ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  576  del
codice di procedura  penale,  promosso  dalla  Corte  di  appello  di
Venezia, nel procedimento penale a carico di U. Z., con ordinanza del
9 gennaio 2018, iscritta al n. 115  del  registro  ordinanze  2018  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  36,  prima
serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  3  aprile  2019  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 9  gennaio  2018,  la  Corte  d'appello  di
Venezia  ha  sollevato  questioni  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 576 del codice di procedura penale,  «nella  parte  in  cui
prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziche'
al giudice civile impugnazione ai soli effetti della  responsabilita'
civile  contro  la  sentenza  di  proscioglimento   pronunciata   nel
giudizio». 
    La Corte  rimettente  assume  che  la  disposizione  si  pone  in
contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,  «perche'   l'attuale
attribuzione  altera  significativamente,  con  palese   assenza   di
razionale giustificazione, lo svolgimento della essenziale propria  e
naturale  funzione  del  giudice  penale  dell'impugnazione  per   la
deliberazione  nel  merito  sul  contenuto  della  pretesa   punitiva
pubblica», e con l'art. 111, secondo  comma,  Cost.,  nonche'  con  i
«principi   costituzionali   di   efficienza   ed   efficacia   della
giurisdizione» perche' la cognizione «su meri interessi  civili,  per
la quale vi e' gia'  sede  autonoma  adeguata  efficace  e  propria»,
aggravando il lavoro del giudice  penale  d'appello,  gia'  impegnato
nella definizione di un elevatissimo numero di processi, da' luogo  a
un'irragionevole protrazione della durata dei processi. 
    Premette la Corte di  dover  decidere  sull'appello  con  cui  la
societa' STUDIO ULM srl, parte civile nel processo di primo grado, ha
impugnato la sentenza di  assoluzione  per  insussistenza  del  fatto
pronunciata dal Tribunale ordinario di Treviso nei  confronti  di  U.
Z., imputato dei reati previsti dagli artt. 615-ter (Accesso  abusivo
ad un sistema informatico o telematico) e  615-quater  (Detenzione  e
diffusione abusiva di codici  di  accesso  a  sistemi  informatici  o
telematici) del codice penale. 
    Osserva il Collegio che la  norma  censurata  e'  frutto  di  una
scelta compiuta  dal  legislatore  con  l'emanazione  del  d.P.R.  22
settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale),
in un contesto assai diverso da quello odierno e in  una  prospettiva
di razionalizzazione del sistema che, alla prova dei fatti, non si e'
realizzata nei termini auspicati. Infatti, gli effetti deflattivi che
la riforma perseguiva non si sono verificati e il numero dei processi
pendenti dinanzi alle corti d'appello e' sensibilmente aumentato. 
    Secondo la Corte  rimettente  tale  situazione  e'  imputabile  a
plurime ragioni strutturali. 
    In primo luogo, con l'abolizione  della  figura  del  pretore  ad
opera del decreto legislativo 19  febbraio  1998,  n.  51  (Norme  in
materia di istituzione del giudice unico di primo grado),  i  giudizi
di secondo grado, per i quali era competente il tribunale, sono stati
devoluti  alla  competenza  delle   corti   d'appello,   aggravandone
notevolmente il carico di lavoro. 
    Per altro verso, la convinzione  che,  con  l'avvento  del  nuovo
codice di procedura penale,  i  processi  sarebbero  stati  definiti,
prevalentemente, mediante  il  ricorso  ai  riti  alternativi  si  e'
rivelata inesatta. L'effetto deflattivo dei riti alternativi  non  ha
risposto alle aspettative. 
    A cio' si aggiunge  che  il  giudizio  d'appello,  non  di  rado,
implica   la   necessita'   della    rinnovazione    dell'istruttoria
dibattimentale. Infatti, in armonia con  le  indicazioni  provenienti
dalla giurisprudenza di legittimita', confortate dal dato  normativo,
l'istruttoria dev'essere rinnovata quando, a fronte dell'impugnazione
di una sentenza  di  proscioglimento,  l'eventuale  accoglimento  dei
motivi  d'appello  e'  subordinato  a  una  rivalutazione  di   prove
dichiarative; cio' finanche nei casi in cui in  primo  grado  si  sia
proceduto con rito abbreviato non condizionato. 
