ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1,
lettera b), della legge 4 novembre 2010 n. 183 (Deleghe al Governo in
materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di  congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per
l'impiego,  di  incentivi  all'occupazione,  di   apprendistato,   di
occupazione femminile, nonche' misure contro  il  lavoro  sommerso  e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro),
sostitutivo dell'art. 3, comma 4, del decreto-legge 22 febbraio 2002,
n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni  di
emersione di attivita' detenute all'estero e di  lavoro  irregolare),
convertito, con modificazioni, in legge  23  aprile  2002,  n.  73  -
articolo gia' modificato dall'art. 36-bis, comma 7, del decreto-legge
4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico
e sociale, per il contenimento e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito,  con  modificazioni,  in  legge  4
agosto 2006, n. 248 -, promosso dalla Corte d'appello di  Napoli  nel
procedimento vertente tra il Ministero del lavoro e  delle  politiche
sociali - Direzione provinciale del lavoro di Napoli  e  O.  F.,  con
ordinanza del  3  luglio  2019,  iscritta  al  n.  204  del  registro
ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito  il  Giudice  relatore  Franco  Modugno  nella  camera   di
consiglio del 10 giugno 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 3 luglio 2019, la Corte d'appello di Napoli
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo  comma,  della
Costituzione - quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all'art.  49  della
Carta  dei  diritti   fondamentali   dell'Unione   europea   (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007 - questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4,
comma 1, lettera b), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe  al
Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione  di  enti,
di congedi, aspettative e permessi,  di  ammortizzatori  sociali,  di
servizi   per   l'impiego,   di   incentivi    all'occupazione,    di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie di lavoro), che sostituisce il comma 4 dell'art.  3  del
decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni  urgenti  per  il
completamento delle operazioni di  emersione  di  attivita'  detenute
all'estero e di lavoro irregolare), convertito, con modificazioni, in
legge 23 aprile 2002, n. 73  -  articolo  gia'  modificato  dall'art.
36-bis,  comma  7,  del  decreto-legge  4   luglio   2006,   n.   223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico  e  sociale,  per  il
contenimento e la razionalizzazione  della  spesa  pubblica,  nonche'
interventi  in  materia  di  entrate  e  di  contrasto   all'evasione
fiscale), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto  2006,  n.
248 -, nella parte in cui non prevede che  la  disposizione  da  esso
introdotta si applichi anche ai fatti commessi anteriormente alla sua
entrata in vigore. 
    1.1.- La Corte rimettente riferisce di essere investita, in grado
di    appello,    del     giudizio     di     opposizione     avverso
l'ordinanza-ingiunzione della Direzione  provinciale  del  lavoro  di
Napoli,  con  la  quale  era  stata  irrogata  all'opponente,   quale
amministratrice di una societa' in accomandita semplice, la  sanzione
amministrativa pecuniaria di euro 6.150, per violazione dell'art.  3,
comma 3, del d.l. n. 12 del 2002, convertito, con  modificazioni,  in
legge  n.  73  del  2002,  nel  testo  risultante  a  seguito   della
sostituzione operata dall'art. 36-bis, comma 7, del d.l. n.  223  del
2006, convertito, con modificazioni, in legge n. 248  del  2006,  per
aver impiegato un lavoratore non  risultante  dalle  scritture  o  da
altra documentazione obbligatoria; violazione accertata l'8  febbraio
2007. 
    L'opposizione veniva accolta  dal  giudice  di  primo  grado,  in
ragione del fatto,  emerso  nel  corso  del  giudizio,  che  in  data
antecedente all'ispezione dalla quale  era  conseguita  l'irrogazione
della sanzione, l'opponente aveva effettuato la  denuncia  nominativa
obbligatoria    del    lavoratore    all'Istituto    nazionale    per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL). 
    Avverso la sentenza proponeva appello il Ministero del  lavoro  e
delle politiche sociali - Direzione provinciale di Napoli, sostenendo
che  la  comunicazione  all'INAIL  era  stata  effettuata  il  giorno
successivo all'ispezione e  che,  pertanto,  la  sanzione  era  stata
correttamente irrogata. Rilevava, altresi',  che  la  societa'  aveva
eseguito  un  versamento  di  euro  366,75  al  fine  di  sanare   le
violazioni, riconoscendo cosi' la propria responsabilita'. 
