ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  2  della
legge della Regione Veneto 12 aprile  2016,  n.  12  (Modifica  della
legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 recante "Norme per  il  governo
del  territorio   e   in   materia   di   paesaggio"   e   successive
modificazioni), promosso dal Presidente del  Consiglio  dei  ministri
con  ricorso  notificato  il  14-17  giugno   2016,   depositato   in
cancelleria il 21 giugno 2016 ed  iscritto  al  n.  32  del  registro
ricorsi 2016. 
    Visto l'atto di costituzione della Regione Veneto; 
    udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice  relatore
Marta Cartabia; 
    uditi gli avvocati Luigi Manzi per la Regione Veneto e l'avvocato
dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso depositato in data 21 giugno 2016 e  iscritto  al
n. 32 del registro ricorsi 2016,  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, ha promosso questione di legittimita' costituzionale dell'art.
2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016,  n.  12  (Modifica
della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11  recante  "Norme  per  il
governo del territorio  e  in  materia  di  paesaggio"  e  successive
modificazioni), che introduce gli artt. 31-bis e 31-ter  nella  legge
regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del  territorio
e in materia di paesaggio), lamentando la violazione degli  artt.  2,
3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettere c) e h), della Costituzione. 
    1.1.- In particolare, il ricorrente ritiene  che  l'art.  31-bis,
introdotto con la disposizione impugnata, contrasti con gli artt.  3,
8 e 19 Cost., nella parte in cui attribuisce alla Regione e ai Comuni
del Veneto, ciascuno nell'esercizio delle rispettive  competenze,  il
compito di individuare «i criteri e le modalita' per la realizzazione
di  attrezzatture  di  interesse  comune  per  servizi  religiosi  da
effettuarsi da  parte  degli  enti  istituzionalmente  competenti  in
materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose,
i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'articolo
8,  terzo  comma,  della  Costituzione,  e  delle  altre  confessioni
religiose». La genericita' e l'ambiguita' della formula ivi contenuta
(«i criteri e le modalita' per la realizzazione  di  attrezzature  di
interesse comune per servizi religiosi»)  consentirebbe,  secondo  il
ricorrente, valutazioni  differenziate  per  le  diverse  confessioni
religiose e applicazioni ampiamente  discrezionali  e  potenzialmente
discriminatorie nei confronti  di  alcuni  enti  religiosi.  Cio'  in
contrasto con le richiamate  disposizioni  costituzionali  e  con  le
interpretazioni datene dalla  stessa  giurisprudenza  costituzionale,
secondo cui «il legislatore  non  puo'  operare  discriminazioni  tra
confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse  abbiano
o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o
intese» (sentenza n. 63 del 2016) e  le  intese  non  possono  essere
considerate condizione imposta dai  pubblici  poteri  per  consentire
alle confessioni religiose di avere liberta' di organizzazione  e  di
azione (viene citata sul punto la sentenza n. 52 del 2016). 
    1.2.- Il ricorrente lamenta, inoltre, la violazione  degli  artt.
2, 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettere c) e  h),  Cost.  da  parte
dell'art. 31-ter, introdotto con la disposizione impugnata, il quale,
nel disciplinare gli interventi comunali  di  urbanizzazione  per  le
aree e gli immobili da destinarsi alla realizzazione di  attrezzature
di interesse comune per servizi religiosi, prevede, al suo  comma  3,
che  il  soggetto  richiedente  la  realizzazione   dell'attrezzatura
sottoscriva con il  Comune  una  convenzione  contenente  un  impegno
fideiussorio, e che  in  tale  convenzione  «puo',  altresi',  essere
previsto l'impegno ad utilizzare la  lingua  italiana  per  tutte  le
attivita' svolte nelle attrezzature di interesse comune  per  servizi
religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche  rituali
di culto». Tale previsione, secondo il ricorrente, travalicherebbe la
finalita', di natura tipicamente urbanistica, della  convenzione  per
incidere sull'esercizio della liberta' di culto, liberta' che non  si
esaurisce nello svolgimento delle pratiche  rituali,  ma  ricomprende
«anche le attivita' collaterali, come quelle ricreative, aggregative,
culturali, sociali, educative, nell'ambito delle  quali  la  liberta'
religiosa trova la sua  pienezza  di  espressione».  La  convenzione,
infatti, secondo il ricorrente, dovrebbe essere volta  ad  assicurare
lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati  e  consentire,
dunque, unicamente la previsione, in forma  concordata  e  negoziale,
degli impegni strettamente  connessi  al  rilascio  delle  necessarie
autorizzazioni  urbanistiche.  La  disposizione  censurata,   invece,
prevedendo la  possibilita'  che  sia  inserito,  nella  convenzione,
l'impegno  a  utilizzare  la  lingua  italiana,  determinerebbe   una
invasione  nella  materia  di  «rapporti  tra  la  Repubblica  e   le
confessioni religiose»,  che  rientra  nella  competenza  legislativa
esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma,  lettera  c,  Cost.).
