ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  593  del
codice di procedura penale, come sostituito  dall'art.  2,  comma  1,
lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n.  11,  recante
«Disposizioni di modifica della disciplina in materia di  giudizi  di
impugnazione in attuazione della delega di cui all'articolo 1,  commi
82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge  23  giugno
2017,  n.  103»,  promosso  dalla  Corte  d'appello  di  Messina  nel
procedimento penale a carico di G. A., con ordinanza del  18  gennaio
2019, iscritta al n. 88 del  registro  ordinanze  2019  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  24,  prima   serie
speciale, dell'anno 2019. 
    Udito nella camera di consiglio del 4 dicembre  2019  il  Giudice
relatore Franco Modugno. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 gennaio  2019,  la  Corte  d'appello  di
Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  593
del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 2, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 6 febbraio 2018, n.  11,  recante
«Disposizioni di modifica della disciplina in materia di  giudizi  di
impugnazione in attuazione della delega di cui all'articolo 1,  commi
82, 83 e 84, lettere f), g), h), i), l) e m), della legge  23  giugno
2017, n. 103», nella parte in cui prevede che il  pubblico  ministero
puo' appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano
il titolo del reato o escludono la  sussistenza  di  una  circostanza
aggravante ad effetto speciale o  stabiliscono  una  pena  di  specie
diversa da quella ordinaria del reato». 
    1.1.- La Corte rimettente premette di essere investita, in  grado
di appello, del processo nei confronti di una  persona  imputata  del
delitto di  cui  all'art.  570,  secondo  comma,  del  codice  penale
(violazione degli obblighi di assistenza familiare), per aver  omesso
ripetutamente di corrispondere al coniuge separato l'assegno  mensile
per il mantenimento  del  figlio  minore,  facendo  mancare  cosi'  a
quest'ultimo i mezzi di sussistenza. 
    Riferisce il giudice a quo che, con sentenza del 7  maggio  2018,
il Tribunale ordinario di  Patti  aveva  condannato  l'imputato  alla
pena, condizionalmente sospesa, di un mese di reclusione e  500  euro
di multa, oltre al risarcimento  del  danno  in  favore  della  parte
civile costituita, da liquidare in separato giudizio. 
    Contro la sentenza ha proposto appello  il  Procuratore  generale
della Repubblica,  contestando  la  quantificazione  della  pena,  la
concessione del beneficio della sospensione condizionale e la mancata
liquidazione del danno in favore della parte civile. 
    Secondo  l'appellante,  la  pena  inflitta  dal  primo   giudice,
prossima al minimo  edittale,  risulterebbe  inadeguata  per  difetto
rispetto alla gravita' del fatto,  stante  il  profondo  disinteresse
manifestato dall'imputato nei confronti del figlio. 
    A  torto,  inoltre,  sarebbe  stata   concessa   la   sospensione
condizionale, dato che la protratta  «insensibilita'»  ai  doveri  di
padre non consentirebbe di ritenere che l'imputato  si  asterra'  dal
commettere ulteriori reati. 
    La mancata liquidazione del danno in favore  della  parte  civile
tradirebbe, infine, le finalita' della costituzione di  parte  civile
nel processo penale, costringendo la persona offesa  a  intraprendere
un ulteriore giudizio davanti al giudice civile per  il  ristoro  dei
danni. 
    Nel proporre il gravame,  il  Procuratore  generale  ha  eccepito
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 593 cod. proc.  pen.,  come
sostituito dall'art. 2, comma 1, lettera a), del  d.lgs.  n.  11  del
2018, nella parte in cui prevede  che  il  pubblico  ministero  possa
appellare contro le sentenze di condanna «solo quando  modificano  il
titolo del reato  o  escludono  la  sussistenza  di  una  circostanza
aggravante ad effetto speciale o  stabiliscono  una  pena  di  specie
diversa da quella ordinaria del reato». 
    Ad  avviso  dell'appellante,  la  disposizione  si  porrebbe   in
contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., per ragioni analoghe a  quelle
indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza n.  26  del  2007,
con riferimento alle modifiche introdotte  dalla  legge  20  febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di  proscioglimento).  Il  vulnus  al
potere di impugnazione del pubblico ministero recato dal d.lgs. n. 11
del 2018 e', di per se', inferiore  a  quello  inferto  dalla  citata
legge, oggetto di declaratoria di illegittimita'  costituzionale:  la
parte pubblica conserva, infatti, il potere appellare le sentenze  di
assoluzione, venendogli impedito solo l'appello contro le sentenze di
condanna.  Nella  sostanza,  tuttavia,  la  differenza   risulterebbe
«esigua quantitativamente ed inesistente qualitativamente». In  molti
casi, infatti, la condanna potrebbe  essere  talmente  ingiusta,  per
l'esiguita' della pena inflitta, da  «somigliare  moltissimo»  a  una
assoluzione,  tanto  da  determinare  l'assurdo  per  cui  l'imputato
dovrebbe sperare di essere  condannato  a  una  pena  particolarmente
tenue, piuttosto che di essere assolto. 
    La Procura generale denuncia, altresi', la  violazione  dell'art.
97 Cost., rilevando come la limitazione del  potere  di  impugnazione
del pubblico ministero non  raggiunga  l'obiettivo  di  rendere  piu'
efficiente l'amministrazione della  giustizia,  riducendo  il  numero
degli  appelli.  Le  impugnazioni  della  parte  pubblica  investono,
infatti, solo una percentuale assolutamente esigua delle sentenze  di
primo grado, laddove, invece, l'imputato puo'  sempre  appellarle  in
regime di divieto di reformatio in peius. 
