ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 37, primo
comma, numero 5), 44 e 55, secondo comma, dell'Allegato  A  al  regio
decreto 8 gennaio 1931,  n.  148  (Coordinamento  delle  norme  sulla
disciplina giuridica dei rapporti collettivi del  lavoro  con  quelle
sul trattamento giuridico-economico  del  personale  delle  ferrovie,
tranvie e linee di navigazione interna  in  regime  di  concessione),
promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel  procedimento
vertente tra M. P. e la A.T.B. Servizi  spa,  con  ordinanza  del  20
maggio 2019, iscritta  al  n.  187  del  registro  ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  45,  prima
serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto l'atto di costituzione della A.T.B. Servizi spa; 
    udito il Giudice relatore Franco Modugno, ai  sensi  del  decreto
della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a)
e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data  20
maggio 2020; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 giugno 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 maggio 2019,  la  Corte  di  cassazione,
sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. l, 2,  3,  4,
35 e 36 della Costituzione, questioni di legittimita'  costituzionale
degli  artt.  37,  primo  comma,  numero   5),   limitatamente   alla
«punizione»  della  «retrocessione»,  44   e   55,   secondo   comma,
limitatamente all'ipotesi della  retrocessione,  dell'Allegato  A  al
regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148 (Coordinamento delle norme sulla
disciplina giuridica dei rapporti collettivi del  lavoro  con  quelle
sul trattamento giuridico-economico  del  personale  delle  ferrovie,
tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione). 
    1.1.- La Corte rimettente riferisce, in punto di  fatto,  che  un
dipendente della  A.T.B.  Servizi  spa,  concessionaria  di  servizio
pubblico di  trasporto,  aveva  chiesto  al  Tribunale  ordinario  di
Bergamo, in funzione di  giudice  del  lavoro,  di  disporre  la  sua
reintegrazione nel profilo professionale di addetto all'esercizio con
parametro retributivo 193 e  la  cessazione  di  ogni  effetto  della
proroga  del  termine   previsto   per   gli   aumenti   contributivi
contrattualmente previsti. Il tutto, a decorrere dal 23 luglio  2009,
data  nella  quale  l'azienda  gli   aveva   inflitto   la   sanzione
disciplinare  della  retrocessione  di  due  gradi  nella   carriera,
prevista dall'art. 37 dell'Allegato  A  al  r.d.  n.  148  del  1931,
nonche' quella correlata, di cui al  successivo  art.  44,  ossia  la
proroga del termine normale per l'aumento della retribuzione, per  la
durata di sei mesi, «con riguardo a  tutti  gli  aumenti  retributivi
spettanti dopo  quello  che  sara'  per  primo  ritardato  a  seguito
dell'applicazione della retrocessione». 
    Il Tribunale adito - rilevato che l'attore  aveva  dedotto,  come
unico   motivo   a   sostegno   della    domanda,    l'illegittimita'
costituzionale delle citate disposizioni del r.d. n. 148 del 1931  in
riferimento agli  artt.  3  e  35  Cost.  -  respingeva  il  ricorso,
ritenendo   la    prospettata    questione    di    costituzionalita'
manifestamente infondata. 
    Contro la decisione il dipendente  proponeva  appello,  al  quale
resisteva la A.T.B.  Servizi  spa,  spiegando  a  sua  volta  appello
incidentale,  con  il  quale  chiedeva  la  riforma  della   sentenza
impugnata  nella  parte  in  cui  aveva   respinto   l'eccezione   di
inammissibilita', connessa al fatto che  l'unica  censura  mossa  dal
lavoratore   alle   sanzioni   irrogategli   era   la   denuncia   di
incostituzionalita'. 
    La Corte d'appello di Brescia, con sentenza del 27  giugno  2014,
confermava la pronuncia di primo grado, respingendo  tanto  l'appello
principale, quanto l'appello incidentale. 
    Il  giudice  d'appello  rilevava  che  il  lavoratore  non  aveva
contestato la sussistenza dell'illecito disciplinare, commesso  il  6
novembre 2008 nell'esercizio delle funzioni di controllore - illecito
per il quale era stato sottoposto a procedimento  penale,  conclusosi
con l'applicazione della pena di undici mesi di reclusione  ai  sensi
dell'art. 444 del codice di procedura penale - ma  aveva  chiesto  la
rimozione degli  effetti  delle  sanzioni  inflittegli,  sostenendone
l'illegittimita'   in   quanto   adottate   sulla   base   di   norme
incostituzionali. Di qui,  dunque,  l'ammissibilita'  della  domanda,
posto che  l'accertamento  dell'illegittimita'  costituzionale  delle
norme del r.d. n. 148 del 1931 non costituiva il petitum, ma solo  lo
strumento   per   conseguire   il   petitum,   rappresentato    dalla
reintegrazione nel profilo professionale  e  dalla  cessazione  della
proroga del termine per l'aumento stipendiale. 
    Quanto al merito del gravame, la Corte bresciana  condivideva  le
argomentazioni del giudice di primo grado, riguardo alla specialita',
sia pure residuale, del rapporto di lavoro degli addetti  ai  servizi
pubblici di trasporto in regime  di  concessione,  il  quale  -  come
affermato in piu' occasioni dalla Corte costituzionale -  costituisce
una forma intermedia tra l'impiego pubblico e quello privato: il  che
ne giustificava l'assoggettamento alla  speciale  disciplina  dettata
dal regio decreto  in  questione.  La  specialita'  del  rapporto  si
connetteva  all'interesse  collettivo   al   buon   funzionamento   e
all'efficienza del servizio pubblico  di  trasporto,  avuto  riguardo
alle multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome  o
di soggetti privati, dotati anche di poteri in ordine alla  sicurezza
e alla polizia dei trasporti. 
    Cio' rendeva non censurabile la scelta  del  legislatore  di  non
intervenire, modificandola,  sulla  speciale  regolamentazione  delle
sanzioni   disciplinari   per   i   dipendenti   di   tali   aziende:
regolamentazione che, in ragione dell'eterogeneita' delle situazioni,
non poteva  essere  utilmente  comparata,  al  fine  di  dedurne  una
violazione del principio  di  eguaglianza,  con  quella  prevista  in
rapporto ad altri lavoratori  subordinati  privati  o  ai  lavoratori
pubblici. 
    Manifestamente  infondata  doveva  ritenersi,  secondo  la  Corte
d'appello, anche l'eccezione di  incostituzionalita'  prospettata  in
riferimento all'art. 35, primo comma, Cost. Si trattava, infatti,  di
parametro non pertinente: tutelando  il  diritto  alla  formazione  e
all'elevazione professionale dei lavoratori, essa non  poneva  limiti
al legislatore in materia di sanzioni  disciplinari,  particolarmente
quanto alla possibilita' di  prevedere,  in  funzione  punitiva,  una
retrocessione in carriera. La carriera non  restava,  ad  ogni  modo,
bloccata, potendo sempre progredire; inoltre,  ammesso  pure  che  la
sanzione  comportasse  una  limitazione  del  diritto  quesito   alla
qualifica, si trattava di  una  limitazione  temporalmente  limitata,
posto che l'art. 44, ultimo comma, dell'Allegato A al r.d. n. 148 del
1931 prevedeva, per gli agenti ritenuti meritevoli,  la  possibilita'
di  ottenere  la  reintegrazione,  trascorso  almeno  un  anno  dalla
retrocessione,  con  conseguente  restituzione  della  qualifica   in
precedenza rivestita,  fermi  restando  gli  effetti  della  sanzione
accessoria della proroga. Ne' assumeva rilievo che il giudizio  sulla
meritevolezza fosse affidato al datore di lavoro,  dal  momento  che,
nel  caso  di  ingiustificata  negazione  della  reintegrazione,   il
lavoratore poteva rivolgersi, comunque sia, al giudice per far valere
le proprie ragioni. 
