ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt.  197-bis,
commi 3 e 6, e 192, comma 3, del codice di procedura penale, promosso
dal Tribunale ordinario di Macerata, in composizione monocratica, nel
procedimento penale a carico di M.M. e H.M.,  con  ordinanza  del  22
maggio 2015, iscritta  al  n.  232  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  45,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Udito nella camera di consiglio del 7 dicembre  2016  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di   Macerata,   in   composizione
monocratica, con ordinanza del 22 maggio 2015 (r.o. n. 232 del 2015),
ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questioni
di legittimita' costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3  e  6,  e
192, comma 3, del codice di procedura penale,  «nella  parte  in  cui
prevedono  la  necessita'  della  assistenza  di   difensore   e   la
applicazione del disposto di cui all'art. 192 c. 3 cpp anche  per  le
dichiarazioni rese da persone giudicate in  procedimento  connesso  o
per reato collegato nei confronti delle quali sia  stata  pronunziata
sentenza di assoluzione "perche' il fatto non sussiste"». 
    Il  giudice  rimettente,  premesso  di  essere  investito  di  un
procedimento nei confronti di tre imputati rinviati a giudizio per il
reato di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre  1990,  n.  309  (Testo
unico delle leggi in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei  relativi
stati di tossicodipendenza), essendo state loro  contestate  «plurime
cessioni di  hashish»  ad  altra  persona,  precisa  che,  nel  corso
dell'istruttoria dibattimentale era stato sentito come  testimone  un
imputato di reato probatoriamente  collegato,  assolto  con  sentenza
irrevocabile «"perche' il fatto non sussiste",  non  essendo  provato
che la droga  da  lui  acquistata  non  fosse  stata  presa  per  uso
personale». 
    Nell'udienza del 22 maggio  2015,  in  sede  di  conclusioni,  il
pubblico ministero aveva chiesto la condanna degli  imputati,  mentre
la difesa ne aveva chiesto l'assoluzione. 
    Il Tribunale rimettente rileva che l'ipotesi accusatoria  «poggia
in maniera determinante» sulle dichiarazioni  del  teste  «acquirente
della droga», il  quale  ha  riferito  dell'acquisto  della  sostanza
stupefacente  e  ha  «riconosciuto  in   foto»   gli   imputati   del
procedimento principale come i venditori della sostanza poi rinvenuta
dalla polizia giudiziaria nella sua disponibilita'. 
    Questo testimone, come osserva il giudice  rimettente,  aveva  la
qualita' di  persona  gia'  imputata  di  reato  collegato  ai  sensi
dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., essendogli stata
contestata la  detenzione  ai  fini  di  spaccio  dello  stupefacente
acquistato dalle  persone  imputate  nel  giudizio  a  quo.  Infatti,
secondo il giudice rimettente, la prova sulla natura  della  sostanza
riverberava i suoi effetti su entrambi i processi,  mentre  la  prova
sulla detenzione della droga da parte  del  testimone  costituiva  un
indizio a suo carico e a carico degli imputati.  Conseguentemente  la
sua deposizione dovrebbe essere valutata secondo i  canoni  stabiliti
dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., essendo  «idonea  a  fornire
piena prova solo in presenza di "altri elementi di prova"»,  i  quali
non emergerebbero dagli atti. 
    Il giudice a quo pertanto ritiene di dover sollevare la questione
di legittimita' costituzionale precedentemente indicata. 
    La situazione normativa sarebbe analoga a quella gia' decisa  con
la sentenza n. 381 del 2006 di questa Corte, in  quanto  l'intervento
nei confronti di un coimputato di una «sentenza di assoluzione  piena
"perche' il  fatto  non  sussiste"»  costituirebbe  una  «circostanza
idonea  ad  eliminare  qualsiasi  "stato  di   relazione"   di   quel
dichiarante rispetto ai fatti oggetto del procedimento», si'  da  far
assimilare «almeno giuridicamente» la sua  situazione  a  quella  «di
indifferenza del teste ordinario». 
    La   disciplina   censurata,   oltre   a   risultare   priva   di
ragionevolezza, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza.
Essa,  infatti,  parificherebbe  la   posizione   «dell'imputato   in
procedimento connesso o di  reato  collegato,  assolto  con  sentenza
irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai  sensi  dell'art.