    Avverso la sentenza del Tribunale ordinario di Patti ha  proposto
appello anche  l'imputato,  lamentando  che  il  primo  giudice,  nel
ritenere  integrata  l'ipotesi  criminosa  contestata,  abbia   fatto
malgoverno delle risultanze processuali e  che,  in  ogni  caso,  non
abbia   riconosciuto   le   circostanze   attenuanti   generiche   e,
conseguentemente, irrogato una pena inferiore. 
    1.2.-  Ad  avviso  della  Corte  rimettente,  le   questioni   di
legittimita'  costituzionale  prospettate  dal  Procuratore  generale
della Repubblica sarebbero rilevanti e non manifestamente infondate. 
    A fronte dei limiti posti dal novellato art. 593 cod. proc. pen.,
esso giudice a quo, in presenza dell'appello dell'imputato,  potrebbe
conoscere anche del gravame del pubblico ministero ai sensi dell'art.
580 cod. proc. pen., ma «dovrebbe comunque valutarlo come ricorso per
cassazione e dichiararlo  inammissibile».  Il  Procuratore  generale,
infatti, non ha prospettato alcuna violazione di legge, ma ha dedotto
unicamente profili di merito, quali la quantificazione della  pena  e
l'errata  effettuazione  della  prognosi  rilevante  ai  fini   della
concessione della sospensione condizionale. 
    Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni. 
    1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte  messinese
osserva come dalla giurisprudenza costituzionale in tema di  rapporti
tra le parti processuali emerga il  principio  in  forza  del  quale,
esclusa  l'esigenza  di  una  totale   sovrapposizione   dei   poteri
dell'accusa e della difesa, la parita' tra  le  stesse  puo'  essere,
tuttavia,  alterata   solo   nel   rispetto   del   parametro   della
ragionevolezza. 
    Nella sentenza n. 26 del 2007  la  Corte  costituzionale  ha,  in
particolare, affermato  che  il  principio  di  parita'  delle  parti
rappresenta un connotato essenziale dell'intero processo, e non  gia'
una garanzia riferita  al  solo  procedimento  probatorio.  Pertanto,
anche eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica
accusa, nel confronto con lo speculare potere dell'imputato,  debbono
risultare «sorrette da una ragionevole giustificazione». 
    Nella medesima sentenza, la Corte costituzionale ha pure  escluso
che l'eliminazione del potere di appello del pubblico ministero possa
ritenersi compensata  dall'ampliamento  dei  motivi  di  ricorso  per
cassazione, all'epoca operato dalla legge n. 46 del 2006: e cio'  non
solo perche' tale ampliamento va a favore di entrambe le parti, e non
soltanto del pubblico ministero, ma anche e  soprattutto  perche'  il
rimedio del ricorso per cassazione non attinge,  comunque  sia,  alla
pienezza del riesame di merito consentito dall'appello. 
    Nel caso oggi in esame, la  limitazione  dei  poteri  di  appello
impedirebbe  in  radice   al   pubblico   ministero   di   contestare
l'irrogazione di una pena che, per quanto  rientrante  nella  cornice
edittale, si ponga in contrasto con i parametri di cui  all'art.  133
cod. pen., apparendo del tutto inadeguata rispetto alla gravita'  del
fatto e alla personalita' del  reo.  Tale  questione,  investendo  il
merito della decisione, non potrebbe essere, infatti, mai prospettata
con il ricorso per cassazione. 
    In pratica, mentre all'imputato e'  consentito  proporre  appello
contro qualsiasi decisione che ritenga non  pienamente  satisfattiva,
la norma censurata darebbe per scontata l'assenza dell'interesse  del
pubblico  ministero  a  impugnare  una  sentenza   di   condanna,   a
prescindere dal suo contenuto concreto. 
    Tale alterazione della parita' delle parti non  potrebbe  trovare
giustificazione nell'esigenza di contenere la  durata  del  processo,
riducendo il numero degli  appelli.  Dall'analisi  di  impatto  della
regolamentazione che accompagnava lo schema originario del d.lgs.  n.
11 del 2018 emerge, infatti, che nell'anno  2016,  su  un  totale  di
130.536 appelli, il procuratore della Repubblica  ne  aveva  proposti
solo l'1,4 per cento e il procuratore generale solo il 4,9 per cento. 
    La  dissimmetria  tra  le  parti  processuali  non  sarebbe  resa
ragionevole dal fatto che  la  disposizione  denunciata  consente  al
pubblico ministero  di  proporre  appello  quando  il  primo  giudice
escluda una circostanza aggravante a effetto speciale:  cio',  specie
ove si consideri che, «in ipotesi del tutto sovrapponibili, l'appello
sarebbe comunque possibile». Nel caso di esclusione di  un'aggravante
comune che determini la procedibilita' a querela del reato, la  parte
pubblica potrebbe, infatti, proporre appello contro  la  sentenza  di
non doversi procedere. 
    Ne'  sarebbe  ragionevole  discriminare  l'appellabilita'   della
sentenza secondo che essa  abbia  proceduto,  o  no,  a  una  diversa
qualificazione giuridica del fatto,  posto  che  in  questo  modo  si
consente il gravame anche in ipotesi nelle quali tale operazione  non
ha alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio (come, ad esempio,  nel
caso di mutamento del  titolo  del  reato  da  truffa  in  insolvenza
fraudolenta  o  appropriazione  indebita,  reati  tutti  con  cornici
edittali similari). 
