ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  35-ter
della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), inserito dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge  26
giugno 2014,  n.  92  (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  rimedi
risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito
un  trattamento  in  violazione  dell'articolo  3  della  convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, nonche' di modifiche al codice di  procedura  penale  e
alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia
penitenziaria  e  all'ordinamento  penitenziario,  anche   minorile),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  11
agosto 2014, n. 117,  promosso  dal  Magistrato  di  sorveglianza  di
Padova, con ordinanza del 20 aprile  2015  sul  reclamo  proposto  da
C.G., iscritta al n. 176 del registro  ordinanze  2015  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  37,  prima   serie
speciale, dell'anno 2015. 
    Visto  l'atto  di  costituzione  di  C.G.,  nonche'   l'atto   di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  14  giugno  2016  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi; 
    uditi l'avvocato Giovanni  Gentilini  e  l'avvocato  dello  Stato
Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Magistrato di sorveglianza di Padova, con ordinanza del 20
aprile 2015 (r.o. n. 176 del 2015), ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 3 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(d'ora in  avanti  «CEDU»),  firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con la  legge  4  agosto  1955,  n.  848,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 35-ter della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella
parte  in  cui  «non  prevede,  nel  caso  di  condannati  alla  pena
dell'ergastolo che abbiano gia' scontato una  frazione  di  pena  che
renda ammissibile la liberazione condizionale, il  ristoro  economico
previsto dal comma 2 dell'art. 35-ter o.p. e,  in  ogni  caso,  nella
parte in cui  non  prevede  un  effettivo  rimedio  compensativo  nei
confronti del condannato alla pena dell'ergastolo». 
    Il giudice a quo premette di  essere  investito  del  reclamo  ai
sensi  dell'art.  35-ter  della  legge  n.  354  del  1975,  «per  la
violazione» dell'art. 3 della CEDU,  da  parte  di  un  detenuto  che
asseriva «di aver subito, dalla data della  sua  detenzione  in  vari
istituti italiani, una restrizione  dello  spazio  disponibile  nella
cella al di sotto dei 3 mq, essendo stato costretto a condividere  la
cella con altri detenuti». Il detenuto, in ragione  della  violazione
complessiva dei diritti subita durante la detenzione e  a  titolo  di
risarcimento del danno, aveva chiesto «una riduzione della pena di un
giorno per ogni 10 di pregiudizio sofferto in  relazione  al  periodo
detentivo».  La  pena  in  espiazione  riguardava  vari  periodi   di
detenzione «a partire  dalla  data  dell'arresto»  (1°  giugno  1986)
relativo a  un  omicidio,  per  il  quale  il  reclamante  era  stato
condannato alla pena dell'ergastolo con sentenza del 1° dicembre 1988
della Corte d'appello di Catania. 
    Il giudice rimettente ha accertato che il detenuto  aveva  subito
un trattamento  disumano  e  degradante,  alla  stregua  dei  criteri
indicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (d'ora  in  avanti
«Corte  EDU»),  per  il  periodo  complessivo  di  404  giorni,   con
conseguente diritto a «una ipotetica riduzione di  pena»  pari  a  40
giorni, in applicazione del criterio proporzionale di cui  al  citato
art. 35-ter, comma 1. Cio' posto, il giudice ha dichiarato di aderire
all'orientamento, giurisprudenziale e dottrinale, secondo cui davanti
al  magistrato  di  sorveglianza  puo'  agire  chiunque  sia   ancora
detenuto,   indipendentemente   dall'attualita'   delle    condizioni
«"inumane"» di carcerazione, dato che il  testo  normativo  «in  piu'
punti», si riferisce a «coloro che hanno subito  il  pregiudizio»,  e
non invece a coloro che «attualmente» lo subiscono. 
    Questa interpretazione sarebbe coerente con la ratio legislativa,
che tende a individuare nella riduzione di pena il rimedio  naturale,
ravvisando  nell'indennita'  pecuniaria   lo   strumento   riparativo
residuale, da accordare solo se, per fattori oggettivi, non sia  piu'
possibile la detrazione della pena detentiva. 
