ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 141,  comma
4-bis, del decreto legislativo 28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di
attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
penale), come aggiunto dall'art. 53, comma 1, lettera c), della legge
16  dicembre  1999,  n.  479   (Modifiche   alle   disposizioni   sul
procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre
modifiche al codice di  procedura  penale.  Modifiche  al  codice  di
procedura  penale  e  all'ordinamento  giudiziario.  Disposizioni  in
materia di contenzioso civile pendente, di  indennita'  spettanti  al
giudice di  pace  e  di  esercizio  della  professione  forense),  in
relazione all'art. 162-bis del codice penale, promosso dal  Tribunale
ordinario di Teramo nel procedimento penale a carico di  M.  S.,  con
ordinanza del 3 luglio 2019, iscritta al n. 4 del registro  ordinanze
2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  5,
prima serie speciale, dell'anno 2020; 
    udito nella camera di consiglio dell'8  luglio  2020  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 14 luglio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 3 luglio 2019, il  Tribunale  ordinario  di
Teramo, in composizione monocratica,  ha  sollevato,  in  riferimento
all'art.  24,  secondo  comma,  della  Costituzione,   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 141, comma 4-bis,  del  decreto
legislativo  28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di  attuazione,   di
coordinamento e transitorie  del  codice  di  procedura  penale),  in
relazione all'art. 162-bis del codice penale, «nella parte in cui non
prevede che l'imputato e' rimesso in termini per proporre domanda  di
oblazione qualora nel  corso  del  dibattimento,  su  iniziativa  del
giudice e in mancanza di una  modifica  formale  dell'imputazione  da
parte del pubblico ministero, emerga la prospettiva concreta  di  una
definizione  giuridica  del  fatto  diversa  da   quella   contestata
nell'originaria imputazione  e  per  la  quale  l'oblazione  non  era
ammissibile». 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo
penale nei confronti di una  persona  imputata  del  delitto  di  cui
all'art. 612-bis cod. pen. (atti persecutori), commesso in  danno  di
una cittadina cinese, con la quale aveva intrattenuto  una  relazione
sentimentale. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'imputato avrebbe posto
in  essere,  nell'arco  di  alcuni  mesi,   reiterati   comportamenti
intimidatori  e  molesti  -  consistiti  segnatamente  nell'invio  di
messaggi   telefonici,   talvolta   dal   contenuto   ingiurioso    e
intimidatorio, e in accessi non graditi sul  luogo  di  lavoro  della
persona offesa, con la formulazione di minacce ove  quest'ultima  non
avesse ripreso la relazione - cosi' da  provocarle  un  perdurante  e
grave stato di ansia e di paura e un fondato timore  per  la  propria
incolumita' e da costringerla ad alterare  le  proprie  abitudini  di
vita. 
    Il  rimettente  ritiene   che,   alla   luce   delle   risultanze
dell'istruttoria dibattimentale - delle quali viene dato ampio  conto
nell'ordinanza di rimessione  -  la  condotta  ascritta  all'imputato
debba  essere   diversamente   qualificata   sul   piano   giuridico.
Dall'istruttoria  espletata  non  sarebbe  infatti   emerso   che   i
comportamenti dell'imputato abbiano effettivamente causato,  in  capo
alla  persona  offesa,  taluno  degli  eventi   richiesti   ai   fini
dell'integrazione del delitto di atti persecutori (perdurante e grave
stato d'ansia o di paura, fondato timore per la propria  incolumita',
alterazione delle abitudini di vita). Le iniziative  del  giudicabile
si sarebbero tradotte piuttosto in meri atteggiamenti  molesti,  atti
ad  arrecare  disturbo  alla  persona  offesa  in  ragione  del  loro
carattere assillante e ingiurioso,  risultando  quindi  riconducibili
alla meno grave ipotesi criminosa  di  cui  all'art.  660  cod.  pen.
(molestia o disturbo alle persone). 
    1.2.- A fronte della concreta  prospettiva  di  una  "correzione"
della definizione giuridica del fatto, e in mancanza di  una  formale
iniziativa in tal senso da parte del pubblico ministero, il giudice a
quo aveva ritenuto di dover invitare le  parti  ad  interloquire  sul
punto, in modo da garantire  «il  contraddittorio  argomentativo  (ed
eventualmente probatorio) della difesa».  Cio',  sulla  base  di  una
interpretazione  convenzionalmente  e  costituzionalmente   orientata
dell'art. 521, comma 1, del codice di procedura penale. 
    Secondo la consolidata giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, l'art. 6, paragrafi 1 e 3, lettere a) e b),  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,
riconosce all'imputato il diritto ad  essere  informato,  in  termini
dettagliati, non solo dei fatti  materiali  addebitatigli,  ma  anche
della qualificazione giuridica degli stessi e di ogni possibile  loro
modificazione nel corso del giudizio.  La  garanzia  informativa  sul
contenuto dell'accusa, prevista dall'art. 6, paragrafo 1, CEDU  quale
condizione  del  «processo  equo»,  risulta,  infatti,   strettamente
correlata a quella prevista dalle successive  lettere  a)  e  b)  del
paragrafo 3, essendo funzionale a consentire al soggetto accusato  di
disporre del tempo sufficiente per preparare la  propria  difesa,  il
cui  efficace  esercizio  non  puo'   non   essere   riferito   anche
all'eventuale modifica dell'accusa complessivamente considerata  (non
limitata, cioe', alla sua componente "fattuale"). 
