ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2  della
legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del  Trattato  di
Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea  e  il  Trattato
che istituisce la Comunita' europea e alcuni atti connessi, con  atto
finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona  il  13  dicembre
2007), promossi dalla Corte d'appello di Milano con ordinanza del  18
settembre 2015 e dalla  Corte  di  cassazione  con  ordinanza  dell'8
luglio  2016,  rispettivamente  iscritte  al  n.  339  del   registro
ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016  e  pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2  e  41,  prima  serie
speciale, dell'anno 2016. 
    Visti gli atti di costituzione di M.A.S. e M.B., nonche' gli atti
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  23  novembre  2016  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi; 
    uditi gli avvocati Gaetano Insolera e Andrea Soliani per  M.A.S.,
Nicola Mazzacuva per M.B. e l'avvocato dello Stato Gianni  De  Bellis
per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
             Ritenuto in fatto e considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, terza  sezione  penale,  e  la  Corte
d'appello di Milano hanno investito questa Corte della  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 2 agosto 2008, n.
130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che  modifica  il
Trattato  sull'Unione  europea  e  il  Trattato  che  istituisce   la
Comunita' europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli
e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in
cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l'art. 325, paragrafi 1
e 2, del  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea  (TFUE),
sottoscritto a Roma il  25  marzo  1957  (Testo  consolidato  con  le
modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre  2007),  come
interpretato dalla sentenza  della  Grande  Sezione  della  Corte  di
giustizia dell'Unione europea 8 settembre  2015  in  causa  C-105/14,
Taricco. 
    Con questa decisione la  Corte  di  giustizia  ha  affermato  che
l'art. 325 del TFUE impone al giudice nazionale di non  applicare  il
combinato disposto degli artt. 160,  ultimo  comma,  e  161,  secondo
comma, del codice penale quando cio' gli  impedirebbe  di  infliggere
sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di
frode grave che ledono gli interessi finanziari  dell'Unione,  ovvero
quando frodi che  offendono  gli  interessi  finanziari  dello  Stato
membro sono soggette a termini di prescrizione piu' lunghi di  quelli
previsti  per  le  frodi  che   ledono   gli   interessi   finanziari
dell'Unione. 
    Per effetto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo  comma,
cod. pen., gli atti interruttivi  della  prescrizione,  per  i  reati
fiscali puniti dal decreto legislativo 10 marzo 2000,  n.  74  (Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e  sul  valore
aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205)
e aventi  a  oggetto  l'IVA,  comportano,  di  regola  e  salvo  casi
particolari,  l'aumento  di  un  quarto  del   tempo   necessario   a
prescrivere. Ove questo aumento si riveli in un numero  considerevole
di casi insufficiente per reprimere le frodi  gravi  in  danno  degli
interessi  finanziari  dell'Unione,  che  dipendono   dalla   mancata
riscossione dell'IVA sul  territorio  nazionale,  il  giudice  penale
dovrebbe  procedere  nel  giudizio,   omettendo   di   applicare   la
prescrizione, e nello stesso modo il giudice dovrebbe comportarsi  se
la legge nazionale prevede per  corrispondenti  figure  di  reato  in
danno dello Stato termini  di  prescrizione  piu'  lunghi  di  quelli
stabiliti  per  le  frodi  in  danno   degli   interessi   finanziari
dell'Unione. 
    I giudici rimettenti  procedono  per  frodi  fiscali  punite  dal
d.lgs. n. 74 del 2000 e  attinenti  alla  riscossione  dell'IVA,  che
reputano gravi e che sarebbero prescritte ove si dovessero  applicare
gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen.,  mentre
nel caso  contrario  i  giudizi  si  potrebbero  concludere  con  una
pronuncia  di  condanna.  I  rimettenti  aggiungono  che  l'impunita'
conseguente all'applicazione degli artt. 160, ultimo  comma,  e  161,
secondo comma, cod. pen. ricorre in un numero considerevole di casi. 
    La Corte d'appello di Milano prende  in  esame  anche  un'ipotesi
normativa che ritiene lesiva del principio di assimilazione,  perche'
il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando
di tabacchi lavorati esteri, previsto dall'art. 291-quater del d.P.R.
23  gennaio  1973,  n.  43  (Approvazione  del  testo   unico   delle
disposizioni   legislative   in   materia   doganale),   assimilabile
all'associazione per delinquere allo scopo di commettere  delitti  in
materia di IVA, lesivi degli interessi finanziari dell'Unione, non e'
soggetto al limite dell'aumento di un quarto stabilito  nei  casi  di
interruzione della prescrizione. 