    La Corte d'appello rilevava, infine, come la retrocessione fosse,
in ogni caso, meno afflittiva del licenziamento  o,  con  riferimento
agli  autoferrotranvieri,  della  destituzione:   sanzione   la   cui
legittimita' era fuori discussione. 
    1.2.- La sentenza era impugnata dal dipendente  con  ricorso  per
cassazione. 
    Secondo il ricorrente, a torto  i  giudici  di  merito  avrebbero
ritenuto manifestamente infondate le questioni  di  costituzionalita'
prospettate. 
    La tutela del lavoro, prevista dall'art. 35, primo comma,  Cost.,
dovrebbe  ritenersi,  infatti,  estesa  anche  alla  professionalita'
maturata dal lavoratore, stante l'essenziale rilievo che la qualifica
riveste  nel  rapporto  di  lavoro  e  la  sua  connessione  con   la
personalita' del prestatore. In quest'ottica, la  qualifica  potrebbe
rimanere soggetta a variazioni in relazione alla modificazione  della
capacita' lavorativa del prestatore,  ma  non  per  motivi  puramente
disciplinari. 
    La previsione, ad opera delle norme censurate, della possibilita'
che il datore di lavoro, con  provvedimento  disciplinare,  privi  il
lavoratore della capacita' lavorativa raggiunta, retrocedendolo a una
qualifica inferiore, si porrebbe, d'altra parte, in contrasto con  la
disciplina stabilita dalla stessa legislazione ordinaria piu' recente
in rapporto alla generalita' dei lavoratori. 
    L'art. 2103 del codice civile - nel testo vigente  alla  data  di
applicazione della sanzione di cui  discute  nel  giudizio  a  quo  -
affermava,  infatti,  il  diritto  del  lavoratore  a  vedere  sempre
rispettate le mansioni e la qualifica per le quali e' stato  assunto,
o successivamente acquisite, sottraendole, cosi', indirettamente alla
sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari. 
    L'art. 7, comma quarto, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul
collocamento) stabilisce, a sua volta,  che,  fermo  restando  quanto
previsto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui  licenziamenti
individuali), non possono essere disposte sanzioni  disciplinari  che
comportino   mutamenti   definitivi   del   rapporto    di    lavoro.
Costituirebbe,  pertanto,  principio  generale  dell'ordinamento   in
materia di lavoro che  l'unica  modificazione  definitiva  consentita
come sanzione disciplinare  consista  nel  licenziamento,  quando  ne
ricorrano gli estremi. 
    Le norme censurate violerebbero,  di  conseguenza  -  secondo  il
ricorrente  -  anche  l'art.  3  Cost.,  prevedendo  una   disciplina
differenziata e peggiorativa per  i  soli  dipendenti  delle  aziende
ferrotranviarie. 
    Tale disparita' di trattamento non potrebbe essere giustificata -
come sostenuto dai giudici di merito - con l'asserita specialita' del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle aziende di trasporto pubblico
in regime di  concessione,  non  avendo  alcun  collegamento  con  le
peculiarita' di tale rapporto. Anche ad ammettere che  si  tratti  di
una forma di rapporto di lavoro intermedia tra l'impiego  pubblico  e
quello  privato,  non  vi  sarebbe  alcuna  plausibile  ragione   per
mantenere   una   sanzione   disciplinare   definitiva,   quale    la
retrocessione, che non e' prevista neppure  per  i  dipendenti  delle
pubbliche amministrazioni. 
    Nello  stesso  settore  del  trasporto  pubblico  e  privato,  la
sanzione in parola costituirebbe, in effetti, un unicum, non  essendo
contemplata dai contratti di lavoro collettivi  ne'  in  rapporto  ai
ferrovieri e agli autoferrotranvieri internavigatori delle  autolinee
private, ne' per  i  dipendenti  delle  Ferrovie  dello  Stato,  ne',
ancora, per i dipendenti delle aziende di trasporto merci. 
    La  sanzione   contestata   era   stata   tratta,   in   realta',
dall'armamentario sanzionatorio previsto per i militari:  il  che  la
renderebbe ormai priva di senso, non sussistendo piu' alcuna  ragione
di  equiparazione  tra  gli  appartenenti  alle  forze  armate  e   i
dipendenti del settore autoferrotranviario. 
    La Corte d'appello  avrebbe,  inoltre,  completamente  omesso  di
prendere  in  esame  l'eccezione  di  illegittimita'   costituzionale
formulata dal ricorrente in riferimento agli artt. 2 e 4 Cost. 
    Le  disposizioni  considerate  si  porrebbero,  in  effetti,   in
contrasto anche con l'art. 2 Cost. Il  diritto  al  lavoro  -  e,  di
conseguenza,  alla  qualifica  e  alla  mansione   corrispondente   -
andrebbe, infatti,  incluso  tra  i  diritti  inviolabili  dell'uomo,
essendo il lavoro non soltanto una fonte di sostentamento,  ma  anche
una manifestazione della personalita' del lavoratore. Il  diritto  in
questione  dovrebbe  essere  rispettato,  pertanto,  non   solo   dal
legislatore, ma anche da qualsiasi ordinamento  privato  che  intenda
prevedere sanzioni a carico dei suoi aderenti. 
    Sarebbe pure vulnerato l'art. 4 Cost., che  riprende  e  sviluppa
l'affermazione dell'art. 1  Cost.,  riguardo  al  riconoscimento  del
lavoro  come  principio   fondante   della   Repubblica.   La   norma
costituzionale assegna,  infatti,  al  lavoro  il  duplice  ruolo  di
diritto e di dovere, esaltandone la funzione non solo come  mezzo  di
produzione di ricchezza, ma anche  come  strumento  di  realizzazione
dell'individuo e delle sue aspirazioni. 
    Con riguardo, infine, alla limitazione temporale  della  sanzione
di cui si discute, cui aveva fatto riferimento  la  Corte  d'appello,
connessa  al  fatto  che,  a  mente  dell'art.  44,   ultimo   comma,
dell'Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, il prestatore puo'  ottenere
la restituzione nella qualifica rivestita prima della  retrocessione,
decorso un anno dal provvedimento, si trattava di  mera  eventualita'
rimessa  a  un  giudizio  discrezionale  di  meritevolezza  da  parte
dell'azienda. In fatto, il  ricorrente  si  era  visto  ripetutamente
respingere le istanze di reintegrazione nella qualifica rivolte  alla
societa' resistente, ed  era  dubbio  che  potesse  di  cio'  dolersi
davanti  al  giudice,  essendo  la  relativa  scelta   rimessa   alle
insindacabili determinazioni del datore di lavoro. 
    1.3.-  Ad  avviso  della  Corte  rimettente,  le  doglianze   del
ricorrente nel giudizio principale, ora ricordate, risulterebbero «in
larga parte giustificate» e rilevanti ai fini della definizione della
controversia. 