    La concomitanza di queste circostanze, che mal si  coniugano  con
l'attribuzione al giudice penale di  una  competenza  circoscritta  a
questioni inerenti la sola responsabilita' civile, ha determinato  un
progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi. 
    Questa conseguenza ha  contribuito  ulteriormente  all'incremento
del contenzioso, incoraggiando, soprattutto  per  i  reati  di  minor
gravita', le impugnazioni finalizzate al raggiungimento  del  termine
di prescrizione. 
    Per fronteggiare questa emergenza, i giudici tendono  a  dare  la
precedenza ai processi per i quali e' piu' accentuato il  rischio  di
prescrizione, posponendo  quelli  aventi  a  oggetto  meri  interessi
civili. Ne discende che per questi  ultimi  i  tempi  di  definizione
risultano maggiori rispetto sia agli  altri  processi  penali  sia  a
quelli di un ordinario giudizio civile. 
    Alla luce di tali considerazioni, la  Corte  rimettente  sostiene
che, nell'attuale contesto, la scelta  operata  dal  legislatore  nel
1988 non risponde piu' a criteri di  razionalita'  e  ragionevolezza.
Dunque, «attribuire oggi al giudice penale, ed  in  particolare  alla
Corte d'appello penale, anziche' al  giudice  civile,  la  cognizione
delle impugnazioni della sola parte civile  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento costituisce scelta in atto manifestamente irrazionale
e oggi del tutto priva di alcuna giustificazione». 
    La norma, insomma, sarebbe divenuta anacronistica,  inadeguata  e
disfunzionale. Del resto, prosegue il collegio, e' ben possibile  che
una disposizione, inizialmente in sintonia con  la  Costituzione,  si
riveli irragionevole a seguito del mutamento del quadro settoriale in
cui essa e' destinata a operare. 
    La  Corte  d'appello  di  Venezia  sviluppa,  poi,  un  ulteriore
argomento, di carattere sistematico, evidenziando  che  l'ordinamento
gia' contempla il passaggio dal settore penale al settore civile  del
procedimento che  abbia  per  oggetto  residuo  la  sola  valutazione
relativa alla sussistenza della responsabilita'  civile.  L'art.  622
cod. proc. pen., in particolare, stabilisce che,  fermi  gli  effetti
penali  della  sentenza,  la  Corte  di  cassazione,  se  ne  annulla
solamente le disposizioni o i capi  che  riguardano  l'azione  civile
ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro  la  sentenza
di proscioglimento dell'imputato, rinvia quando  occorre  al  giudice
civile  competente  per  valore  in  grado  di  appello,   anche   se
l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.  Anche  nel
caso in cui il giudice d'appello dichiari non doversi  procedere  per
intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia) senza
motivare in ordine alla responsabilita' dell'imputato ai  fini  delle
statuizioni  civili,  l'eventuale  accoglimento   del   ricorso   per
cassazione,  proposto  dall'imputato,  impone  l'annullamento   della
sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in  grado
di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen. 
    La Corte veneta,  inoltre,  sostiene  che  il  trasferimento  del
giudizio dinanzi al giudice civile avrebbe un effetto vantaggioso per
la parte civile, considerando la piena utilizzabilita' in sede civile
del materiale probatorio acquisito nel processo penale. 
    2.- Con atto depositato il 2  ottobre  2018,  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. 
    In punto di ammissibilita', l'Avvocatura generale rileva  che  il
giudice a quo ha invocato una pronuncia  manipolativa  indicando  una
soluzione non costituzionalmente obbligata  in  una  materia,  quella
degli  istituti  processuali,  riservata  alla  discrezionalita'  del
legislatore. 
    Inoltre, la Corte  rimettente  non  avrebbe  considerato  che  il
giudizio civile ha carattere accessorio rispetto a  quello  penale  e
che la deroga al principio generale di separazione  e  autonomia  dei
giudizi prevista dall'art. 576 cod. proc.  pen.  si  giustifica  alla
luce degli effetti preclusivi che, ai sensi dell'art. 652 cod.  proc.
pen., la sentenza penale irrevocabile spiega nel  giudizio  civile  e
dell'esigenza del giudice di secondo grado di valutare, sia  pure  ai
soli effetti civili, la sussistenza degli  elementi  di  colpevolezza
enunciati nel capo di imputazione. 
