ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 96, terzo
comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale
ordinario di Verona, nel procedimento vertente tra G. L. e il Banco
Popolare societa' cooperativa, con ordinanza del 23 gennaio 2018,
iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale,
dell'anno 2018.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio dell'8 maggio 2019 il Giudice
relatore Giovanni Amoroso.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di
Verona ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile per
contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma, della Costituzione,
nella parte in cui - stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio,
puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore
della controparte, di una somma equitativamente determinata» - non
prevede l'entita' minima e quella massima della somma oggetto della
condanna.
Il giudice, premesso di dover decidere su una domanda di
restituzione di somme percepite a titolo di interessi nel corso di un
rapporto di conto corrente bancario proposta da G. L. nei confronti
del Banco popolare societa' cooperativa, riferisce che «nel caso di
specie, data l'inconsistenza degli assunti attorei, viene in rilievo
il disposto dell'art. 96, terzo comma, codice di procedura civile
introdotto dalla legge n. 69/2009».
Il Tribunale rimettente - ritenendo che il terzo comma dell'art.
96 cod. proc. civ. debba essere letto congiuntamente al primo sul
risarcimento del danno in caso di temerarieta' della lite - ravvisa
la sussistenza di tale presupposto nella palese incompatibilita' tra
la pretesa fatta valere con la citazione e l'impegno assunto con
l'istituto bancario a mezzo del contratto scritto di conto corrente.
In particolare - riferisce il giudice rimettente - l'attore ha
lamentato l'applicazione di interessi passivi ultralegali non
pattuiti, variati unilateralmente in misura superiore al tasso
soglia, nonche' l'utilizzo del criterio della capitalizzazione.
L'istituto convenuto ha invece dimostrato, mediante produzione
documentale, che le condizioni contestate erano state pattuite ed
erano conformi alla delibera del Comitato Interministeriale per il
Credito e il Risparmio (CICR) che individua le modalita' e i criteri
per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere
nell'esercizio dell'attivita' bancaria.
Ricorda, quindi, che la natura prevalentemente sanzionatoria
dell'obbligazione pecuniaria prevista dalla disposizione censurata e'
stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 152 del 2016 e
che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, a loro volta,
riconosciuto, nella sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, la natura
polifunzionale della tutela risarcitoria, caratterizzata da una
finalita' non esclusivamente riparatoria, ma anche sanzionatoria
(cosiddetti danni punitivi). In tale ultima pronuncia e' stato
puntualizzato che «[o]gni imposizione di prestazione personale esige
una "intermediazione legislativa", in forza del principio di cui
all'art. 23 Cost., (correlato agli articoli 24 e 25), che pone una
riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude
un incontrollato soggettivismo giudiziario». Pertanto, «deve esservi
precisa perimetrazione della fattispecie (tipicita') e
puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili
(prevedibilita')».
Alla luce di tali affermazioni, il rimettente osserva che mentre
le condotte che integrano la responsabilita' processuale aggravata
(primo comma dell'art. 96 cod. proc. civ.) risultano sufficientemente
determinate, per contro, le conseguenze che gravano sul soccombente,
ove il giudice faccia applicazione del terzo comma dell'art. 96 cod.
proc. civ., non sono preventivabili, atteso che la norma non indica
l'entita' minima e massima della somma oggetto della condanna; da
cio', la violazione dei parametri indicati, senza che sia possibile
un'interpretazione adeguatrice della norma censurata.
2.- Con atto depositato il 15 gennaio 2019, e' intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni di legittimita' costituzionale siano dichiarate
inammissibili o comunque manifestamente infondate.
In punto di ammissibilita', l'Avvocatura generale rileva che il
Tribunale non ha illustrato i motivi di contrasto della disposizione
impugnata rispetto ai parametri costituzionali invocati.
Nel merito, sostiene che le questioni sarebbero infondate.
Richiama la sentenza n. 152 del 2016 di questa Corte, evidenziando
che la condanna di cui all'art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.
«"[...] e' testualmente (e sistematicamente), inoltre, collegata al
contenuto della "pronuncia sulle spese di cui all'art. 91"; e la sua
adottabilita' "anche d'ufficio" la sottrae all'impulso di parte e ne
conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un
interesse che trascende (o non e', comunque, esclusivamente) quello
della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente
pubblicistici"».
Quanto ai criteri di quantificazione, l'Avvocatura osserva che la
disposizione riconosce al giudice un potere discrezionale, funzionale
alla definizione, caso per caso, dell'entita' della somma oggetto
della condanna. Richiama in particolare la giurisprudenza (Corte di
cassazione, sezione terza civile, sentenza 13 settembre 2018, n.