    Limitare a un solo grado di  giudizio  la  quantificazione  della
pena, escludendo ogni possibilita' di verifica anche a fronte di pene
manifestamente irrisorie in rapporto alla gravita' del fatto  e  alla
personalita'  dell'imputato,  contrasterebbe,  peraltro,  anche   con
l'art. 27 Cost., rendendo insindacabili decisioni del tutto  inidonee
a realizzare la finalita' rieducativa della pena. 
    2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte  d'appello  di  Messina  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 593 del codice  di  procedura  penale,  come
sostituito dall'art. 2, comma 1, lettera a), del decreto  legislativo
6 febbraio 2018, n.  11,  recante  «Disposizioni  di  modifica  della
disciplina in materia di giudizi di impugnazione in attuazione  della
delega di cui all'articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere f), g),  h),
i), l) e m), della legge 23 giugno 2017, n. 103», nella parte in  cui
prevede che il pubblico ministero puo' appellare contro  le  sentenze
di condanna «solo quando modificano il titolo del reato  o  escludono
la sussistenza di una circostanza aggravante ad  effetto  speciale  o
stabiliscono una pena di  specie  diversa  da  quella  ordinaria  del
reato». 
    Ad avviso della Corte rimettente, la norma  censurata  violerebbe
gli artt. 3 e 111 della Costituzione, per contrasto con il  principio
di parita' delle parti. Essa introdurrebbe una menomazione del potere
di  impugnazione  del  pubblico  ministero,  nel  confronto  con   lo
speculare potere dell'imputato, priva di ragionevole  giustificazione
e tale da  precludere  alla  pubblica  accusa  ogni  possibilita'  di
contestare l'irrogazione di pene manifestamente  inadeguate  rispetto
alla gravita' del fatto e alla personalita' del reo. Simili questioni
non potrebbero  essere,  infatti,  prospettate  con  il  ricorso  per
cassazione, in quanto involventi un giudizio di merito. 
    Risulterebbe  violato  anche  l'art.  97  Cost.  La   limitazione
censurata risulterebbe, infatti, inidonea a realizzare l'obiettivo di
rendere piu' efficiente l'amministrazione della giustizia tramite  la
riduzione del numero degli appelli, dato che gli appelli proposti dal
pubblico ministero rappresentano  solo  una  minima  percentuale  del
totale. 
    La norma denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con  l'art.
27 Cost., giacche' l'esclusione di qualsiasi possibilita' di verifica
sulla  sanzione  inflitta  in  primo  grado,  anche   quando   appaia
palesemente  irrisoria  rispetto  alla  gravita'  del  fatto  e  alla
personalita'  del  reo,  comprometterebbe  la   realizzazione   della
finalita' rieducativa della pena. 
    2.- Le questioni non sono fondate. 
    3.- Non e' riscontrabile, anzitutto, la  dedotta  violazione  del
principio di  parita'  delle  parti  processuali:  principio  che  il
rimettente fa discendere congiuntamente dagli artt. 3 e 111 Cost., ma
che trova attualmente il suo referente piu' immediato nella specifica
previsione dell'art. 111, secondo comma, Cost. 
    3.1.- Come questa Corte ha posto piu'  volte  in  evidenza,  tale
ultima  disposizione,  introdotta  dalla  legge   costituzionale   23
novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei  principi  del  giusto  processo
nell'articolo 111 della Costituzione) -  nello  stabilire  che  «ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita'» - ha conferito veste autonoma a un principio, quello appunto
di parita' delle  parti,  che  era  «pacificamente  gia'  insito  nel
pregresso sistema dei valori  costituzionali»  (sentenza  n.  26  del
2007, ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). 
    In simile linea di continuita', e' costante, nella giurisprudenza
di questa Corte - tanto  anteriore,  quanto  successiva  alla  citata
novella costituzionale - l'affermazione per cui, nel processo penale,
il  principio  di  parita'  tra  accusa   e   difesa   non   comporta
necessariamente l'identita' tra i  poteri  processuali  del  pubblico
ministero  e  quelli  dell'imputato:  potendo   una   disparita'   di
trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza,
sia dalla peculiare posizione istituzionale del  pubblico  ministero,
sia dalla funzione allo stesso affidata,  sia  da  esigenze  connesse
alla corretta amministrazione della giustizia» (sentenze n.  320,  n.
26 del 2007 e, nello stesso senso, n. 298 del 2008; ordinanze  n.  46
del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001;  quanto
alla giurisprudenza anteriore alla legge cost. n. 2 del  1999,  nello
stesso senso indicato, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e  n.
363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del
1992). 
    Il processo penale e' caratterizzato, infatti, da una  asimmetria
"strutturale" tra i due antagonisti  principali.  Le  differenze  che
connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni
di operativita' e ai differenti interessi dei quali, anche alla  luce
dei precetti  costituzionali,  le  parti  stesse  sono  portatrici  -
essendo l'una un organo pubblico  che  agisce  nell'esercizio  di  un
potere e a  tutela  di  interessi  collettivi;  l'altra  un  soggetto
privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis,  quello
di liberta' personale), sui quali inciderebbe una eventuale  sentenza
di condanna - impediscono di ritenere che  il  principio  di  parita'
debba (e possa) indefettibilmente tradursi,  nella  cornice  di  ogni
singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta  simmetria  di
poteri e facolta'. Alterazioni di tale simmetria - tanto nell'una che
nell'altra direzione (ossia tanto a vantaggio  della  parte  pubblica
che di quella privata) - sono invece compatibili con il principio  di
parita', ad una duplice condizione: e, cioe', che esse, per un verso,
trovino un'adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del
pubblico ministero, ovvero  in  esigenze  di  funzionale  e  corretta
esplicazione della giustizia penale,  anche  in  vista  del  completo
sviluppo di finalita' esse pure costituzionalmente rilevanti; e,  per
un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica  di
complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo  alle  disparita'
di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento  distinte  da
quelle in cui s'innesta la singola  norma  discriminatrice  avuta  di
mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro
i limiti della ragionevolezza» (sentenza n. 26 del 2007). 