    A fronte di tali indicazioni - rileva  il  giudice  a  quo  -  la
giurisprudenza  di  legittimita'  si  e'  fatta  promotrice  di   una
interpretazione del  citato  art.  521,  comma  1,  cod.  proc.  pen.
conforme ai dicta della Corte di Straburgo e al  principio  enunciato
dall'art. 111, terzo comma, Cost. Si e' affermato, in specie,  che  -
fermo restando, alla luce del chiaro tenore  della  disposizione  del
codice  di  rito,  il  potere  del  giudice  di  dare  al  fatto  una
definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione  -
tale potere non puo' essere, tuttavia, esercitato  "a  sorpresa",  ma
solo previa promozione, ad opera del giudice, del contraddittorio fra
le parti sulla relativa questione, posto che le  strategie  difensive
possono mutare al cospetto di una differente qualificazione giuridica
della condotta: e cio' anche nel caso di  passaggio  da  una  ipotesi
criminosa piu' grave ad altra piu' mite. 
    A seguito della ricordata iniziativa  officiosa  del  rimettente,
l'imputato ha presentato  istanza  di  definizione  del  procedimento
mediante  oblazione,  ai  sensi  dell'art.  162-bis  cod.  pen.,  sul
presupposto della condivisa riconducibilita'  del  fatto  oggetto  di
giudizio alla fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 660  cod.
pen., punita con pena alternativa: istanza sulla  quale  il  pubblico
ministero nulla ha eccepito, mentre il difensore della  parte  civile
ne ha chiesto il rigetto. 
    L'istanza in parola risulta, tuttavia,  formulata  per  la  prima
volta oltre il termine perentorio previsto dallo stesso art.  162-bis
cod.  pen.  (l'apertura  del   dibattimento):   donde   il   problema
preliminare della sua ammissibilita'. 
    1.3.- Al riguardo, il rimettente rileva come,  nella  persistente
assenza di un intervento organico  del  legislatore  in  materia,  la
tematica dei rapporti tra  vicende  modificative  dell'imputazione  e
diritto di accesso ai riti alternativi abbia  dato  luogo  a  plurime
pronunce a carattere additivo della  Corte  costituzionale:  pronunce
che - sebbene riferite alle sole  modifiche  "fattuali"  disciplinate
dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. - hanno ridisegnato  i  margini
di  esercizio  della  facolta'  dell'imputato  di  scelta  dei  reati
speciali  in  «un'ottica   progressivamente   evolutiva   di   tutela
costituzionalmente avanzata del diritto di difesa». 
    Movendo dalla premessa per cui la richiesta di  riti  alternativi
costituisce una modalita', tra le piu' qualificanti, di esercizio del
diritto di difesa, la giurisprudenza costituzionale e' pervenuta, per
tappe  successive,  a  riconoscere  che,  ogni   qualvolta   l'accusa
originaria venga modificata nei suoi termini essenziali, non  possono
non essere restituiti all'imputato termini e condizioni per esprimere
le proprie opzioni (sono citate le sentenze n. 82 del  2019,  n.  141
del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012).  Cio',
a prescindere dalle modalita' - "fisiologiche" o "patologiche"  -  di
emersione  del   dato   probatorio   che   sorregge   l'aggiornamento
dibattimentale dell'accusa, con consequenziale definitivo superamento
del criterio discretivo fondato sulla "prevedibilita'",  o  meno,  da
parte dell'imputato, di una simile evenienza processuale. Secondo  la
Corte costituzionale, «non si puo' pretendere che  l'imputato  valuti
la  convenienza   di   un   rito   speciale   tenendo   conto   anche
dell'eventualita' che, a seguito dei futuri sviluppi  dell'istruzione
dibattimentale, l'accusa a lui mossa subisca una  trasformazione,  la
cui portata resta ancora  del  tutto  imprecisata  al  momento  della
scadenza del termine utile per la formulazione della  richiesta»  (e'
citata la sentenza n. 273 del 2014). 
    Solo a fronte di una esauriente cristallizzazione del  quadro  di
accusa e', infatti, possibile assegnare un termine per l'esercizio di
facolta' processuali che  -  come  quella  di  opzione  per  un  rito
alternativo -  con  quel  quadro  devono  necessariamente  misurarsi,
traendo esse naturale alimento proprio dalla natura delle fattispecie
incriminatrici contestate e dalle correlative basi fattuali. Di  qui,
dunque, il conclusivo approdo per cui, «[s]e [...] la possibilita' di
richiedere i riti alternativi si salda a fil  doppio  al  diritto  di
difesa  -  in  particolare,  al  diritto  di  scegliere  il   modello
processuale piu' congeniale all'esercizio di quel diritto - e  se  e'
la regiudicanda, nelle sue dimensioni "cristallizzate", a  costituire
la base su cui  operare  tali  scelte,  non  puo'  che  desumersi  la
incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione  che  ne  limiti
l'esercizio concreto, tutte le volte in cui il  sistema  ammetta  una
mutatio libelli in sede dibattimentale» (e'  citata  la  sentenza  di
questa Corte n. 82 del 2019). Conclusione che si  porrebbe  in  piena
sintonia con il richiamato indirizzo della giurisprudenza della Corte
EDU. 
    1.4.- Con specifico riguardo all'istituto che  viene  in  rilievo
nel giudizio a quo, il giudice rimettente osserva ancora che la Corte
costituzionale, con la  sentenza  n.  530  del  1995,  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale degli artt.  516  e  517  cod.  proc.
pen., nella parte in cui non prevedevano la facolta' dell'imputato di
proporre domanda di oblazione, ai sensi degli  artt.  162  e  162-bis
cod. pen., relativamente al fatto  diverso  e  al  reato  concorrente
contestato in dibattimento. 
    Il legislatore  ha  inteso  recepire  tale  pronuncia  a  livello
normativo, aggiungendo il comma 4-bis all'art. 141  norme  att.  cod.
proc. pen. Tale disposizione -  introdotta  dall'art.  53,  comma  1,
lettera c), della legge 16 dicembre  1999,  n.  479  (Modifiche  alle
disposizioni sul procedimento davanti al  tribunale  in  composizione
monocratica  e  altre  modifiche  al  codice  di  procedura   penale.
