  d.lgs.  n.  165  del  2001
(entrato in vigore il 30 marzo 2001); 
    che  l'orientamento  secondo  il  quale,  nel  previgente  quadro
costituzionale, il contrasto tra i principi fondamentali sopravvenuti
e la legislazione regionale con  essi  incompatibile  dovesse  essere
risolto facendo leva  sul  criterio  cronologico  e  sul  conseguente
effetto abrogativo, sarebbe stato fatto proprio dalla  giurisprudenza
costituzionale; 
    che in particolare, questa Corte, con la sentenza n. 40 del 1972,
avrebbe chiarito come si sarebbe dovuto risolvere tale contrasto:  in
questi  casi   l'interprete,   trascorsi   i   novanta   giorni   per
l'adeguamento  del  quadro  normativo   regionale,   avrebbe   dovuto
applicare  il  criterio  cronologico  e   considerare   abrogate   le
disposizioni regionali contrarie ai nuovi principi fondamentali; 
    che la richiamata sentenza  precisava  come  il  ricorso  a  tale
criterio  fosse  pur  sempre  subordinato  alla   sussistenza   delle
condizioni necessarie  a  produrre  l'effetto  abrogativo,  ai  sensi
dell'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile; 
    che l'opinione secondo la quale l'abrogazione  sarebbe  stata  lo
strumento piu' idoneo a risolvere il contrasto tra leggi regionali  e
leggi statali recanti nuovi principi fondamentali,  era  stata  fatta
propria anche dalla dottrina prevalente; 
    che in questi  casi,  il  ricorso  all'istituto  dell'abrogazione
avrebbe trovato ragione anche nella impossibilita', per  il  Governo,
di  impugnare  in  via  principale  le   leggi   regionali   divenute
incostituzionali a seguito dell'entrata in vigore dei nuovi  principi
fondamentali con esse incompatibili, con la conseguenza che tali vizi
di illegittimita' costituzionale sopravvenuta avrebbero potuto essere
denunciati solo attraverso il giudizio in via incidentale; 
    che il decreto legislativo  16  marzo  1992,  n.  266  (Norme  di
attuazione  dello  statuto  speciale  per  il   Trentino-Alto   Adige
concernenti il rapporto tra gli  atti  legislativi  statali  e  leggi
regionali e provinciali, nonche' la potesta' statale di  indirizzo  e
coordinamento), prevede la possibilita' di impugnare dinanzi a questa
Corte le leggi regionali  e  provinciali  contrastanti  con  i  nuovi
principi fondamentali posti dal  legislatore  statale,  ai  quali  la
Regione o le Province autonome non si fossero adeguate; 
    che  pertanto,  ad  avviso  della  Regione,  il   contrasto   tra
l'impugnato art. 7, comma 3, e gli artt. l,  comma  3,  2  e  45  del
d.lgs. n. 165 del 2001, nonche' con gli artt. 9, comma 5, e 10  della
legge n. 150 del 2000, andrebbe risolto  nel  senso  dell'intervenuta
abrogazione della prima  disposizione  da  parte  di  quelle  statali
successive; 
    che neppure potrebbe valere, in  contrario  avviso,  il  richiamo
fatto dal  giudice  a  quo  alla  sentenza  n.  189  del  2007;  tale
pronuncia, infatti, non sarebbe in alcun modo riferibile al  caso  di
specie, riguardando disposizioni di legge di una Regione ad autonomia
speciale,  rispetto  alla  quale  i  parametri  interposti   invocati
all'epoca dal giudice rimettente erano norme fondamentali di  riforma
economico-sociale, ossia limiti alla potesta'  legislativa  esclusiva
regionale; 
    che in quel caso, di  conseguenza,  non  avrebbe  potuto  trovare
applicazione l'art. 10 della legge n. 62 del 1953,  poiche'  esso  si
occupa unicamente dell'incompatibilita' tra disposizioni  legislative
regionali e nuovi principi  fondamentali  in  materie  di  competenza
concorrente entrati in vigore dopo di esse; 
    che in conclusione, secondo la Regione,  il  giudice  rimettente,
dinanzi al rilevato contrasto tra l'impugnato art. 7, comma 3,  della
legge  reg.  Marche  n.  51  del  1997,  e  i  principi  fondamentali
sopravvenuti (artt. 1, comma 3, e 45 del d.lgs. n. 165  del  2001,  e
artt. 9, comma 5, e 10 della legge n. 150 del 2000),  avrebbe  omesso
di applicare l'art. 10 della legge n.  62  del  1953  e,  dunque,  di
ritenere abrogata la  disposizione  regionale  incompatibile  con  la