    A quest'ultimo riguardo, il giudice a quo osserva come, nel  caso
di specie, debba ritenersi pacificamente  operante  la  giurisdizione
ordinaria, non essendo state le  pronunce  di  merito  impugnate  sul
punto, con conseguente formazione del giudicato. Cio',  peraltro,  in
linea  con  la  giurisprudenza  della  stessa  Corte  di  cassazione,
costante - a partire dalla sentenza delle  sezioni  unite  civili  13
gennaio 2005, n. 460 - nel ritenere che le controversie in materia di
sanzioni  disciplinari  per  gli  addetti  al  servizio  pubblico  di
trasporto in concessione appartengono  alla  cognizione  del  giudice
ordinario, stante l'implicita abrogazione per  incompatibilita',  sin
dall'operativita' della  disposizione  originaria  dell'art.  68  del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29  (Razionalizzazione  della
organizzazione delle  Amministrazioni  pubbliche  e  revisione  della
disciplina in materia di pubblico impiego, a  norma  dell'articolo  2
della legge 23 ottobre 1992, n. 421), della giurisdizione del giudice
amministrativo prefigurata dall'art. 58 dell'Allegato A  al  r.d.  n.
148 del 1931. 
    L'ordinanza di rimessione richiama diffusamente, in proposito, la
sentenza delle sezioni unite civili 13 giugno 2008, n. 15917, ove  si
conclude che, a  fronte  della  chiara  e  univoca  evoluzione  della
disciplina   del   rapporto   di   pubblico   impiego,   nel    segno
dell'attrazione  nell'area  generale  del  diritto  privato,  diviene
difficile «sostenere ancora la specialita'  del  rapporto  di  lavoro
degli autoferrotranvieri», che dovrebbe giustificare la giurisdizione
del giudice amministrativo. 
    Risulterebbero, pertanto, superate le pronunce con  le  quali  la
Corte costituzionale aveva dichiarato  manifestamente  inammissibili,
per difetto di giurisdizione del giudice a quo, precedenti  questioni
intese a censurare la previsione della sanzione disciplinare  di  cui
si discute (ordinanze n. 60 del 1994 e n. 458 del 1992). 
    Neppure, per altro verso, sarebbe possibile  una  interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa sottoposta a  scrutinio,
stante il suo  univoco  tenore  letterale.  Il  legislatore  avrebbe,
d'altra parte, recentemente  mostrato  -  sia  pure  «con  eccentrica
tecnica normativa» - di voler ripristinare indistintamente il vetusto
regio decreto  in  questione.  L'art.  27,  comma  12-quinquies,  del
decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in  materia
finanziaria, iniziative a favore degli enti  territoriali,  ulteriori
interventi per le zone colpite da eventi  sismici  e  misure  per  lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017,
n. 96, aveva infatti disposto l'abrogazione del r.d. n. 148 del 1931,
salva la  sua  applicazione  fino  al  primo  rinnovo  del  contratto
collettivo nazionale di lavoro e, comunque sia,  non  oltre  un  anno
dalla data di  entrata  in  vigore  del  citato  decreto-legge.  Tale
disposizione  e'  stata,  pero',  a  sua  volta  abrogata   dall'art.
9-quinquies, comma  1,  del  decreto-legge  20  giugno  2017,  n.  91
(Disposizioni urgenti per la  crescita  economica  nel  Mezzogiorno),
convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2017, n. 123. 
    Il r.d. n. 148  del  1931  dovrebbe  essere  ritenuto,  pertanto,
ancora in vigore e quindi applicabile nella fattispecie  oggetto  del
giudizio a quo. Esso, nell'Allegato A, all'art. 37,  include  tra  le
«punizioni che si possono infliggere agli agenti» la  «retrocessione»
(numero 5), precisando, al successivo art.  44,  secondo  comma,  che
«[p]er effetto della retrocessione gli agenti vengono  trasferiti  al
grado immediatamente inferiore», ma che quando il provvedimento viene
applicato, ai sensi dell'art. 55, in sostituzione della destituzione,
«puo' farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi», e
che, in ogni  caso,  «[a]lla  retrocessione  va  sempre  aggiunta  la
proroga del termine normale per l'aumento dello stipendio o paga, per
la durata di tre o di sei mesi» (quarto comma).  Lo  stesso  art.  44
aggiunge, al quinto comma, che,  «[d]opo  trascorso  almeno  un  anno
dalla retrocessione, gli agenti  che  ne  siano  ritenuti  meritevoli
possono ottenere  la  reintegrazione,  per  effetto  della  quale  e'
restituita  a  ciascuno  la  qualifica  che  prima  rivestiva,  fermi
restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva  la
facolta' nell'azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi del
terzo e quarto comma dell'art. 43». L'art. 55 stabilisce, infine, che
«[l]e  autorita'  competenti  a  giudicare  delle  singole   mancanze
possono, a seconda delle circostanze e nel  loro  prudente  criterio,
applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per  le
mancanze stesse» (primo coma), soggiungendo  che,  quando  «in  luogo
della destituzione si  infligge  la  retrocessione,  la  proroga  del
termine normale per l'aumento dello  stipendio  o  della  paga  o  la
sospensione dal servizio, a tali provvedimenti puo' essere  aggiunto,
come punizione accessoria e con le norme dell'art.  37,  il  trasloco
punitivo» (secondo comma). 
    1.4.- La sanzione disciplinare considerata apparirebbe, peraltro,
non solo «inattuale»,  ma  anche  irragionevole  «per  effetto  delle
novita' politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo
tempo trascorso,  caratterizzate  essenzialmente  dal  mutato  regime
costituzionale». 
    Come emerge  dallo  stesso  lessico  normativo,  si  tratterebbe,
infatti, di una sanzione a carattere «punitivo e militaresco», che si
ripercuote  di  regola  a   tempo   indeterminato   sulla   qualifica
professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso  apprezzamento
del datore di lavoro riguardo alla «meritevolezza» di  un  ripristino
della qualifica precedente: valutazione  che,  per  la  vaghezza  del
parametro,   implicherebbe   una   mera   facolta'   per   l'azienda,
difficilmente censurabile  dal  dipendente  in  sede  giudiziale.  La
misura assumerebbe, quindi, i connotati di una vera  e  propria  pena
dal contenuto «afflittivo, umiliante e degradante», piuttosto che  di
una mera  sanzione  disciplinare,  rimanendo  priva,  come  tale,  di
riscontro nei trattamenti disciplinari riservati ad altri  dipendenti
civili, anche  di  categorie  similari  (quali  i  ferrovieri,  e  il
personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato). 
    Per il suo «retrivo aspetto  etico-sociale»,  la  sanzione  della
retrocessione si porrebbe, altresi', in contrasto con l'art. 2 Cost.,
che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua  personalita';  nonche'
con l'art. 35  Cost.,  particolarmente  laddove,  al  secondo  comma,
stabilisce che  la  Repubblica  cura  la  formazione  e  l'elevazione
professionale dei lavoratori: indicazione con la  quale  risulterebbe
incompatibile il  carattere  afflittivo  e  tendenzialmente  a  tempo
indeterminato della sanzione in questione. 
    Stante la rilevata indeterminatezza temporale, essa finirebbe per
incidere  negativamente   anche   sul   diritto   alla   retribuzione
proporzionata alla quantita' e qualita' del lavoro svolto, e in  ogni
caso sufficiente  ad  assicurare  un'esistenza  libera  e  dignitosa,
garantito dall'art. 36 Cost. 