Essa contrasterebbe, altresi',  con  gli  artt.  2,  3  e  19  Cost.,
interferendo con l'esercizio della liberta' di religione, nell'ambito
del quale rientra la realizzazione di luoghi diretti al culto e  alla
discussione degli interessi  sociali  e  culturali  della  comunita',
attivita' anch'esse espressione diretta della liberta' di  religione.
Infine, perseguendo una finalita' di controllo delle modalita' con le
quali in concreto  e'  esercitata  l'attivita'  sociale  e  culturale
svolta nelle suddette attrezzature, per ragioni di sicurezza e ordine
pubblico, invaderebbe la potesta' legislativa  esclusiva  statale  di
cui alla lettera h) dell'art. 117, secondo comma,  Cost.,  mentre  in
tale ambito alla Regione e' riservato solo un ruolo  di  cooperazione
in tema di contrasto dell'illegalita', ordine  pubblico  e  sicurezza
(sono citate le sentenze n. 63 del 2016, n. 35 del 2012 e n.  55  del
2001). 
    2.- Con atto depositato in data 25 luglio 2016 si  e'  costituita
la Regione Veneto, al fine  di  chiedere  che  entrambe  le  promosse
questioni   di   legittimita'   costituzionale    siano    dichiarate
inammissibili e, comunque, non fondate. 
    2.1.- Con riferimento alla prima  questione,  la  Regione  Veneto
contesta la fondatezza del percorso argomentativo svolto nel ricorso.
Secondo la resistente, la formula «criteri  e  modalita'»,  censurata
dal ricorrente per la sua genericita' e  ambiguita',  andrebbe  letta
non isolatamente, ma nel contesto normativo nel  quale  e'  inserita,
sia  con  riferimento  al  successivo  art.  31-ter  (che  indica  «i
contenuti e la teleologia sottesa alla disciplina delle  attrezzature
di interesse comune per  servizi  religiosi»),  sia  con  riferimento
all'intera legge regionale n.  11  del  2004,  nella  quale  essa  si
innesta (diretta, quest'ultima legge, a «regolamentare globalmente la
materia "governo del  territorio"»).  Dalla  lettura  sistematica  si
comprenderebbe, secondo la resistente, che la disposizione  censurata
attiene  esclusivamente  alla  disciplina  urbanistica,   perseguendo
l'obiettivo di «assicurare uno sviluppo equilibrato ed  armonico  dei
centri abitativi e del  territorio,  regolamentando  nello  specifico
quel fenomeno, di particolare rilievo, che  e'  la  realizzazione  di
attrezzature  di  interesse  comune   per   i   servizi   religiosi».
L'eventuale   effetto   discriminatorio,   paventato   dallo    Stato
ricorrente, si porrebbe ad ogni modo in termini meramente  ipotetici,
«come una possibile eventualita' attuativa».  Di  qui  discenderebbe,
secondo la resistente, la manifesta inammissibilita' della questione. 
    La questione sarebbe, ad ogni modo, infondata nel merito, essendo
le confessioni religiose poste, nella disposizione censurata,  «tutte
sullo stesso piano  senza  che  sia  prevista  alcuna  distinzione  o
differenziazione  discriminatoria  a  seconda  che   si   tratti   di
confessioni che abbiano raggiunto intese con lo  Stato  o  invece  di
confessioni che operino in assenza di intese», conformemente a quanto
affermato dalla recente pronuncia della Corte  costituzionale  n.  63
del 2016. La natura meramente urbanistica della finalita'  perseguita
dalla disposizione censurata escluderebbe la possibilita' di ritenere
il potere affidato alla cura della Regione e dei Comuni  veneti  «uno
strumento che ostacoli  o  comprometta  in  alcun  modo  la  liberta'
religiosa». 