    Nel caso in questione pero'  il  Magistrato  di  sorveglianza  si
troverebbe nell'impossibilita' di accordare,  sia  una  riduzione  di
pena, trattandosi di pena perpetua, sia un  ristoro  economico,  dato
che questo sarebbe previsto solo in via aggiuntiva, per la  parte  di
riduzione della pena detentiva che risulta inapplicabile, mentre  nel
caso in esame non potrebbe operare alcuna riduzione.  Questa  infatti
non potrebbe riferirsi alle persone  condannate  all'ergastolo,  che,
essendo una pena perpetua, per sua natura non ammette riduzioni. 
    Sarebbe  teoricamente  possibile  diminuire  proporzionalmente  i
limiti di pena previsti dalla  legge  per  l'accesso  dei  condannati
all'ergastolo ai benefici  penitenziari,  ma  una  simile  operazione
richiederebbe un'espressa  previsione  normativa,  che  nella  specie
manca. Occorrerebbe infatti una disposizione  come  quella  dell'art.
54, quarto comma, della legge  n.  354  del  1975,  che  consente  di
considerare  come  pena  scontata  i  giorni  maturati  a  titolo  di
liberazione anticipata, da detrarre «[a]gli effetti del computo della
misura di pena che  occorre  avere  espiato  per  essere  ammessi  ai
benefici dei permessi premio, della semiliberta' e della  liberazione
condizionale». 
    Comunque,  nel  caso  in  esame,   il   richiedente,   condannato
all'ergastolo, avrebbe gia' raggiunto da tempo il periodo  minimo  di
pena  espiata  richiesto  per  l'accesso  al  beneficio  piu'   ampio
(liberazione condizionale), pertanto, anche se si applicasse  in  via
analogica l'art. 54, quarto comma, della legge n. 354  del  1975,  la
riduzione di pena non apporterebbe alcun concreto vantaggio. 
    Percio' «il  rimedio  risarcitorio  di  natura  "detrattiva"»  si
rivelerebbe inefficace. 
    Resterebbe da esplorare la possibilita' di  esperire  il  rimedio
pecuniario, previsto dai commi 2 e 3 dell'art. 35-ter della legge  n.
354 del 1975. 
    Secondo il giudice a quo, la possibilita' del  ristoro  economico
sarebbe prevista solo «quando il periodo di pena ancora da espiare e'
tale da non consentire la detrazione dell'intera  misura  percentuale
di cui al comma 1». L'uso dell'avverbio  «altresi'»  e  l'espressione
«residuo  periodo»  eliminerebbero  ogni  dubbio   sul   ruolo   solo
complementare della liquidazione di somme  di  denaro  da  parte  del
magistrato di sorveglianza. 
    A questo  non  sarebbe  consentito  liquidare  tale  somma  «"per
l'intero"»; egli potrebbe liquidarla solo per la  parte  «"residua"»,
rispetto alla riduzione di pena spettante e parzialmente  inoperante.
Insomma non sarebbe possibile estendere un potere, «gia'  eccezionale
e straordinario» nell'ambito  del  procedimento  di  sorveglianza  ex
artt. 666 e 678 del codice di procedura penale, e applicarlo  in  via
analogica a ipotesi non previste. 
    Conseguentemente  l'impossibilita'  di   accordare   un   ristoro
effettivo per il pregiudizio subito dal richiedente,  sia  attraverso
l'applicazione analogica dell'art. 54, quarto comma, della  legge  n.
354 del 1975,  sia  attraverso  il  rimedio  risarcitorio  pecuniario
previsto dall'art. 35-ter, comma 2, e l'impossibilita'  di  avvalersi
dell'azione civile disciplinata dal comma 3  dello  stesso  articolo,
essendo il richiedente ancora  detenuto,  renderebbero  la  questione
sollevata non manifestamente infondata. 