    In entrambi  i  giudizi  sussisterebbero  percio'  le  condizioni
enucleate dall'art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in presenza delle
quali il giudice, escludendo la prescrizione, dovrebbe  decidere  nel
merito. 
    I  rimettenti  tuttavia  dubitano  che   questa   soluzione   sia
compatibile  con  i  principi  supremi   dell'ordine   costituzionale
italiano e con il rispetto dei diritti  inalienabili  della  persona,
espressi dagli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e
101, secondo comma, della Costituzione, con particolare  riguardo  al
principio di legalita' in materia penale. 
    Questo principio comporta che le scelte relative al regime  della
punibilita' siano assunte  esclusivamente  dal  legislatore  mediante
norme  sufficientemente  determinate  e  applicabili  solo  a   fatti
commessi  quando  esse  erano  gia'  in  vigore.  Secondo  i  giudici
rimettenti, invece, la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma,
e 161, secondo comma, cod.  pen.,  che  concerne  anche  le  condotte
anteriori alla data di pubblicazione della  sentenza  resa  in  causa
Taricco, determina un aggravamento del regime  della  punibilita'  di
natura retroattiva. Mancherebbe, inoltre, una normativa adeguatamente
determinata, perche' non e' chiarito,  ne'  quando  le  frodi  devono
ritenersi gravi, ne' quando ricorre un numero cosi' considerevole  di
casi di impunita' da imporre  la  disapplicazione  degli  artt.  160,
ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen, cosicche'  la  relativa
determinazione viene rimessa al giudice. 
    I giudizi vertono su analoghe  questioni  e  meritano  di  essere
riuniti per una decisione congiunta. 
    2.- Il riconoscimento del primato del diritto dell'Unione  e'  un
dato  acquisito  nella  giurisprudenza  di  questa  Corte,  ai  sensi
dell'art.  11  Cost.;  questa  stessa  giurisprudenza   ha   altresi'
costantemente  affermato  che  l'osservanza  dei   principi   supremi
dell'ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili  della
persona e' condizione perche' il  diritto  dell'Unione  possa  essere
applicato in Italia.  Qualora  si  verificasse  il  caso,  sommamente
improbabile, che in  specifiche  ipotesi  normative  tale  osservanza
venga   meno,   sarebbe   necessario   dichiarare    l'illegittimita'
costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e
resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che
quell'ipotesi normativa si realizzi (sentenze n. 232 del 1989, n. 170
del 1984 e n. 183 del 1973). 
    Non vi e' inoltre dubbio che il principio di legalita' in materia
penale  esprima  un  principio  supremo  dell'ordinamento,  posto   a
presidio dei diritti inviolabili dell'individuo, per la parte in  cui
esige che le norme penali siano determinate e non abbiano  in  nessun
caso portata retroattiva. Tale principio e' formulato  dall'art.  25,
secondo comma, Cost., per il quale «Nessuno puo' essere punito se non
in forza di una legge che sia  entrata  in  vigore  prima  del  fatto
commesso». 
    Se l'applicazione dell'art. 325 del TFUE  comportasse  l'ingresso
nell'ordinamento giuridico di una regola contraria  al  principio  di
legalita' in materia penale, come  ipotizzano  i  rimettenti,  questa
Corte avrebbe il dovere di impedirlo. 
    3.- Occorre percio' preliminarmente stabilire se l'art.  325  del
TFUE vada effettivamente applicato nel senso indicato dai rimettenti,
oppure  se  sia  suscettibile  di  interpretazioni  anche  in   parte
differenti, tali da escludere ogni  conflitto  con  il  principio  di
legalita' in materia penale formulato dall'art.  25,  secondo  comma,
della  Costituzione  italiana,  oltre  che  con   analoghi   principi
contenuti nella Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il
12 dicembre 2007 a  Strasburgo,  e  nelle  tradizioni  costituzionali
comuni agli Stati membri. 
    In presenza di un persistente dubbio interpretativo  sul  diritto
dell'Unione, che e' necessario risolvere per decidere la questione di
legittimita' costituzionale, appare pertanto opportuno sollecitare un
nuovo chiarimento da parte della Corte di giustizia  sul  significato
da attribuire all'art. 325 del TFUE sulla base della sentenza resa in
causa Taricco. 