Modifiche  al  codice   di   procedura   penale   e   all'ordinamento
giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile  pendente,
di indennita' spettanti al giudice  di  pace  e  di  esercizio  della
professione  forense)  -  prevede  che   «[i]n   caso   di   modifica
dell'originaria imputazione in altra per  la  quale  sia  ammissibile
l'oblazione,  l'imputato  e'  rimesso  in  termini  per  chiedere  la
medesima. Il giudice, se accoglie la domanda, fissa  un  termine  non
superiore a dieci giorni, per il pagamento della somma dovuta. Se  il
pagamento avviene  nel  termine  il  giudice  dichiara  con  sentenza
l'estinzione del reato». 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma,  consentendo  all'imputato
di proporre domanda di oblazione,  non  ostante  il  superamento  del
termine   rappresentato   dalla   dichiarazione   di   apertura   del
dibattimento, nei soli casi di modifiche "fattuali"  dell'imputazione
originaria, e non anche nel caso  di  mutamento,  su  iniziativa  del
giudice, di un aspetto anch'esso fondamentale del  thema  decidendum,
quale la definizione giuridica del fatto, si  porrebbe  in  contrasto
con la garanzia  costituzionale  di  inviolabilita'  del  diritto  di
difesa (art. 24, secondo comma, Cost.). 
    Il  legislatore  non  avrebbe,   infatti,   colto   «la   valenza
ermeneutica potenzialmente "estensiva"» del principio enunciato nella
citata sentenza n. 530 del 1995, e definitivamente  consacrato  nelle
piu' recenti pronunce della Corte costituzionale  dianzi  richiamate,
riguardo all'oggettiva  impossibilita'  per  l'imputato  di  chiedere
l'oblazione prima della modifica dell'imputazione. 
    1.5.- A fronte della riduttiva portata applicativa dell'art. 141,
comma 4-bis, norme att. cod.  proc.  pen.,  connessa  al  suo  tenore
letterale, la giurisprudenza di legittimita' si  sarebbe  posta  alla
ricerca  di  soluzioni  ermeneutiche  atte  ad  evitare   il   vulnus
costituzionale considerato. 
    Componendo  il  contrasto  insorto  sul  punto  tra  le   sezioni
semplici, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza
28 febbraio 2006-2 marzo  2006,  n.  7645,  hanno  affermato  che  la
disposizione censurata trova applicazione esclusivamente nel caso  in
cui il pubblico ministero  proceda  in  dibattimento  a  una  formale
modifica dell'imputazione, e non anche in  presenza  di  una  diversa
qualificazione giuridica del fatto operata direttamente  dal  giudice
nella sentenza. Secondo le  sezioni  unite,  l'imputato,  per  essere
ammesso ad estinguere un reato contestato  originariamente  come  non
oblabile,  deve  presentare,  in  forma  preventiva,   l'istanza   di
oblazione per l'ipotesi in cui al fatto venga attribuito  un  diverso
nomen iuris, che consenta tale istanza. 
    Il principio e' stato  ribadito  e  puntualizzato  dalle  sezioni
unite con la piu' recente sentenza 26 giugno 2014-22 luglio 2014,  n.
32351, nella quale si afferma che, ove la  qualificazione  del  fatto
operata in sede di contestazione  non  consenta  il  procedimento  di
oblazione, e' onere  dall'imputato  sindacare  la  correttezza  della
qualificazione  stessa,  investendo  il  giudice  di  una   specifica
richiesta di oblazione in riferimento alla  qualificazione  giuridica
del fatto ritenuta corretta, in modo  da  permettere,  all'esito  del
necessario contraddittorio, una decisione altrettanto  specifica  sul
punto. In tale prospettiva, qualora l'imputato ometta di  muovere  la
predetta contestazione, assumendo una posizione di «nolo  contendere»
in ordine alla pertinenza del nomen iuris attribuito alla fattispecie
dedotta  nell'imputazione,  nessun  tipo  di  doglianza  potra'   poi
formulare, riguardo alle preclusioni che ne possono  essere  derivate
per i riti alternativi, ove il giudice, in sede di  decisione,  abbia
ritenuto di dover  dare  a  quel  fatto  una  diversa  qualificazione
giuridica.  Si  tratterebbe   semplicemente,   per   l'imputato,   di
esercitare  il  proprio  diritto  a  una   qualificazione   giuridica
corretta: diritto che costituirebbe, al tempo stesso, un  onere  che,
se non adempiuto, ben  puo'  far  sorgere  la  preclusione  temporale
connessa alla procedura di oblazione, quale istituto teso ad evitare,
e non a seguire, gli esiti del dibattimento. 
    A  questo  principio  si  e'  uniformata  la  giurisprudenza   di
legittimita' successiva, sia pure sulla base  di  rationes  decidendi
calibrate sulle peculiarita' delle  singole  fattispecie  processuali
oggetto di giudizio. 
    1.6.- L'approdo ermeneutico ora ricordato  -  qualificabile  come
"diritto vivente" - non sarebbe, peraltro, idoneo a rendere la  norma
censurata compatibile con l'art. 24, secondo comma, Cost. 
    Le argomentazioni, svolte a sostegno  del  principio  di  diritto
affermato dalle sezioni unite della Corte di  cassazione  nella  piu'
recente delle due pronunce dianzi citate,  implicherebbero,  infatti,
una sorta di "riabilitazione" del criterio della  prevedibilita',  da
parte  dell'imputato,  di  una   «emendatio   iuris   dell'originaria
contestazione  nel   corso   del   dibattimento»,   con   conseguente
configurabilita', a carico  dell'imputato  stesso,  di  un  onere  di
sollecitazione  preventiva  del  contraddittorio  sul  punto   e   di
formulazione di una tempestiva e "cautelativa" domanda di oblazione. 