    2.2.- Con  riferimento  alla  seconda  questione,  la  resistente
ritiene  che  essa  debba  essere   dichiarata   inammissibile,   per
genericita' della motivazione, con  riguardo  alla  violazione  degli
artt. 2, 3, 19 e 117, secondo comma, lettera h), Cost., non avendo il
ricorrente spiegato come la previsione di cui all'art.  31-ter  possa
ledere gli invocati parametri costituzionali.  Inoltre,  la  proposta
censura di illegittimita' costituzionale sarebbe frutto,  secondo  la
resistente,  di  un  «evidente  fraintendimento  del   tenore   della
disposizione», la quale non  imporrebbe  l'utilizzo  esclusivo  della
lingua italiana, ma si limiterebbe a prevedere che «in riferimento  a
talune attivita' non afferenti al culto si possa associare alle altre
lingue proprie dello specifico culto, anche la lingua italiana». Tale
previsione avrebbe, secondo la  Regione  Veneto,  natura  e  funzione
sociale,  nel  senso  di  «favorire  l'integrazione  di   tutti   gli
appartenenti alla comunita'», essendo volta non  all'introduzione  di
un limite o un vincolo all'esercizio della liberta' di religione,  ma
al superamento di «una  delle  principali  barriere  sociali,  quella
della lingua,  favorendo  l'integrazione».  La  Regione  ritiene  che
l'art. 31-ter non invada alcuna  competenza  legislativa  statale,  e
comunque non quella di cui all'art. 117, secondo comma,  lettera  h),
Cost.: esso, infatti,  «pur  non  avendo  un  contenuto  strettamente
"urbanistico"», perseguirebbe non finalita' di sicurezza e di  ordine
pubblico, bensi' finalita' di integrazione sociale, che  non  possono
che essere svolte dal  comune,  «quale  soggetto  esponenziale  della
intera comunita', preposto alla cura degli interessi  dei  consociati
con  particolare  riguardo  a  quelli   "sociali"»,   e   che   «solo
indirettamente e mediatamente» possono presentare  «riflessi,  invero
del tutto marginali, in termini di ordine pubblico e sicurezza». 
    3.- Con memoria del 14 febbraio 2017, il Presidente del Consiglio
dei ministri, ribadendo le argomentazioni gia'  svolte  nel  ricorso,
chiede che siano rigettate  le  eccezioni  sollevate  dalla  Regione.
Contrariamente a quanto affermato dalla resistente, la prima censura,
oltre ad essere articolata in modo compiuto e con  ampio  riferimento
alla giurisprudenza  costituzionale  sul  godimento  effettivo  della
liberta' di  culto,  non  sarebbe  formulata  in  termini  ipotetici:
proprio dall'applicazione della disposizione censurata  discenderebbe
la lesione in concreto degli invocati parametri  costituzionali,  non
potendosi prescindere dallo «stretto legame  che  intercorre  tra  la
disponibilita' dei luoghi destinati  al  culto  e  l'esercizio  della
liberta'  religiosa».  La  seconda  censura,  infine,  mirerebbe   ad
accertare  l'illegittimita'  costituzionale   di   una   disposizione
regionale  che,  lungi  dal  perseguire  "finalita'  sociali"  o  dal
"favorire  l'integrazione  sociale",   travalica   in   concreto   le
competenze regionali. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ricorso depositato il 21 giugno 2016 e iscritto al n.  32
del registro ricorsi 2016, il Presidente del Consiglio dei  ministri,
rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  ha
impugnato l'art. 2 della legge della Regione Veneto 12  aprile  2016,
n. 12 (Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n.  11  recante
"Norme per il governo del territorio e in  materia  di  paesaggio"  e
successive modificazioni), che introduce gli artt.  31-bis  e  31-ter
nella legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio), lamentando la violazione degli
artt. 2, 3, 8, 19 e 117,  secondo  comma,  lettere  c)  e  h),  della
Costituzione. 