    4.- La regola tratta dall'art. 325 del TFUE con la sentenza  resa
in causa Taricco interferisce con il regime legale della prescrizione
dei reati, che il giudice sarebbe tenuto a  non  applicare  nei  casi
indicati in quella decisione. 
    Nell'ordinamento  giuridico  nazionale  il  regime  legale  della
prescrizione e' soggetto al principio di legalita' in materia penale,
espresso dall'art. 25, secondo comma, Cost.,  come  questa  Corte  ha
ripetutamente riconosciuto (da ultimo sentenza n. 143 del  2014).  E'
percio' necessario che esso sia analiticamente descritto, al pari del
reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del
fatto. 
    Si tratta infatti di un istituto  che  incide  sulla  punibilita'
della persona e la legge, di conseguenza, lo disciplina in ragione di
una valutazione che  viene  compiuta  con  riferimento  al  grado  di
allarme sociale indotto da un certo reato e all'idea  che,  trascorso
del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino  le  esigenze  di
punizione e maturi un diritto all'oblio in capo  all'autore  di  esso
(sentenza n. 23 del 2013). 
    E' noto che alcuni Stati membri invece muovono da una  concezione
processuale della prescrizione, alla quale la sentenza resa in  causa
Taricco e' piu' vicina, anche sulla base della  giurisprudenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo, ma ve ne sono altri, tra cui  la
Spagna (STC 63/2005, del 14  marzo),  che  accolgono  una  concezione
sostanziale della prescrizione non differente da quella italiana. 
    Pare utile osservare che su  questo  aspetto,  che  non  riguarda
direttamente ne' le competenze dell'Unione,  ne'  norme  dell'Unione,
non sussiste alcuna esigenza  di  uniformita'  nell'ambito  giuridico
europeo. Ciascuno Stato membro e' percio' libero di  attribuire  alla
prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o  processuale,
in conformita' alla sua tradizione costituzionale. 
    Questa conclusione non e' stata posta in  dubbio  dalla  sentenza
resa in causa Taricco, che si e' limitata a escludere  l'applicazione
dell'art. 49 della Carta  di  Nizza  alla  prescrizione,  ma  non  ha
affermato che lo Stato membro deve rinunciare ad applicare le proprie
disposizioni e tradizioni costituzionali, che, rispetto  all'art.  49
della Carta di Nizza e all'art. 7 della Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva  con  la  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  risultano  per
l'imputato  di  maggior   favore.   Ne'   cio'   sarebbe   consentito
nell'ordinamento italiano quando esse esprimono un principio  supremo
dell'ordine costituzionale, come accade per il principio di legalita'
in campo penale in relazione all'intero ambito materiale a  cui  esso
si rivolge. 
    5.-  Sulla  base  della  giusta  premessa  che  il  principio  di
legalita' penale riguarda anche il regime legale della  prescrizione,
questa Corte e' chiamata  dai  giudici  rimettenti  a  valutare,  tra
l'altro, se la regola tratta dalla sentenza  resa  in  causa  Taricco
soddisfi il requisito della determinatezza, che per  la  Costituzione
deve caratterizzare le norme di diritto  penale  sostanziale.  Queste
ultime devono quindi essere formulate in termini  chiari,  precisi  e
stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di  comprendere
quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul  piano
penale,  sia  allo  scopo  di  impedire  l'arbitrio  applicativo  del
giudice. 
    Si tratta di un principio che, come e' stato  riconosciuto  dalla
stessa Corte di giustizia, appartiene alle tradizioni  costituzionali
comuni agli Stati membri quale corollario del principio  di  certezza
del diritto (sentenza 12 dicembre 1996 in cause C-74/95  e  C-129/95,
punto 25). 
    La verifica deve quindi svolgersi su due piani. 
    Anzitutto,  si  tratta  di  stabilire  se  la   persona   potesse
ragionevolmente prevedere, in base al  quadro  normativo  vigente  al
tempo del fatto, che il diritto dell'Unione, e in particolare  l'art.
325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare  gli  artt.
160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza  delle
condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco. 
    E'  questo  un  principio  irrinunciabile  del   diritto   penale
costituzionale. Occorre infatti che la disposizione scritta  con  cui
si decide quali fatti punire, con quale  pena,  e,  nel  caso  qui  a
giudizio, entro quale  limite  temporale,  permetta  «una  percezione
sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore  precettivo»
(sentenza n. 5 del 2004). 