    3.2.- In tale quadro, un discorso particolare va, peraltro, fatto
con riguardo alla disciplina delle impugnazioni. 
    Sulla premessa che la garanzia del doppio grado di  giurisdizione
non  fruisce,  di  per  se',  di  riconoscimento  costituzionale  (ex
plurimis, sentenze n. 274 e n. 242 del 2009, n. 298 del 2008,  n.  26
del 2007, n. 288 del 1997, n. 280 del 1995; ordinanze n. 316 del 2002
e n. 421 del 2001), questa Corte ha posto in evidenza come il  potere
di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del
pubblico ministero presenti «margini di "cedevolezza"  piu'  ampi,  a
fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che  connotano  il
simmetrico potere dell'imputato» (sentenza n. 26 del 2007). 
    Il potere di impugnazione della parte pubblica non  puo'  essere,
infatti, configurato come  proiezione  necessaria  del  principio  di
obbligatorieta'   dell'esercizio   dell'azione   penale,    enunciato
dall'art. 112 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 183 del  2017,  n.  242
del 2009, n. 298 del 2008 e n. 280 del 1995;  ordinanze  n.  165  del
2003 e n. 347 del 2002); quando, invece, sull'altro fronte, il potere
di impugnazione dell'imputato si correla anche al fondamentale valore
espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che  ne  accresce  la
forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni  di  segno  inverso
(sentenze n. 274 del 2009, n. 26 del 2007 e n. 98 del 1994). 
    Non  e'   senza   significato,   d'altronde,   che,   a   livello
sovranazionale, l'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale  sui
diritti civili e politici, adottato a New York il 16  dicembre  1966,
ratificato e reso esecutivo con legge 25  ottobre  1977,  n.  881,  e
l'art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'   fondamentali,   adottato   a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge
9 aprile 1990, n. 98, prevedano  il  diritto  a  far  riesaminare  la
decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza,  solo
a favore della persona  dichiarata  colpevole  o  condannata  per  un
reato: dunque,  esclusivamente  a  favore  dell'imputato,  senza  far
menzione del pubblico ministero. 
    3.3.- Degli enunciati dianzi  ricordati  questa  Corte  ha  fatto
ripetute  applicazioni,  in  rapporto  al  mutevole   assetto   della
disciplina della materia. 
    L'art. 593 cod. proc. pen. prevedeva,  in  origine,  la  generale
appellabilita' - da entrambe le parti - delle sentenze di condanna  e
di proscioglimento, salvo il limite derivante  dalla  necessita'  che
l'appellante avesse  interesse  all'impugnazione  (donde  la  sancita
inappellabilita',  da  parte   dell'imputato,   delle   sentenze   di
proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per non aver commesso
il fatto). 
    La regola soffriva solo circoscritte eccezioni, ispirate nel loro
insieme  a  finalita'  di  economia,  rispetto  ai   tempi   e   alla
complessita' dell'accertamento penale.  Tra  esse,  assume  specifico
rilievo, ai presenti fini, quella stabilita dall'art. 443,  comma  3,
cod. proc. pen., per cui il pubblico ministero non  poteva  -  e  non
puo' - proporre appello contro le  sentenze  di  condanna  emesse  in
esito al giudizio abbreviato, salvo che  modifichino  il  titolo  del
reato. 
    Si tratta di previsione limitativa che questa Corte - sia  prima,
sia dopo la modifica dell'art. 111 Cost. - ha costantemente  reputato
legittima, al contrario di  quanto  era  avvenuto  per  la  speculare
limitazione posta a carico dell'imputato dal  comma  2  dello  stesso
art. 443 cod. proc. pen., con riguardo alle sentenze  di  condanna  a
pena che non deve essere eseguita (limitazione ritenuta priva  di  un
fondamento ragionevolmente commisurato all'entita' della compressione
apportata al diritto di difesa: sentenza n. 363 del 1991). 
    Si e', infatti, rilevato come la soppressione  del  potere  della
parte pubblica  di  impugnare  nel  merito  decisioni  che  segnavano
«comunque la realizzazione della pretesa punitiva  fatta  valere  nel
processo attraverso l'azione intrapresa» - essendo lo scarto  tra  la
richiesta dell'accusa e la  sentenza  sottratta  all'appello  non  di
ordine  «qualitativo»,  ma  meramente  «quantitativo»  -   risultasse
razionalmente giustificabile alla luce  dell'«obiettivo  primario  di
una rapida e completa definizione  dei  processi  svoltisi  in  primo
grado secondo il rito alternativo di cui si tratta» (sentenza n.  363
del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991; si  veda  pure
la sentenza n. 98 del 1994): rito che - sia pure per scelta esclusiva
dell'imputato, dopo le modifiche introdotte dalla legge  16  dicembre
1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al
tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice  di
procedura  penale.  Modifiche  al  codice  di  procedura   penale   e
all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia  di  contenzioso
civile pendente, di indennita' spettanti al  giudice  di  pace  e  di
esercizio  della  professione  forense)  -  «implica  una   decisione
fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che
subisce  la  limitazione  censurata,   fuori   delle   garanzie   del
contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003,  n.  347
del 2002 e n. 421 del 2001). 