22272) sulla liquidazione equitativa del danno ai sensi dell'art.
1226 del codice civile.
Considerato in diritto
1.- Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di
Verona ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile per
contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma, della Costituzione,
nella parte in cui - stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio,
puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore
della controparte, di una somma equitativamente determinata» - non
prevede l'entita' minima e quella massima della somma oggetto della
condanna.
Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al
giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare ne' un
massimo ne' un minimo della somma al cui pagamento la parte
soccombente puo' essere condannata, violerebbe la riserva di legge
prescritta dall'art. 23 Cost., nonche' il principio di legalita' di
cui all'art. 25, secondo comma, Cost.
2.- Va preliminarmente respinta l'eccezione di inammissibilita'
sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato.
Il Tribunale rimettente ha puntualmente descritto l'oggetto della
controversia e ha plausibilmente ritenuto che l'azione promossa
dall'attore avesse la connotazione della lite temeraria ai sensi
dell'art. 96, primo comma, cod. proc. civ.
Su questo presupposto di fatto, il Tribunale ritiene di poter
fare applicazione, in particolare, del terzo comma di tale
disposizione che prevede che il giudice, in ogni caso, quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91 cod. proc. civ., puo',
anche d'ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, a
favore della controparte, di una somma equitativamente determinata,
oltre alle spese di lite.
Sussiste, quindi, la rilevanza delle sollevate questioni di
legittimita' costituzionale, avendo il Tribunale puntualmente
motivato in ordine alla ritenuta applicabilita' della disposizione
censurata e sufficientemente argomentato il dubbio di non manifesta
infondatezza delle questioni in ordine ai due invocati parametri.
Parimenti, con motivazione altrettanto plausibile, ha escluso la
possibilita' di un'interpretazione adeguatrice della disposizione
censurata.
Sotto ogni profilo, quindi, le questioni sollevate sono
ammissibili.
3.- E' invece inammissibile la questione sollevata dal giudice
rimettente con riferimento al principio di legalita' di cui all'art.
25, secondo comma, Cost., recante la piu' stringente prescrizione
della riserva di legge, che e' assoluta (sentenza n. 180 del 2018):
parametro questo impropriamente evocato perche' riguarda le sanzioni
penali, nonche' quelle amministrative «di natura sostanzialmente
punitiva» (sentenza n. 223 del 2018) e non gia' prestazioni personali
e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento
l'art. 23 Cost.
L'obbligazione di corrispondere la somma prevista dalla
disposizione censurata, pur perseguendo una finalita' punitiva,
costituendo un «peculiare strumento sanzionatorio» con una
«concorrente finalita' indennitaria» (sentenza n. 152 del 2016), non
identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere
sanzionatorio.
Si tratta invece di un'attribuzione patrimoniale in favore della
parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte
soccombente; prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade
nell'ambito dell'altro parametro evocato dal rimettente, l'art. 23
Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che e' solo
relativa (sentenze n. 269 e n. 69 del 2017, e n. 83 del 2015).
4.- Passando al merito della questione sollevata con riferimento
a tale ultimo parametro, va premesso il contesto normativo in cui si
colloca la disposizione censurata e che concerne il regime della
soccombenza della parte nella lite civile.
L'art. 91 cod. proc. civ. prevede in generale che il giudice, con
la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al
rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquidi
l'ammontare insieme con gli onorari di difesa.
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in
giudizio con mala fede o colpa grave - aggiunge l'art. 96, primo
comma, cod. proc. civ. - il giudice, su istanza dell'altra parte, la
condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che
liquida, anche di ufficio, nella sentenza.
Per lungo tempo il regime della soccombenza si e' retto su questo
doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di lite e
quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite
temeraria.
Nel 2006, in occasione di un intervento riformatore del giudizio
civile di cassazione, il legislatore aveva introdotto, per la prima
volta, una prescrizione inedita a corredo di tale regime della
soccombenza. Infatti, l'art. 385 cod. proc. civ., nel disciplinare le
spese di lite con il richiamo dell'ordinario regime del codice di
rito, aveva previsto, al quarto comma, aggiunto dall'art. 13 del
decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di
procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione
nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della
L. 14 maggio 2005, n. 80), che «[q]uando pronuncia sulle spese, anche
nelle ipotesi di cui all'art. 375, la corte, anche d'ufficio,
condanna, altresi', la parte soccombente al pagamento, a favore della
controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore
al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il
ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave»; disposizione
questa che - «diretta a disincentivare il ricorso per cassazione»
(ordinanza n. 435 del 2008) - era destinata ad avere vita breve
perche' abrogata dall'art. 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009
n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitivita' nonche' in materia di processo civile).