    Pone, poi, in rilievo che l'auspicato  trasferimento  dell'azione
risarcitoria al giudice civile  incrementerebbe  il  carico  pendente
dinanzi ai tribunali civili, il  cui  impegno  non  e'  meno  oneroso
rispetto a quello delle  corti  penali,  riproponendo,  almeno  sotto
questo profilo, il problema in termini pressoche' equivalenti. 
    3.- Con memoria depositata il 13 marzo 2019,  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri ha sviluppato le proprie  difese,  richiamando
gli orientamenti  della  giurisprudenza  costituzionale  in  tema  di
discrezionalita' della scelta  di  sistema  operata  dal  legislatore
nella definizione del rapporto tra azione  penale  e  azione  civile,
nonche' in tema di inammissibilita' delle questioni volte a  ottenere
pronunce manipolative con petitum non costituzionalmente obbligato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 9  gennaio  2018,  la  Corte  d'appello  di
Venezia  ha  sollevato  questioni  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 576 del codice di procedura penale,  «nella  parte  in  cui
prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziche'
al giudice civile impugnazione ai soli effetti della  responsabilita'
civile  contro  la  sentenza  di  proscioglimento   pronunciata   nel
giudizio». 
    Il giudice rimettente sospetta la violazione  dell'art.  3  della
Costituzione     «perche'     l'attuale      attribuzione      altera
significativamente, con palese assenza di razionale  giustificazione,
lo svolgimento della  essenziale  propria  e  naturale  funzione  del
giudice penale dell'impugnazione per la deliberazione nel merito  sul
contenuto della pretesa punitiva pubblica». 
    Inoltre, sarebbe violato anche l'art. 111, secondo comma,  Cost.,
nonche' i «principi costituzionali di efficienza ed  efficacia  della
giurisdizione», perche' la cognizione «su meri interessi civili,  per
la quale vi e' gia'  sede  autonoma  adeguata  efficace  e  propria»,
aggravando il lavoro del giudice  penale  d'appello,  gia'  impegnato
nella definizione di un elevatissimo numero di processi, da' luogo  a
un'irragionevole protrazione della loro durata. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale per
aver il rimettente richiesto una pronuncia manipolativa indicando una
soluzione non costituzionalmente  obbligata  in  una  materia,  quale
quella degli istituti processuali,  riservata  alla  discrezionalita'
del legislatore. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Deve ribadirsi che «l'ordinanza di rimessione delle questioni  di
legittimita' costituzionale non necessariamente deve concludersi  con
un dispositivo recante altresi' un petitum, essendo  sufficiente  che
dal tenore complessivo della  motivazione  emerga  con  chiarezza  il
contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 175 del 2018). Cio'
anche con riferimento alla materia  processuale,  essendosi  ritenuta
sufficientemente determinata nel suo  verso  una  censura  diretta  a
eliminare l'interferenza del  codice  di  autoregolamentazione  delle
astensioni  dalle  udienze  degli  avvocati  nella  disciplina  della
liberta' personale (sentenza n. 180 del 2018). 
    Nella fattispecie, la Corte d'appello, investita con impugnazione
della  sola  parte  civile  avverso  la   sentenza   di   assoluzione
dell'imputato per insussistenza del fatto, si duole, nella  sostanza,
dell'attribuzione, sempre e solo  alla  giurisdizione  penale,  della
cognizione dell'impugnazione proposta dalla  parte  civile  ai  sensi
della disposizione censurata (art. 576 cod. proc. pen.); attribuzione
ritenuta irragionevole e ingiustificata, allorche', in una situazione
in cui la vicenda penale in senso stretto  si  e'  esaurita  con  una
pronuncia,  non  impugnata   dal   pubblico   ministero,   pienamente
favorevole all'imputato, impone al giudice penale di esaminare i soli
profili civilistici della pretesa restitutoria o  risarcitoria  della
parte civile, che invece meglio  potrebbero  essere  valutati  da  un
giudice civile. In tale situazione, l'esercizio  della  giurisdizione
penale - secondo la Corte rimettente - dovrebbe  essere  esclusa,  in
termini di inammissibilita' dell'impugnazione ex art. 576 cod.  proc.
pen.,   o   comunque   ridimensionata   a   favore    dell'ipotizzato
riconoscimento della facolta'  di  impugnazione  della  parte  civile
innanzi al giudice civile. 