    3.4.- Lo scenario muta radicalmente  con  la  legge  20  febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in  materia  di
inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento). 
    Sostituendo l'art. 593 cod.  proc.  pen.,  la  legge  di  riforma
introduce una nuova  regola  generale:  quella  dell'inappellabilita'
delle sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per il caso -  del
tutto marginale - in cui sopravvengano  o  si  scoprano  nuove  prove
decisive dopo il giudizio di primo grado. 
    La nuova regola viene  dichiarata,  tuttavia,  costituzionalmente
illegittima dalla sentenza n. 26 del  2007  di  questa  Corte,  nella
parte in cui menoma il potere  di  gravame  del  pubblico  ministero:
pronuncia  che  l'odierno  rimettente  pone  a  base  delle   proprie
doglianze. 
    In essa si rileva come la novella legislativa  fosse  foriera  di
una  dissimmetria  «radicale».  Diversamente  dall'imputato   -   che
manteneva inalterato il contrapposto potere  di  appello  avverso  le
sentenze di condanna - il pubblico ministero veniva, infatti, privato
del potere di proporre doglianze di merito contro  le  decisioni  che
disattendessero totalmente  la  pretesa  punitiva  fatta  valere  con
l'azione  intrapresa.  La  dissimmetria   era,   al   tempo   stesso,
«generalizzata» - riguardando tutti i processi, compresi quelli per i
delitti  piu'  gravi  e  di  maggior  allarme   sociale   -   nonche'
«"unilaterale"»,  ossia  priva  di   qualsiasi   "contropartita",   a
differenza  della  ricordata  limitazione  prevista  in  rapporto  al
giudizio abbreviato, nel quale l'imputato rinuncia  all'esercizio  di
proprie facolta', cosi' da permettere una piu' celere definizione del
processo. 
    Una dissimmetria di tale consistenza - conclude la sentenza n. 26
del 2007 - non poteva essere giustificata, in termini di  adeguatezza
e proporzionalita', sulla base  delle  rationes  poste  a  fondamento
della   riforma:   talune   delle   quali    apparivano,    peraltro,
intrinsecamente   opinabili   (asserita   impossibilita',   dopo   il
proscioglimento in primo grado, di considerare  l'imputato  colpevole
«al di  la'  di  ogni  ragionevole  dubbio»;  pretesa  necessita'  di
adeguare l'ordinamento  interno  vigente  alle  norme  internazionali
richiamate al punto 3.2 che precede). La ratio residua - evitare  che
la decisione assolutoria del giudice di primo grado, che ha assistito
alla formazione della prova nel contraddittorio fra le  parti,  venga
ribaltata  da  un  giudice  che,  come  quello  di  appello,  ha  una
cognizione prevalentemente "cartolare"  del  materiale  probatorio  -
risultava, comunque sia, inidonea a legittimare la soluzione adottata
dal legislatore. Il rimedio a un deficit delle garanzie che assistono
una delle parti va rinvenuto in soluzioni che emendino quel  difetto,
e non gia' in una eliminazione di poteri della parte contrapposta che
generi un radicale squilibrio tra le rispettive posizioni (in  questa
direzione si muovera' poi, in effetti, tramite la  previsione  di  un
obbligo di rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale  davanti  al
giudice di  appello,  l'art.  603,  comma  3-bis,  cod.  proc.  pen.,
aggiunto dall'art. 1, comma 58, della legge 23 giugno 2017,  n.  103,
recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale  e
all'ordinamento penitenziario»). 
    Nella sentenza n. 26 del 2007 non si manca, peraltro, di porre in
evidenza come la  novella  del  2006  avesse  determinato  anche  una
intrinseca incoerenza del sistema.  Il  pubblico  ministero  restava,
infatti, privo del potere di appello allorche'  la  pretesa  punitiva
azionata   fosse   stata   integralmente   respinta   (sentenza    di
proscioglimento), mentre lo conservava  allorche'  le  sue  richieste
fossero state disattese solo in parte (come nel caso  di  condanna  a
pena ritenuta non congrua). 
    Ulteriori declaratorie di illegittimita' costituzionale hanno poi
investito  altri  segmenti  della  riforma  del  2006:   in   specie,
l'esclusione dell'appello del pubblico ministero contro  le  sentenze
di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato  (sentenza
n. 320 del 2007) e le preclusioni all'appello avverso le sentenze  di
proscioglimento  stabilite  nei  confronti   dell'imputato,   i   cui
interessi possono essere  gravemente  pregiudicati  da  talune  delle
formule assolutorie  (quale,  tipicamente,  l'assoluzione  per  vizio
totale di mente) (sentenze n. 274 del 2009 e n. 85 del 2008). 
    Questa Corte ha ritenuto, invece, compatibili con il principio di
parita' delle parti due  innovazioni  "collaterali"  pure  introdotte
dalla legge n. 46 del  2006:  l'inappellabilita'  delle  sentenze  di
proscioglimento del giudice  di  pace,  la  quale  investe  solo  una
circoscritta fascia di reati di ridotta gravita' e si innesta  su  un
modulo processuale improntato a snellezza e  rapidita'  (sentenza  n.
298 del 2008), e l'inappellabilita' delle sentenze  di  non  luogo  a
procedere emesse a conclusione dell'udienza  preliminare,  posto  che
anche l'epilogo ad esse alternativo (ossia il rinvio a giudizio)  non
e' impugnabile da alcuno e il pubblico  ministero  fruisce,  a  certe
condizioni, della possibilita' di chiedere in ogni  tempo  la  revoca
delle sentenze stesse (sentenza n. 242 del 2009). 