    La societa' e la sua amministratrice  resistevano  all'appello  e
spiegavano   appello   incidentale,   con   il    quale    chiedevano
l'accoglimento del motivo di  opposizione  relativo  alla  violazione
degli artt. 14, 17  e  18  della  legge  24  novembre  1981,  n.  689
(Modifiche al sistema penale) e della legge 7  agosto  1990,  n.  241
(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e  di  diritto
di accesso ai documenti amministrativi): motivo sul quale il  giudice
di primo grado non si  era  pronunciato,  ritenendolo  verosimilmente
assorbito. Nel merito, deducevano di aver effettuato la comunicazione
obbligatoria all'INAIL  il  giorno  prima  dell'ispezione  e  che  il
pagamento della somma indicata dall'appellante era stato eseguito  in
relazione ad altre violazioni accertate nel corso  dell'ispezione,  e
non a quella oggetto del giudizio. 
    1.2.- Cio' premesso, la Corte rimettente rileva come  il  giudice
di primo grado abbia accolto l'opposizione  sul  presupposto  che  la
previsione sanzionatoria dell'art. 3, comma 3, del  d.l.  n.  12  del
2002, come sostituito dall'art. 36-bis, comma 7, del d.l. n. 223  del
2006,  relativa  all'«impiego  di  lavoratori  non  risultanti  dalle
scritture o da altra documentazione  obbligatoria»,  debba  ritenersi
riferita  al   personale   totalmente   sconosciuto   alla   pubblica
amministrazione,  in  quanto  non   iscritto   nella   documentazione
obbligatoria, ne' oggetto di alcuna  comunicazione  prescritta  dalla
normativa in materia di lavoro e  previdenziale:  comunicazione  che,
nella specie, risultava  invece  effettuata  dalla  parte  opponente,
nella forma della denuncia nominativa obbligatoria all'INAIL. 
    Ad avviso della Corte partenopea, questa interpretazione in senso
favorevole all'autore  della  violazione  non  sarebbe  «sorretta  da
adeguata motivazione». Essa avrebbe trovato, tuttavia,  un  «espresso
aggancio normativo» in una disposizione successiva al  fatto  oggetto
di giudizio: vale a dire nell'art. 4,  comma  1,  lettera  b),  della
legge n. 183 del 2010, che ha sostituito il comma 4 dell'art.  3  del
d.l. n. 12 del 2002, prevedendo che «[l]e sanzioni di cui al comma 3»
-  quelle,  appunto,  per  il  lavoro  "in  nero"  -   «non   trovano
applicazione qualora, dagli  adempimenti  di  carattere  contributivo
precedentemente assolti, si evidenzi  comunque  la  volonta'  di  non
occultare   il   rapporto,   anche   se   trattasi   di    differente
qualificazione». 
    La Corte rimettente ritiene, quindi, di dover sollevare questioni
di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt.  3  e  117,
primo comma, Cost., del citato art. 4, comma  1,  lettera  b),  della
legge n. 183 del  2010,  nella  parte  in  cui  non  prevede  che  la
disposizione da esso introdotta si applichi anche ai  fatti  commessi
prima della sua entrata in vigore. 
    1.3.- Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo. 
    Risulterebbe, infatti, infondato il motivo di appello incidentale
formulato dalla societa'  e  dalla  sua  amministratrice,  avendo  le
sezioni unite della Corte di cassazione escluso che -  contrariamente
a quanto sostenuto dalle appellanti incidentali - il procedimento per
l'applicazione di una  sanzione  amministrativa  pecuniaria,  di  cui
all'art. 18  della  legge  n.  689  del  1981,  si  debba  concludere
necessariamente nel termine di trenta (indi novanta) giorni, previsto
in via generale per la conclusione  del  procedimento  amministrativo
dall'art. 2  della  legge  n.  241  del  1990  (e'  citata  Corte  di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 aprile 2006, n. 9591). 
    Per  altro  verso,   poi,   la   parte   appellata   ha   provato
documentalmente di aver presentato la denuncia  nominativa  all'INAIL
il  7  febbraio  2007  e,  quindi,  in  data   anteriore   a   quella
dell'ispezione.   L'accoglimento   delle   questioni   permetterebbe,
pertanto, di non applicare la sanzione ai sensi dell'art. 3, comma 4,
del d.l. n. 12 del 2002, come sostituito dalla norma censurata. 
    1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni,  la
Corte  rimettente  rileva  come,  alla   luce   di   un   consolidato
orientamento della giurisprudenza della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, inaugurato dalla sentenza  8  giugno  1976,  Engel  contro
Paesi Bassi, le garanzie previste in materia  penale  dalla  CEDU  si
applichino a tutte le misure di carattere afflittivo,  a  prescindere
dalla  loro  qualificazione  come  sanzioni  penali  nell'ordinamento
nazionale. 
    La  natura  penale  di  una  violazione,   agli   effetti   della
Convenzione, va determinata, in specie -  secondo  la  giurisprudenza
della Corte EDU - sulla base di tre criteri, applicabili anche in via
alternativa:  la   classificazione   dell'illecito   nell'ordinamento
nazionale, la natura intrinseca dell'illecito  e  la  gravita'  della
sanzione alla quale l'autore della violazione si trova esposto. 