    Il giudice a quo ricorda, ancora, come nella recente sentenza  n.
194 del 2018 la Corte  costituzionale,  nel  ritenere  inadeguato  il
ristoro  economico  previsto  dall'art.  3,  comma  1,  del   decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto
di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in  attuazione
della legge 10  dicembre  2014,  n.  183)  a  favore  del  lavoratore
illegittimamente licenziato, abbia posto in risalto  il  «particolare
valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (articoli  1,  primo
comma, 4 e 35 della Costituzione) per realizzare  un  pieno  sviluppo
della personalita' umana», sottolineando, altresi', come il  «diritto
al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro  «in
tutte le sue forme e applicazioni»  (art.  35,  primo  comma,  Cost.)
comportino la «garanzia dell'esercizio nei luoghi di lavoro di  altri
diritti fondamentali costituzionalmente garantiti». 
    2.- Si e'  costituita  la  A.T.B.  Servizi  spa,  resistente  nel
giudizio a quo, chiedendo il rigetto delle questioni. 
    2.1.- Per quel che attiene alla denunciata violazione dell'art. 3
Cost., risulterebbe  del  tutto  condivisibile  -  secondo  la  parte
costituita  -  l'affermazione  della  Corte  d'appello  di   Brescia,
riguardo all'impossibilita' di comparare la disciplina in  esame  con
quella  riguardante  altri  lavoratori  subordinati   privati   o   i
dipendenti  pubblici:  e  cio'  in  ragione  delle  peculiarita'  del
rapporto di  lavoro  degli  autoferrotranvieri,  che  lo  distinguono
dall'ordinario rapporto di lavoro pubblico o privato. 
    Il giudice a quo non avrebbe, peraltro, indicato in  modo  chiaro
quale sia, a suo avviso, il tertium comparationis rispetto  al  quale
andrebbe valutata la differenza di trattamento. 
    Dal tenore complessivo  dell'ordinanza  e,  in  particolare,  dal
richiamo all'art. 7 della legge n. 300  del  1970,  parrebbe  che  la
Corte  rimettente  intenda  istituire   una   comparazione   con   la
generalita'  dei  lavoratori  non  soggetti  all'applicazione   della
disciplina speciale relativa gli autoferrotranvieri. Se cosi'  fosse,
tuttavia, l'individuazione  del  tertium  comparationis  risulterebbe
errata, non essendo state correttamente interpretate le  disposizioni
del r.d. n. 148 del 1931 applicabili nella fattispecie concreta. 
    Nella specie, infatti, la retrocessione era  stata  applicata  ai
sensi del secondo  comma  dell'art.  55  dell'Allegato  A,  il  quale
consente al datore di lavoro di disporre la retrocessione  «in  luogo
della destituzione». La sanzione in  questione  costituisce,  dunque,
per   gli   autoferrotranvieri,   un'alternativa   al   licenziamento
disciplinare: licenziamento che - come  e'  incontroverso  -  avrebbe
potuto essere inflitto, nel caso di  specie,  al  lavoratore  per  il
grave comportamento in servizio di cui si era reso responsabile.  Per
effetto del combinato disposto  dei  censurati  artt.  44  e  55,  il
lavoratore si e' visto, dunque,  infliggere  una  sanzione  che,  per
quanto afflittiva, gli ha permesso di conservare il posto di lavoro. 
    Sarebbe, di conseguenza, evidente che  il  tertium  comparationis
non deve essere individuato nell'art. 7 della legge n. 300 del  1970,
nella parte in cui disciplina le sanzioni conservative, ma  nell'art.
2119 cod. civ. e nell'art. 3 della legge  n.  604  del  1966,  ossia,
rispettivamente, nella disciplina del recesso per giusta causa e  del
giustificato motivo oggettivo di licenziamento. 
    In tale prospettiva, il quesito che occorrerebbe porsi e' se  sia
ragionevole e compatibile con l'art. 3 Cost. una norma  speciale  che
consenta, quale alternativa al licenziamento, la retrocessione: e  la
risposta non potrebbe che essere positiva. Nel nostro ordinamento, il
licenziamento  deve  essere,  infatti,  considerato  come  un'extrema
ratio, con la conseguenza che qualsiasi soluzione alternativa che  lo
eviti va valutata positivamente. 
    La possibilita' di adibire il  lavoratore  a  mansioni  inferiori
quale  alternativa  al  licenziamento  sarebbe   oggi   di   generale
applicazione, a seguito della modifica apportata  nel  2015  all'art.
2103 cod. civ.: ma gia'  prima  di  tale  modifica  era  generalmente
accettato il principio per cui  era  non  solo  possibile,  ma  anche
doveroso,  per  il  datore  di  lavoro,  «ai  fini  dell'assolvimento
dell'onere di repechage», prospettare al lavoratore  la  possibilita'
di  essere  adibito  a  mansioni  inferiori  quale   alternativa   al
licenziamento. 
    Disposizioni speciali,  d'altra  parte,  prevedono  espressamente
tale possibilita' in particolari  casi  (quali,  ad  esempio,  quelli
delle lavoratrici in stato di gravidanza e dei lavoratori disabili). 
    2.2.- Insussistente  sarebbe  anche  la  violazione  dell'art.  2
Cost., prospettata dalla Corte rimettente sulla base del mero rilievo
che   la   retrocessione   presenterebbe    un    «retrivo    aspetto
etico-sociale»: rilievo  privo  di  consistenza,  una  volta  che  si
consideri che tale sanzione, per come  disciplinata  dalla  normativa
sugli   autoferrotranvieri,   rappresenta    una    alternativa    al
licenziamento. 
    In  ogni  caso,  poi,  la  qualifica  -  sulla  quale  incide  la
retrocessione  -  non  potrebbe  essere  considerata  oggetto  di  un
«diritto  inviolabile  dell'uomo»,  trattandosi  semplicemente  dello
strumento con il quale la contrattazione collettiva attribuisce  allo
svolgimento di determinate mansioni  un  certo  livello  retributivo.
Essa non avrebbe alcun legame diretto  con  la  professionalita'  del
lavoratore, la quale discende dalla mansione, a  nulla  rilevando  le
capacita'  soggettive  possedute  dal  lavoratore  stesso:  le  parti
possono, infatti, attribuire al lavoratore una qualifica superiore  a
quella riconducibile alle  mansioni  effettivamente  svolte,  e  cio'
perche' la qualifica e' disponibile. 
    2.3.- Egualmente  infondata  sarebbe  la  censura  di  violazione
dell'art. 35 Cost. 
    Nel caso in cui il lavoratore svolga mansioni superiori a  quelle
inerenti alla qualifica riconosciutagli, avra' diritto  a  conseguire
la qualifica superiore: ma cio' per effetto dell'art. 2103 cod. civ.,
e non gia' della tutela costituzionale del lavoro prevista  dall'art.
35 Cost., tanto e' vero che il meccanismo  di  promozione  automatica
non vale per tutti i lavoratori subordinati. 