    3.5.- E' su questo quadro che si innesta  il  d.lgs.  n.  11  del
2018. 
    Il decreto reca disposizioni di  modifica  della  disciplina  dei
giudizi di  impugnazione,  in  attuazione  della  delega  legislativa
conferita dalla legge n. 103 del 2017 (art. 1, commi  82,  83  e  84,
lettere f, g, h, i, l e  m):  legge  che  contiene,  peraltro,  anche
disposizioni di applicazione immediata in materia. 
    Come emerge in modo univoco dai lavori parlamentari relativi alla
legge delega e dalla  relazione  allo  schema  di  decreto  delegato,
obiettivo  fondamentale  della  riforma  e'  la   deflazione   e   la
semplificazione  dei   processi,   nell'ottica   di   garantirne   la
ragionevole durata. In tale  prospettiva,  una  specifica  attenzione
viene dedicata al giudizio di  appello,  il  quale  -  per  l'elevato
carico di lavoro delle corti d'appello e la sua  lunghezza  -  e'  da
tempo additato come uno dei segmenti processuali  piu'  critici,  sul
piano dell'efficienza della giustizia penale. 
    Tra le misure intese a realizzare l'obiettivo vi e' anche  quella
che da' origine all'odierno incidente di costituzionalita': ossia  la
riduzione  dell'area  oggettiva  di  fruibilita'  del   gravame.   Vi
provvede, in specie, l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n.  11  del  2018,
modificando novamente l'art. 593 cod. proc.  pen.  in  ossequio  alle
direttive - peraltro molto puntuali - di cui all'art.  1,  comma  84,
lettere h) e i), della legge n. 103 del 2017. 
    Per quanto qui interessa, la disposizione novellata  tiene  fermo
il potere di appello del pubblico ministero  contro  le  sentenze  di
proscioglimento, ripristinato dalla sentenza n.  26  del  2007  (art.
593, comma 2, cod. proc. pen., come novellato). Introduce, pero',  un
inedito limite generale all'appello della parte  pubblica  contro  le
sentenze di condanna: il gravame e' ammesso solo quando tali sentenze
«modificano il titolo del reato o escludono  la  sussistenza  di  una
circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di
specie diversa da quella ordinaria del reato» (nuovo art. 593,  comma
1, cod. proc. pen.). 
    La riforma estende, in sostanza, al giudizio ordinario il  limite
gia' previsto in rapporto al giudizio abbreviato (art. 443, comma  3,
cod. proc. pen.), attenuandone i contenuti.  L'appello  e',  infatti,
consentito non solo - come nel rito speciale - quando  vi  sia  stata
una modifica del titolo del reato, ma anche in  altre  ipotesi  nelle
quali  le   determinazioni   del   giudice   «incidono   in   maniera
significativa sulla prospettazione accusatoria» (in  questi  termini,
la relazione  ministeriale):  ipotesi  identificate,  per  l'appunto,
nell'esclusione di aggravanti a effetto speciale e  nell'applicazione
di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. 
    3.6.- Non e' dubbio che la previsione in parola - contro la quale
si dirigono le censure del giudice a quo -  generi  una  dissimmetria
tra le parti. Essa sottrae, infatti, al pubblico ministero il  potere
di formulare censure di merito in  rapporto  a  tutta  una  serie  di
profili, direttamente o indirettamente attinenti alla  determinazione
del trattamento sanzionatorio: la quantificazione della pena entro la
cornice edittale, l'esclusione di aggravanti comuni o concessione  di
attenuanti,  il   bilanciamento   tra   circostanze,   l'applicazione
dell'istituto della continuazione, la concessione di benefici  (quale
la sospensione condizionale, come nel caso  oggetto  del  giudizio  a
quo), e cosi' via dicendo. 
    Sul versante opposto, l'imputato  conserva  invece,  come  regola
generale - oltre al potere di appellare, senza limiti, le sentenze di
condanna - anche quello di appellare le sentenze di  proscioglimento,
con la sola eccezione delle sentenze di assoluzione perche' il  fatto
non sussiste o perche' l'imputato non lo ha commesso (art. 593, comma
2, cod. proc. pen.). 
    Tale eccezione - gia'  contemplata  dalla  norma  originaria  del
codice di rito - non vale, di per se', a riequilibrare  la  posizione
delle parti (come pure sembra supporre la relazione  allo  schema  di
decreto), attenendo a sentenze di assoluzione con formula  ampiamente
liberatoria, rispetto alle quali puo' presumersi  carente  lo  stesso
interesse dell'imputato a impugnare, che condiziona  l'ammissibilita'
del gravame (art. 568, comma 4, e 591, comma 1, lettera a, cod. proc.
pen.). 
    Si e' obiettato che cio' non varrebbe  quando  l'assoluzione  sia
pronunciata per insussistenza di sufficienti elementi di prova  (art.
530, comma 2, cod. proc. pen.). In  tal  caso,  infatti,  secondo  un
consolidato indirizzo della Corte di cassazione civile,  la  sentenza
penale resterebbe priva di effetti  preclusivi  nei  giudizi  civili,
amministrativi e disciplinari, ai sensi degli artt. 652,  653  e  654
cod. proc. pen. (tra le ultime, Corte di  cassazione,  sezione  terza
civile, sentenza 15 giugno 2018,  n.  11791;  sezione  terza  civile,
sentenza 21 aprile 2016, n. 8035): con la conseguenza che  l'imputato
avrebbe interesse ad appellare al fine di ottenere un  riconoscimento
"pieno" della propria innocenza, che gli consenta di avvalersi  degli
effetti extrapenali della pronuncia assolutoria. 