    La configurazione di simili oneri processuali - non  previsti  da
alcuna norma del codice di rito - si  porrebbe  in  contrasto  con  i
principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza  n.  530
del 1995 e ribaditi, in termini perentori  e  generali,  in  pronunce
piu' recenti, e particolarmente con la sentenza n. 82 del 2019. 
    Pur non potendosi negare  l'oggettiva  diversita'  delle  vicende
modificative del fatto nella sua dimensione storica rispetto a quelle
attinenti  alla  sua  qualificazione   giuridica,   sarebbe,   pero',
altrettanto innegabile che quando - come nel  giudizio  a  quo  -  la
prospettiva  di  una  riqualificazione  giuridica  del  fatto  emerga
soltanto  dalle  risultanze  probatorie  dibattimentali,   l'avvenuto
superamento del limite temporale, previsto per la proposizione  della
domanda di oblazione, «non puo' dirsi  riconducibile  ad  una  libera
scelta dell'imputato, e cioe' ad un'inerzia allo stesso addebitabile,
dal momento che la facolta' di proporre quella domanda non  puo'  che
sorgere  nel  momento  in  cui  il  reato  stesso   e'   oggetto   di
contestazione». Tale affermazione, contenuta nella  sentenza  n.  530
del 1995, dovrebbe ritenersi valevole - alla luce  della  consolidata
giurisprudenza della Corte di Strasburgo in precedenza  richiamata  -
anche in rapporto alla diversa qualificazione del titolo  del  reato,
quale prerogativa  funzionale  del  giudice,  a  prescindere  da  una
eventuale iniziativa dell'organo titolare dell'azione penale. 
    2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non  e'  intervenuto
in giudizio. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale   ordinario   di   Teramo,   in   composizione
monocratica, dubita della legittimita' costituzionale dell'art.  141,
comma 4-bis, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
penale), in relazione all'art.  162-bis  del  codice  penale,  «nella
parte in cui non prevede che l'imputato e'  rimesso  in  termini  per
proporre domanda di oblazione qualora nel corso del dibattimento,  su
iniziativa  del  giudice  e  in  mancanza  di  una  modifica  formale
dell'imputazione  da  parte  del  pubblico   ministero,   emerga   la
prospettiva concreta di una definizione giuridica del  fatto  diversa
da quella contestata  nell'originaria  imputazione  e  per  la  quale
l'oblazione non era ammissibile». 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l'art.
24,  secondo  comma,  della  Costituzione,  giacche'  la  preclusione
dell'accesso all'oblazione nel  caso  considerato  implicherebbe  una
lesione  del  diritto  di  difesa  dell'imputato,  non   essendo   il
superamento dell'ordinario limite temporale per la proposizione della
relativa richiesta addebitabile a un'inerzia dell'imputato stesso, le
cui  scelte,  in  punto  di  accesso  ai  meccanismi  alternativi  di
definizione del processo, restano necessariamente condizionate  dalla
concreta configurazione dell'imputazione, anche  per  quanto  attiene
alla  definizione  giuridica  del  fatto,  costituente   un   aspetto
qualificante del thema decidendum. 
    2.- La questione non e' fondata. 
    Il Tribunale rimettente pone novamente all'attenzione  di  questa
Corte, sotto  un  particolare  profilo,  la  tematica  concernente  i
rapporti tra mutamenti dell'imputazione e  diritto  dell'imputato  di
accedere a meccanismi alternativi di definizione del  procedimento  a
carattere "premiale". Il problema sollevato  dal  giudice  a  quo  e'
segnatamente quello  del  recupero,  da  parte  dell'imputato,  della
facolta'  di  oblazione  a  fronte  di  una  diversa   qualificazione
giuridica del fatto ope iudicis, che comporti  il  passaggio  da  una
ipotesi di reato non oblabile ad altra oblabile. 
    Come e' noto, il vigente codice di  procedura  penale  regola  in
modo nettamente differenziato le modifiche  dibattimentali  in  facto
dell'imputazione  (contestazione  del  fatto   diverso,   del   reato
concorrente o di una circostanza aggravante, del fatto  nuovo:  artt.
516, 517 e 518 del codice di procedura penale) e le modifiche in iure
(diversa qualificazione giuridica del fatto: art. 521, comma 1,  cod.
proc. pen.). 
    Le prime - le modifiche di ordine fattuale - sono appannaggio del
pubblico ministero, quale titolare dell'esercizio dell'azione penale,
e implicano  il  riconoscimento  all'imputato  di  specifici  diritti
difensivi. A fronte di esse l'imputato  puo'  chiedere,  infatti,  un
termine per la difesa e l'ammissione di nuove prove  (art.  519  cod.
proc. pen.); mentre, se l'imputato e' assente, la nuova contestazione
deve essergli notificata (art. 520 cod. proc. pen.). 
    Per naturale corollario, quindi, se il giudice, a  seguito  della
valutazione delle prove, accerta che il  fatto  e'  diverso  da  come
descritto  nell'imputazione,  non  puo'   pronunciarsi   sul   merito
dell'accusa, ma deve disporre con  ordinanza  la  trasmissione  degli
atti al pubblico ministero (art. 521,  comma  2,  cod.  proc.  pen.),
affinche' eserciti (se del caso) una nuova azione penale.  Soluzione,
questa, imposta dal principio di correlazione tra accusa e  sentenza,
il quale impedisce, a tutela del diritto di difesa, che il giudice si
pronunci su temi che non sono stati oggetto di contestazione. 