    E',  quindi,  ben  chiaro  il  verso  delle  censure,  che  sono,
pertanto, pienamente ammissibili. 
    3.- Nel merito, le questioni non sono  fondate  nei  termini  che
seguono. 
    4.- Va innanzi tutto ribadito che nel  processo  penale  l'azione
civile «assume carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione
penale, sicche' e' destinata a subire  tutte  le  conseguenze  e  gli
adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura  del  processo
penale,  cioe'  dalle  esigenze,  di  interesse  pubblico,   connesse
all'accertamento dei reati e alla rapida  definizione  dei  processi»
(ex plurimis, sentenza n. 12 del 2016); l'assetto generale del  nuovo
processo penale e' ispirato all'idea della separazione  dei  giudizi,
penale  e  civile,  essendo  prevalente,  nel  disegno  del   codice,
l'esigenza di speditezza e  di  sollecita  definizione  del  processo
penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato  di  esperire
la propria azione nel processo medesimo.  Sicche'  «l'idea  di  fondo
sottesa alla nuova codificazione [...]  e'  che  la  costituzione  di
parte civile non dovesse essere comunque "incoraggiata"» (sentenza n.
12 del 2016). 
    Tale connotazione  di  separatezza  e  accessorieta'  dell'azione
civile secondo la sede, civile o penale, in cui e'  proposta,  emerge
dal complessivo sistema normativo che ne regola l'esercizio. 
    Innanzi tutto, il giudizio avente a oggetto le restituzioni o  il
risarcimento del danno, ove promosso nella sua sede  propria,  quella
civile, prosegue autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del
processo penale (art. 75,  comma  2,  cod.  proc.  pen.),  mentre  la
sospensione rappresenta l'eccezione,  che  opera  nei  limitati  casi
previsti dall'art. 75,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  Soprattutto  la
separatezza  dei  due  giudizi  emerge   in   termini   netti   dalla
prescrizione di carattere generale dell'art. 652, comma 1, cod. proc.
pen. che esclude l'efficacia (di giudicato) della sentenza penale  di
assoluzione nel giudizio civile o  amministrativo  di  danno  ove  il
danneggiato dal reato abbia esercitato  l'azione  in  sede  civile  a
norma dell'art. 75, comma 2, cod. proc. pen. 
    Invece, l'esercizio, nel giudizio penale, del diritto della parte
civile  alla  restituzione  o  al  risarcimento  del  danno,   avendo
carattere  accessorio,  ha  un  orizzonte  piu'  limitato,   di   cui
quest'ultima non puo' non essere consapevole nel momento in cui  opta
per  far  valere  le  sue  pretese  civilistiche  nella  sede  penale
piuttosto che in quella civile. Nel fare questa  opzione  l'eventuale
«impossibilita' di ottenere una decisione sulla domanda  risarcitoria
laddove  il  processo  penale  si  concluda  con  una   sentenza   di
proscioglimento per qualunque causa  (salvo  che  nei  limitati  casi
previsti dall'art. 578 cod. proc. pen.) costituisce [...]  uno  degli
elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel  quadro  della
valutazione comparativa dei vantaggi  e  degli  svantaggi  delle  due
alternative che gli sono offerte» (sentenza n. 12 del 2016). 
    Il fulcro di questo sistema  e'  imperniato  sull'art.  538  cod.
proc.  pen.:  il  giudice  penale  decide  sulla   domanda   per   le
restituzioni e il risarcimento del danno se - e solo se  -  pronuncia
sentenza di condanna dell'imputato,  soggetto  debitore  quanto  alle
obbligazioni  civili.  Il  giudice  penale,  neppure  quando   emette
sentenza di assoluzione dell'imputato in quanto  non  imputabile  per
vizio totale di mente, puo' pronunciarsi distintamente sulle  pretese
restitutorie  o  risarcitorie  della  costituita  parte  civile.   E'
sufficiente ricordare in  proposito  il  principio,  affermato  dalle
sezioni unite della Corte  di  cassazione,  secondo  cui  il  giudice
dinanzi al  quale  sia  stata  impugnata  una  sentenza  di  condanna
relativa a reato successivamente  abrogato,  nel  dichiarare  che  il
fatto non e' piu' previsto dalla  legge  come  reato,  deve  revocare
anche i capi della  sentenza  che  concernono  gli  interessi  civili
proprio perche' questi non possono non accompagnarsi a una  pronuncia
di condanna dell'imputato (Corte di cassazione, sezioni unite penali,
sentenza 29 settembre-7 novembre 2016, n. 46688). 