    Ma ammesso pure che la conclusione sia valida - la giurisprudenza
penale predominante resta, in effetti, attestata su posizioni opposte
(tra le ultime, Corte di cassazione, sezione sesta  penale,  sentenza
11  settembre-29  ottobre  2018,  n.  49554;  sezione  terza  penale,
sentenza 15 settembre-2 dicembre 2016, n. 51445) - la limitazione del
potere  di  appello   dell'imputato   risulterebbe,   comunque   sia,
nettamente meno  significativa  di  quella  che  sconta  il  pubblico
ministero. 
    3.7.- In questo caso, tuttavia, si tratta di dissimmetria  che  -
alla luce dei  principi  affermati  dalla  giurisprudenza  di  questa
Corte, in precedenza ricordati (punti 3.1 e 3.2  del  Considerato  in
diritto)  -  non  deborda  dall'alveo  della  compatibilita'  con  il
principio di parita' delle parti. 
    La  limitazione  del  potere  di  appello  della  parte  pubblica
persegue, infatti, l'obiettivo - di rilievo costituzionale (art. 111,
secondo comma, Cost.) -  di  assicurare  la  ragionevole  durata  del
processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d'appello. 
    A differenza di quella introdotta dalla legge n. 46 del 2006,  la
preclusione riguarda, d'altro  canto,  sentenze  che  hanno  accolto,
nell'an, la "domanda di punizione" proposta dal pubblico ministero  e
che  non  hanno,  altresi',  inciso  in  modo   significativo   sulla
prospettazione accusatoria (mutando la qualificazione  giuridica  del
fatto, escludendo aggravanti a effetto speciale o applicando una pena
di specie diversa da  quella  ordinaria  del  reato).  Essa  risulta,
quindi, contenuta e non sproporzionata rispetto all'obiettivo. 
    In un sistema ad azione penale obbligatoria, non puo'  ritenersi,
infatti, precluso  al  legislatore  introdurre  limiti  all'esercizio
della funzione giurisdizionale intesi ad  assicurare  la  ragionevole
durata  dei  processi  e  l'efficienza  del  sistema   punitivo.   In
quest'ottica, non puo' considerarsi irragionevole che, di  fronte  al
soddisfacimento, comunque  sia,  della  pretesa  punitiva,  lo  Stato
decida di rinunciare a un  controllo  di  merito  sul  quantum  della
sanzione irrogata. 
    Che poi il  "peso"  della  rinuncia  venga  a  gravare  solo  sul
pubblico  ministero,  senza  che  sia  prefigurata  una  contrapposta
limitazione, di analogo spessore,  dal  lato  dell'imputato,  rientra
nella logica della diversa quotazione costituzionale  del  potere  di
impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di
autonoma  copertura  nell'art.  112   Cost.   -   e,   dunque,   piu'
"malleabile",  in   funzione   della   realizzazione   di   interessi
contrapposti - quello della parte  pubblica;  intimamente  collegato,
invece, all'art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a  interventi
limitativi - quello dell'imputato. 
    Ne'  puo'  ritenersi  significativa,  in  senso   contrario,   la
circostanza che, nel frangente, discutendosi del giudizio  ordinario,
manchi  una  specifica  "contropartita"  in   termini   di   rinuncia
dell'imputato  all'esercizio  di  proprie  facolta'  e  di  correlato
"privilegio" del  pubblico  ministero  sul  piano  probatorio,  quale
quella riscontrabile nell'ambito del giudizio abbreviato. L'esistenza
di una simile "contropartita" e' stata  evocata,  bensi',  da  questa
Corte come fattore che concorre  a  giustificare  la  limitazione  al
potere di appello della parte pubblica previsto dall'art. 443,  comma
3, cod. proc. pen. Ma cio' non vuol dire  che  essa  rappresenti  una
condizione  imprescindibile   -   l'unica   condizione   -   per   il
riconoscimento della legittimita' costituzionale di dissimmetrie  tra
le parti in subiecta materia, come attesta, ad esempio, la  decisione
che  ha  ritenuto  legittima  l'inappellabilita'  delle  sentenze  di
proscioglimento del giudice di pace (sentenza n. 298 del 2008). 
    Non si puo' trascurare, d'altro canto, il  fatto  che,  in  altre
fasi del procedimento, e' il  pubblico  ministero  a  fruire  di  una
posizione di indubbio  vantaggio:  come  nella  fase  delle  indagini
preliminari,  ove  la  ricchezza  degli  strumenti  investigativi   a
disposizione dell'organo dell'accusa, anche sul piano  del  carattere
"invasivo" e "coercitivo" di determinati atti di indagine, non  trova
un riscontro paragonabile dal lato della difesa. 
    Quanto, poi, alla denunciata inidoneita' della norma censurata  a
realizzare gli obiettivi di economia processuale e di deflazione  che
la ispirano, e' vero che - alla luce dei dati  esposti  nella  stessa
analisi di impatto della regolamentazione che  accompagna  lo  schema
originario  del  decreto  legislativo  -  gli  appelli  del  pubblico
ministero   contro   le   sentenze   di    condanna    rappresentano,
statisticamente, una percentuale  assai  modesta  del  numero  totale
degli appelli. Cosi' come e' vero che le sentenze di condanna vengono
assai  spesso  appellate  (anche)  dall'imputato  (com'e'  del  resto
avvenuto nel giudizio a quo): evenienza nella quale l'esclusione  del
gravame dell'accusa non vale a evitare lo svolgimento del giudizio di
appello, ma si limita ad "alleggerire" il  thema  decidendum  rimesso
all'esame del giudice superiore. 