    Sarebbe violato l'art. 3 Cost., in quanto la  norma  escluderebbe
gli  «ergastolani»  dal   trattamento   risarcitorio   senza   alcuna
ragionevole giustificazione. Si  determinerebbe  infatti  una  palese
differenza  di  tutela  dei  diritti  «fra  detenuti   temporanei   e
perpetui», posto che solamente i primi potrebbero  beneficiare  della
riduzione  della  pena,  e,  in  forma  solo  parziale,  del  ristoro
patrimoniale, mentre i secondi potrebbero far valere le loro  pretese
unicamente  attraverso  un'azione  da  proporre  davanti  al  giudice
civile, ma solo nell'ipotesi, del tutto eventuale, di  rimessione  in
liberta'. 
    La norma censurata violerebbe inoltre l'art.  24  Cost.,  perche'
renderebbe  lo  strumento  giudiziale  di  tutela,  per  le   persone
condannate  all'ergastolo,  privo  di  effettivita',  nonostante   la
prescrizione, da parte della sentenza  della  Corte  EDU,  8  gennaio
2013,  Torreggiani  contro  Italia,  di  creare  un  ricorso  o   una
combinazione di ricorsi aventi effetti preventivi e compensativi. 
    Sarebbe, conseguentemente violato anche l'art. 117, primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 3 della CEDU, in quanto  l'art.  35-ter,
escludendo  qualsiasi  meccanismo  ristorativo  per   il   condannato
all'ergastolo, eluderebbe il giudicato  della  sentenza  della  Corte
EDU, Torreggiani contro Italia, che «nell'invitare»  all'introduzione
nell'ordinamento  di  nuovi   rimedi   con   effetti   preventivi   e
compensativi «e' rivolta [...] all'intera popolazione detenuta, senza
distinzione fra ergastolani e reclusi comuni». 
    Sarebbe violato infine l'art. 27, terzo comma, Cost.,  in  quanto
la  protezione  della  sfera  giuridica  del  detenuto  costituirebbe
elemento imprescindibile per consentire alla  pena  di  tendere  alla
rieducazione del condannato. 
    Di qui la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
35-ter della legge n. 354 del 1975, nei termini sopramenzionati. 
    Il petitum del giudice a quo  mira  a  «due  addizioni  normative
all'art. 35-ter» della legge n. 354  del  1975,  entrambe  riferibili
alla «condizione del condannato  alla  pena  dell'ergastolo:  1)  una
riduzione di pena a titolo  risarcitorio  agli  effetti  del  computo
della misura di pena scontata per accedere ai  benefici  penitenziari
dei  permessi  premio,  della  semiliberta'   e   della   liberazione
condizionale; 2) l'estensione  del  ristoro  economico,  previsto  al
comma 2 della disposizione impugnata, al  caso  dell'ergastolano  che
abbia gia' scontato una frazione di pena  che  renda  ammissibile  la
concessione della liberazione condizionale». 
    Il giudice a quo si dichiara, peraltro, perfettamente consapevole
del difetto di rilevanza dell'"addizione" sub 1), che  a  suo  avviso
potrebbe,   pero',   essere   oggetto   di   una   dichiarazione   di
illegittimita' consequenziale ai sensi dell'art. 27  della  legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), in caso di accoglimento della questione. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  «in  parte  qua»
inammissibile e «nel resto» non fondata. 
    L'Avvocatura generale  sostiene  che  la  questione  deve  essere
dichiarata inammissibile, per  difetto  di  rilevanza,  limitatamente
alla censura relativa al comma 1 dell'art. 35-ter della legge n.  354
del  1975,  nella  parte  in  cui  non  prevede  per   i   condannati
all'ergastolo  il  computo   della   riduzione   "risarcitoria"   per
determinare la misura di pena scontata, occorrente per avere  accesso
ai benefici penitenziari dei permessi premio,  della  semiliberta'  e
della liberazione condizionale. 