    Non spetta certamente a questa Corte attribuire all'art. 325  del
TFUE un significato differente da quello che gli conferisce la  Corte
di giustizia; e' invece suo dovere prendere atto di quel  significato
e decidere se esso fosse percepibile dalla persona che ha  realizzato
la condotta avente rilievo penale. 
    Analoga preoccupazione  e'  peraltro  condivisa  dalla  Corte  di
Strasburgo  in  base  all'art.  7  della  CEDU  e  alla   necessita',
costantemente  affermata,  che  reato  e   pena   siano   conoscibili
dall'autore di un fatto fin da quando esso e' commesso. E puo' essere
utile osservare che, pur non negando  che  lo  Stato  aderente  possa
riconoscere alla  prescrizione  carattere  processuale  (sentenza  22
giugno 2000, Coëme e altri contro Belgio), ugualmente la Corte EDU si
riserva di sanzionarlo quando, in materia penale, non vi sia una base
legale certa e  prevedibile  a  sorreggere  l'estensione  del  potere
punitivo pubblico oltre il limite temporale  previsto  al  tempo  del
fatto (sentenza 20 settembre 2011,  Oao  Neftyanaya  Kompaniya  Yukos
contro Russia). 
    La compatibilita' della regola enunciata dalla sentenza  resa  in
causa Taricco con la CEDU, pertanto,  andrebbe  valutata  sulla  base
della premessa che in Italia la prescrizione ha  natura  sostanziale.
Per tale ragione, e' poi necessario chiedersi, alla luce dell'art.  7
della CEDU, se tale regola fosse prevedibile, e avesse  percio'  base
legale (tra le molte, Grande Camera, sentenza 21  ottobre  2013,  Del
Rio Prada contro Spagna, paragrafo 93). 
    In tale prospettiva questa Corte e' convinta che la  persona  non
potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa  in  causa
Taricco, che l'art. 325 del  TFUE  prescrivesse  al  giudice  di  non
applicare gli artt. 160, ultimo comma, e  161,  secondo  comma,  cod.
pen. ove ne fosse derivata l'impunita'  di  gravi  frodi  fiscali  in
danno dell'Unione in un  numero  considerevole  di  casi,  ovvero  la
violazione del principio di assimilazione. 
    In secondo luogo, e' necessario interrogarsi,  sia  sul  rispetto
della riserva di legge,  sia  sul  grado  di  determinatezza  assunto
dall'ordinamento penale in base all'art. 325 del TFUE,  con  riguardo
al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su
discrezionali valutazioni di politica criminale.  In  particolare  il
tempo necessario per la prescrizione di  un  reato  e  le  operazioni
giuridiche da  compiersi  per  calcolarlo  devono  essere  il  frutto
dell'applicazione, da parte del  giudice  penale,  di  regole  legali
sufficientemente determinate. In  caso  contrario,  il  contenuto  di
queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa  che
e' senza dubbio vietata dal principio di separazione  dei  poteri  di
cui  l'art.  25,  secondo   comma,   Cost.   declina   una   versione
particolarmente rigida nella materia penale. 
    In  tale  prospettiva  si  tratta  di  verificare  se  la  regola
enunciata  dalla  sentenza  resa  in  causa  Taricco  sia  idonea   a
delimitare la discrezionalita' giudiziaria e anche su questo  terreno
occorre  osservare  che  non  vi  e'  modo   di   definire   in   via
interpretativa con la  necessaria  determinatezza  il  requisito  del
numero considerevole dei casi, cui e' subordinato l'effetto  indicato
dalla Corte di giustizia. 
    Questa Corte non dubita che esso si  riferisca  alla  sistematica
impunita' che il regime legale dell'interruzione  della  prescrizione
comporterebbe per le frodi fiscali, tuttavia il concetto  rimane  per
sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso
l'esercizio della funzione interpretativa. 
    Nell'ordinamento italiano, come anche  nell'ordinamento  europeo,
l'attivita'  giurisdizionale  e'  soggetta  al  governo  della  legge
penale;  mentre  quest'ultima,  viceversa,  non  puo'  limitarsi   ad
assegnare obiettivi di scopo al giudice. Non si puo' allora escludere
che la legge nazionale possa e debba essere disapplicata se  cio'  e'
prescritto in casi specifici dalla normativa europea. Non  e'  invece
possibile che il diritto dell'Unione fissi un obiettivo di  risultato
al giudice penale e che, in difetto di una normativa che predefinisca
analiticamente  casi  e  condizioni,  quest'ultimo   sia   tenuto   a
raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell'ordinamento. 