    Cio'  conferma  il   carattere   accessorio   di   tali   pretese
civilistiche,  quando  fatte   valere   nella   sede   penale.   Solo
eccezionalmente era stato previsto, dall'art. 577  cod.  proc.  pen.,
che la persona offesa,  costituita  parte  civile,  potesse  proporre
impugnazione  anche  agli  effetti  penali  contro  le  sentenze   di
proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione  (sentenza  n.
474 del 1993); facolta' questa che l'art. 9, comma 1, della legge  20
febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice  di  procedura  penale,  in
materia di inappellabilita' delle sentenze  di  proscioglimento),  ha
abrogato. Invece, la contestuale eliminazione nell'art. 576, comma 1,
cod. proc. pen., delle parole «con il mezzo previsto per il  pubblico
ministero», a opera dell'art. 6, lettera a), della stessa legge, che,
all'art. 1, aveva escluso che il pubblico ministero potesse appellare
contro le sentenze di proscioglimento - prima che  tale  disposizione
fosse  dichiarata  costituzionalmente  illegittima  da  questa  Corte
(sentenza n. 26 del 2007) - non ha avuto  l'effetto  di  limitare  la
facolta' della parte civile di proporre appello, agli  effetti  della
responsabilita'  civile,  contro  la  sentenza   di   proscioglimento
pronunciata nel giudizio di primo grado (ordinanza n.  32  del  2007;
Corte di cassazione,  sezioni  unite  penali,  sentenza  29  marzo-12
luglio 2007, n. 27614). 
    Alla regola generale dell'art. 538 cod. proc. pen., pero', l'art.
578 cod. proc. pen. introduce una  deroga.  Se  il  giudice  (penale)
dell'impugnazione   perviene    a    una    pronuncia    dichiarativa
dell'estinzione del reato per amnistia o  per  prescrizione,  non  di
meno decide sull'impugnazione, ai soli effetti delle  disposizioni  e
dei capi della sentenza che concernono gli interessi  civili,  quando
nei confronti dell'imputato e' stata pronunciata -  con  la  sentenza
impugnata - la condanna,  anche  generica,  alle  restituzioni  o  al
risarcimento dei danni cagionati  dal  reato  a  favore  della  parte
civile. 
    Inoltre, in sede di giudizio di  cassazione,  quando,  infine,  i
gradi  di  merito  sono  esauriti,  la   cognizione   delle   pretese
restitutorie o risarcitorie della parte civile puo'  essere,  a  quel
punto, devoluta al giudice civile. Infatti,  l'art.  622  cod.  proc.
pen. prescrive che la Corte di cassazione, se  annulla  solamente  le
disposizioni o i  capi  che  riguardano  l'azione  civile  ovvero  se
accoglie  il  ricorso  della  parte  civile  contro  la  sentenza  di
proscioglimento dell'imputato, rinvia,  quando  occorre,  al  giudice
civile  competente  per  valore  in  grado  di  appello,   anche   se
l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. 
    5.- In questo sistema complessivo, retto da una regola (art.  538
cod. proc. pen.) declinata con eccezioni (artt. 578 e 622 cod.  proc.
pen.),  la  disposizione  censurata  (art.  576  cod.   proc.   pen.)
costituisce uno snodo centrale nel regime delle impugnazioni. Se c'e'
stata non gia' la condanna, ma il proscioglimento dell'imputato,  che
preclude  la  strada  al  possibile  riconoscimento   delle   pretese
restitutorie e risarcitorie della parte civile, la legittimazione  di
quest'ultima a proseguire il giudizio non  e'  illimitata:  la  parte
civile puo' proporre impugnazione, agli effetti della responsabilita'
civile, contro la sentenza di proscioglimento,  solo  se  pronunciata
nel giudizio (ovvero anche a seguito di giudizio abbreviato quando la
parte civile ha consentito questo rito). 