    Esso non vale, in particolare, per i dipendenti  pubblici  e  per
gli   stessi   autoferrotranvieri.    Per    costante    orientamento
giurisprudenziale, infatti, l'art. 2103 cod. civ. non e'  applicabile
al rapporto di lavoro degli  autoferrotranvieri,  rispetto  ai  quali
opera invece la speciale previsione dell'art. 18 dell'Allegato  A  al
r.d. n. 148 del 1931: disposizione della quale  la  stessa  Corte  di
cassazione ha ripetutamente escluso il contrasto con gli artt. 3 e 35
Cost. 
    2.4.- Quanto, poi, alla  questione  prospettata  con  riferimento
all'art. 36 Cost., il parametro della  retribuzione  proporzionata  e
sufficiente non avrebbe alcuna attinenza con il giudizio nel quale e'
stato  sollevato  l'incidente  di  costituzionalita',  posto  che  il
lavoratore ricorrente non ha mai lamentato  di  aver  percepito,  per
effetto della retrocessione  impugnata,  un  trattamento  retributivo
inferiore  al  minimo  costituzionale.  Si  tratterebbe,  dunque,  di
censura meramente ipotetica e, percio', inammissibile. 
    In ogni caso, la violazione ipotizzata non sarebbe configurabile. 
    Il lavoratore retrocesso  percepisce,  infatti,  la  retribuzione
contrattualmente  dovuta  per  le  mansioni   di   destinazione:   la
retribuzione e', quindi, certamente proporzionale  alla  quantita'  e
qualita' del lavoro svolto, perche' e' quella percepita  da  tutti  i
lavoratori che svolgono tali mansioni. 
    2.5.- Per quel che  attiene,  infine,  alla  questione  posta  in
riferimento agli artt. 1 e 4  Cost.,  la  censura  sarebbe  anche  in
questo caso  inammissibile,  mancando  nell'ordinanza  di  rimessione
qualsiasi indicazione in ordine ai motivi del supposto conflitto  con
i  parametri  evocati.  La  Corte  rimettente  si  sarebbe,  infatti,
limitata a riportare uno stralcio della  sentenza  n.  194  del  2018
della Corte costituzionale, nel quale si fa  riferimento  anche  agli
artt. 1 e 4 Cost. per porre in evidenza il «particolare valore che la
Costituzione attribuisce al lavoro»: affermazione  indiscutibile,  ma
che non varrebbe affatto a  spiegare  le  ragioni  per  le  quali  la
retrocessione dell'autoferrotranviere vulnererebbe tali parametri. 
    Peraltro, se si considera che la  retrocessione,  consistendo  in
un'alternativa  al  licenziamento,  determina  una  riduzione   delle
ipotesi nelle quali il datore di lavoro ha la facolta' di licenziare,
si dovrebbe necessariamente concludere  che  la  previsione  di  tale
sanzione  e'  pienamente  conforme  alla  garanzia  di  promozione  e
valorizzazione del diritto al lavoro, desumibile dall'art.  4,  primo
comma, Cost., valendo a  preservare  l'interesse  del  lavoratore  al
mantenimento  dell'occupazione,  pur  in   presenza   di   un   grave
inadempimento. 
    3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non  e'  intervenuto
in giudizio. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  La  Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,  dubita   della
legittimita' costituzionale degli artt. 37, primo comma,  numero  5),
limitatamente alla «punizione» della retrocessione, 44 e 55,  secondo
comma, limitatamente all'ipotesi della retrocessione, dell'Allegato A
al regio decreto 8 gennaio 1931, n. 148  (Coordinamento  delle  norme
sulla disciplina giuridica dei rapporti  collettivi  del  lavoro  con
quelle  sul  trattamento  giuridico-economico  del  personale   delle
ferrovie, tranvie  e  linee  di  navigazione  interna  in  regime  di
concessione). 
    Ad  avviso  della  Corte  rimettente,  le  norme   censurate   si
porrebbero in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. La  sanzione
disciplinare - di stampo «militaresco» - della retrocessione, da esse
prevista  nei  confronti  degli  addetti  al  servizio  pubblico   di
trasporto in regime di concessione, apparirebbe, infatti, «inattuale»
e   irragionevole:   ripercuotendosi    a    tempo    tendenzialmente
indeterminato   sulla   qualifica   professionale   conseguita    dal
lavoratore, essa assumerebbe i tratti di una vera e propria pena  dal
contenuto  «mortificante»,  priva  di   riscontro   nei   trattamenti
disciplinari  riservati  alla  generalita'  degli  altri   dipendenti
civili, anche di categorie similari. 
    Le medesime disposizioni violerebbero, altresi', l'art. 2  Cost.,
che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita', stante il
«retrivo aspetto etico-sociale» della sanzione considerata; l'art. 35
Cost., in quanto il carattere afflittivo e la durata  tendenzialmente
indeterminata della retrocessione  risulterebbero  incompatibili  con
l'imperativo   costituzionale   di   promuovere   la   formazione   e
l'elevazione professionale dei lavoratori; l'art. 36  Cost.,  per  la
negativa incidenza della sanzione sul diritto del  lavoratore  a  una
retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del lavoro, e in
ogni caso sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e  dignitosa;
infine, gli artt. 1 e 4 Cost., dai quali emerge il particolare valore
che  la  Costituzione  attribuisce  al  lavoro  quale  strumento  per
realizzare un pieno sviluppo della personalita' umana. 
    2.-  In  via  preliminare,  va  escluso  che  le   questioni   di
legittimita'  costituzionale  sollevate  debbano  essere   dichiarate
inammissibili per difetto di incidentalita', in ragione del fatto che
l'unico motivo addotto dal ricorrente nel giudizio a quo  a  sostegno
della   propria   domanda   e'   rappresentato    dalla    denunciata
incostituzionalita' di due delle tre disposizioni oggi  sottoposte  a
scrutinio (gli artt. 37 e 44 dell'Allegato  A  al  r.d.  n.  148  del
1931),  sulla  cui  base  gli  sono  state   inflitte   le   sanzioni
disciplinari di  cui  chiede  di  rimuovere  gli  effetti  (eccezione
formulata dalla parte  costituita  nel  secondo  grado  del  giudizio
principale, ma non riproposta nel presente giudizio). 
    Non  vi  e',  infatti,  coincidenza  tra  petitum  del   giudizio
incidentale e petitum del giudizio principale:  l'accoglimento  delle
questioni rappresenta  solo  la  pregiudiziale  logico-giuridica  per
l'ottenimento del risultato cui mira  la  domanda,  costituito  dalla
reintegrazione del lavoratore  nella  qualifica  e  dalla  cessazione
della proroga del termine normale per gli aumenti delle  retribuzioni
(sull'ammissibilita'  della  questione  in  consimili   ipotesi,   ex
plurimis, sentenze n. 119 del 2020 e n. 16 del 2017; ordinanza n. 138
del 2017). 
    3.- Neppure  ricorre  la  ragione  che  indusse  questa  Corte  a
dichiarare  manifestamente  inammissibili  precedenti  questioni   di
legittimita'  costituzionale,  intese   a   censurare   la   sanzione
disciplinare di cui si discute (ordinanze n. 60 del 1994 e n. 458 del
1992). 
    In entrambe le occasioni, questa Corte rilevo' che  le  questioni
erano state sollevate da un giudice ordinario (il Pretore di  Napoli,
sezione distaccata di Pozzuoli), da ritenere ictu  oculi  carente  di
giurisdizione, a fronte di quanto disposto dall'art. 58 dell'Allegato
A al r.d. n. 148 del 1931, che devolveva la giurisdizione in tema  di
sanzioni disciplinari a  carico  del  personale  addetto  ai  servizi
pubblici di trasporto in concessione al giudice amministrativo. 