    6.-  Dopo  aver  messo  a  fuoco   gli   specifici   profili   di
incompatibilita' esistenti tra la regola  che  la  sentenza  resa  in
causa Taricco ha tratto dall'art. 325 del  TFUE  e  i  principi  e  i
diritti sanciti dalla Costituzione, e'  necessario  chiedersi  se  la
Corte di giustizia abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare
applicazione alla regola anche quando essa confligge con un principio
cardine dell'ordinamento italiano. 
    Questa  Corte  pensa  il  contrario,  ma  reputa  in  ogni   caso
conveniente porre il dubbio all'attenzione della Corte di giustizia. 
    In base all'art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull'Unione europea
(TUE), come  modificato  dal  Trattato  di  Lisbona,  firmato  il  13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n.
130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, i rapporti tra  Unione
e Stati  membri  sono  definiti  in  forza  del  principio  di  leale
cooperazione, che  implica  reciproco  rispetto  e  assistenza.  Cio'
comporta che le parti siano unite nella diversita'.  Non  vi  sarebbe
rispetto se le ragioni dell'unita'  pretendessero  di  cancellare  il
nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro.  E  non  vi
sarebbe neppure se la difesa della diversita' eccedesse  quel  nucleo
giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su
valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza. 
    Il  primato  del  diritto  dell'Unione  non  esprime   una   mera
articolazione  tecnica  del   sistema   delle   fonti   nazionali   e
sovranazionali.  Esso  riflette  piuttosto   il   convincimento   che
l'obiettivo della unita', nell'ambito di un ordinamento che  assicura
la pace e la giustizia tra le  Nazioni,  giustifica  una  rinuncia  a
spazi di sovranita', persino se definiti da norme costituzionali.  Al
contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la
forza stessa dell'unita' in seno ad un ordinamento caratterizzato dal
pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacita' di  includere
il tasso di  diversita'  minimo,  ma  necessario  per  preservare  la
identita' nazionale insita nella struttura fondamentale  dello  Stato
membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario  i  Trattati
europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere  il  fondamento
costituzionale stesso dal quale hanno  tratto  origine  per  volonta'
degli Stati membri. 
    Queste considerazioni sono sempre state  alla  base  dell'azione,
sia di questa Corte, quando ha rinvenuto nell'art. 11 Cost. la chiave
di volta dell'ordinamento europeo,  sia  della  Corte  di  giustizia,
quando, precorrendo l'art. 6, paragrafo 3, del  TUE,  ha  incorporato
nel diritto dell'Unione  le  tradizioni  costituzionali  comuni  agli
Stati membri. 
    Ne consegue, in linea di principio, che il diritto dell'Unione, e
le  sentenze  della  Corte  di  giustizia  che  ne   specificano   il
significato  ai  fini  di  un'uniforme  applicazione,   non   possono
interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la  rinuncia  ai
principi supremi del suo ordine costituzionale. 
    Naturalmente, la Corte di giustizia non e' sollevata dal  compito
di definire il campo di applicazione  del  diritto  dell'Unione,  ne'
puo'  essere  ulteriormente  gravata  dall'onere  di   valutare   nel
dettaglio se esso sia compatibile con l'identita'  costituzionale  di
ciascun Stato membro. E' percio' ragionevole attendersi che, nei casi
in cui tale valutazione sia di non  immediata  evidenza,  il  giudice
europeo  provveda  a  stabilire  il   significato   della   normativa
dell'Unione, rimettendo alle autorita' nazionali la  verifica  ultima
circa l'osservanza dei principi supremi  dell'ordinamento  nazionale.
Compete poi a ciascuno di questi ordinamenti stabilire a  chi  spetti
tale verifica. La Costituzione  della  Repubblica  italiana,  a  tale
proposito, la rimette in via esclusiva a questa Corte, e  bene  hanno
percio' fatto i rimettenti a investirla del problema, sollevando  una
questione di legittimita' costituzionale. 
    7. - Quanto appena esposto in termini generali trova conferma nel
caso sottoposto a giudizio. La sentenza  resa  in  causa  Taricco  ha
stabilito che l'art. 325 del TFUE ha  efficacia  diretta  e  comporta
l'obbligo di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione
dei reati che, nei casi e alle  condizioni  individuate,  compromette
l'effettivita' della sanzione. La decisione ha altresi'  escluso,  ma
solo con riferimento al  divieto  di  retroattivita'  della  sanzione
penale, che la regola cosi' enunciata sia in contrasto con l'art.  49
della Carta di Nizza e con l'art. 7 della CEDU. 