La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare
sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse proposto il ricorso
per cassazione, sia il resistente che parimenti versasse in colpa
grave nel resistere con controricorso; somma che era si' determinata
secondo un criterio equitativo, ma con un limite ben preciso
parametrato al doppio del massimo delle tariffe professionali. In
giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 7
ottobre 2013, n. 22812) si e' qualificata tale somma come «una vera e
propria sanzione processuale dell'abuso del processo perpetrato da
una delle due parti»; abuso che, nella specie, si e' ritenuto
sussistere, ad esempio, nella proposizione di un ricorso
inammissibile perche' tardivo. Le sezioni unite civili (Corte di
cassazione, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2636) hanno fatto
applicazione di tale disposizione in un caso in cui il ricorso era
inammissibile perche' la procura non era stata rilasciata in epoca
anteriore alla notificazione del ricorso. In entrambi questi
precedenti la somma aggiuntiva e' stata determinata secondo un
criterio equitativo si', ma nel rispetto del limite massimo di legge.
5.- Come accennato, nel 2009 tale disposizione e' stata abrogata,
ma contestualmente una norma analoga, seppur non identica, e' stata
prevista nell'ordinaria disciplina delle spese di lite riferita a
tutti i giudizi e non piu' solo al giudizio di cassazione.
E' stato cosi' introdotto, dall'art. 45, comma 12, della legge n.
69 del 2009, il terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ. che - come
gia' ricordato - prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle
spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, puo'
altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della
controparte, di una somma equitativamente determinata».
La funzione di questa somma e' rimasta la stessa di quella
prevista dal quarto comma dell'art. 385 cod. proc. civ.: una sanzione
per l'abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la
condanna di quest'ultima, anche d'ufficio, al pagamento di tale somma
in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal)
risarcimento del danno per lite temeraria.
Pero', rispetto al quarto comma dell'art. 385 cod. proc. civ., il
terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento
differenziale.
Da una parte, non si prevede piu', come presupposto della
condanna, la «colpa grave» della parte soccombente, perche' l'incipit
della disposizione censurata fa riferimento a «ogni caso», scilicet,
di responsabilita' aggravata che, come enunciato nella rubrica della
disposizione, ne costituisce l'oggetto, sicche' devono intendersi
richiamati i presupposti del primo comma: aver la parte soccombente
agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, n. 9912).
D'altra parte, soprattutto rileva, al fine della questione in
esame, che il criterio di quantificazione della somma, oggetto della
possibile condanna, e' rimasto solo equitativo, non essendo piu'
previsto il limite del doppio dei massimi tariffari.
6.- Tale nuova disposizione (art. 96, terzo comma, cod. proc.
civ.) e' stata inizialmente riprodotta - in termini analoghi, anche
se non identici - nell'art. 26, secondo comma, dell'Allegato 1 al
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo
44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per
il riordino del processo amministrativo) che ha parimenti previsto,
nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilita' per il
giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d'ufficio,
la parte soccombente al pagamento in favore dell'altra parte di una
somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione e'
fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali
consolidati. Al pari dell'art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.,
anche l'art. 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo
per la quantificazione della somma suddetta e, inizialmente, non
conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma dell'art. 385
cod. proc. civ.
Cio' e' apparso al legislatore costituire una manchevolezza da
emendare. E' quanto emerge chiaramente dai lavori preparatori del
disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24
giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la
trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari), convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014,
n. 114. Nel parere del Comitato per la legislazione si segnala
l'opportunita' di fissare criteri di quantificazione della somma in
questione. Si ha, allora, che l'art. 41 del d.l. n. 90 del 2014,
recante una disposizione di contrasto dell'abuso del processo, nel
testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato l'art.
26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo del primo comma, nella
formulazione attualmente vigente, prevede che «il giudice, anche
d'ufficio, puo' altresi' condannare la parte soccombente al
pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate,
in presenza di motivi manifestamente infondati».
Mette conto anche ricordare che l'art. 31 del decreto legislativo
26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai
sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), recante
disposizioni per la regolazione delle spese processuali nei giudizi
innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga
a quella censurata: il giudice, quando pronuncia sulle spese, puo'
altresi' condannare la parte soccombente al pagamento in favore
dell'altra parte, o se del caso dello Stato, di una somma
equitativamente determinata, quando la decisione e' fondata su
ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Quanto al processo tributario, l'art. 15, comma 2-bis, del
decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul
processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta
nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel testo da
ultimo sostituito dall'art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del
decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la
revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso
tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1,
lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», prevede che si
applicano le disposizioni di cui all'art. 96, commi primo e terzo,
cod. proc. civ.