    A tale principio restano sottratte,  tuttavia,  le  modifiche  di
ordine giuridico, le quali possono essere  operate  direttamente  dal
giudice, in applicazione del principio iura novit  curia,  senza  che
siano previste analoghe garanzie difensive. Ponendosi nel solco della
tradizione storica, inaugurata dall'art. 417 del codice di  procedura
penale del 1913, e perpetuata dall'art.  477  del  codice  del  1930,
l'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce, in  specie,  che  il
giudice,  con  la  sentenza,  puo'  dare  al  fatto  una  definizione
giuridica diversa da quella enunciata  nell'imputazione,  purche'  il
reato non ecceda la  sua  competenza,  ne'  risulti  attribuito  alla
cognizione  del  tribunale  in  composizione   collegiale,   anziche'
monocratica. Analogo potere e' espressamente riconosciuto  (salvo  il
divieto di reformatio in peius, ove appellante sia il solo  imputato)
anche al giudice di appello (art. 597, commi 2 e 3, cod. proc. pen.).
E' pacifico, altresi', che ne disponga,  malgrado  l'assenza  di  una
specifica previsione normativa, la Corte di cassazione, posto che  la
sussistenza del potere qualificatorio in grado di legittimita'  trova
fondamento nella stessa funzione nomofilattica da essa svolta. 
    3.- Tale assetto asimmetrico ha formato, peraltro, oggetto - come
e' noto - di  censura  da  parte  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo con la sentenza 11 dicembre 2007, Drassich contro Italia. 
    La pronuncia si  colloca  nell'alveo  del  consolidato  indirizzo
della giurisprudenza della Corte di Strasburgo - avente quale leading
case la sentenza della grande camera 25 marzo 1999, Pelissier e Sassi
contro Francia - che accomuna il mutamento in iure dell'imputazione a
quello in  facto,  sotto  il  profilo  delle  garanzie  difensive  da
riconoscere all'imputato ai sensi  dell'art.  6,  paragrafi  1  e  3,
lettere a) e b), della Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848. 
    La  Corte  europea  ha  rilevato,  in  specie,  come  il  diritto
dell'accusato ad essere informato del contenuto dell'accusa, previsto
dall'art.  6,  paragrafo  3,  lettera  a),  CEDU,   rappresenti   una
condizione  essenziale  dell'equita'  del  processo,  garantita   dal
paragrafo 1 dello stesso articolo, ponendosi in collegamento  con  il
diritto a disporre del  tempo  e  delle  facilitazioni  necessarie  a
preparare la difesa, previsto dal paragrafo 3, lettera b).  A  questi
fini,  l'imputato  deve  essere  informato  non   solo   dei   motivi
dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono  attribuiti  e
sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della
qualificazione giuridica data a tali fatti. Ne consegue che, quando i
giudici dispongono,  in  base  al  diritto  interno,  del  potere  di
riqualificare i fatti per i quali sono stati aditi - in  particolare,
mutando il titolo del reato contestato -,  essi  debbono  assicurarsi
che gli imputati abbiano avuto l'opportunita' di  esercitare  i  loro
diritti di difesa su questo punto in maniera concreta  ed  effettiva.
Le modalita' dell'informazione possono essere le piu' varie,  purche'
adeguate allo scopo (ex plurimis,  Corte  EDU,  sentenza  7  novembre
2019, Gelenidze contro Georgia;  sentenza  15  gennaio  2015,  Mihelj
contro Slovenia; sentenza 24 luglio  2012,  D.M.T.  e  D.K.I.  contro
Bulgaria; sentenza 3 maggio 2011, Giosakis contro Grecia). 
    Nel caso Drassich, la riqualificazione del fatto - da  corruzione
semplice (art. 519 cod. pen.) a corruzione in atti  giudiziari  (art.
519-ter cod. pen.) - era stata operata, per  converso,  "a  sorpresa"
dalla Corte di cassazione direttamente con  la  sentenza  definitiva,
senza, dunque, che l'imputato avesse  avuto  alcuna  possibilita'  di
interloquire su tale operazione (la quale aveva impedito che il reato
fosse dichiarato  estinto  per  prescrizione).  Di  qui,  dunque,  la
riscontrata violazione dell'art. 6, paragrafi 1 e 3, lettere a) e b),
CEDU. 
    4.-  In  assenza  di  un  intervento  legislativo,  il   problema
dell'adeguamento dell'ordinamento nazionale  alle  indicazioni  della
Corte di Strasburgo e' stato sottoposto  all'esame  di  questa  Corte
(sia pure con un petitum specificamente circoscritto  alla  posizione
del giudice dell'udienza preliminare). 
    Le relative questioni, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24,
111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., sono  state  dichiarate,
tuttavia, inammissibili con la sentenza n. 103 del  2010,  oltre  che
per  una  ragione  di  ordine  processuale  (legata  al  difetto   di
motivazione  sulla  rilevanza),  anche  per  una  ragione  di  ordine
sostanziale: ossia per avere il rimettente  richiesto  una  pronuncia
additiva non costituzionalmente obbligata, in materia riservata  alla
discrezionalita' del legislatore. 