    Alla stregua degli  ultimi  due  criteri,  la  sanzione  prevista
dall'art. 3, comma 3, del  d.l.  n.  12  del  2012,  gia'  modificato
dall'art. 36-bis,  comma  7,  del  d.l.  n.  223  del  2006,  benche'
qualificata come amministrativa, si connoterebbe come sostanzialmente
penale. 
    Essa avrebbe, infatti, una funzione punitiva e deterrente, e  non
gia'  meramente  preventiva,  rispetto  a  condotte  di   particolare
disvalore nel comune apprezzamento, rispondendo ad esigenze di tutela
«di beni-interessi riferibili alla  collettivita'  e  in  particolare
[...] della persona e posizione giuridica del lavoratore». 
    Per la sua entita', d'altro canto, la  sanzione  in  questione  -
determinata in modo proporzionale al numero dei  lavoratori  occupati
irregolarmente  e  ai  giorni  di  lavoro   svolto   -   risulterebbe
paragonabile,  una  volta  convertita  la  pena  detentiva  in   pena
pecuniaria, alla sanzione penale stabilita  dall'art.  37,  comma  1,
della legge n.  689  del  1981  per  l'omissione  o  la  falsita'  di
registrazioni  o  denunce  obbligatorie  a  fini  di   evasione   dei
contributi o premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza
obbligatorie (reclusione fino a due anni). Stante  il  meccanismo  di
computo, la sanzione amministrativa  risulta,  peraltro,  tanto  piu'
elevata quanto maggiore e' il numero dei lavoratori, quando,  invece,
la sanzione penale non solo rimane fissa nella sua  entita'  massima,
ma  puo'  anche  non  essere  in  concreto  eseguita,  nel  caso   di
concessione della sospensione condizionale. 
    La sanzione in esame  rimarrebbe,  di  conseguenza,  soggetta  al
principio di legalita' di cui all'art. 7 CEDU, il quale -  alla  luce
dell'interpretazione offertane dalla Corte EDU  con  le  sentenze  17
settembre 2009, Scoppola contro Italia e 24 gennaio 2012, Mihai  Toma
contro   Romania   -   implica   non   soltanto   il   principio   di
irretroattivita'  delle  leggi  penali   piu'   severe,   ma   anche,
implicitamente, quello di  retroattivita'  della  legge  penale  piu'
favorevole. 
    Omettendo  di  rendere  applicabile  la  disposizione   da   esso
introdotta anche ai fatti pregressi, l'art. 4, comma 1,  lettera  b),
della legge n. 183 del 2010 si porrebbe, dunque, in contrasto con  la
citata norma convenzionale e, di  riflesso,  con  l'art.  117,  primo
comma, Cost. 
    1.5.- La norma censurata, stante la  sua  natura  sostanzialmente
penale, violerebbe anche, in parte qua, l'art. 3 Cost., per contrasto
con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza. 
    La Corte costituzionale - argomenta il giudice  rimettente  -  ha
infatti chiarito che, sebbene il principio  di  retroattivita'  della
lex mitior in materia penale non abbia  carattere  assoluto,  la  sua
deroga  deve  essere  giustificata  da  gravi  motivi  di   interesse
generale,  rimanendo  quindi  soggetta  a  un  vaglio   positivo   di
ragionevolezza, e non ad un mero vaglio  negativo  di  non  manifesta
irragionevolezza. In particolare, secondo  la  sentenza  n.  393  del
2006,  «[i]l  livello  di  rilevanza  dell'interesse  preservato  dal
principio di retroattivita' della lex mitior - quale emerge dal grado
di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto
internazionale convenzionale e dal diritto comunitario  -  impone  di
ritenere che il valore da esso tutelato puo'  essere  sacrificato  da
una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo». 
    Nella specie, non sarebbe ravvisabile alcun  interesse,  e  tanto
meno un  interesse  di  rango  costituzionale,  atto  a  giustificare
l'inapplicabilita' ai fatti anteriori del trattamento piu' favorevole
previsto dall'art. 4, comma 1, lettera b), della  legge  n.  183  del
2010. 
    1.6.- I dubbi di costituzionalita' non potrebbero essere, d'altra
parte, superati tramite una interpretazione conforme alla CEDU  e  ai
parametri costituzionali. 