    Nel caso di specie, il reclamante, avendo gia' espiato 26 anni di
pena   detentiva,   potrebbe   essere   ammesso   alla    liberazione
condizionale, ex art.  176,  terzo  comma,  del  codice  penale,  che
costituisce il massimo  beneficio  penitenziario  concedibile  ad  un
condannato all'ergastolo. Percio' un'eventuale sentenza  additiva  di
accoglimento  della  questione  di  legittimita'  costituzionale  che
estendesse espressamente agli «ergastolani» una compensazione per  il
pregiudizio subito, nei termini «detrattivi»  previsti  dal  comma  1
dell'art.  35-ter,  non  avrebbe  alcuna   influenza   sul   giudizio
principale e priverebbe la questione del requisito della rilevanza. 
    La questione dovrebbe invece essere rigettata nella parte in  cui
viene censurato il comma 2 dell'art. 35-ter della legge  n.  354  del
1975. La mera circostanza che il  detenuto  condannato  all'ergastolo
possa solo  azionare  la  propria  pretesa  risarcitoria  secondo  le
ordinarie norme civilistiche, e che non gli sia riconosciuto anche il
diritto al ristoro economico ex art. 35-ter, comma 2, della legge  n.
354   del   1975,   non   potrebbe    determinare    l'illegittimita'
costituzionale della norma in questione. 
    3.- Si e' costituito in giudizio C.G., che ha proposto il reclamo
nel procedimento a quo, e ha chiesto che la questione sia  dichiarata
fondata. 
    La parte privata ha osservato che le lacune della norma impugnata
non sono superabili in via interpretativa e che l'art.  35-ter  della
legge n. 354 del 1975 ha escluso ogni previsione riparativa in favore
di categorie di soggetti che, seppure «non fuoriusciti  dal  circuito
penitenziario e dunque non assoggettabili  al  giudice  civile»,  non
troverebbero «alcuna disciplina in seno alla Giurisdizione (naturale)
della Sorveglianza». 
    Il condannato all'ergastolo  avrebbe  gia'  espiato  la  frazione
temporale di pena che  gli  consentirebbe  di  chiedere  ed  ottenere
l'accesso  ai  «benefici  tipici  delle  pene  limitate».   Pertanto,
un'eventuale pronuncia additiva della Corte nel senso di estendere ai
condannati all'ergastolo il complessivo  meccanismo  compensativo  di
cui al citato art.  35-ter  «(prima  detrattivo  e,  [poi],  solo  in
subordine  monetario)»,  non  avrebbe  una  capacita'   concretamente
satisfattiva  delle  legittime  pretese  risarcitorie   della   parte
ricorrente. 
    Soluzione necessitata sarebbe quella, evocata  nell'ordinanza  di
rimessione, volta ad  «abilitare  il  Magistrato  di  sorveglianza  a
dotare  l'odierno  ricorrente  [...]  dell'unico  rimedio  [...]  che
consenta un ristoro apprezzabile,  vale  a  dire  quello  interamente
monetario». 
    4.- In  prossimita'  dell'udienza  pubblica,  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri ha depositato una  memoria,  chiedendo,  sulla
base  di  argomentazioni  analoghe  a  quelle  svolte  nell'atto   di
costituzione, che la questione sia dichiarata in parte  inammissibile
e per il resto non fondata. 
    In  particolare  l'Avvocatura  dello  Stato,  con  riguardo  alla
questione concernente l'art. 35-ter della  legge  n.  354  del  1975,
nella parte in cui non prevede  per  i  condannati  all'ergastolo  il
ristoro economico previsto al  comma  2  (in  tutti  i  casi  in  cui
l'interessato abbia gia' scontato la parte di pena richiesta  per  la
concessione  della  liberazione  condizionale),  sottolinea  che   la
normativa in questione non ha introdotto  nell'ordinamento  un  nuovo
illecito civile, ma una nuova disciplina per il risarcimento di  tale
specifico danno, la  quale,  in  quanto  lex  specialis,  verrebbe  a
sostituirsi a quella ordinaria civilistica. In tutti i  casi  in  cui
non ricorrono le condizioni di cui al citato art. 35-ter,  troverebbe
applicazione la disciplina civilistica del  risarcimento  del  danno.