legislazione statale recante i nuovi principi fondamentali; 
    che in tal modo, tuttavia, esso  avrebbe  erroneamente  sollevato
una   questione   di   legittimita'   costituzionale   che    sarebbe
manifestamente inammissibile per difetto assoluto di rilevanza; 
    che,  in   subordine,   la   Regione   eccepisce   la   manifesta
inammissibilita'   della   questione   per   l'assoluta   genericita'
nell'indicazione  dei  parametri  costituzionali   e,   dunque,   per
l'indeterminatezza delle censure formulate in riferimento ad essi; 
    che  secondo  la  difesa   regionale,   infatti,   il   Tribunale
rimettente, nel denunciare il contrasto tra la disposizione regionale
censurata e le evocate disposizioni  statali,  ritiene  che  da  tale
contrasto discenderebbe la violazione degli artt. 3 e 117  Cost.,  ma
non indicherebbe alcuna ragione a sostegno  dell'asserita  violazione
dell'art. 3 Cost.; 
    che il giudice a quo, inoltre, non  attribuirebbe  alcun  rilievo
alla circostanza  che  tanto  l'oggetto  della  questione  sollevata,
quanto i parametri interposti, siano tutti precedenti all'entrata  in
vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001; ne'  specificherebbe
se la questione di legittimita' costituzionale sia stata formulata in
riferimento al riparto della potesta' legislativa di cui  al  vecchio
testo dell'art. 117 Cost., o alla sua versione attualmente vigente; 
    che, anche laddove questa Corte ritenesse che il rimettente abbia
voluto  riferirsi  all'art.  117  Cost.  come  riformato  nel   2001,
l'ordinanza di rimessione avrebbe comunque omesso di  individuare  il
titolo di potesta' legislativa  statale  asseritamente  violato,  non
avendo indicato con quale dei commi dell'attuale art.  117  Cost.  la
disposizione regionale censurata si porrebbe in contrasto; 
    che in riferimento alla censura secondo la quale la  disposizione
regionale impugnata comporterebbe «un sicuro e  sensibile  incremento
della retribuzione  posta  a  carico  della  finanza  pubblica»,  con
conseguente violazione dell'art. 9, comma 5, della legge n.  150  del
2000, il giudice a  quo  non  spiegherebbe  se  la  ragione  di  tale
incremento consista nell'eventuale applicazione, in caso di esercizio
del diritto di  opzione,  del  trattamento  economico  stabilito  nel
contratto  collettivo  dei  giornalisti,  oppure  nella  durata   del
contratto, che diverrebbe a tempo indeterminato; 
    che nel primo caso, infatti, ad essere affetto da  illegittimita'
costituzionale sopravvenuta sarebbe l'intero comma 3 dell'art. 7; nel
secondo caso, invece, tale vizio  riguarderebbe  la  norma  regionale
solo nella parte  in  cui  prevede  che  il  rapporto  di  lavoro  si
trasformi in rapporto a tempo indeterminato; 
    che  con  memoria  depositata  in  prossimita'  dell'udienza,  la
Regione deduce la non fondatezza delle censure avanzate dal giudice a
quo, in ragione della non sovrapponibilita' del caso deciso da questa
Corte con la sentenza n. 189 del 2007 a quello  di  cui  al  presente
giudizio; 
    che quella decisione, infatti, aveva ad oggetto  norme  regionali
che disponevano l'applicazione di contratti  collettivi  specifici  a
determinate figure di giornalisti o componenti  degli  uffici  stampa
regionali; l'impugnato art. 7, comma 3, invece, si limita a prevedere
un semplice diritto di opzione a  favore  del  trattamento  economico
«previsto dal contratto collettivo di lavoro giornalistico»; 
    che  sarebbe  sempre  possibile,  di   conseguenza,   la   libera
contrattazione collettiva tra le parti contrattuali, poiche' la norma
regionale offrirebbe al lavoratore semplicemente la  possibilita'  di
ottenere l'applicazione di uno specifico trattamento economico e  non
imporrebbe alcun obbligo in tal senso, come invece avveniva nel  caso
delle  disposizioni  regionali  siciliane  oggetto  della  richiamata
pronuncia; 
    che,  in  definitiva,  la  mera  possibilita'  di  fruire  di  un
determinato  trattamento  non   potrebbe   essere   equiparata   alla
previsione dell'applicazione tout court delle norme che lo prevedono. 