    La sentenza europea prescinde dalla compatibilita'  della  regola
con i principi supremi dell'ordine costituzionale italiano,  ma  pare
aver demandato espressamente questo  compito  agli  organi  nazionali
competenti. Infatti, il paragrafo 53 della sentenza afferma che,  «se
il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni
nazionali di cui trattasi, egli dovra' allo stesso tempo  assicurarsi
che i diritti fondamentali degli interessati  siano  rispettati».  Il
paragrafo 55 seguente aggiunge che  la  disapplicazione  va  disposta
«con riserva di verifica da parte del giudice nazionale» in ordine al
rispetto dei diritti degli imputati. 
    Il convincimento di questa Corte, del quale  si  chiede  conferma
alla Corte di giustizia, e' che con tali  asserzioni  si  sia  inteso
affermare che la regola tratta dall'art. 325 del TFUE e'  applicabile
solo se e' compatibile con  l'identita'  costituzionale  dello  Stato
membro, e che spetta alle competenti autorita' di quello Stato  farsi
carico di una siffatta valutazione. 
    Nell'ordinamento   italiano   cio'   puo'   avvenire   attraverso
l'iniziativa del giudice che, chiamato ad applicare la regola, chiede
a questa Corte di saggiarne la compatibilita' con i principi  supremi
dell'ordine costituzionale. E' poi dovere di questa Corte  accertare,
se del caso, l'incompatibilita', e conseguentemente escludere che  la
regola possa avere applicazione in Italia. 
    Se questa interpretazione dell'art. 325 del TFUE e della sentenza
resa in causa Taricco fosse  corretta,  cesserebbe  ogni  ragione  di
contrasto e la questione di legittimita' costituzionale  non  sarebbe
accolta. 
    Resterebbe in ogni caso ferma la responsabilita' della Repubblica
italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le
gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell'Unione o
in violazione del principio di assimilazione, e  in  particolare  per
avere compresso temporalmente l'effetto degli atti interruttivi della
prescrizione. 
    Cio' posto, occorrerebbe verificare nelle sedi competenti  se  il
problema sia  stato  risolto  dall'art.  2,  comma  36-vicies  semel,
lettera l), del decreto-legge  13  agosto  2011,  n.  138  (Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  14
settembre 2011, n. 148, che ha aumentato di un  terzo  i  termini  di
prescrizione dei reati puniti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs.  n.
74 del 2000, con una disposizione che  pero'  non  e'  applicabile  a
fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge. 
    Se l'esito della  verifica  fosse  negativo  sarebbe  urgente  un
intervento del legislatore per  assicurare  l'efficacia  dei  giudizi
sulle frodi in questione, eventualmente anche  evitando  che  l'esito
sia compromesso da termini prescrizionali inadeguati. 
    8.- Questa  Corte  tiene  a  sottolineare  che  l'interpretazione
appena delineata, se  da  un  lato  serve  a  preservare  l'identita'
costituzionale della Repubblica italiana, dall'altro non  compromette
le esigenze di uniforme applicazione del  diritto  dell'Unione  e  si
propone pertanto  come  soluzione  conforme  al  principio  di  leale
cooperazione e di proporzionalita'. 
    Infatti essa non pone in discussione il significato che la  Corte
di giustizia ha rinvenuto nell'art. 325 del TFUE. 
    L'impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente  la
regola enunciata  dalla  Corte  non  deriva  da  una  interpretazione
alternativa  del  diritto  dell'Unione,   ma   esclusivamente   dalla
circostanza, in se' estranea all'ambito materiale di applicazione  di
quest'ultimo, che l'ordinamento italiano attribuisce  alla  normativa
sulla  prescrizione  il  carattere  di  norma  del   diritto   penale
sostanziale e  la  assoggetta  al  principio  di  legalita'  espresso
dall'art. 25, secondo  comma,  Cost.  E'  questa  una  qualificazione
esterna rispetto al significato proprio dell'art. 325 del  TFUE,  che
non  dipende  dal  diritto  europeo  ma  esclusivamente   da   quello
nazionale. 