Pertanto, le persone condannate  all'ergastolo  potrebbero  agire  in
giudizio secondo le regole  generali,  che  consentirebbero  loro  di
ottenere un risarcimento di importo ben piu' significativo di  quello
fissato nella norma speciale. 
    5.- Anche  la  difesa  del  ricorrente  nel  giudizio  a  quo  ha
depositato una memoria, insistendo nella  richiesta  di  accoglimento
della questione relativa al ristoro economico. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 aprile 2015 (r.o. n. 176 del  2015),  il
Magistrato di sorveglianza di Padova  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3,  24,  27,  terzo  comma,  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il  4  novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 35-ter della legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella
parte  in  cui  «non  prevede,  nel  caso  di  condannati  alla  pena
dell'ergastolo che abbiano gia' scontato una  frazione  di  pena  che
renda ammissibile la liberazione condizionale, il  ristoro  economico
previsto dal comma 2 dell'art. 35-ter o.p. e,  in  ogni  caso,  nella
parte in cui  non  prevede  un  effettivo  rimedio  compensativo  nei
confronti del condannato alla pena dell'ergastolo». 
    Il giudice a quo  deve  decidere  sulla  domanda  di  riparazione
proposta da una persona condannata all'ergastolo, che  ha  dimostrato
di avere trascorso parte della detenzione in condizioni disumane e ha
azionato per tale ragione il rimedio  introdotto  dalla  disposizione
censurata. 
    Questa disposizione, come e' noto, costituisce  la  risposta  del
legislatore alla  sollecitazione  proveniente  dalla  sentenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo (d'ora in avanti «Corte EDU»),  8
gennaio 2013, Torreggiani contro Italia,  e,  successivamente,  dalla
sentenza di questa Corte n. 279 del 2013, affinche'  fosse  garantita
una riparazione effettiva delle violazioni della  CEDU  derivate  dal
sovraffollamento carcerario in Italia. 
    La disposizione impugnata, a tal fine, al detenuto che ha  subito
condizioni carcerarie disumane, assicura  una  riduzione  della  pena
detentiva ancora  da  espiare  (comma  1),  e,  quando  cio'  non  e'
possibile, un ristoro pecuniario (commi 2 e 3). 
    Nel giudizio principale il ricorrente non ha  modo  di  avvalersi
dello sconto di pena detentiva,  sia  perche'  il  rimedio  non  puo'
operare nei confronti di una pena perpetua, sia perche' egli ha  gia'
maturato il periodo di detenzione utile per godere degli istituti  di
favore dell'ordinamento penitenziario applicabili anche alle  persone
condannate all'ergastolo. 
    Il giudice rimettente reputa pero' inapplicabile anche il rimedio
risarcitorio economico, nella convinzione che l'art. 35-ter, comma 2,
lo riservi solo ai casi in cui, detratta una misura di pena detentiva
ai sensi del comma 1, residuerebbe un danno ulteriore non  riparabile
in  forma  specifica,  a  causa  dell'esaurimento  del   periodo   da
trascorrere in detenzione. 
    Ad avviso di tale giudice la norma impugnata, cosi' interpretata,
violerebbe  l'art.  3  Cost.,  in  quanto  escluderebbe  le   persone
condannate all'ergastolo dal trattamento risarcitorio,  senza  alcuna
ragionevole giustificazione, determinando una «palese  differenza  di
tutela dei diritti fra  detenuti  temporanei  e  perpetui  posto  che
soltanto i primi  possono  beneficiare  dell'ambita  riduzione  della
sanzione penale e, in forma solo parziale, del ristoro patrimoniale». 
    La norma censurata sarebbe inoltre in  contrasto  con  l'art.  24
Cost., rendendo lo strumento  giudiziale  di  tutela  privo  per  gli
«ergastolani» di effettivita', nonostante la prescrizione della Corte
EDU allo Stato italiano di prevedere un ricorso, o  una  combinazione
di ricorsi, aventi effetti preventivi e compensativi per i casi sopra
indicati. 