    Tale motivo di inammissibilita' non e' riscontrabile nell'odierno
frangente. 
    Di la' dal fatto che - come rilevato dalla Corte rimettente -  le
pronunce di merito emesse nel  giudizio  principale  non  sono  state
impugnate sullo specifico punto della giurisdizione, con  conseguente
formazione  del  giudicato,  la  giurisprudenza  di  legittimita'  e'
attualmente costante - di seguito al revirement operato dalle sezioni
unite civili della Corte di cassazione con  la  sentenza  13  gennaio
2005, n. 460 - nel ritenere che il citato  art.  58  debba  ritenersi
implicitamente abrogato, per incompatibilita', sin  dall'operativita'
della disposizione originaria dell'art. 68 del decreto legislativo  3
febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione  della  organizzazione  delle
Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia  di
pubblico impiego, a norma dell'articolo  2  della  legge  23  ottobre
1992, n. 421): con la conseguenza  che  le  controversie  considerate
rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. 
    4.- Non sono fondate neanche  le  eccezioni  di  inammissibilita'
formulate dalla parte costituita con riguardo a specifiche censure. 
    4.1.-  In  particolare,  la  questione  intesa  a  denunciare  la
violazione  dell'art.  36   Cost.   non   puo'   essere   considerata
«ipotetica», e dunque priva di rilevanza attuale, per il  solo  fatto
che, nel giudizio a quo, il lavoratore ricorrente non ha lamentato di
aver percepito,  per  effetto  della  retrocessione,  un  trattamento
retributivo inferiore al minimo costituzionale. 
    La questione non  mira,  infatti,  a  modificare  il  trattamento
retributivo del lavoratore retrocesso, ma - al pari delle altre -  ad
eliminare la sanzione  della  retrocessione,  con  ogni  conseguenza.
Ancorche', nel giudizio principale, il ricorrente non abbia posto  un
problema di sufficienza della retribuzione attualmente percepita,  la
questione risulta indubbiamente rilevante: se fosse ritenuta fondata,
il dipendente otterrebbe, infatti, il risultato che  si  e'  prefisso
(rimozione degli effetti della sanzione), altrimenti preclusogli. 
    4.2.- Non e'  riscontrabile,  del  pari,  l'eccepito  difetto  di
motivazione  sulla  non  manifesta   infondatezza   della   questione
sollevata in riferimento agli artt. 1 e 4 Cost. 
    La Corte rimettente richiama, a  tal  riguardo,  alcuni  passaggi
della sentenza n. 194 del 2018 di  questa  Corte,  nei  quali  si  fa
riferimento ai citati parametri costituzionali, per porre in evidenza
il «particolare valore che la Costituzione  attribuisce  al  lavoro»,
quale mezzo «per realizzare il pieno sviluppo della  persona  umana»:
affermazioni che il  giudice  a  quo  reputa  riferibili  anche  allo
specifico aspetto della qualificazione professionale del  lavoratore,
sul quale incide la  retrocessione.  Il  che  e'  sufficiente  a  far
comprendere il nucleo della censura. 
    5.-  Del  tutto   condivisibile   risulta,   per   altro   verso,
l'affermazione  della  Corte  rimettente  riguardo  alla   perdurante
vigenza del r.d. n. 148 del 1931, recante la disciplina del  rapporto
di lavoro degli autoferrotranvieri: espressione, questa,  di  sintesi
con la quale si designa comunemente la  categoria  degli  addetti  ai
servizi pubblici di trasporto in regime di concessione. 
    Il provvedimento in questione riordina  disposizioni  introdotte,
sotto la spinta delle agitazioni sindacali di  categoria,  a  partire
dai primi anni del '900, volte a garantire l'«equo trattamento» (come
fu poi definito) dei dipendenti del settore, e, al tempo  stesso,  il
regolare funzionamento di  un  servizio  che  appariva  di  rilevanza
strategica: disposizioni che assumevano come modello  di  riferimento
la  disciplina  concernente  i  dipendenti  delle  ferrovie   gestite
direttamente dallo Stato. 
    Il regime, cosi' delineato, conferiva al rapporto di lavoro degli
autoferrotranvieri connotati di specialita', configurandolo come  una
sorta di tertium genus, intermedio tra l'impiego pubblico e l'impiego
privato (sentenze n. 500 del 1988, n. 300  del  1985  e  n.  257  del
1984). Soluzione che questa Corte reputo' giustificata, in rapporto a
varie  sue  espressioni,   alla   luce   dell'intento   di   tutelare
«l'interesse collettivo - ritenuto preminente - al buon funzionamento
ed efficienza  del  servizio  pubblico  del  trasporto  [...],  avuto
riguardo alle variegate e multiformi tipologie di gestione  da  parte
di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti  in  regime
di concessione e con poteri derivanti dal rapporto di concessione  in
ordine anche alla sicurezza e alla polizia dei trasporti»  (ordinanze
n. 439 e n. 161 del 2002; in senso analogo, sentenza n. 62 del 1996). 
    Le profonde  modifiche  del  panorama  normativo  di  riferimento
intervenute nel corso del tempo - prime fra tutte, quelle  che  hanno
portato alla progressiva privatizzazione dell'azienda delle  Ferrovie
dello Stato e, amplius, del settore  dei  trasporti  pubblici,  e  al
progressivo, generale assoggettamento del  rapporto  di  lavoro  alle
dipendenze  delle  pubbliche  amministrazioni  alla  disciplina   del
rapporto di lavoro privato - hanno generato  dubbi  sulla  perdurante
attualita' delle ragioni che sorreggevano la speciale disciplina  del
1931. 
    Nondimeno, il legislatore ha  univocamente  inteso  mantenere  in
vita il testo normativo considerato. 
    Il provvedimento e' stato, infatti, incluso tra quelli  anteriori
al 1° gennaio 1970, di cui l'art. 1, comma 1, del decreto legislativo
1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali  anteriori
al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore, a norma dell'articolo 14 della legge  28  novembre  2005,  n.
246), in combinato disposto con l'Allegato 1 allo stesso decreto,  ha
ritenuto indispensabile la permanenza in vigore. 
    Successivamente, l'art. 27, comma 12-quinquies, del decreto-legge
24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in  materia  finanziaria,
iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per
le zone  colpite  da  eventi  sismici  e  misure  per  lo  sviluppo),
convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96,  ha
disposto l'abrogazione del  r.d.  n.  148  del  1931,  salva  la  sua
applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale
di settore e, comunque sia, non oltre un anno dall'entrata in  vigore
del medesimo decreto-legge. Ma prima che tale  termine  spirasse,  il
legislatore e' tornato sui suoi passi. La disposizione abrogatrice e'
stata, infatti, a sua volta abrogata dall'art. 9-quinquies, comma  1,
del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per  la
crescita economica nel Mezzogiorno), convertito,  con  modificazioni,
nella legge 3 agosto 2017, n. 123. Cio' a testimonianza del fatto che
il legislatore continua ad annettere una valenza  significativa  alla
presenza nel sistema di una regolamentazione speciale di settore. 