    Va  aggiunto  che  tale  qualificazione,  nel  caso  di   specie,
costituisce un livello di protezione piu' elevato di quello  concesso
agli imputati dall'art. 49 della Carta di Nizza e dall'art.  7  della
CEDU.  Esso,  percio',  deve  ritenersi  salvaguardato  dallo  stesso
diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 53 della Carta,  letto  anche
alla luce della relativa spiegazione. 
    La Costituzione italiana conferisce  al  principio  di  legalita'
penale un oggetto piu'  ampio  di  quello  riconosciuto  dalle  fonti
europee, perche' non e' limitato alla descrizione del fatto di  reato
e alla pena, ma  include  ogni  profilo  sostanziale  concernente  la
punibilita'. Appare a cio' conseguente che l'Unione  rispetti  questo
livello di protezione dei diritti  della  persona,  sia  in  ossequio
all'art. 53 della Carta di  Nizza,  il  quale  afferma  che  «Nessuna
disposizione della  presente  Carta  deve  essere  interpretata  come
limitativa  o  lesiva  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali  riconosciuti  [...]  dalle  costituzioni  degli   Stati
membri», sia perche', altrimenti, il processo di integrazione europea
avrebbe l'effetto di degradare le  conquiste  nazionali  in  tema  di
liberta'  fondamentali  e  si  allontanerebbe  dal  suo  percorso  di
unificazione nel segno del rispetto dei diritti  umani  (art.  2  del
TUE). 
    Al contrario, la  Corte  di  giustizia  ha  riconosciuto  che  le
modalita' con  le  quali  ciascuno  Stato  membro  tutela  i  diritti
fondamentali  della  persona,  anche  quando  questo   comporta   una
restrizione  alle  liberta'  attribuite  dai  Trattati,  non   devono
necessariamente essere le stesse. Ogni  Stato  membro  protegge  tali
diritti  in  conformita'  al   proprio   ordinamento   costituzionale
(sentenza 14 ottobre 2004, in causa C-36/02,  Omega  Spielhallen  und
Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt
Bonn). 
    Il caso qui esaminato si distingue nettamente  da  quello  deciso
dalla Grande Sezione della Corte di  giustizia  con  la  sentenza  26
febbraio 2013 in causa C-399/11, Melloni, con la quale si e'  escluso
che, in forza  delle  previsioni  della  Costituzione  di  uno  Stato
membro, potessero aggiungersi ulteriori condizioni all'esecuzione  di
un mandato di arresto europeo, rispetto  a  quelle  pattuite  con  il
«consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme  a  proposito
della portata da  attribuire,  secondo  il  diritto  dell'Unione,  ai
diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia». 
    In quel caso una soluzione opposta  avrebbe  inciso  direttamente
sulla  portata  della  Decisione  quadro   26   febbraio   2009,   n.
2009/299/GAI  (Decisione  quadro  del  Consiglio  che   modifica   le
decisioni   quadro    2002/584/GAI,    2005/214/GAI,    2006/783/GAI,
2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali  delle
persone e promuovendo  l'applicazione  del  principio  del  reciproco
riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell'interessato
al processo), e avrebbe percio' comportato la rottura dell'unita' del
diritto dell'Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia  in
un assetto normativo uniforme.  Viceversa,  il  primato  del  diritto
dell'Unione non e' posto in discussione nel  caso  oggi  a  giudizio,
perche', come si e' gia' osservato, non e'  in  questione  la  regola
enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e  desunta  dall'art.  325
del  TFUE,  ma  solo  l'esistenza  di  un   impedimento   di   ordine
costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice. 
    Questo impedimento non  dipende  dalla  contrapposizione  di  una
norma nazionale alle regole dell'Unione ma  solo  dalla  circostanza,
esterna  all'ordinamento  europeo,  che  la  prescrizione  in  Italia
appartiene al diritto  penale  sostanziale,  e  soggiace  percio'  al
principio di legalita' in materia penale. 
    Appare  percio'  proporzionato  che  l'Unione  rispetti  il  piu'
elevato livello di protezione accordato dalla  Costituzione  italiana
agli imputati, visto che con cio' non viene  sacrificato  il  primato
del suo diritto. 
    9.- Inoltre questa Corte osserva che la sentenza  resa  in  causa
Taricco ha escluso  l'incompatibilita'  della  regola  li'  affermata
rispetto all'art. 49 della  Carta  di  Nizza  con  riguardo  al  solo
divieto di retroattivita', mentre non ha  esaminato  l'altro  profilo
proprio del principio di legalita', ovvero la necessita' che la norma
relativa al regime di punibilita' sia  sufficientemente  determinata.