    Sebbene nel caso di specie - diversamente che in quello esaminato
dalla  Corte  costituzionale  con  la  sentenza  n.   63   del   2019
(dichiarativa  dell'incostituzionalita'  della  norma   sanzionatoria
amministrativa in materia di abuso di informazioni privilegiate) - la
norma censurata non preveda espressamente la sua inapplicabilita'  ai
fatti anteriori, tale risultato consegue, comunque sia, dal fatto che
l'art. 1 della legge n. 689 del 1981 si limita a  prevedere  il  solo
principio di irretroattivita' delle norme sanzionatorie.  Secondo  un
consolidato  indirizzo  della  giurisprudenza  di  legittimita',   il
principio di matrice penalistica di retroattivita' della lex  mitior,
in quanto non recepito dal citato art.  1,  resta  inapplicabile  nel
campo degli illeciti amministrativi, per i  quali  vale,  invece,  il
distinto principio tempus regit actum. Non sussisterebbero,  infatti,
i presupposti per una applicazione  analogica  dell'art.  2,  secondo
comma, del codice  penale  o  delle  disposizioni  che  prevedono  la
retroattivita'  della  lex   mitior   relativamente   agli   illeciti
amministrativi in particolari settori: disposizioni  non  estensibili
oltre il loro ristretto ambito di applicazione. 
    1.7.- La  Corte  rimettente  assume,  da  ultimo,  che  la  norma
censurata, una volta riconosciutane la natura sostanzialmente penale,
verrebbe a porsi in contrasto anche con l'art.  49  CDFUE,  il  quale
stabilisce che «[s]e, successivamente alla commissione del reato,  la
legge prevedere  l'applicazione  di  una  pena  piu'  lieve,  occorre
applicare quest'ultima». 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate. 
    L'interveniente   contesta,   in   specie,   che   la    sanzione
amministrativa di cui si discute debba essere  realmente  qualificata
come sanzione penale, in base ai cosiddetti criteri  Engel  elaborati
dalla Corte EDU. 
    Tali criteri sarebbero, infatti, «coordinabili [...] con la  tesi
che  fonda  la   distinzione   tra   sanzioni   penali   e   sanzioni
amministrative in ragione della relativa funzione»: prospettiva nella
quale la sanzione dovrebbe essere ritenuta di  natura  amministrativa
quando  «salvaguard[a]  interessi  pubblici  affidati  alla  pubblica
amministrazione» e di natura penale,  invece,  «quando  salvaguard[a]
interessi di ordine generale dell'ordine sociale». 
    Nella specie, la sanzione prevista dall'art. 3, comma 3, del d.l.
n. 12 del 2002 sarebbe diretta a realizzare l'interesse  pubblico  al
corretto svolgimento del  rapporto  di  lavoro,  impedendo  forme  di
impiego di lavoratori sottratte  agli  oneri  imposti  a  carico  del
datore di lavoro. La previsione di una maggiorazione  della  sanzione
in  ragione  delle  giornate  di  lavoro  effettivamente  svolte  dal
lavoratore irregolare avrebbe, poi, una chiara  finalita'  dissuasiva
rispetto alla protrazione della condotta illecita, incentivando cosi'
l'emersione del lavoro "in nero". 
    L'importo della sanzione - con forbice da 1.500 a 12.000 euro per
ciascun lavoratore - non sarebbe, d'altro canto, di tale  entita'  da
connotare la sanzione stessa come penale. 
    Non gioverebbe, in senso  contrario,  la  comparazione  fra  tale
sanzione e la pena detentiva prevista per il reato  di  cui  all'art.
37, comma 1, della legge  n.  689  del  1981.  La  maggiore  gravita'
dell'una o dell'altra non potrebbe essere, infatti, determinata sulla
base dei risultati della conversione della  pena  detentiva  prevista
dalla norma penale in pena  pecuniaria,  secondo  i  criteri  di  cui
all'art.   135   cod.   pen.   Dovrebbe,   invece,   fondarsi   sulla
considerazione  che  la  pena  detentiva   presenta   un   grado   di
afflittivita'   certamente   maggiore   rispetto   a   una   sanzione
amministrativa pecuniaria, a testimonianza del maggior disvalore  che
il legislatore annette alla condotta penalmente sanzionata. 