    Considerato che il Tribunale ordinario  di  Ancona  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 3, della  legge  della
Regione  Marche  6  agosto  1997,  n.  51  (Norme  per  il   sostegno
dell'informazione e dell'editoria locale), il quale prevede  che  «Il
personale regionale di ruolo iscritto all'ordine  dei  giornalisti  e
che svolge mansioni giornalistiche negli uffici stampa della  Regione
puo' optare per  il  trattamento  economico  previsto  dal  contratto
collettivo di lavoro giornalistico. In tal caso il rapporto di lavoro
e' trasformato in rapporto a tempo indeterminato non di ruolo»; 
    che, secondo il rimettente, tale norma violerebbe gli artt.  3  e
117 della Costituzione, in riferimento al principio desumibile  dagli
artt. 1, comma 3, e 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.  165
(Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle  dipendenze  delle
amministrazioni pubbliche), secondo il quale il trattamento economico
dei  dipendenti  pubblici,  il  cui  rapporto  di  lavoro  e'   stato
privatizzato,   deve   essere   disciplinato   dalla   contrattazione
collettiva; 
    che sarebbe, altresi', violato il principio di cui agli artt.  9,
comma 5, e 10 della legge 7 giugno 2000,  n.  150  (Disciplina  delle
attivita'  di  informazione  e  di  comunicazione   delle   pubbliche
amministrazioni),  in  quanto   l'applicazione   della   disposizione
censurata  comporterebbe  un  incremento  della   retribuzione,   con
conseguente aggravio della finanza pubblica; 
    che,  in  riferimento  alla  censura  relativa  alla   violazione
dell'art. 117 Cost., il giudice a quo «non indica ne'  quale  materia
sia  quella  incisa  dall[a]  norm[a]  censurat[a],  ne'  la   stessa
tipologia  di  competenza  legislativa   statale   -   principale   o
concorrente - a suo dire violata» (sentenza n. 252 del 2009); 
    che cio' comporta l'assoluta genericita' ed indeterminatezza  del
parametro che si assume violato; 
    che  il  rimettente  omette,  altresi',  di  specificare  se   la
questione sia formulata in riferimento al testo dell'art.  117  Cost.
anteriore alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3  (Modifiche
al titolo V della parte  seconda  della  Costituzione),  o  a  quello
attualmente vigente; 
    che  secondo  l'orientamento  di  questa  Corte   «la   normativa
regionale denunciata deve essere valutata in riferimento ai parametri
vigenti al momento della sua emanazione» (sentenze n. 130 del 2015  e
n. 62 del 2012); 
    che, pertanto, l'omissione del rimettente si rivela decisiva,  in
quanto, sia l'oggetto della questione, sia  i  parametri  interposti,
sono anteriori alla riforma del Titolo V del 2001; 
    che   la   predetta   omissione   e'   sufficiente   a   ritenere
manifestamente inammissibile la questione; 
    che  non  ha  rilievo  l'ulteriore  motivo  di   inammissibilita'
avanzato dalla Regione, che appare peraltro  infondato  in  quanto  i
principi che si assumono violati, contenuti nel  d.lgs.  n.  165  del
2001, erano in realta' gia' desumibili dall'art.  2  della  legge  23
ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la
revisione  delle  discipline  in  materia  di  sanita',  di  pubblico
impiego, di previdenza e di finanza territoriale),  e  dall'art.  11,
comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo  per  il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti  locali,  per
la riforma della Pubblica Amministrazione e  per  la  semplificazione
amministrativa), non a caso richiamati dalle stesse disposizioni  del
d.lgs. n. 165 del 2001; 
    che anche la censura relativa alla violazione dell'art.  3  Cost.
si presenta affetta da genericita' e  indeterminatezza,  dal  momento
che il rimettente «si e'  sostanzialmente  limitato  ad  indicare  il
parametro che sarebbe stato violato, omettendo, pero', di specificare
le ragioni che militerebbero a favore della tesi della illegittimita'
costituzionale della disposizione  impugnata»  (sentenza  n.  38  del
2007); 
    che, dunque, la mancata esplicitazione delle argomentazioni  atte
a suffragare tale censura  e'  causa  di  manifesta  inammissibilita'
della questione sollevata.