    6.- Il r.d. n. 148 del 1931 dedica  ampio  spazio  alla  tematica
delle sanzioni disciplinari (ivi qualificate  come  «punizioni»)  nel
Titolo VI dell'Allegato A: allegato che, malgrado la denominazione di
«[r]egolamento contenente  disposizioni  sullo  stato  giuridico  del
personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione  interna  in
regime di concessione», ha natura di fonte primaria (sentenza n.  500
del 1988; nella giurisprudenza di legittimita', ex plurimis, Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenze 12 settembre 2019, n. 22809 e 31
maggio 2017, n. 13804). 
    L'art. 37 prevede, in specie,  sei  tipi  di  sanzioni  (censura,
multa, sospensione dal servizio, proroga del  termine  per  l'aumento
dello stipendio, retrocessione e destituzione), graduate in base alla
gravita' dell'infrazione,  anche  in  relazione  al  danno  provocato
all'azienda (articoli da 38 a 45). 
    La retrocessione (art. 37, primo comma, numero 5)  -  alla  quale
specificamente attengono le odierne questioni - e' la  sanzione  piu'
grave dopo il licenziamento  (qualificato  come  «destituzione»,  con
chiara eco pubblicistica). Essa e' irrogata al dipendente che si  sia
reso colpevole dei fatti indicati nell'art. 44, primo comma. 
    La retrocessione comporta, di norma, il trasferimento dell'agente
al «grado» - ossia alla qualifica - immediatamente inferiore a quella
posseduta (art. 44, secondo comma). Ad essa e' «sempre»  aggiunta  la
sanzione della  proroga  del  termine  normale  per  l'aumento  della
retribuzione, per la durata di tre o di sei  mesi  (art.  44,  quarto
comma). Quest'ultima sanzione colpisce, dunque, gli  avanzamenti  nel
trattamento economico garantito all'agente, per disposizione di legge
o del contratto collettivo,  ripercuotendosi  su  tutti  gli  aumenti
dovuti dopo quello che, per effetto della sanzione stessa, resta  per
primo ritardato (art. 43, secondo comma). 
    Decorso un anno, gli effetti della retrocessione  possono  essere
fatti cessare, ove  l'agente  ne  venga  ritenuto  «meritevole»,  con
conseguente  sua  reintegrazione  nella   qualifica   in   precedenza
rivestita,  fermi  restando  gli  effetti  prodotti  dalla   sanzione
accessoria della proroga. L'azienda puo', peraltro,  rimuovere  anche
questi ultimi, ai sensi dell'art. 43, commi terzo e quarto (art.  44,
quinto comma). 
    L'art.  55  prevede,  inoltre,  in  termini  generali,   che   le
«autorita' competenti» possano, «a seconda delle  circostanze  e  nel
loro prudente criterio», applicare una sanzione di grado inferiore  a
quella stabilita per le singole mancanze (art. 55, primo comma). Ove,
peraltro,  nell'esercizio  di   tale   facolta',   in   luogo   della
destituzione sia inflitta  la  retrocessione,  l'agente  puo'  essere
eccezionalmente retrocesso - anziche' di un grado, come di norma - di
due gradi (art. 44, secondo comma), e al  provvedimento  puo'  essere
aggiunto, come «punizione accessoria», il «trasloco  punitivo»  (art.
55, secondo comma). 
    7.- Con le questioni sollevate, la sezione lavoro della Corte  di
cassazione  censura  l'istituto   della   retrocessione   nella   sua
globalita'. Presupposto fondante delle doglianze e' che la previsione
di  tale  sanzione  -  di  stampo  «militaresco»  e   dal   contenuto
«afflittivo, umiliante e degradante», nella misura in  cui  incide  a
tempo indeterminato sulla  qualifica  professionale  del  lavoratore,
salva la possibilita' di una reintegrazione lasciata  sostanzialmente
al   ben   volere   dell'azienda   -   penalizzi    irragionevolmente
l'autoferrotranviere nel confronto con  la  generalita'  degli  altri
dipendenti  «civili»,  anche  di  categorie  affini  (ferrovieri   in
primis),   vulnerando,   con   cio',   un   complesso   di    diritti
costituzionalmente garantiti  che  ruotano  attorno  al  rapporto  di
lavoro. 
    In proposito, occorre tuttavia  osservare  che  -  alla  luce  di
quanto in precedenza indicato - la retrocessione puo' essere inflitta
in due diverse ipotesi: da un lato, cioe', quale sanzione  "diretta",
nei  confronti  dell'autoferrotranviere  resosi  responsabile   degli
illeciti   disciplinari   previsti   dall'art.   44,   primo   comma,
dell'Allegato A al r.d.  n.  148  del  1931;  dall'altro  lato,  come
sanzione   "sostitutiva"   della    destituzione,    nei    confronti
dell'autoferrotranviere macchiatosi di illeciti  (in  specie,  quelli
indicati dal successivo  art.  45)  che  pure  giustificherebbero  la
sanzione espulsiva. 
    Si tratta di  ipotesi  che  assumono  connotazioni  distinte,  in
rapporto   ai   problemi   di   ordine   costituzionale   prospettati
nell'ordinanza  di  rimessione,   e   che   vanno   tenute,   quindi,
necessariamente separate ai fini del presente scrutinio. 
    Tra di esse, quella che viene in rilievo nel giudizio a quo e' la
seconda. Nella specie, infatti, la retrocessione e' stata inflitta al
dipendente,  ai  sensi  del  censurato  art.   55,   secondo   comma,
dell'Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, in  luogo  di  quella  della
destituzione, cui sarebbe stato esposto  in  ragione  della  gravita'
dell'infrazione disciplinare commessa (per la quale  e'  stato  anche
sottoposto a procedimento penale, conclusosi con  l'applicazione,  su
richiesta, di una pena di undici mesi di reclusione). 
    Tale circostanza, sulla  quale  insiste  la  difesa  della  parte
costituita - ossia la natura "sostitutiva"  della  misura  -  non  e'
riferita, in verita', in modo esplicito nell'ordinanza di rimessione.
La si desume, tuttavia, con certezza dal fatto - ivi indicato  -  che
il ricorrente nel giudizio a quo e' stato retrocesso  di  due  gradi,
anzi che di uno solo: il che e' possibile,  ai  sensi  dell'art.  44,
secondo comma, dell'Allegato A al r.d. n. 148  del  1931,  unicamente
quando la retrocessione surroghi la destituzione. 
    Ne consegue che le questioni risultano irrilevanti  nel  giudizio
principale - e percio' stesso inammissibili -  nella  parte  in  cui,
censurando indistintamente l'istituto,  coinvolgono  nello  scrutinio
anche la retrocessione applicata in via "diretta" per gli illeciti di
cui all'art. 44, primo comma, dell'Allegato A  al  r.d.  n.  148  del
1931. 
    8.-  Quanto,  invece,  alle  questioni  che  investono  le  norme
censurate nella parte in cui consentono di applicare la retrocessione
in luogo della destituzione, esse, pur risultando rilevanti, non sono
nel merito fondate nei termini che seguono. 
    Appare  evidente,  infatti,  che,  nell'ipotesi  considerata,  il
previsto trasferimento a una qualifica inferiore  non  si  risolve  -
come assume la Corte rimettente  -  in  un  trattamento  disciplinare
deteriore e penalizzante. Rispetto  all'autoferrotranviere  passibile
di  licenziamento   in   ragione   della   gravita'   dell'infrazione
disciplinare  commessa,  la  possibilita'  di  veder  sostituita   la
sanzione espulsiva con una  sanzione  pur  severa,  ma  comunque  sia
conservativa, rappresenta, al contrario,  un  vantaggio,  perche'  la
perdita della professionalita' acquisita e' un  quid  minus  rispetto
alla perdita tout court del posto di lavoro. 