    L'esclusione  della  natura  penale  della  sanzione  considerata
renderebbe  manifestamente  infondate  le  questioni  in  rapporto  a
entrambi   i   parametri   evocati.   Come   rilevato   dalla   Corte
costituzionale nella sentenza n. 193 del 2016, in materia di sanzioni
amministrative  non  e'  dato  rinvenire  un  vincolo  costituzionale
all'applicazione in ogni caso della legge successiva piu' favorevole,
rientrando nella discrezionalita' del legislatore, nel  rispetto  del
limite  della  ragionevolezza,  modulare  le  proprie  determinazioni
secondo criteri di maggiore o minore  rigore  in  base  a  materia  e
oggetto di disciplina. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La  Corte  d'appello  di  Napoli  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 4,  comma  1,  lettera  b),  della  legge  4
novembre 2010, n. 183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di  lavori
usuranti, di riorganizzazione di  enti,  di  congedi,  aspettative  e
permessi, di ammortizzatori sociali, di  servizi  per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), che sostituisce
il comma 4 dell'art. 3 del decreto-legge  22  febbraio  2002,  n.  12
(Disposizioni  urgenti  per  il  completamento  delle  operazioni  di
emersione di attivita' detenute all'estero e di  lavoro  irregolare),
convertito, con modificazioni,  in  legge  23  aprile  2002,  n.  73:
articolo gia' modificato dall'art. 36-bis, comma 7, del decreto-legge
4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico
e sociale, per il contenimento e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, nonche' interventi in materia di  entrate  e  di  contrasto
all'evasione fiscale), convertito,  con  modificazioni,  in  legge  4
agosto 2006, n. 248. 
    La norma e' censurata nella parte in cui - nel prevedere  che  le
sanzioni amministrative pecuniarie di cui al  comma  3  dello  stesso
art. 3 del d.l. n. 12 del 2002, concernenti l'impiego  di  lavoratori
subordinati  senza  preventiva  comunicazione  di  instaurazione  del
rapporto di lavoro da  parte  del  datore  di  lavoro  privato,  «non
trovano  applicazione  qualora,  dagli   adempimenti   di   carattere
contributivo  precedentemente  assolti,  si  evidenzi   comunque   la
volonta'  di  non  occultare  il  rapporto,  anche  se  trattasi   di
differente qualificazione» - non stabilisce che tale disposizione  si
applichi anche ai fatti commessi anteriormente alla  sua  entrata  in
vigore. 
    Ad avviso della  Corte  rimettente,  la  sanzione  amministrativa
considerata avrebbe natura sostanzialmente penale, alla  stregua  dei
cosiddetti criteri Engel elaborati dalla giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo. 
    La norma censurata violerebbe, di conseguenza, l'art. 117,  primo
comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di
retroattivita' della  legge  penale  piu'  favorevole,  sancito,  sia
dall'art.  7  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848 - secondo l'interpretazione offertane dalla stessa  Corte  EDU
-, sia dall'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione
europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    Essa violerebbe, altresi', l'art. 3 Cost., in quanto -  posta  la
natura sostanzialmente penale  della  sanzione  -  l'inapplicabilita'
della disposizione  censurata,  benche'  piu'  favorevole,  ai  fatti
anteriormente  commessi,  risulterebbe  irragionevole  e  lesiva  del
principio di eguaglianza, non trovando giustificazione in esigenze di
salvaguardia di valori di pari rango, rispetto a quello tutelato  dal
principio di retroattivita' della lex mitior. 
    2.- L'analisi delle questioni deve necessariamente muovere da una
sintetica ricostruzione - per gli aspetti che qui piu' interessano  -
della  genesi  e  dell'evoluzione  della   disciplina   sanzionatoria
amministrativa relativa al cosiddetto lavoro irregolare o "sommerso". 
    L'art. 4 della legge n. 183 del 2010 - recante la rubrica «Misure
contro  il  lavoro  sommerso»  -  rappresenta,  infatti,   la   tappa
intermedia di un tormentato percorso,  che  ha  visto  succedersi,  a
distanza di pochi anni, plurimi interventi  legislativi,  sollecitati
dall'esigenza di eliminare, a volta a volta, i profili di  criticita'
riscontrati   nelle   precedenti   formulazioni   della    disciplina
considerata. 
    2.1.- La metafora lavoro "sommerso", o "nero", designa, in via di
prima approssimazione, il fenomeno dell'occultamento del rapporto  di
lavoro  agli  occhi  del  diritto,  cosi'  da  eludere  o  distorcere
l'applicazione di una serie di norme collegate a tale  rapporto,  con
conseguente compressione dei diritti  del  lavoratore  e  distorsione
della libera concorrenza (stante  la  maggiore  competitivita'  delle
imprese che impiegano lavoratori  "in  nero"  rispetto  alle  imprese
"virtuose"). 
    A fronte delle allarmanti dimensioni  assunte  dal  fenomeno,  il
legislatore ha ritenuto, sul principio  degli  anni  2000,  di  dover
introdurre misure di contrasto particolarmente incisive, consistenti,
anzitutto, nell'applicazione di rilevanti sanzioni nei confronti  dei
datori di lavoro che occupino lavoratori non "regolarizzati". 