    Il comune fondamento dell'ammissibilita'  delle  impugnazioni  si
rinviene nel canone generale dell'art. 568, comma 4, cod. proc.  pen.
che prescrive che per  proporre  impugnazione  e'  necessario  avervi
interesse. Anche la parte civile, per poter  proporre  l'impugnazione
ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., deve  avervi  interesse,  nel
senso che deve mirare a conseguire un risultato utile o a evitare  un
pregiudizio che altrimenti le deriverebbe dalla pronuncia impugnata. 
    6.- In proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione  e'
gia'   intervenuta   limando   e   puntualizzando    l'ammissibilita'
dell'impugnazione della parte civile in alcune ipotesi  ricadenti,  o
no, nella fattispecie tipica del censurato art. 576 cod. proc. pen. 
    Componendo un  contrasto  di  giurisprudenza,  le  Sezioni  unite
penali hanno affermato che la parte civile e' priva  di  interesse  a
proporre  impugnazione  avverso  la   sentenza   di   proscioglimento
dell'imputato per  l'improcedibilita'  dell'azione  penale  dovuta  a
difetto di querela,  osservando  che,  in  mancanza  di  gravame  del
pubblico ministero della sentenza di proscioglimento per mancanza  di
querela, l'accertamento  circa  la  sussistenza,  o  meno,  dell'atto
condizionante la procedibilita' penale non influisce  in  alcun  modo
sulla   posizione   processuale   del   danneggiato,   nell'esercizio
dell'azione intesa ad affermare la responsabilita' civile dell'autore
dell'illecito  e  la  sua  obbligazione  di  risarcimento  del  danno
procurato (Corte di cassazione, sezioni  unite  penali,  sentenza  21
giugno-17 settembre 2012, n. 35599). 
    Parimenti  -  si  e'  gia'  ricordato   -   e'   stato   ritenuto
inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso  per
cassazione proposto dalla  parte  civile,  ai  soli  effetti  civili,
avverso  una  sentenza  di  assoluzione  per  un  reato  abrogato   e
qualificato  come  illecito  civile  da  una  normativa  sopravvenuta
(Cass., sez. un. pen., n. 46688 del 2016). 
    Altresi', si e' ritenuta inammissibile l'impugnazione della parte
civile quando la sentenza  di  proscioglimento,  pur  pronunciata  in
giudizio a seguito di dibattimento, si fondi - ai sensi dell'art.  35
del decreto legislativo 28 agosto 2000, n.  274  (Disposizioni  sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della
legge  24  novembre  1999,  n.  468)  -  sulla  condotta  riparatoria
dell'imputato (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 2
dicembre 2016-12 gennaio 2017, n. 1359). Cio' perche'  tale  sentenza
non riveste  autorita'  di  giudicato  nel  giudizio  civile  per  le
restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto,
alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (Corte
di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 15 gennaio-30  gennaio
2015, n. 4610). 
    Invece, si e' ritenuto che il giudice di appello, nel  dichiarare
l'estinzione  del  reato  per  prescrizione   o   per   amnistia   su
impugnazione,  anche  ai  soli  effetti  civili,  della  sentenza  di
assoluzione a opera della parte civile, puo' condannare l'imputato al
risarcimento dei danni in favore di quest'ultima, la cui impugnazione
e' pertanto ammissibile,  atteso  che  l'art.  576  cod.  proc.  pen.
conferisce al giudice dell'impugnazione il  potere  di  decidere  sul
capo della sentenza anche in mancanza di una  precedente  statuizione
sul punto (Corte di cassazione, sezioni  unite  penali,  sentenza  11
luglio-19 luglio 2006, n. 25083). 
    Da ultimo, la giurisprudenza ha ritenuto che «nei confronti della
sentenza di primo grado  che  dichiari  l'estinzione  del  reato  per
intervenuta prescrizione, cosi' come contro la  sentenza  di  appello
che tale decisione abbia confermato, e' ammessa l'impugnazione  della
parte civile che lamenti l'erronea applicazione  della  prescrizione»
(Corte di cassazione,  sezioni  unite  penali,  sentenza  28  marzo-3
luglio 2019, n. 28911). 