    1.1.- Il citato art. 31-bis riconosce alla Regione  e  ai  Comuni
veneti,  ciascuno  nell'esercizio  delle  rispettive  competenze,  il
compito di individuare «i criteri e le modalita' per la realizzazione
di  attrezzature  di  interesse  comune  per  servizi  religiosi   da
effettuarsi da  parte  degli  enti  istituzionalmente  competenti  in
materia di culto della Chiesa Cattolica, delle confessioni religiose,
i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'articolo
8,  terzo  comma,  della  Costituzione,  e  delle  altre  confessioni
religiose». La genericita' e l'ambiguita' della formula ivi contenuta
(«i criteri e le modalita' per la realizzazione  di  attrezzature  di
interesse comune per servizi religiosi»)  consentirebbe,  secondo  il
ricorrente,   valutazioni   differenziate,    nonche'    applicazioni
discrezionali  e  potenzialmente  discriminatorie  tra   le   diverse
confessioni in base alla circostanza che esse abbiano o  non  abbiano
regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese, cosi'
ledendo  l'eguale  liberta'  religiosa  di  tutte   le   confessioni,
garantita dagli artt. 3, 8 e 19 Cost. 
    1.2.- L'art. 31-ter, aggiunto alla  legge  regionale  n.  11  del
2004, nel disciplinare gli interventi comunali di urbanizzazione  per
le  aree  e  gli  immobili  da  destinarsi  alla   realizzazione   di
attrezzature di interesse comune per servizi religiosi,  prevede,  al
suo comma 3, che il soggetto richiedente sottoscriva  con  il  Comune
una convenzione contenente un impegno fideiussorio,  e  che  in  tale
convenzione possa, «altresi', essere previsto l'impegno ad utilizzare
la lingua italiana per tutte le attivita' svolte  nelle  attrezzature
di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente
connesse alle pratiche rituali di culto». Tale previsione, secondo il
ricorrente, risulterebbe intrinsecamente  irragionevole  travalicando
le finalita', di natura urbanistica, della convenzione, in violazione
degli artt. 3, 8 e 19 Cost., e determinerebbe da parte della  Regione
un eccesso di  competenza  legislativa,  invadendo  quella  esclusiva
dello Stato, sia in materia di  «rapporti  tra  la  Repubblica  e  le
confessioni religiose» (art. 117, secondo comma, lettera  c,  Cost.),
sia in materia di «ordine pubblico e sicurezza»  (art.  117,  secondo
comma, lettera h, Cost.). 
    2.- La questione avente a oggetto  l'art.  2  della  legge  della
Regione Veneto n. 12 del 2016 nella parte  in  cui  introduce,  nella
legge regionale n. 11 del 2004, l'art. 31-bis  non  e'  fondata,  nei
termini di seguito precisati. 
    2.1.- Nella giurisprudenza costituzionale e' ormai consolidato il
principio per cui la liberta'  religiosa,  di  cui  quella  di  culto
costituisce un aspetto essenziale (artt. 19 e  20  Cost.),  non  puo'
essere subordinata alla stipulazione di intese con lo Stato da  parte
delle confessioni religiose (da ultimo, sentenze n. 63 e  n.  52  del
2016). L'ordinamento repubblicano e' contraddistinto dal principio di
laicita', da intendersi, secondo l'accezione  che  la  giurisprudenza
costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del  2000,
n. 329 del 1997, n.  440  del  1995,  n.  203  del  1989),  non  come
indifferenza dello Stato di fronte all'esperienza  religiosa,  bensi'
come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della
liberta' di tutti, secondo criteri di imparzialita'. Cio' non esclude
la possibilita' che lo Stato regoli bilateralmente, e dunque in  modo
differenziato, i rapporti con le singole confessioni religiose,  come
previsto dagli artt. 7 e 8 Cost., per il soddisfacimento di  esigenze
specifiche, ovvero  per  concedere  particolari  vantaggi  o  imporre
particolari   limitazioni,   o    ancora    per    dare    rilevanza,
nell'ordinamento  dello  Stato,  a  specifici   atti   propri   della
confessione religiosa (da ultimo, sentenze n. 52 e n. 63  del  2016).
Cio' che al legislatore (nazionale e regionale) non e' consentito  e'
«operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla  sola
circostanza che esse abbiano o non abbiamo regolato i  loro  rapporti
con lo Stato tramite accordi o intese» (sentenza  n.  52  del  2016).
Come questa Corte ha recentemente affermato, «altro  e'  la  liberta'
religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro  e'  il  regime
pattizio» (sentenza n. 63 del 2016, con richiamo alla sentenza n.  52
del 2016). 