    Il processo ha preso avvio con l'art. 3, comma 3, del d.l. n.  12
del 2002, convertito, con modificazioni, in legge n. 73 del 2002,  in
forza del quale - ferma restando l'applicazione delle  sanzioni  gia'
previste dalle leggi in vigore - «l'impiego di lavoratori  dipendenti
non  risultanti   dalle   scritture   o   da   altra   documentazione
obbligatorie» veniva «altresi' punito con la sanzione  amministrativa
dal 200  al  400  per  cento  dell'importo,  per  ciascun  lavoratore
irregolare, del costo del lavoro calcolato  sulla  base  dei  vigenti
contratti collettivi nazionali, per il periodo compreso tra  l'inizio
dell'anno e la data di constatazione della violazione». 
    La neointrodotta previsione sanzionatoria palesava, peraltro, ben
presto rilevanti profili di  criticita',  connessi  soprattutto  alla
difficolta' di computo della sanzione e al fatto che la  disposizione
introduceva una presunzione iuris et de iure in ordine all'inizio del
lavoro irregolare: presunzione che appariva  lesiva  del  diritto  di
difesa dell'incolpato e generatrice di sperequazioni  nella  risposta
sanzionatoria a fatti analoghi. Profilo,  questo  secondo,  che  dava
luogo a una declaratoria di illegittimita' costituzionale parziale ad
opera di questa Corte (sentenza n. 144 del 2005). 
    2.2.- Di seguito a tale pronuncia, il  legislatore  provvedeva  a
riscrivere la disposizione con l'art. 36-bis, comma 7,  del  d.l.  n.
223 del 2006, convertito, con modificazioni,  in  legge  n.  248  del
2006. Ed e' in questa versione  che  la  norma  sanzionatoria  vigeva
all'epoca del fatto di cui si discute nel giudizio a quo. 
    Lasciando inalterata la descrizione della condotta  sanzionata  -
consistente sempre nell'«impiego di lavoratori non  risultanti  dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria» -  la  novella  del
2006  modificava,  in  specie,  i  criteri  di  determinazione  della
sanzione. La quantificazione in base al  «costo  del  lavoro»  veniva
sostituita con la previsione di una sanzione a  carattere  composito:
una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.500  a  12.000  euro  per
ciascun lavoratore irregolarmente impiegato, cui  si  aggiungeva  una
sanzione fissa progressiva di 150  euro  «per  ciascuna  giornata  di
lavoro effettivo» (rimanendo esclusa, con cio',  ogni  presunzione  -
anche solo relativa - riguardo alla durata del lavoro irregolare). 
    Pure in tale nuova versione, la  previsione  sanzionatoria  dava,
peraltro, adito a problemi e  criticita',  anche  in  conseguenza  di
sopravvenute modifiche del panorama normativo di riferimento. 
    Difficolta' erano sorte, anzitutto, in ordine all'identificazione
della  «documentazione  obbligatoria»,  sulla  cui  base  si   doveva
accertare la presenza o meno di un lavoratore irregolare.  Quanto  al
concorrente riferimento alle «scritture obbligatorie», esso  evocava,
in origine, precipuamente i libri di matricola e di paga, nei  quali,
ai sensi dell'art. 20 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico
delle  disposizioni  per  l'assicurazione  obbligatoria  contro   gli
infortuni sul lavoro e le malattie  professionali),  dovevano  essere
iscritti - prima dell'ammissione al lavoro (almeno quanto al libro di
matricola) - i nominativi  e  le  informazioni  relative  ai  singoli
dipendenti. 
    Per effetto, tuttavia, dell'art. 39 del decreto-legge  25  giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti  per  lo  sviluppo  economico,  la
semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della  finanza
pubblica   e   la   perequazione   tributaria),    convertito,    con
modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, i libri di matricola e
di paga sono stati sostituiti dal libro  unico  del  lavoro:  il  che
generava problemi di coordinamento con la  fattispecie  sanzionatoria
in esame. Diversamente, infatti,  da  quanto  avveniva  per  i  libri
soppressi, non era obbligatorio iscrivere  il  lavoratore  nel  libro
unico prima di adibirlo al lavoro (le scritturazioni dovevano essere,
infatti, eseguite entro il giorno 16 del mese successivo ai fatti  da
iscrivere), ne' era obbligatorio tenere il libro sul posto di lavoro,
cosi' da consentirne  l'immediata  verifica  da  parte  degli  organi
accertatori. 
    2.3.- Tali criticita' inducevano il legislatore a  riscrivere  di
nuovo la previsione sanzionatoria con l'art. 4, comma 1, della  legge
n. 183 del 2010. 
    La novita' di spicco - anche agli odierni fini - e' rappresentata
dalla ridefinizione della nozione di  "lavoro  sommerso",  contro  la
quale si rivolge la sanzione: nozione  che  e'  collegata,  non  piu'
all'utilizzazione di lavoratori non risultanti dalle scritture  o  da
altra documentazione obbligatoria, ma, in modo puntuale e  specifico,
all'impiego di lavoratori subordinati «senza preventiva comunicazione
di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro
privato». 