    Questa Corte ha osservato, in specie, come cio' fosse  desumibile
dalla stessa ordinanza di rimessione,  nella  parte  in  cui  si  era
soffermata sulle diverse procedure adottabili al fine di far cadere i
dubbi di legittimita' costituzionale. Il rimettente  aveva,  infatti,
prospettato, da un lato, «la possibilita' di pronunziare  un'apposita
ordinanza  attraverso  cui   informare   le   parti   della   diversa
qualificazione giuridica attribuita al fatto, cosi' da consentire  un
contraddittorio   anche   sulla   nuova   qualificazione   giuridica;
dall'altro, [...] l'applicazione  in  via  analogica  dell'art.  521,
comma  2,  cod.  proc.  pen.».  Entrambe  le  soluzioni  erano  state
ritenute, peraltro, inadeguate dal giudice  a  quo,  il  quale  aveva
sollecitato  una  declaratoria  di  incostituzionalita'  a  carattere
additivo che prevedesse la regressione del  procedimento  nella  fase
delle indagini preliminari, attraverso  la  restituzione  degli  atti
all'organo dell'accusa. «Risulta  evidente,  quindi»  -  ha  concluso
questa Corte - «che la pronunzia richiesta postula una soluzione  che
non e' l'unica possibile. Deve, altresi', rilevarsi che la  soluzione
prospettata dal giudice a quo tende ad ottenere la  parificazione  di
situazioni processuali tra loro non  omogenee,  quali  l'accertamento
che un fatto debba essere diversamente qualificato e la constatazione
che il fatto e'  differente  da  quello  descritto  nel  decreto  che
dispone il giudizio. La  decisione  richiesta,  dunque,  coinvolgendo
scelte relative  alla  conformazione  della  disciplina  processuale,
rientra nella discrezionalita' del Parlamento». 
    5.- L'omologazione del  sistema  ai  dicta  della  giurisprudenza
europea e' rimasto,  quindi,  affidato  all'attivita'  interpretativa
della giurisprudenza ordinaria. 
    Al riguardo, la Corte di cassazione ha prospettato,  in  effetti,
una interpretazione convenzionalmente (e costituzionalmente) conforme
dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., in  forza  della  quale,  in
mancanza di  una  richiesta  specifica  in  tal  senso  del  pubblico
ministero,  il  giudice  che  intenda  dare  al  fatto  una   diversa
qualificazione  giuridica  e'  tenuto  a  informarne  preventivamente
l'imputato e  il  suo  difensore,  in  modo  da  consentire  loro  di
interloquire.  Tale  obbligo  di  informazione  preventiva,  riferito
inizialmente al caso in cui la riqualificazione venga  operata  dalla
Corte di  cassazione,  e'  stato  esteso  da  alcune  pronunce  anche
all'ipotesi in cui vi proceda il giudice di primo o di secondo grado:
ritenendosi, di conseguenza, affetta da nullita' di ordine  generale,
ai sensi dell'art. 178, comma 1, lettera c),  cod.  proc.  pen.,  per
violazione del diritto di difesa, la sentenza di merito  che  dia  al
fatto una  diversa  qualificazione  giuridica  senza  che  sia  stato
assicurato il contraddittorio sul punto (Corte di cassazione, sezione
quinta penale, sentenza 28 ottobre 2011-17 febbraio  2012,  n.  6487;
sezione prima penale, sentenza 29  aprile  2011-11  maggio  2011,  n.
18590). 
    Nettamente  prevalente  risulta,  peraltro,  allo  stato,   nella
giurisprudenza di legittimita', il diverso orientamento che - facendo
leva sulle stesse costanti  indicazioni  della  Corte  EDU,  riguardo
all'esigenza di  valutare  l'equita'  del  processo,  anche  ai  fini
considerati, guardando alla procedura nel suo complesso (ex plurimis,
Corte EDU,  sentenza  7  novembre  2019,  Gelenidze  contro  Georgia;
sentenza 20 aprile 2006, I.H. e altri  contro  Austria;  sentenza  21
febbraio 2002, Sipavičius contro Lituania; sentenza  1°  marzo  2001,
Dallos contro Ungheria) - esclude che l'informazione in  ordine  alla
diversa   qualificazione   giuridica   del   fatto    debba    essere
necessariamente preventiva.  Si  e'  ritenuto,  in  particolare,  che
l'adeguamento   dell'imputazione   sub   specie   iuris,   effettuato
direttamente  con  la  sentenza  di  merito,  non  violi  i   diritti
convenzionali (e costituzionali), e non sia dunque  fonte  di  alcuna
nullita',  in  quanto  l'imputato  puo'  difendersi   impugnando   la
decisione   (ex   plurimis,    con    particolare    riguardo    alla
riqualificazione operata con la sentenza di  primo  grado,  Corte  di
cassazione,  sezione  quarta  penale,  sentenza  13  novembre  2019-4
dicembre 2019, n. 49175; sentenze sezione  sesta  penale,  23  giugno
2017-25 ottobre 2017, n. 49054 e 15 febbraio 2017-13 marzo  2017,  n.
11956). 
    6.- Nell'odierno frangente, come gia' posto  in  evidenza,  viene
peraltro in rilievo uno specifico profilo del problema  della  tutela
del diritto di difesa a  fronte  dei  mutamenti  del  tema  d'accusa:
quello del recupero della facolta' di accesso ai riti  alternativi  a
carattere "premiale", il termine per la cui  richiesta  risulti  gia'
spirato allorche' il mutamento interviene. 
    Di tale aspetto problematico - non considerato dal codice di rito
-  questa  Corte  ha  avuto  modo  di  occuparsi  ripetutamente   con
riferimento  alle  modifiche  dell'imputazione  di  ordine   fattuale
previste dagli  artt.  516  e  517  cod.  proc.  pen.  (contestazione
dibattimentale di un fatto diverso, contestazione  suppletiva  di  un
reato concorrente o di una circostanza aggravante). Si e'  avuta,  al
riguardo, una serie di declaratorie di illegittimita' costituzionale,
con riferimento ai diversi tipi di modifica, ai singoli meccanismi di
definizione del procedimento alternativi  al  dibattimento  (giudizio
abbreviato, patteggiamento, oblazione, sospensione  del  procedimento
con  messa  alla  prova)   e   alle   caratteristiche   della   nuova
contestazione, quanto  al  momento  di  acquisizione  degli  elementi
probatori   che   le   giustificano   (modifiche   "patologiche"    e
"fisiologiche") (sentenze n. 14 del 2020, n. 82 del 2019, n. 141  del
2018, n. 206 del 2017, n. 139 del 2015, n. 273 e n. 184 del 2014,  n.