Tutte queste disposizioni - che integrano la disciplina delle
spese di lite in sistemi processuali distinti (civile,
amministrativo, contabile, tributario), ma ormai tra loro comunicanti
dopo l'introduzione della translatio iudicii (art. 59 della legge n.
69 del 2009) - seppur declinate con alcune varianti, hanno una
matrice comune: il contrasto dell'abuso del processo, sanzionato, in
particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della
parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata dal
giudice.
7.- Questa obbligazione, che si affianca al regime del
risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria
dell'abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non
disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte
vittoriosa (sentenza n. 152 del 2016). Cio' perche' l'attribuzione
patrimoniale - a differenza di varie altre norme del codice di
procedura civile che sanzionano con pene pecuniarie specifiche
ipotesi di abuso del processo, quali quelle dell'inammissibilita' o
rigetto della ricusazione del giudice (art. 54, terzo comma, cod.
proc. civ.) e dell'arbitro (art. 815, quinto comma, cod. proc. civ.),
o dell'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva o
dell'esecuzione della sentenza impugnata (artt. 283, secondo comma, e
431, quinto comma, cod. proc. civ.), o dell'inammissibilita',
improcedibilita' o rigetto dell'opposizione di terzo (art. 408 cod.
proc. civ.) - e' riconosciuta proprio in favore della parte
vittoriosa, al di la' del danno risarcibile per lite temeraria, e non
gia' - come si sarebbe portati a ritenere - in favore dell'Erario,
benche' sia anche l'amministrazione della giustizia a subire un
pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento.
Questa natura sanzionatoria della previsione censurata risulta,
in tal modo, ibridata da una funzione indennitaria, realizzando
complessivamente un assetto non irragionevole (sentenza n. 152 del
2016).
8.- Cio' premesso, la questione sollevata con riferimento
all'art. 23 Cost. non e' fondata.
9.- Va innanzi tutto precisato che - diversamente da quanto
sembra ritenere l'Avvocatura generale - l'equita', alla quale fa
riferimento la disposizione censurata, non e' assimilabile al
parametro di valutazione, previsto in generale dall'art. 1226 del
codice civile, come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri
legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima
disposizione, se il danno non puo' essere provato nel suo preciso
ammontare, e' liquidato dal giudice con «valutazione equitativa». Si
tratta di un criterio di misurazione di qualcosa (il danno
contrattuale o aquiliano) che esiste nell'an, ma che il danneggiato
non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo
il canone legale degli artt. 1223 e 2056 cod. civ. Puo' supplire
allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale
grandezza predata, quale oggetto di un'obbligazione civile che trova
la sua fonte nella generale disciplina della responsabilita'
contrattuale o extracontrattuale: la valutazione equitativa. Cio' che
peraltro puo' occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno
da lite temeraria, ai sensi del primo comma dell'art. 96 cod. proc.
civ., che ben potrebbe essere determinato con valutazione equitativa
del giudice ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.
Ne', per la stessa ragione, la norma censurata e' assimilabile
alla «valutazione equitativa delle prestazioni» ai sensi dell'art.
432 cod. proc. civ., che parimenti presuppone che sia certo il
diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta dalla parte
obbligata. Analoga puo' essere la valutazione equitativa del giudice
nel caso di accoglimento dell'azione di classe prevista dall'art.
140-bis, comma 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206
(Codice del consumo, a norma dell'articolo 7 della legge 29 luglio
2003, n. 229).
Invece, il terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ, disposizione
censurata, prevede che e' il giudice a determinare l'an e il quantum
della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, gia'
obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al
risarcimento (integrale) del danno da lite temeraria. La valutazione
equitativa del giudice non si limita a quantificare una grandezza
predata, ma da' vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una
prestazione patrimoniale ulteriore e distinta.
10.- Ne' tanto meno si tratta di una pronuncia "secondo equita'",
alternativa, in via derogatoria, alla pronuncia "secondo diritto",
quale quella di cui all'art. 113 cod. proc. civ., ovvero quella
richiesta dalle parti in caso di diritti disponibili ai sensi
dell'art. 114 cod. proc. civ.