    La condotta integrativa dell'illecito e' ora costituita,  dunque,
dall'utilizzazione    di    dipendenti    senza    aver    effettuato
preventivamente  la  comunicazione  di  assunzione  al   centro   per
l'impiego, prescritta dall'art. 9-bis, comma 2, del decreto-legge  1°
ottobre 1996, n. 510  (Disposizioni  urgenti  in  materia  di  lavori
socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore
previdenziale), convertito, con modificazioni, in legge  28  novembre
1996, n. 608, come sostituito dall'art. 1, comma 1180, della legge 27
dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)»:
comunicazione che deve essere eseguita entro il giorno  precedente  a
quello di instaurazione del rapporto. 
    Al  tempo  stesso,  pero'  -  ed  e'  da  qui  che  trae  origine
l'incidente di costituzionalita' - l'art. 4,  comma  1,  lettera  b),
della legge n. 183 del 2010, sostituendo l'art. 3, comma 4, del  d.l.
n. 12 del 2002, stabilisce che «[l]e sanzioni di cui al comma  3  non
trovano  applicazione  qualora,  dagli   adempimenti   di   carattere
contributivo  precedentemente  assolti,  si  evidenzi   comunque   la
volonta'  di  non  occultare  il  rapporto,  anche  se  trattasi   di
differente qualificazione». 
    Nell'ottica  di  limitare   la   rilevante   sanzione   comminata
(usualmente qualificata, sin dalle origini, come "maxisanzione") agli
illeciti di  carattere  sostanziale,  e  non  meramente  formale,  si
prevede, dunque, che, in difetto della comunicazione obbligatoria  al
centro per l'impiego, la preventiva effettuazione di  adempimenti  di
tipo contributivo  valga,  comunque  sia,  a  rendere  inoperante  la
sanzione stessa, in quanto rivelatrice della volonta' del  datore  di
lavoro di non tenere celato il rapporto lavorativo. 
    2.4.- Dopo la legge n. 183 del 2010, la disciplina  sanzionatoria
in esame e' stata ritoccata ancora varie  volte.  Di  tali  ulteriori
modifiche  -  consistite  principalmente  in   ondivaghe   variazioni
dell'entita' delle sanzioni e dei relativi criteri di computo  -  non
occorre,  peraltro,  dar  conto  in  questa  sede,  in   quanto   non
significative ai fini dell'odierno scrutinio. 
    3.- Venendo ora, sulla scorta dell'excursus  condotto,  all'esame
delle questioni, le stesse si rivelano inammissibili. 
    3.1.- La rimettente Corte  d'appello  di  Napoli  e'  chiamata  a
pronunciarsi sull'opposizione all'ordinanza-ingiunzione con la quale,
a seguito di ispezione eseguita l'8 febbraio 2007, era stata inflitta
all'amministratrice di una societa'  la  sanzione  amministrativa  di
6.150 euro per aver impiegato un lavoratore irregolare: opposizione a
sostegno della  quale  l'opponente  aveva  dedotto  -  e  dimostrato,
secondo la stessa  Corte  rimettente  -  di  aver  effettuato,  prima
dell'ispezione (e dell'avvio al lavoro del dipendente),  la  denuncia
nominativa di quest'ultimo all'Istituto nazionale per l'assicurazione
contro gli  infortuni  sul  lavoro  (INAIL)  (adempimento  richiesto,
all'epoca dei fatti, dall'art. 14 del decreto legislativo 23 febbraio
2000, n. 38, recante «Disposizioni in materia di assicurazione contro
gli infortuni  sul  lavoro  e  le  malattie  professionali,  a  norma
dell'articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144»). 
    I dubbi di costituzionalita' prospettati  dalla  Corte  d'appello
poggiano, dunque, su una premessa: quella per cui l'effettuazione  di
comunicazioni prescritte a fini contributivi e previdenziali - quale,
nella  specie,  la  denuncia  nominativa  del  lavoratore  assicurato
all'INAIL - non fosse sufficiente ad  escludere  la  configurabilita'
dell'illecito di impiego di  lavoratori  irregolari,  nella  versione
delineata dal d.l. n. 223 del 2006, in quel momento  vigente.  Questo
risultato - di non punibilita' - lo si potrebbe ottenere, in assunto,
solo   tramite   l'applicazione   retroattiva   della    disposizione
successivamente introdotta dall'art. 4, comma 1,  lettera  b),  della
legge  n.  183  del  2010:  applicazione  retroattiva  che  la  norma
censurata non prevede, donde il  suo  denunciato  contrasto  con  gli
artt. 3 e 117, primo comma, Cost. 