    7.-   Con   riferimento   a    questo    quadro    normativo    e
giurisprudenziale,  le  questioni  sollevate  dalla  Corte  d'appello
rimettente, in relazione ai due evocati parametri  (artt.  3  e  111,
secondo comma, Cost.,  in  cui  puo'  ritenersi  contenuto  anche  il
generico riferimento ai «principi  costituzionali  di  efficienza  ed
efficacia  della  giurisdizione»),  convergono  verso   una   censura
unitaria:  la  legittimazione  della  parte  civile  a  impugnare  la
sentenza di proscioglimento, che gia'  l'art.  576  cod.  proc.  pen.
condiziona  al  presupposto  che  essa  sia  stata  «pronunciata  nel
giudizio», dovrebbe essere ulteriormente limitata - secondo la  Corte
rimettente - quando  la  vicenda  penale  in  senso  stretto  si  sia
esaurita (nel senso dell'irrevocabilita' della pronuncia assolutoria)
e rimanga, nella sostanza,  solo  una  controversia  civile,  talche'
l'impugnazione dovrebbe potersi porre al giudice civile piuttosto che
al giudice penale. 
    Ma, in disparte le oscillazioni giurisprudenziali di  cui  si  e'
detto al precedente punto 6, si ha che  nella  fattispecie  la  Corte
d'appello rimettente non dubita affatto  della  legittimazione  della
parte  civile  a  proporre  l'impugnazione.  E'  allora   sufficiente
rilevare che, del  tutto  coerentemente  con  il  descritto  impianto
complessivo del  regime  dell'impugnazione  della  parte  civile,  il
legislatore non ha derogato al criterio per  cui,  essendo  stata  la
sentenza di primo grado pronunciata  da  un  giudice  penale  con  il
rispetto  delle  regole  processualpenalistiche,  anche  il  giudizio
d'appello e' devoluto a un giudice penale (quello  dell'impugnazione)
secondo le norme dello stesso codice di rito. 
    E,  infatti,  il  giudice  dell'impugnazione,  lungi  dall'essere
distolto  da  quella  che  e'  la  finalita'  tipica  e  coessenziale
dell'esercizio della  sua  giurisdizione  penale,  e'  innanzi  tutto
chiamato proprio  a  riesaminare  il  profilo  della  responsabilita'
penale dell'imputato, confermando  o  riformando,  seppur  solo  agli
effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata  in  primo
grado. E' quindi del tutto coerente con l'impianto del codice di rito
che, una volta esercitata l'azione civile  nel  processo  penale,  la
pronuncia sulle  pretese  restitutorie  o  risarcitorie  della  parte
civile  avvenga  in  quella  sede:  pertanto,  anche  quando  l'unica
impugnazione  proposta  sia  quella  della  parte   civile   non   e'
irragionevole che il giudice  d'appello  sia  quello  penale  con  la
conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale. 
    La deviazione da questo paradigma nel caso del giudizio di rinvio
a seguito dell'annullamento, pronunciato dalla Corte  di  cassazione,
della sentenza ai soli effetti civili, secondo il disposto  dell'art.
622  cod.  proc.   pen.,   trova   la   sua   giustificazione   nella
particolarita'  della  fase  processuale  collocata   all'esito   del
giudizio di cassazione, dopo i gradi (o  l'unico  grado)  di  merito,
senza che da cio' possa desumersi l'esigenza di un piu' ampio ricorso
alla giurisdizione civile per  definire  le  pretese  restitutorie  o
risarcitorie della parte civile che abbia,  fin  dall'inizio,  optato
per la giurisdizione penale. 
    Su un piano diverso,  rileva  il  lamentato  aggravio  nei  ruoli
d'udienza dei giudici penali dell'impugnazione in una  situazione  di
elevati carichi di lavoro - denunciato, pur non senza ragione,  dalla
Corte rimettente  -  che  richiede  adeguati  interventi  diretti  ad
approntare sufficienti risorse personali e  materiali,  rimessi  alle
scelte  discrezionali  del  legislatore  in   materia   di   politica
giudiziaria e alla gestione amministrativa della giustizia.