210  cod.  proc.  pen.;  e,  per  converso,  la   diversific[herebbe]
profondamente da quella  del  testimone  ordinario,  tanto  sotto  il
profilo dell'obbligo di assistenza  difensiva,  quanto  sotto  quello
della limitazione probatoria delle dichiarazioni». Il legislatore  in
tale modo avrebbe «sovrapposto e  confuso  la  sfera  della  limitata
capacita' testimoniale con quella dell'attendibilita'  in  concreto»,
la quale  atterrebbe  «al  principio  del  libero  convincimento  del
giudice». 
    Secondo il giudice rimettente «anche la persona offesa dal  reato
o i prossimi congiunti dell'imputato possono porre seri  problemi  di
attendibilita', e, nondimeno, rispetto a costoro  non  esiste  alcuna
capitis    deminutio    testimoniale,    che     invece     persiste,
irragionevolmente, rispetto all'assolto». 
    L'applicabilita' o meno della regola di giudizio di cui  all'art.
192,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  sarebbe   questione   chiaramente
rilevante,  dato  che  la  «deposizione  del  coimputato  per   reato
connesso» costituirebbe «l'elemento portante della ipotesi di  accusa
e la valutazione in ordine alla necessita' o meno di  riscontri  alle
sue asserzioni  (riscontri  che  non  si  rinvengono  in  atti)  puo'
comportare la differenza tra affermazione di  penale  responsabilita'
degli imputati o loro assoluzione». 
    Il giudice rimettente sottolinea che la denunciata illegittimita'
costituzionale riguarda anche  l'assistenza  del  difensore  prevista
dall'art. 197-bis cod. proc. pen., ma riconosce che la  questione  e'
superata perche' il testimone era stato  sentito  alla  presenza  del
difensore.  Nonostante  cio'  ritiene   «auspicabile   una   unitaria
pronunzia [...] che assimili in tutto la posizione del coimputato per
reato connesso assolto "perche' il fatto non sussiste" [a quella del]
coimputato per reato connesso  "assolto  per  non  aver  commesso  il
fatto"». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 maggio 2015 (r.o. n. 232 del  2015),  il
Tribunale ordinario di  Macerata,  in  composizione  monocratica,  ha
sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questioni di
legittimita' costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3 e 6, e  192,
comma 3,  del  codice  di  procedura  penale,  «nella  parte  in  cui
prevedono  la  necessita'  della  assistenza  di   difensore   e   la
applicazione del disposto di cui all'art. 192 c. 3 cpp anche  per  le
dichiarazioni rese da persone giudicate in  procedimento  connesso  o
per reato collegato nei confronti delle quali sia  stata  pronunziata
sentenza di assoluzione "perche' il fatto non sussiste"». 
    La   disciplina   censurata,   oltre   a   risultare   priva   di
ragionevolezza, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza.
Essa,  infatti,  parificherebbe  la   posizione   «dell'imputato   in
procedimento connesso o di  reato  collegato,  assolto  con  sentenza
irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai  sensi  dell'art.
210  cod.  proc.  pen.;  e,  per  converso,  la   diversific[herebbe]
profondamente da quella  del  testimone  ordinario,  tanto  sotto  il
profilo dell'obbligo di assistenza  difensiva,  quanto  sotto  quello
della limitazione probatoria delle dichiarazioni». 
    2.- Le questioni sono state sollevate con riferimento, oltre  che
all'art. 197-bis, commi 3 e 6, anche  all'art.  192,  comma  3,  cod.
proc. pen., ma in  realta'  riguardano  esclusivamente  i  due  commi
dell'art. 197-bis impugnati, e in particolare il comma 6. 
    Questo comma stabilisce  che  alle  dichiarazioni  dei  testimoni
assistiti «si applica la disposizione di cui all'articolo 192,  comma
3», e  dall'ordinanza  di  rimessione  non  emerge  alcuna  specifica
censura nei confronti della disposizione oggetto del rinvio. 
    La regola di giudizio contenuta nell'art.  192,  comma  3,  sulla
valutazione  delle  dichiarazioni  delle  persone  imputate   in   un
procedimento connesso, non e' in questione; la censura riguarda  solo
il rinvio operato  dall'art.  197-bis,  comma  6,  cod.  proc.  pen.,
perche' rende tale regola applicabile anche  alle  dichiarazioni  dei
testimoni assistiti. 