    A fronte di cio', l'interrogativo che occorre porsi - per  quanto
attiene alla denunciata violazione dell'art. 3 Cost. - non e' se  sia
ragionevole  prevedere,  per  gli  autoferrotranvieri,  una  sanzione
disciplinare che, incidendo in via (potenzialmente) definitiva  sulla
qualifica professionale, non e' ammessa, in base all'art.  7,  quarto
comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla  tutela  della
liberta' e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'  sindacale  e
dell'attivita'  sindacale  nei  luoghi  di   lavoro   e   norme   sul
collocamento), per la generalita' degli altri lavoratori subordinati.
Ci si deve chiedere invece, piu' specificamente, se  possa  ritenersi
rispettosa del principio di ragionevolezza una normativa speciale che
consenta, quale alternativa al licenziamento per motivi disciplinari,
di destinare il dipendente a mansioni inferiori. 
    Al quesito va data risposta affermativa, dovendo il licenziamento
essere considerato come un'extrema ratio. 
    A seguito della riscrittura, operata dall'art. 3,  comma  1,  del
decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81  (Disciplina  organica  dei
contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di  mansioni,
a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10  dicembre  2014,  n.
183), l'art. 2103 del codice  civile  consente  attualmente,  in  via
generale,  a  determinate  condizioni,  il   demansionamento,   anche
"unilaterale", del dipendente  per  ragioni  connesse  alle  mutevoli
esigenze dell'organizzazione dell'impresa. 
    Ma gia' prima della novella - allor quando la  norma,  nel  testo
introdotto dall'art. 13 della legge n. 300 del 1970  e  vigente  alla
data di applicazione della sanzione di cui si discute nel giudizio  a
quo, stabiliva in modo perentorio che «[i]l prestatore di lavoro deve
essere adibito alle mansioni per le quali e' stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria  superiore  che  abbia  successivamente
acquisito ovvero a mansioni equivalenti  alle  ultime  effettivamente
svolte», dichiarando nullo ogni patto contrario -  la  giurisprudenza
di  legittimita'  aveva  ammesso  la  possibilita'  di   adibire   il
lavoratore,  con  il  suo  consenso,  a  mansioni   inferiori   quale
alternativa al licenziamento per giustificato  motivo  oggettivo  (ex
plurimis, Corte di cassazione, sezione  lavoro,  sentenze  1°  luglio
2014, n. 14944, 22 agosto 2006, n. 18269 e 7 febbraio 2005, n. 2375).
Cio', in ossequio alla logica del  "male  minore":  la  tutela  della
professionalita'  del  lavoratore  cede  di  fronte  all'esigenza  di
salvaguardia  di  un  bene  piu'  prezioso,  quale  il   mantenimento
dell'occupazione (Corte di cassazione,  sezione  lavoro,  sentenze  8
marzo 2016, n. 4509 e 23 ottobre 2013, n. 24037). 
    In quest'ottica, si e' ritenuto che in caso di licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo a causa della  soppressione  del  posto
cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro abbia  l'onere  di
provare, non solo che al momento del  licenziamento  non  sussistesse
alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa,  ma  anche  di
aver prospettato al dipendente la possibilita'  di  un  reimpiego  in
mansioni inferiori rientranti  nel  suo  bagaglio  professionale  (ex
plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze  19  novembre
2015, n. 23698, 23 ottobre 2013,  n.  24037  e  13  agosto  2008,  n.
21579). 
    Alla medesima logica  rispondono,  d'altro  canto,  anche  alcune
disposizioni speciali, che prevedono  espressamente,  in  particolari
casi, l'assegnazione, anche unilaterale, del  lavoratore  a  mansioni
inferiori nell'ottica  di  evitarne  il  licenziamento:  ad  esempio,
quanto ai lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle  proprie
mansioni in conseguenza di infortunio o  di  malattia,  i  quali  non
possono  essere  licenziati  ove  sia  possibile  adibirli  ad  altre
mansioni, anche inferiori (art. 4, comma 4, legge 12 marzo  1999,  n.
68, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili»), ovvero ai
lavoratori esuberanti nelle procedure di licenziamento collettivo, il
cui  licenziamento  puo'  essere  evitato   attraverso   un   accordo
collettivo che permetta loro  di  essere  adibiti  a  mansioni  anche
inferiori alle precedenti (art. 4, comma 11, della  legge  23  luglio
1991, n. 223,  recante  «Norme  in  materia  di  cassa  integrazione,
mobilita', trattamenti di  disoccupazione,  attuazione  di  direttive
della Comunita' europea, avviamento al lavoro ed  altre  disposizioni
in materia di mercato del lavoro»). 
    Cio' posto, non vi e' ragione per la quale la logica che vale  in
rapporto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo non possa
valere anche per il licenziamento per motivi disciplinari. 
    Non coglierebbe  nel  segno  l'obiezione,  per  cui  la  prevista
possibilita' di sostituire la sanzione disciplinare espulsiva con  la
retrocessione  implicherebbe,  comunque  sia,   una   disparita'   di
trattamento degli  autoferrotranvieri  rispetto  al  complesso  degli
altri lavoratori subordinati: disparita' di trattamento che  andrebbe
pur sempre giustificata. Vale, infatti, in proposito il  rilievo  che
si tratterebbe, per quanto detto, di una disparita' di trattamento in
melius, anziche' in peius, come si opina nell'ordinanza di rimessione 
    9.-  Nelle  considerazioni  che   precedono   e'   insita   anche
l'infondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 1,
2, 4 e 35 Cost. Le norme censurate non possono  ritenersi  contrarie,
in parte qua, ai parametri evocati,  proprio  perche'  permettono  al
dipendente  di  conservare,  comunque  sia,  il  posto   di   lavoro,
nonostante la grave mancanza disciplinare. 
    Per quanto attiene, invece, alla denunciata violazione  dell'art.
36 Cost., l'infondatezza della censura si connette al  piu'  radicale
rilievo  che  il  diritto  a  una  retribuzione  proporzionata   alla
quantita' e  qualita'  del  lavoro  svolto  non  e',  in  ogni  caso,
compromesso dalla sanzione della retrocessione.  L'autoferrotranviere
retrocesso  fruisce,  infatti,  della  retribuzione  contrattualmente
prevista per la qualifica di destinazione e  garantita  a  tutti  gli
appartenenti ad essa: retribuzione  la  cui  adeguatezza  non  e'  in
discussione. 
    10.- Alla luce dei rilievi svolti, le questioni vanno dichiarate,
dunque, inammissibili per difetto di rilevanza  nella  parte  in  cui
censurano la previsione della retrocessione quale sanzione  "diretta"
per determinati illeciti disciplinari (art. 37, primo  comma,  numero
5, in relazione all'art. 44, primo comma, dell'Allegato A al r.d.  n.
148 del 1931), e non fondate nella parte in cui censurano la prevista
possibilita'   di   applicare   la   retrocessione   quale   sanzione
"sostitutiva" della destituzione (art. 37, primo comma, numero 5,  in
relazione agli artt. 44, commi secondo, terzo, quarto e quinto, e 55,
comma secondo, del medesimo Allegato).