    Di la', peraltro, dal rilievo che un discorso similare si sarebbe
potuto fare anche in rapporto all'omologa limitazione prevista per il
giudizio abbreviato - che questa Corte ha ritenuto, nonostante  cio',
legittima - va rilevato  come  l'effetto  deflattivo  prodotto  dalla
norma censurata, per quanto circoscritto, e' destinato  a  cumularsi,
negli intenti del legislatore, a quello delle altre misure  poste  in
campo  dalla  riforma:  quali  la  previsione  (con   riguardo   alla
generalita' delle impugnazioni) dell'onere di specifica  enunciazione
dei motivi, a pena di inammissibilita' (art.  581  cod.  proc.  pen.,
come sostituito dall'art. 1, comma 55, della legge n. 103 del  2017),
la reintroduzione dell'istituto del concordato sui motivi di  appello
(art. 599-bis cod. proc. pen., aggiunto dall'art. 1, comma 56,  della
legge n. 103 del 2017) o la previsione che  il  procuratore  generale
della Repubblica presso la corte d'appello possa appellare  solo  nei
casi di avocazione o di acquiescenza del pubblico ministero presso il
giudice  di  primo  grado,  cosi'  da  evitare  una  duplicazione  di
impugnative in capo alla medesima  parte  (art.  593-bis  cod.  proc.
pen., aggiunto dall'art. 3 del d.lgs. n. 11 del 2018). 
    Sotto altro profilo, la disposizione  denunciata  -  diversamente
dalla disciplina introdotta dalla legge n.  46  del  2006  -  non  e'
neppure foriera di incongruenze o scompensi  sul  piano  sistematico,
tale da farla apparire intrinsecamente irragionevole. Per  un  verso,
infatti, l'esclusione dell'appello  e'  riferita  alle  pronunce  che
presentano lo  scarto  meno  significativo  rispetto  alle  richieste
dell'accusa (non sull'an della responsabilita' dell'imputato, ma solo
sul quantum della pena inflitta), anziche' il  contrario.  Per  altro
verso, poi, il limite al potere  di  appello  della  parte  pubblica,
stabilito  dalla  disposizione  stessa  in   rapporto   al   giudizio
ordinario, risulta, comunque sia, meno ampio di  quello  previsto  in
rapporto al giudizio abbreviato. 
    Con riguardo, infine, al timore - espresso dal giudice  a  quo  -
che la previsione limitativa in esame impedisca in radice  all'accusa
di reagire all'irrogazione di pene macroscopicamente  inadeguate  per
difetto alla gravita' del fatto e alla personalita' del  suo  autore,
giova  soggiungere  che  il  pubblico  ministero  resta  pur   sempre
abilitato ad attivare il controllo della Corte  di  cassazione  sulla
«mancanza,   contraddittorieta'   o   manifesta   illogicita'   della
motivazione» che sorregge il dosaggio della pena, ai sensi  dell'art.
606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.  Tale  controllo,  se  pure
certamente «non attinge [...] alla pienezza del  riesame  di  merito,
consentito dall'appello» (sentenza n.  26  del  2007),  puo'  valere,
comunque sia, nei limiti della disciplina del  ricorso  immediato,  a
porre rimedio a ipotesi di incongruenza  estrema  o  manifesta  della
quantificazione del trattamento sanzionatorio, quali quelle ventilate
dal giudice rimettente. 
    4.- Infondata e' anche la censura di violazione del principio del
buon andamento (art. 97 Cost.),  che  il  giudice  a  quo  riconnette
all'asserita inidoneita' della norma censurata a conseguire risultati
apprezzabili,   in   termini   di    miglioramento    dell'efficienza
dell'amministrazione  della  giustizia,  riducendo  il  numero  degli
appelli. 
    Di la'  da  quanto  osservato  in  precedenza,  e'  dirimente  al
riguardo il rilievo che, per costante giurisprudenza di questa Corte,
il principio  in  parola  e'  «riferibile  all'amministrazione  della
giustizia  soltanto  per  quanto  attiene  all'organizzazione  e   al
funzionamento   degli   uffici    giudiziari,    non    all'attivita'
giurisdizionale» (ex plurimis, sentenze n. 90 del  2019,  n.  91  del
2018, n. 44 del 2016 e n. 66 del 2014):  attivita'  alla  quale,  per
converso, pertiene la disposizione sottoposta a scrutinio. 
    5.-   Parimente   infondata   e'   la   conclusiva   censura   di
compromissione della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.):
parametro che gia'  in  una  precedente  occasione  questa  Corte  ha
ritenuto non pertinente alla tematica della limitazione dei poteri di
appello del pubblico ministero (sentenza n. 363 del 1991). 
    A prescindere da ogni  altra  considerazione,  non  e'  possibile
ritenere   che   la   funzione   rieducativa   della   pena   postuli
imprescindibilmente che sia assicurato un controllo di  merito  sulla
quantificazione della sanzione operata dal giudice  di  primo  grado,
intesa segnatamente a evitare che siano inflitte pene  sproporzionate
per difetto (al riguardo,  mutatis  mutandis,  sentenza  n.  155  del
2019). 
    6.- Le questioni  vanno  dichiarate,  pertanto,  non  fondate  in
riferimento a tutti parametri evocati.