    Altresi' consolidato e' il principio per cui la disponibilita' di
spazi adeguati ove «rendere concretamente possibile, o comunque [...]
facilitare, le attivita' di culto» (sentenza n. 195 del 1993) rientra
nella tutela di cui all'art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti  il
diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi  forma,
individuale o associata, di  farne  propaganda  e  di  esercitare  in
pubblico o in privato il culto, con il solo limite dei riti  contrari
al buon costume (sentenza n. 63 del 2016). 
    2.2.-  Il  censurato  art.  31-bis,  a   differenza   di   quanto
argomentato dal ricorrente, non si pone in contrasto con i richiamati
principi. 
    Esso, infatti, nel  riconoscere  alla  Regione  e  ai  Comuni  il
compito di individuare i criteri e le modalita' per la  realizzazione
delle attrezzature  religiose,  prende  in  considerazione  tutte  le
diverse  possibili  forme  di  confessione  religiosa  -  la   Chiesa
Cattolica, le confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano
disciplinati ai sensi dell'art. 8, terzo comma,  Cost.,  e  le  altre
confessioni  religiose  -  senza  introdurre  alcuna  distinzione  in
ragione della circostanza che sia stata stipulata  un'intesa  con  lo
Stato. 
    L'indifferenziato riferimento  a  tutte  le  forme  confessionali
rende  palese  la  diversita'  tra  la  disposizione  regionale   ora
censurata e quelle di  altra  Regione  dichiarate  costituzionalmente
illegittime con la sentenza n.  63  del  2016,  nella  parte  in  cui
condizionavano la programmazione e  la  realizzazione  di  luoghi  di
culto alla sussistenza di requisiti differenziati e  piu'  stringenti
per le confessioni religiose senza intesa rispetto alle altre. 
    Nella  disposizione  oggetto  del  presente  giudizio,   non   si
rinvengono elementi che giustifichino  una  interpretazione  tale  da
consentire alla Regione e ai Comuni di realizzare  la  pianificazione
di attrezzature religiose secondo criteri e modalita'  discriminatori
in ragione della presenza  o  meno  dell'intesa  tra  la  confessione
religiosa interessata e lo Stato. Cio' non  esclude  la  possibilita'
che le autorita'  competenti  operino  ragionevoli  differenziazioni.
Come anche recentemente e' stato da questa Corte affermato,  l'eguale
liberta' delle confessioni religiose di organizzarsi e di operare non
implica  che  a  tutte  «debba  assicurarsi  un'eguale  porzione  dei
contributi o degli spazi disponibili: come e' naturale  allorche'  si
distribuiscano utilita' limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la
facolta' di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i  pertinenti
interessi pubblici e si  dovra'  dare  adeguato  rilievo  all'entita'
della presenza sul territorio dell'una o dell'altra confessione, alla
rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze  di  culto
riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63 del 2016). 
    La  paventata  lesione  dei  principi  costituzionali   invocati,
dunque, non discende dal tenore della disposizione censurata in  se',
ma dalle eventuali sue illegittime applicazioni, che potranno  essere
censurate, caso per caso, nelle opportune sedi giurisdizionali. 
    3.- Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha  impugnato,
inoltre, l'art. 2 della legge della Regione Veneto  n.  12  del  2016
nella parte in cui, nell'introdurre nella legge regionale n.  11  del
2004 l'art. 31-ter, prevede, al secondo periodo del suo comma 3,  che
nella convenzione urbanistica stipulata tra il soggetto richiedente e
il comune interessato «puo', altresi', essere previsto  l'impegno  ad
utilizzare la lingua italiana per tutte  le  attivita'  svolte  nelle
attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano
strettamente connesse alle pratiche rituali di culto». 
    3.1.-  Deve  essere  respinta  l'eccezione  di   inammissibilita'
formulata dalla Regione Veneto in  ragione  della  genericita'  delle
censure prospettate dal ricorrente. 
    Sia il ricorso che la memoria depositati dall'Avvocatura generale
dello Stato forniscono i riferimenti normativi necessari e dispiegano
adeguati  percorsi   argomentativi   a   sostegno   della   lamentata
irragionevolezza e violazione sia della liberta' di  culto,  sia  del
riparto di competenze Stato-Regioni, si' da  consentire  l'esame  nel
merito delle questioni prospettate. 
    3.2.- Nel merito, le questioni sono fondate. 
    Il censurato art. 31-ter afferisce alla materia del «governo  del
territorio»,  di  competenza  legislativa   concorrente,   ai   sensi
dell'art.  117,  terzo   comma,   Cost.,   avendo   ad   oggetto   la
pianificazione urbanistica degli edifici adibiti a  luogo  di  culto.
Cio'  risulta  inequivocabilmente  da  diversi  elementi   normativi:
anzitutto, dal punto di vista sistematico, il nuovo  art.  31-ter  si
innesta nel testo  della  legge  urbanistica  della  Regione  Veneto,
trattandosi di una modificazione alla legge regionale n. 11 del 2004;
in secondo luogo, la rubrica  del  censurato  art.  31-ter  e'  cosi'
formulata: «Realizzazione  e  pianificazione  delle  attrezzature  di
interesse comune per servizi religiosi»; infine, dal punto  di  vista
contenutistico, lo stesso articolo prevede una  serie  di  indici  di
inequivoca natura urbanistica - tra i quali: presenza  di  strade  di
collegamento, opere di  urbanizzazione  primaria,  adeguatezza  delle
distanze,  spazi  destinati  al  parcheggio  pubblico  -  che,   come
confermato nell'incipit  dello  stesso  art.  31-ter,  devono  essere
rispettati «[a]l fine di assicurare una adeguata qualita' urbana». 
    La legislazione regionale in materia di edilizia di culto  «trova
la sua ragione e giustificazione - propria della materia  urbanistica
- nell'esigenza di assicurare uno sviluppo  equilibrato  ed  armonico
dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi  di  interesse
pubblico nella loro piu' ampia accezione, che comprende percio' anche
i servizi religiosi (sentenza n. 195 del 1993)» (sentenza n.  63  del
2016). 
    Nell'ambito di questa finalita', si pone la convenzione, prevista
dal comma 3 della disposizione in esame, stipulata  tra  il  soggetto
richiedente  la   realizzazione   dell'attrezzatura   e   il   comune
interessato, necessaria nella fase di applicazione della normativa in
questione.  La  convenzione  deve  percio'   essere   ispirata   alla
finalita',  tipicamente  urbanistica,  di  assicurare   lo   sviluppo
equilibrato e armonico dei centri abitati. 
    3.3.- Alla luce della delimitazione finalistica  della  normativa
de qua, una disposizione, come quella prevista  dal  secondo  periodo
del citato comma 3, che consente all'amministrazione di esigere,  tra
i  requisiti  per  la  stipulazione  della  convenzione  urbanistica,
«l'impegno ad utilizzare la lingua italiana per  tutte  le  attivita'
svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi  religiosi,
che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali  di  culto»
risulta palesemente irragionevole in quanto  incongrua  sia  rispetto
alla finalita' perseguita dalla normativa  regionale  in  generale  -
volta a introdurre «Norme per il governo del territorio e in  materia
di  paesaggio»  -,  sia  rispetto  alla  finalita'  perseguita  dalla
disposizione censurata in particolare - diretta alla «Realizzazione e
pianificazione delle attrezzature di  interesse  comune  per  servizi
religiosi». 
    Non v'e' dubbio che la  Regione  e'  titolata,  nel  regolare  la
coesistenza  dei  diversi  interessi  che   insistono   sul   proprio
territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la  programmazione
e la realizzazione dei luoghi di  culto  e,  nell'esercizio  di  tali
competenze, puo' imporre quelle condizioni e quelle limitazioni,  che
siano strettamente necessarie a garantire le finalita' di governo del
territorio affidate alle sue cure. Tuttavia, la Regione eccede da  un
ragionevole esercizio di tali competenze se, nell'intervenire per  la
tutela di interessi urbanistici, introduce un obbligo,  quale  quello
dell'impiego della lingua italiana, del tutto eccentrico  rispetto  a
tali interessi. 
    A  fronte  dell'importanza  della  lingua  quale   «elemento   di
identita' individuale e collettiva» (da ultimo, sentenza  n.  42  del
2017), veicolo  di  trasmissione  di  cultura  ed  espressione  della
dimensione relazionale della personalita' umana, appare  evidente  il
vizio di una disposizione regionale, come quella  impugnata,  che  si
presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali  della
persona di rilievo costituzionale, in difetto di un  rapporto  chiaro
di  stretta  strumentalita'  e  proporzionalita'  rispetto  ad  altri
interessi  costituzionalmente  rilevanti,  ricompresi  nel  perimetro
delle attribuzioni regionali.