E' questa un'esigenza comune  alle  tradizioni  costituzionali  degli
Stati membri, presente anche nel sistema di tutela della CEDU, e come
tale incarna un principio generale del diritto dell'Unione  (si  veda
la gia'  citata  sentenza  12  dicembre  1996,  in  cause  C-74/95  e
C-129/95). 
    Anche se si  dovesse  ritenere  che  la  prescrizione  ha  natura
processuale, o  che  comunque  puo'  essere  regolata  anche  da  una
normativa  posteriore  alla   commissione   del   reato,   ugualmente
resterebbe il principio  che  l'attivita'  del  giudice  chiamato  ad
applicarla deve dipendere  da  disposizioni  legali  sufficientemente
determinate. In questo principio  si  coglie  un  tratto  costitutivo
degli ordinamenti costituzionali degli Stati  membri  di  civil  law.
Essi non affidano al giudice il potere di  creare  un  regime  legale
penale, in luogo di  quello  realizzato  dalla  legge  approvata  dal
Parlamento, e in ogni caso ripudiano l'idea che  i  tribunali  penali
siano  incaricati  di   raggiungere   uno   scopo,   pur   legalmente
predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali
limiti cio' possa avvenire. 
    Il largo consenso diffuso tra gli Stati membri su tale  principio
cardine della divisione dei poteri induce a ritenere  che  l'art.  49
della Carta di Nizza abbia identica portata, ai sensi  dell'art.  52,
paragrafo 4, della medesima Carta. 
    Tuttavia, l'art. 325 del  TFUE,  pur  formulando  un  obbligo  di
risultato chiaro e incondizionato,  secondo  quanto  precisato  dalla
Corte di giustizia, omette di indicare con  sufficiente  analiticita'
il percorso che il giudice penale e' tenuto a seguire per  conseguire
lo scopo. In questo modo  pero'  si  potrebbe  permettere  al  potere
giudiziario  di  disfarsi,  in  linea  potenziale,  di   qualsivoglia
elemento normativo  che  attiene  alla  punibilita'  o  al  processo,
purche' esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato. 
    Questa  conclusione  eccede  il  limite  proprio  della  funzione
giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno  nella  tradizione
continentale, e non pare conforme al principio di legalita' enunciato
dall'art. 49 della Carta di Nizza. 
    Se si ritiene che l'art. 325 del TFUE ha  un  simile  significato
resta allora da verificarne la coerenza con l'art. 49 della Carta  di
Nizza, che ha lo stesso valore dei Trattati (art. 6, paragrafo 1, del
TUE), sotto il  profilo  della  carente  determinatezza  della  norma
europea, quando interferisce con  i  diritti  degli  imputati  in  un
processo penale. 
    10.- In conclusione, se la Corte di giustizia dovesse  concordare
con questa Corte sul significato  dell'art.  325  del  TFUE  e  della
sentenza resa in causa Taricco, sarebbero superate  le  questioni  di
legittimita' costituzionale sollevate dai giudici rimettenti. 
    11.- In base all'art. 105  del  regolamento  di  procedura  della
Corte di giustizia del 25 settembre 2012 si richiede che il  presente
rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato. 
    Si e' allo stato  generato  un  grave  stato  di  incertezza  sul
significato da attribuire  al  diritto  dell'Unione,  incertezza  che
riguarda processi penali pendenti e che e' urgente  rimuovere  quanto
prima. Non puo' inoltre  sfuggire  la  prioritaria  importanza  delle
questioni di diritto che sono state  sollevate  e  l'utilita'  che  i
relativi dubbi vengano eliminati il prima possibile. 
    Visti gli artt. 267 del Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea, e 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, recante «Ratifica  ed
esecuzione dei seguenti Accordi internazionali firmati a Bruxelles il
17 aprile 1957: a) Protocollo sui privilegi e sulle  immunita'  della
Comunita' economica europea; b) Protocollo sullo Statuto della  Corte
di giustizia della Comunita' economica  europea;  c)  Protocollo  sui
privilegi e sulle  immunita'  della  Comunita'  europea  dell'energia
atomica; d) Protocollo sullo Statuto della Corte di  giustizia  della
Comunita'  europea   dell'energia   atomica   (stralcio:   protocolli
Euratom)».