    E' dunque esclusivamente nei confronti di questa disposizione che
si appuntano le censure del giudice a  quo,  e  in  tale  senso  deve
essere  delimitato  l'oggetto   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    3.- La questione relativa all'altro comma dell'art. 197-bis  cod.
proc. pen. impugnato, cioe' al comma 3,  che  prescrive  l'assistenza
del difensore, non e' ammissibile, perche'  e'  priva  di  rilevanza.
Infatti, come ha  riconosciuto  lo  stesso  giudice  rimettente,  nel
processo a quo il testimone, imputato di reato  collegato  e  assolto
perche' il fatto non sussiste, e' stato gia'  sentito  alla  presenza
del difensore, sicche' della disposizione impugnata non occorre  piu'
fare applicazione. 
    4.- La questione riguardante l'art. 197-bis, comma 6, cod.  proc.
pen. e' fondata. 
    5.- Questa Corte, come ha ricordato  il  giudice  rimettente,  ha
gia'  esaminato,  in  una  situazione  analoga,   la   compatibilita'
dell'art. 197-bis cod. proc.  pen.  con  l'art.  3  Cost.,  e  ne  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale  nella  parte  in  cui  la
disposizione si applica alle dichiarazioni rese  dalle  persone  «nei
cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione "per  non
aver commesso il fatto" divenuta irrevocabile» (sentenza n.  381  del
2006). 
    La ratio di quella pronuncia risulta suscettibile  di  estensione
rispetto   all'odierna   questione,   in   modo    da    determinarne
l'accoglimento. 
    Con la sentenza n. 381 del 2006 questa Corte, ribadendo  peraltro
quanto aveva gia' affermato con  l'ordinanza  n.  265  del  2004,  ha
rilevato come «l'assetto normativo della prova dichiarativa, in esito
alla novella del 1° marzo 2001, n.  63,  di  attuazione  del  'giusto
processo', evidenziasse una  complessiva  'strategia  di  fondo'  del
legislatore: precisamente, quella di "enucleare una serie  di  figure
di dichiaranti nel processo penale  in  base  ai  diversi  'stati  di
relazione' rispetto ai fatti oggetto del  procedimento,  secondo  una
graduazione che, partendo dalla situazione di  assoluta  indifferenza
propria del teste ordinario, giunge  fino  alla  forma  'estrema'  di
coinvolgimento,  rappresentata  dal  concorso  del  dichiarante   nel
medesimo reato"». La sentenza aggiungeva che «Alla  molteplicita'  di
tali 'stati di relazione' corrisponde, evidentemente, una "articolata
scansione normativa", relativa non soltanto alla varieta'  soggettiva
dei dichiaranti, ma anche alle  differenti  modalita'  di  assunzione
della  dichiarazione  e,  soprattutto,   ai   diversi   effetti   del
dichiarato». 
    Muovendo da queste considerazioni e dall'esame dei diversi "stati
di relazione" individuati dalle norme  del  codice  di  rito,  questa
Corte e' giunta alla  conclusione  che  assimilare  le  dichiarazioni
della persona imputata in un procedimento  connesso  o  di  un  reato
collegato, assolta "per non  aver  commesso  il  fatto",  alle  altre
dichiarazioni previste dal comma 1 dell'art. 197-bis cod. proc.  pen.
«appare per un verso irragionevole e, per altro verso,  in  contrasto
con il principio di eguaglianza» (sentenza n. 381 del 2006). 
    Alle medesime conclusioni non puo' non  pervenirsi  nel  caso  di
assoluzione "perche' il fatto  non  sussiste",  che  costituisce  una
formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza. 
    Del resto non e' senza significato il  fatto  che  il  codice  di
procedura penale del 1930, con  l'art.  348,  terzo  comma,  vietasse
l'assunzione, come testimoni, degli imputati dello stesso reato o  di
un reato connesso, anche se  erano  stati  prosciolti  o  condannati,
salvo che il proscioglimento fosse stato «pronunciato in giudizio per
non aver commesso il fatto o perche' il fatto non sussiste». 