    3.2.-  La  premessa   fondante   i   quesiti   resta,   tuttavia,
indimostrata. 
    Al riguardo, la Corte rimettente si limita, infatti, ad affermare
che la contraria convinzione espressa in  prime  cure  dal  Tribunale
ordinario di Napoli - secondo la quale la previsione sanzionatoria in
parola doveva  intendersi  riferita  solo  al  «personale  totalmente
sconosciuto alla P.A., in quanto non  iscritto  nella  documentazione
obbligatoria ne' oggetto di  alcuna  comunicazione  prescritta  dalla
normativa lavoristica o previdenziale» - «non [sarebbe]  sorretta  da
adeguata motivazione». 
    La Corte partenopea non spiega, pero', in  fatto,  quali  ragioni
impediscano di aderire alla soluzione interpretativa del  giudice  di
primo grado. 
    Come si  e'  visto,  alla  stregua  della  norma  dell'epoca,  il
lavoratore, per poter essere  considerato  «irregolare»,  non  doveva
«risultare» come tale ne' dalle «scritture»  obbligatorie  -  formula
riferibile essenzialmente ai  libri  di  matricola  e  di  paga  (poi
sostituiti dal libro unico del lavoro) - ne' da «altra documentazione
obbligatoria». 
    Tanto la Corte di cassazione, quanto la giurisprudenza di  merito
- sia pur pronunciando su  ipotesi  diverse  da  quella  oggetto  del
giudizio a quo - hanno  ritenuto  che,  alla  luce  di  tale  formula
legislativa e della ratio legis («contrastare alla radice il fenomeno
del c.d. "lavoro nero" che arreca danno ai diritti dei  lavoratori  e
agli interessi delle aziende in regola, con violazione  della  libera
concorrenza»), la norma punisse, in effetti, «solo i datori di lavoro
che     impiegano      lavoratori      assolutamente      sconosciuti
all'amministrazione» (in questo senso, Corte di  cassazione,  sezione
quinta civile, sentenza 28 maggio 2014, n. 11953). 
    La tesi - sostenuta, in  quest'ottica,  nella  giurisprudenza  di
merito - per cui,  gia'  prima  della  legge  n.  183  del  2010,  la
"maxisanzione"  non  poteva  essere  applicata  ove  da   adempimenti
obbligatori, precedentemente assolti, emergesse la  volonta'  di  non
occultare i rapporti di lavoro, risulta, d'altra  parte,  recepita  -
anche con specifico riguardo alla denuncia nominativa dell'assicurato
all'INAIL - in circolari del Ministero del  lavoro,  della  salute  e
delle politiche sociali recanti istruzioni per il personale ispettivo
(si vedano, in specie, la circolare n. 25/SEGR/4024 del 29 marzo 2007
e, in modo ancor piu' esplicito, la circolare n. 25/SEGR/0011469  del
21 agosto 2008). Tutto cio',  peraltro,  con  ampia  condivisione  da
parte della dottrina. 
    Appare significativo, del resto, che,  nel  giudizio  a  quo,  lo
stesso Ministero del lavoro, proponendo appello avverso  la  sentenza
del Tribunale ordinario di Napoli, non abbia affatto  contestato,  in
punto di diritto, l'interpretazione adottata  dal  giudice  di  primo
grado, ma abbia imperniato le sue difese solo su una  circostanza  di
fatto,  ossia  l'asserito  difetto  di  anteriorita'  della  denuncia
all'INAIL rispetto all'ispezione. 
    Ne'  gioverebbe   obiettare   che,   se   l'effettuazione   delle
comunicazioni a fini contributivi escludeva la natura irregolare  del
lavoro gia' nel vigore della norma precedente, non si  comprenderebbe
perche' il legislatore della legge n. 183  del  2010  abbia  ritenuto
necessario stabilire espressamente tale regola. 
    Come gia' posto in evidenza, con la novella del 2010  la  formula
descrittiva dell'illecito e' cambiata: la sanzione e'  ora  collegata
in modo specifico alla mancata effettuazione della  comunicazione  di
instaurazione del rapporto di lavoro, e  non  piu'  genericamente  al
fatto  che  il  lavoratore  non  risulti  da   «scritture   o   altra
documentazione obbligatoria». Se non vi fosse la norma censurata,  le
comunicazioni  a  fini  contributivi  -  benche'  rivelatrici   della
volonta' di non occultare il rapporto di  lavoro  -  non  varrebbero,
percio', piu' ad escludere l'applicabilita' della sanzione: esito che
il legislatore del 2010 ha voluto invece evitare. 
    4.- In questa prospettiva, le questioni vanno  dichiarate  dunque
inammissibili, per non avere il giudice a quo adeguatamente  motivato
la premessa ermeneutica che fonda i quesiti.