237 del 2012, n. 333 del 2009, n. 530 del 1995 e n. 265 del 1994). 
    Gli esiti conclusivi di tale percorso -  sviluppatosi  per  tappe
successive, nel segno del progressivo ampliamento dell'area di tutela
- sono compendiabili in tre enunciati sequenziali: 
    a)  la  scelta  dei  riti   alternativi,   parte   dell'imputato,
rappresenta una modalita', tra le piu' qualificanti, di esercizio del
diritto di difesa; 
    b) tale scelta e', peraltro, necessariamente  condizionata  dalla
concreta configurazione assunta dal tema d'accusa, che segna il metro
di  riferimento  della  valutazione  circa  la  praticabilita'  e  la
convenienza dell'opzione per il rito speciale; 
    c)  di  conseguenza,  ogni  qual  volta,  per  effetto  di  nuove
contestazioni,  il  tema  d'accusa  muta,  deve   essere   restituita
all'imputato  la  facolta'  di  effettuare  o  rivedere  le   proprie
determinazioni in proposito. 
    La giurisprudenza di  questa  Corte  e'  pervenuta  agli  approdi
dianzi riassunti, superando tre prospettive limitative,  che  avevano
ispirato le sue fasi iniziali. 
    In primo luogo, e' venuta meno quella della indissolubilita'  del
binomio "premialità-deflazione",  al  lume  della  quale  l'interesse
dell'imputato a fruire dei vantaggi conseguenti ai  riti  alternativi
potrebbe assumere rilievo solo in quanto la sua  scelta  consenta  di
conseguire effettivamente gli obiettivi  di  rapida  definizione  del
processo perseguiti dal legislatore con l'introduzione di tali  riti.
Si e' rilevato, infatti, per un verso, che la logica dello  "scambio"
fra sconti di pena e risparmio di energie processuali deve cedere  di
fronte  all'esigenza  di  ripristinare  la  pienezza  delle  garanzie
difensive e l'osservanza del  principio  di  eguaglianza;  per  altro
verso,  che  l'innesto  del   rito   alternativo,   anche   in   fase
dibattimentale, e' idoneo, comunque sia, a  produrre  un  effetto  di
economia processuale, sia pure attenuato (in particolare, sentenze n.
273 del 2014 e n. 237 del 2012). 
    In secondo  luogo,  e'  stata  parimente  superata  l'idea  della
«prevedibilita'» della variazione dibattimentale dell'imputazione, in
quanto fenomeno "connaturale" a un sistema  di  tipo  accusatorio,  e
della conseguente libera accettazione del relativo «rischio» da parte
dell'imputato che non richieda per tempo il rito alternativo. Non  si
puo', infatti, pretendere che l'imputato valuti la convenienza di  un
rito speciale tenendo conto di mutamenti del tema d'accusa di la'  da
venire e dai contorni ancora indefiniti (per tutte, sentenze  n.  273
del 2014 e n. 237 del 2012). 
    E' stata abbandonata, infine, anche l'idea  che  la  restituzione
della  facolta'  di  accesso  ai  riti  alternativi  debba   rimanere
circoscritta all'ipotesi in cui  la  diversa  o  nuova  contestazione
concerna un fatto gia' risultante dagli atti di indagine  al  momento
dell'esercizio dell'azione penale, cosi' da rivelare una negligenza o
un errore del pubblico ministero nella formulazione  dell'imputazione
originaria, atti a  fuorviare  le  scelte  dell'imputato  (cosiddetta
contestazione "patologica") (sentenze n. 333 del 2009 e  n.  265  del
1994). Si e' riconosciuto, infatti, che le  esigenze  di  tutela  del
diritto di difesa dell'imputato, in  punto  di  opzione  per  i  riti
speciali, sussistono allo stesso modo nell'ipotesi  "fisiologica"  in
cui la nuova o diversa  contestazione  si  basi  sui  nuovi  elementi
emersi a seguito dell'istruttoria dibattimentale (sentenze n. 14  del
2020, n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017,  n.  273  del
2014 e n. 237 del 2012). 
    7.- Una delle prime preclusioni colpite,  per  tal  verso,  dalle
pronunce  di  questa  Corte  e'  stata  proprio  quella   concernente
l'oblazione. La sentenza n. 530  del  1995  ha  dichiarato,  infatti,
illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte  in  cui
non prevedevano la facolta'  dell'imputato  di  proporre  domanda  di
oblazione,  ai  sensi  degli  artt.  162   e   162-bis   cod.   pen.,
relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestati  nel
corso del dibattimento:  dunque,  quando  il  termine  ordinario  per
l'accesso al beneficio -  l'apertura  del  dibattimento  -  risultava
ormai spirato. 
    Questa Corte, con la pronuncia da ultimo indcata, ha rilevato che
l'istituto dell'oblazione si fonda, «sia sull'interesse  dello  Stato
di definire con economia di tempo e di spese i procedimenti  relativi
ai reati di minore importanza, sia sull'interesse del  contravventore
di  evitare  l'ulteriore  corso  del  procedimento  e  la   eventuale
condanna, con tutte le conseguenze di essa (cfr. sentenza n. 207  del
1974). Effetto tipico di tale forma  di  definizione  anticipata  del
procedimento e', infatti, la estinzione del reato, per cui appare del
tutto evidente come la domanda di  ammissione  all'oblazione  esprima
una modalita' di esercizio del diritto di difesa». 