In tal caso l'equita' viene in rilievo come canone di giudizio
per la decisione della lite. E' questo, in generale, il parametro
valutativo che il giudice di pace e' chiamato a utilizzare per la
decisione di controversie di minor valore; parametro che peraltro
deve ritenersi necessariamente integrato dai «principi informatori
della materia» (sentenza n. 206 del 2004), divenuti «principi
regolatori della materia» (art. 339, terzo comma, cod. proc. civ.)
dopo la gia' citata riforma processuale del 2006.
Anche la decisione degli arbitri puo' essere pronunciata secondo
equita' (art. 822 cod. proc. civ.), mentre le regole di diritto
relative al merito della controversia vengono in rilievo,
all'opposto, solo se espressamente previste dalle parti, nel
compromesso o nella clausola compromissoria, o dalla legge (art. 829,
terzo comma, cod. proc. civ.).
Ma in tutte queste ipotesi l'equita' come canone di giudizio non
da' luogo ad alcuna nuova prestazione patrimoniale, differentemente
dalla disposizione attualmente censurata.
Parimenti su un piano diverso operano le misure di coercizione
indiretta, quale quella di cui all'art. 614-bis cod. proc. civ., che
prevede che il giudice fissa, su richiesta della parte, la somma di
denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza
successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento,
dove peraltro rileva, all'opposto, un criterio di non manifesta
iniquita' della somma cosi' determinata.
In breve, nel terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ., oggetto
della questione in esame, l'equita' - lungi dall'essere criterio di
misurazione di una grandezza predata ovvero parametro di giudizio
alternativo alle regole di diritto o astreinte processuale -
costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale
consistente - com'e' appunto nella norma censurata - in una
prestazione patrimoniale imposta in base alla legge.
Viene allora in rilievo la riserva (relativa) di legge di cui
all'art. 23 Cost., parametro correttamente evocato dal giudice
rimettente nel solco della gia' richiamata pronuncia delle sezioni
unite della Corte di cassazione (Cassazione, sezioni unite civili, 5
luglio 2017, n.16601).
11.- Con riferimento a tale parametro va ribadito il principio
secondo cui «[l]a riserva di legge, di carattere relativo, prevista
dall'art. 23 Cost. non consente di lasciare la determinazione della
prestazione imposta all'arbitrio dell'ente impositore, ma solo di
accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie. La
fonte primaria non puo' quindi limitarsi a prevedere una prescrizione
normativa "in bianco", genericamente orientata ad un
principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei
contenuti e modi dell'azione amministrativa limitativa della sfera
generale di liberta' dei cittadini, ma deve invece stabilire
sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, idonei
a delimitare la discrezionalita' dell'ente impositore nell'esercizio
del potere attribuitogli, richiedendosi in particolare che la
concreta entita' della prestazione imposta sia desumibile chiaramente
dai pertinenti precetti legislativi» (sentenza n. 69 del 2017).
Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta
dall'art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca
sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina,
richiedendosi in particolare che la concreta entita' della
prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (sentenze
n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011).
Numerose sono le pronunce di illegittimita' costituzionale di
prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei criteri
per la loro quantificazione (ex plurimis, sentenze n. 174 del 2017,
n. 83 del 2015, n. 33, n. 32 e n. 22 del 2012).
Si tratta pero' di fattispecie di prestazioni varie,
essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata
rimessa all'autorita' amministrativa.
Invece, l'art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al
giudice, nell'esercizio della sua funzione giurisdizionale, il
compito di quantificare la somma da porre a carico della parte
soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un
criterio equitativo. Il legislatore, esercitando la sua
discrezionalita' particolarmente ampia nella conformazione degli
istituti processuali (ex plurimis, sentenza n. 225 del 2018), ha
fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell'attivita' maieutica
di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di
cassazione (sentenza n. 102 del 2019), puo' specificare - cosi' come
ha gia' fatto - il precetto legale.
Si ha, infatti, che nella fattispecie, la giurisprudenza di
legittimita', anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo
comma dell'art. 96 cod. proc. civ., rinviando all'equita', richiama
il criterio di proporzionalita' secondo le tariffe forensi e quindi
la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei
compensi liquidabili in relazione al valore della causa» (Corte di
cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177
e n. 25176).
Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla
giurisprudenza, e' peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello
originariamente previsto dal quarto comma dell'art. 385 cod. proc.
civ. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari),
sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell'art. 26 cod.
proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese
di lite liquidate secondo le tariffe professionali).
Puo' dirsi, pertanto, che la somma al cui pagamento il giudice
puo' condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa
ha sufficiente base legale e quindi - ferma restando la
discrezionalita' del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in
diminuzione, la sua quantificazione - e' comunque rispettata la
prescrizione della riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost.