ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 147, quinto
comma, del regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso dal
Tribunale  ordinario  di   Vibo   Valentia,   sezione   civile,   nel
procedimento vertente tra Curatela Fallimento Etty Mancini Moda srl e
E. T. Moda Fashion srl, G. R. in proprio  e  in  qualita'  di  legale
rappresentante dell'omonima impresa  individuale,  con  ordinanza  31
marzo del 2015, iscritta al n.  50  del  registro  ordinanze  2017  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  15,  prima
serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 22 novembre 2017  il  Giudice
relatore Mario Rosario Morelli. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di  una  procedura  fallimentare  relativa  ad  una
societa' a responsabilita' limitata - nel  contesto  della  quale  il
curatore aveva chiesto l'estensione del fallimento nei  confronti  di
altra  societa'  a  responsabilita'  limitata  e   di   una   impresa
individuale, sul presupposto dell'esistenza di una societa' di  fatto
tra tali soggetti - l'adito Tribunale  ordinario  di  Vibo  Valentia,
sezione civile, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata,
in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24,  primo  comma,  della
Costituzione, ed ha per cio' sollevato, con l'ordinanza in  epigrafe,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147, comma 5,  del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del  fallimento,  del
concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
liquidazione coatta amministrativa). 
    Secondo il rimettente, la norma denunciata - nel ricollegare alla
dichiarazione del «fallimento  di  un  imprenditore  individuale»  la
possibilita' del fallimento in estensione di altro soggetto  (persona
fisica o giuridica) che  risulti  socio  (di  fatto)  dell'originario
fallito  -  contrasterebbe,  appunto,  con  gli   evocati   parametri
costituzionali,  nella  parte  in  cui,  nell'ipotesi  di  fallimento
originariamente dichiarato nei confronti (come nella specie)  di  una
societa' di capitali, non ne consentirebbe, invece, la estensione  ad
altri soci di fatto, siano essi persone fisiche o societa'. Con cio',
appunto, innescando una irragionevole disparita' di  trattamento  tra
impresa   individuale   e   societa'   di   capitali   agli   effetti
dell'estendibilita'  del  rispettivo  fallimento  nei   sensi   sopra
indicati, ed arrecando un vulnus  anche  al  diritto  di  difesa  dei
creditori di societa' di capitali che, diversamente dai creditori  di
imprenditori individuali, sarebbero privi di  tutela  ai  fini  della
estendibilita' del fallimento della societa' debitrice ad altri  soci
di fatto della stessa. 
    2.- E'  intervenuto  nel  giudizio  innanzi  a  questa  Corte  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, mediante il quale ha  concluso,
in via principale, per la  declaratoria  di  inammissibilita'  e,  in
linea subordinata, per la non fondatezza della prospettata  questione
incidentale di legittimita' costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La disposizione di cui al  quinto  comma  dell'art.  147  del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del  fallimento,  del
concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
liquidazione coatta amministrativa) - nuovamente portata al vaglio di
questa Corte - testualmente prevede che «Allo stesso modo [e,  cioe',
conformemente a quanto disposto dal comma precedente in  ordine  alla
estendibilita'  del  fallimento  di  societa'  a  quello   dei   soci
illimitatamente responsabili della stessa] si procede,  qualora  dopo
la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti
che l'impresa e' riferibile ad una societa'  di  cui  il  fallito  e'
socio illimitatamente responsabile». 
    2.- Secondo il Tribunale rimettente, detta norma - nella parte in
cui (e per la ragione che) non prevede una corrispondente ipotesi  di
estendibilita'  del  fallimento,   originariamente   dichiarato   nei
confronti di una societa' di capitali, ad altre  societa'  o  persone
fisiche che ne risultino essere soci di fatto - violerebbe l'art.  3,
primo comma, della Costituzione, per l'ingiustificata  disparita'  di
trattamento, che ne deriverebbe, tra impresa individuale  e  societa'
di capitali, agli effetti della estensione del rispettivo  fallimento
ad eventuali soci di fatto. 
    Ne risulterebbe, altresi', un vulnus all'art.  24,  primo  comma,
Cost., per compressione del diritto di  difesa  dei  creditori  della
societa' di fatto, ove questa non sia  assoggettabile  a  fallimento,
per  estensione,  in  consecuzione  al   fallimento   originariamente
dichiarato nei confronti di una  societa'  di  capitali  pur  facente
parte del sodalizio con la prima. 
    3.- Questione identica a  quella  ora  in  esame  e'  gia'  stata
sollevata dal Tribunale ordinario di Bari e, con sentenza n. 276  del
2014, e' stata dichiarata inammissibile, per difetto  di  motivazione
sulla rilevanza e sulla non  manifesta  infondatezza,  anche  per  il
profilo della omessa valutazione degli adempimenti previsti dall'art.
2361,  secondo   comma,   del   codice   civile,   in   ordine   alla
partecipabilita' di societa' di capitale a societa' di fatto. 