    Pure in quest'ultimo caso puo' affermarsi  che  l'assoggettamento
delle dichiarazioni della  persona  assolta  alla  regola  legale  di
valutazione enunciata nell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., si' da
rendere «perenne  una  compromissione  del  valore  probatorio  delle
relative    dichiarazioni    testimoniali»,    risulta    priva    di
giustificazione sul piano  razionale.  Per  effetto  di  tale  regola
l'efficacia di un giudicato di assoluzione - che  pure  espressamente
esclude, per il dichiarante, qualsiasi  responsabilita'  rispetto  ai
fatti oggetto del giudizio,  consolidando  tale  esito  al  punto  da
renderlo irreversibile  -  risulta  sostanzialmente  svilita  proprio
dalla  perdurante  limitazione  del  valore  probatorio   delle   sue
dichiarazioni (sentenza n. 381 del 2006). 
    Riguardo anche alla  violazione  del  principio  di  eguaglianza,
possono estendersi al caso in esame  le  considerazioni  gia'  svolte
dalla sentenza n. 381 del 2006. Infatti, «la  presunzione  di  minore
attendibilita', scaturente dalla regola di valutazione probatoria  in
questione,  risulta  irragionevolmente  discordante   rispetto   alle
regulae iuris che presiedono,  invece,  alla  valutazione  giudiziale
delle dichiarazioni rese dal teste ordinario; e  cio'  nonostante  le
tipologie di  dichiaranti  in  comparazione  risultino  omogenee,  in
quanto  connotate  dalla  comune  peculiarita'  della  condizione  di
assoluta indifferenza rispetto  alla  vicenda  oggetto  di  giudizio:
l'una sussistente ab origine, l'altra necessariamente sopravvenuta ed
indotta dall'assoluzione divenuta irrevocabile». 
    E' inoltre da  considerare  che  la  sentenza  di  illegittimita'
costituzionale  n.  381  del  2006  ha  dato  luogo  a   un'ulteriore
situazione di contrasto con l'art. 3 Cost., perche' differenziando il
regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell'imputato in un
procedimento  connesso  o  di  un  reato  collegato,  a  seconda  che
l'assoluzione sia stata pronunciata per non aver commesso il fatto  o
perche'  il  fatto   non   sussiste,   ha   determinato   una   nuova
ingiustificata disparita' di trattamento, alla quale ora  puo'  porsi
riparo. 
    Va  quindi  dichiarata   l'illegittimita'   costituzionale,   per
contrasto con l'art. 3 Cost., del  comma  6  dell'art.  197-bis  cod.
proc.  pen.,  nella  parte  in  cui  prevede   l'applicazione   della
disposizione di cui all'art. 192, comma 3,  del  medesimo  codice  di
rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma
1 dell'art. 197-bis cod. proc. pen.,  nei  cui  confronti  sia  stata
pronunciata sentenza di assoluzione "perche' il fatto non  sussiste",
divenuta irrevocabile. 
    6.- La dichiarazione di illegittimita' costituzionale va  estesa,
in via consequenziale, al comma 3 dell'art. 197-bis cod.  proc.  pen.
L'estensione  si  impone  per  evitare  che  la   testimonianza   del
dichiarante, imputato in un  procedimento  connesso  o  di  un  reato
collegato poi assolto "perche' il fatto non sussiste", resti soggetta
a una modalita' di assunzione della prova strettamente correlata,  in
un regime  di  testimonianza  assistita,  alla  norma  di  cui  viene
dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale.   Caduta   l'una   deve
conseguentemente  cadere  pure  l'altra,   anche   perche'   il   suo
mantenimento  lascerebbe  parzialmente   in   vita   l'ingiustificata
disparita' di trattamento alla quale con  la  presente  decisione  e'
stato posto riparo. 
    Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo  1953,  n.  87  (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della  Corte  costituzionale),
il comma 3 dell'art. 197-bis cod. proc.  pen.  va  quindi  dichiarato
costituzionalmente illegittimo, per contrasto  con  l'art.  3  Cost.,
nella parte in cui prevede l'assistenza di un difensore anche per  le
dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma  1  del  medesimo
art. 197-bis, nei cui confronti sia  stata  pronunciata  sentenza  di
assoluzione "perche' il fatto non sussiste", divenuta irrevocabile.