    Sarebbe conseguentemente violato l'art. 117, primo comma,  Cost.,
in relazione all'art. 3 della CEDU, in  quanto  l'art.  35-ter  della
legge n. 354 del 1975, escludendo  per  il  condannato  all'ergastolo
qualsiasi  meccanismo  riparatorio,  eluderebbe  il  giudicato  della
sentenza Torreggiani, che «nell'invitare»  alla  creazione  di  nuovi
rimedi con  effetti  preventivi  e  compensativi  «e'  rivolta  [...]
all'intera popolazione detenuta, senza distinzione fra ergastolani  e
reclusi comuni». 
    La norma impugnata sarebbe infine in  contrasto  con  l'art.  27,
terzo comma, Cost., in quanto comprimerebbe in modo irragionevole  il
percorso rieducativo dei condannati all'ergastolo, impedendo nei loro
confronti la progressiva umanizzazione della pena. 
    Il  giudice  rimettente,  pur  consapevole   che   nel   giudizio
principale non potrebbe comunque trovare applicazione la riduzione di
pena, di cui il detenuto non necessita piu', sollecita questa Corte a
considerare l'eventualita' di  una  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale consequenziale dell'art. 35-ter, comma 1, della  legge
n. 354 del 1975, nella parte in cui impedisce di  operare  detrazioni
di pena a favore dell'ergastolano  ai  soli  fini  dell'accesso  alla
liberazione condizionale. 
    Resta chiaro che il dubbio di legittimita' costituzionale investe
solo il comma 2 della  disposizione  impugnata,  con  riferimento  al
ristoro economico. 
    2.- La questione e' ammissibile. 
    Il rimettente da' conto delle  ragioni  di  applicabilita'  della
norma impugnata anche a favore dei detenuti per i quali  sia  cessato
attualmente  il  trattamento  disumano  nell'esecuzione  della  pena,
peraltro anticipando sul punto  le  conclusioni  della  piu'  recente
giurisprudenza di legittimita'.  Cio'  e'  sufficiente  ai  fini  del
controllo sulla rilevanza della questione,  pur  a  fronte  di  altro
orientamento giurisprudenziale di segno contrario. 
    Ne' si puo' contestare al rimettente di  non  avere  esperito  un
tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della  norma
impugnata, dato che tale interpretazione a parere del giudice  a  quo
e' impedita dalla formulazione letterale della disposizione (sentenza
n. 95 del 2016). 
    Altro e', invece, decidere se tale premessa sia o no corretta. 
    3.- La questione non e' fondata, perche' si basa  su  un  erroneo
presupposto interpretativo. 
    Il  giudice  a  quo  muove  dall'idea  che,   nel   testo   della
disposizione   impugnata,   «[l]'uso   dell'avverbio   "altresi'"   e
l'espressione "residuo periodo" dissolv[a]no ogni  dubbio  sul  ruolo
solo "complementare" delle somme di denaro liquidabili dal magistrato
di sorveglianza», sicche' il rimedio pecuniario non sarebbe  «approdo
consentito al magistrato di sorveglianza "per l'intero" ma  solo  per
la parte "residua" non coperta da una pena che, per limiti oggettivi,
si riveli "incapiente"». 
    Tuttavia, l'ultimo periodo dell'art. 35-ter, comma 2, della legge
n. 354 del 1975 stabilisce che il risarcimento  del  danno  in  forma
pecuniaria spetta anche nel caso in cui non e' ammessa  la  riduzione
di pena, perche' il periodo di  detenzione  trascorso  in  condizioni
disumane e' stato inferiore a  quindici  giorni,  e  percio'  prevede
espressamente  la  competenza  del  magistrato  di  sorveglianza   ad
adottare il provvedimento economico, pure in  mancanza  di  qualsiasi
collegamento con un'effettiva riduzione del periodo detentivo. 
    E'  percio'  direttamente  nella   lettera   della   disposizione
impugnata che l'interprete rinviene il criterio logico per  risolvere
il caso sottoposto all'attenzione del giudice rimettente. 