    E' stata poi nuovamente  sollevata  dal  Tribunale  ordinario  di
Parma e dal Tribunale ordinario  di  Catania,  e  questa  Corte,  con
ordinanza  n.   15   del   2016,   l'ha   dichiarata   manifestamente
inammissibile (oltre che per reiterate carenze di  motivazione  sulla
rilevanza), rispettivamente, per omissione  (nella  prima  delle  due
ordinanze  di  rimessione)  e  per  «immotivata  esclusione»   (nella
seconda) della  previa  verifica  di  una  possibile  interpretazione
costituzionalmente adeguata della norma censurata. 
    Il Tribunale di Vibo Valentia, odierno  rimettente  -  dopo  aver
preso in esame, ai fini della rilevanza  della  questione,  il  ruolo
degli adempimenti di cui all'art. 2361, secondo comma, cod. civ.  (la
cui omissione ritiene non ostativa ai fini  della  partecipazione  di
una societa' di capitali ad una societa' di fatto) -  affronta  anche
il  problema  dell'eventuale  lettura,  in  senso  costituzionalmente
adeguato, della disposizione sub comma quinto dell'art. 147 del  r.d.
n. 267 del 1942: ma lo risolve in senso negativo. Argomenta, infatti,
che «il ricorso a tale attivita'  interpretativa  e'  precluso  dalla
specialita' della norma de qua rispetto all'art. 1, l.f.». 
    4.- L'effettivo esperimento del tentativo di una  interpretazione
costituzionalmente orientata - ancorche' risolto con  esito  negativo
per l'ostacolo non immotivatamente ravvisato dal giudice a quo  nella
lettera e nella natura della disposizione denunciata -  consente,  in
questo caso, di superare il vaglio di ammissibilita' della  questione
conseguentemente sollevata. 
    5.-  La  correttezza  o  meno   della   esegesi,   non   secundum
Constitutionem,  presupposta  dal  rimettente,  attiene,  invece,  al
merito e, cioe', alla successiva verifica di fondatezza o  non  della
questione stessa. 
    A  tal  riguardo  va  rilevato  che  l'esegesi  estensiva   della
disposizione in esame -  ritenuta  preclusa  dal  Tribunale  di  Vibo
Valentia, ma gia' invece condivisa da parte della  giurisprudenza  di
merito e della dottrina - si  e'  ormai  consolidata  in  termini  di
diritto  vivente  per  effetto  di  alcuni  successivi  e  risolutivi
interventi del giudice della nomofilachia. 
    La Corte di cassazione, sezione prima civile  -  dopo  aver  dato
risposta positiva all'interrogativo  circa  la  fallibilita'  di  una
societa' di capitali, [anche]  a  responsabilita'  limitata,  che  si
accerti essere socia di una societa' di fatto  insolvente,  allorche'
la  partecipazione  sia  stata  assunta  in  mancanza  della   previa
deliberazione assembleare e della successiva indicazione  nella  nota
integrativa al bilancio, richieste  dall'art.  2361,  secondo  comma,
cod. civ. (sentenza 21 gennaio 2016, n. 1095) - ha poi  espressamente
escluso che possa «ammettersi che la societa' di capitali,  la  quale
abbia svolto attivita' di impresa operando in societa' di  fatto  con
altri, possa in seguito sottrarsi alle eventuali conseguenze negative
derivanti dal suo agire (ivi compreso il fallimento per ripercussione
nel caso in cui sia accertata l'insolvenza della societa' di  fatto)»
(sentenza 20 maggio 2016 n. 10507). 
    Ha condivisibilmente  osservato,  infatti,  come  al  riferimento
all'«imprenditore individuale»  vada,  ratione  temporis,  attribuita
«valenza meramente indicativa dello "stato dell'arte"  dell'epoca  in
cui la norma e' stata concepita, che non puo' essere di  ostacolo  ad
una sua  interpretazione  estensiva  che,  tenuto  conto  del  mutato
contesto nel quale essa deve  attualmente  trovare  applicazione,  ne
adegui la portata in senso evolutivo,  includendovi  fattispecie  non
ancora  prospettabili  alla  data  della  sua  emanazione».   Ed   ha
sottolineato come, a contrario,  «un'interpretazione  dell'art.  147,
quinto   comma,   l.   fall.    che    conducesse    all'affermazione
dell'applicabilita'  della  norma  al  solo   caso   (di   fallimento
dell'imprenditore individuale)  in  essa  espressamente  considerato,
risulterebbe  in  contrasto  col  principio  di  uguaglianza  sancito
dall'art. 3 Cost.» (sentenza n. 10507 del 2016 e, sulla stessa linea,
sentenza 13 giugno 2016, n.12120). 
    6.- La disposizione denunciata gia', dunque, vive e  si  riflette
nell'interpretazione, costituzionalmente adeguata,  che  equipara  la
societa'  di  capitali  all'impresa   individuale   ai   fini   della
estendibilita' del  fallimento  agli  eventuali  rispettivi  soci  di
fatto. 
    L'odierna questione, sollevata sulla base di una opposta  esegesi
della norma stessa, va pertanto dichiarata non fondata.