    Il  legislatore,  introducendo  il  ristoro  economico,   si   e'
preoccupato di coordinarlo con il rimedio della  riduzione  di  pena,
specificando, per mezzo delle espressioni letterali  ricordate  dallo
stesso rimettente, quando e come al secondo subentra il primo.  E'  a
questo scopo  che  il  comma  2  dell'art.  35-ter  reca  indicazioni
linguistiche di mero appoggio al comma 1. 
    Con tali indicazioni la disposizione  ha  anche  la  funzione  di
stabilire la priorita' del  rimedio  costituito  dalla  riduzione  di
pena. Priorita' che non puo' significare pero' preclusione  nel  caso
in cui non ci sia alcuna detrazione da operare. 
    Al di fuori dell'ipotesi del coordinamento tra i rimedi del primo
e quelli del secondo comma dell'art. 35-ter impugnato resta la  piena
autonomia  del  ristoro  economico,  appunto  confermata  dall'ultimo
periodo del secondo comma sopra ricordato. 
    Una  volta   ritenuto   insussistente   l'ostacolo   erroneamente
individuato   dal   rimettente    nella    lettera    della    legge,
l'interpretazione costituzionalmente  e  convenzionalmente  orientata
della norma impugnata torna possibile, e nel caso di specie  coincide
con gli esiti cui conduce l'interpretazione logico-sistematica. 
    Sarebbe infatti fuori da ogni logica di sistema, oltre che,  come
ha prospettato il giudice rimettente, in  contrasto  con  i  principi
costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di
sorveglianza debba negare alla persona  condannata  all'ergastolo  il
ristoro  economico,  dovuto  per  una  pena  espiata  in   condizioni
disumane, per la sola ragione che non vi e' alcuna riduzione di  pena
da operare. Non puo' sfuggire infatti all'interprete che quest'ultima
evenienza  non  ha  alcuna  relazione  con  la  compromissione  della
dignita' umana indotta da un identico trattamento carcerario. 
    Ne' si puo' sostenere che  la  persona  condannata  all'ergastolo
potrebbe comunque rivolgersi al giudice civile, ai sensi del comma  3
della disposizione impugnata,  posto  che  vi  sono  ipotesi  in  cui
l'ergastolo va scontato interamente in carcere, ovvero casi nei quali
di fatto l'azione civile sarebbe negata. 
    I  commi  2  e  3  dell'art.  35-ter  impugnato  distinguono   la
competenza a  provvedere  sulla  richiesta  di  ristoro  economico  a
seconda che l'interessato sia  o  no  detenuto:  nel  primo  caso  e'
competente il magistrato di sorveglianza, nel  secondo  il  tribunale
civile. Diversamente da quanto ha affermato  il  giudice  rimettente,
infatti, non  puo'  considerarsi  «eccezionale  e  straordinario»  il
potere del magistrato di sorveglianza  di  liquidare,  «a  titolo  di
risarcimento del danno, una somma  di  denaro»  al  detenuto  che  ha
subito un trattamento disumano, e non c'e' alcuna ragione per negarlo
nei casi in cui non vi e' prima una riduzione di pena da operare. 
    Giova infine ricordare che la sentenza della Corte EDU, nel  caso
Torreggiani, ha chiesto all'Italia di introdurre procedure attivabili
dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o  a
trattamenti carcerari in contrasto con l'art. 3 della CEDU, le quali,
a differenza di quelle al momento in vigore, avrebbero dovuto  essere
accessibili ed effettive;  procedure,  in  altri  termini,  idonee  a
produrre rapidamente la cessazione della violazione e, anche nel caso
in cui la situazione lesiva fosse gia'  cessata,  ad  assicurare  con
rapidita' e concretezza  forme  di  riparazione  adeguate.  E  questa
richiesta deve costituire un indefettibile  criterio  ermeneutico  ai
fini della corretta  applicazione  della  disciplina  successivamente
introdotta dal legislatore.