    Cio' posto, questa Corte, con la medesima sentenza,  ha  ritenuto
che la preclusione dell'accesso all'istituto - e ai connessi benefici
- nel caso in cui il reato suscettibile di estinzione  per  oblazione
costituisca  oggetto  di  contestazione  nel  corso   dell'istruzione
dibattimentale,  risultasse  «indubbiamente  lesiva  del  diritto  di
difesa,  nonche'  priva  di  razionale  giustificazione.   L'avvenuto
superamento  del  limite  temporale   (apertura   del   dibattimento)
previsto, in linea generale, per la  proposizione  della  domanda  di
oblazione (e la cui ratio e' quella di evitare che  l'imputato  possa
vanificare  l'attivita'  processuale  a  seconda  degli   esiti   del
dibattimento) non e', infatti, nel caso  in  esame,  riconducibile  a
libera  scelta  dell'imputato,  e  cioe'  ad  inerzia   al   medesimo
addebitabile, sol che si consideri che la facolta' in discussione non
puo' che sorgere nel momento stesso in cui il  reato  e'  oggetto  di
contestazione». 
    Si e' rilevato, infine, come neppure sussistessero  «ostacoli  di
ordine tecnico-sistematico alla ammissione dell'oblazione  nel  corso
del dibattimento [...], come e', del resto, dimostrato dal fatto  che
lo stesso art. 162-bis del codice penale prevede,  al  quinto  comma,
che  la  domanda  (gia'  rigettata)  "puo'  essere  riproposta   sino
all'inizio  della  discussione  finale  del  dibattimento  di   primo
grado"». 
    Il legislatore ha inteso recepire la pronuncia di  questa  Corte,
aggiungendo all'art. 141 norme att. cod. proc. pen.,  che  regola  il
procedimento  di  oblazione,  il  nuovo  comma  4-bis   (norma   oggi
censurata). 
    La disposizione, introdotta dall'art. 53, comma  1,  lettera  c),
della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul
procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre
modifiche al codice di  procedura  penale.  Modifiche  al  codice  di
procedura  penale  e  all'ordinamento  giudiziario.  Disposizioni  in
materia di contenzioso civile pendente, di  indennita'  spettanti  al
giudice di pace e di esercizio della  professione  forense),  prevede
specificamente  che,   «[i]n   caso   di   modifica   dell'originaria
imputazione in  altra  per  la  quale  sia  ammissibile  l'oblazione,
l'imputato e'  rimesso  in  termini  per  chiedere  la  medesima.  Il
giudice, se accoglie la domanda, fissa un  termine  non  superiore  a
dieci giorni, per il pagamento della somma dovuta.  Se  il  pagamento
avviene nel termine il giudice dichiara con sentenza l'estinzione del
reato». 
    8.- Questa Corte si e' occupata, per converso, una sola volta,  e
di recente, del problema del recupero della facolta'  di  accesso  ai
riti alternativi a fronte di una diversa qualificazione giuridica del
fatto, operata ex officio dal giudice. Cio' e' avvenuto,  in  specie,
con la  sentenza  n.  131  del  2019,  concernente  l'istituto  della
sospensione del procedimento con messa alla prova. 
    Il  caso  esaminato  nell'occasione  presentava,  tuttavia,   una
particolarita'. Pur a fronte della contestazione di un reato che  non
lo consentiva, l'imputato aveva, infatti,  richiesto  tempestivamente
la messa alla prova, andando incontro a un diniego:  diniego  che  la
successiva riqualificazione del fatto in altra ipotesi di reato aveva
reso ingiustificato. 
    La  questione  e'  stata  quindi   risolta   con   una   sentenza
interpretativa di rigetto: la disciplina  vigente  puo'  bene  essere
interpretata - contrariamente a quanto riteneva il giudice  a  quo  -
nel senso che essa consenta, in una simile ipotesi,  l'ammissione  al
beneficio. 
    Il caso odierno e' diverso. L'imputato non ha, infatti, richiesto
l'oblazione  entro  il  termine  stabilito,  ma  solo  dopo  che,   a
istruzione   dibattimentale   conclusa,    la    prospettiva    della
riqualificazione giuridica del fatto gli era stata rappresentata  dal
giudice rimettente. Il giudice a quo ha  ritenuto,  in  specie,  che,
alla luce delle risultanze istruttorie, il fatto oggetto di giudizio,
qualificato nell'imputazione come delitto di atti persecutori  (reato
non oblabile), debba essere  ricondotto  piuttosto  alla  fattispecie
contravvenzionale delle molestie  (reato  suscettibile  di  oblazione
cosiddetta discrezionale, ai  sensi  dell'art.  162-bis  cod.  pen.).
Aderendo, quindi, all'indirizzo minoritario della  giurisprudenza  di
legittimita'  in  precedenza  ricordato,   ha   ritenuto   di   dover
sollecitare un contraddittorio  preventivo  delle  parti  sul  punto:
iniziativa a seguito della quale l'imputato si e' indotto a  proporre
domanda   di   oblazione.   Di    qui    l'odierno    incidente    di
costituzionalita'. 
    9.- La previsione di cui al  censurato  art.  141,  comma  4-bis,
norme att. cod.  proc.  pen.  ha  lasciato,  in  effetti,  aperto  il
problema - postosi gia' nel vigore del precedente codice di rito - di
stabilire se, e a quali condizioni, l'imputato possa  essere  ammesso
all'oblazione nel caso di diversa qualificazione giuridica del  fatto
che implichi il passaggio da un reato non oblabile ad altro oblabile. 
    Anche a voler leggere in  senso  lato  la  nozione  di  «modifica
dell'[...] imputazione», cui fa riferimento  la  norma  denunciata  -
formula che evoca testualmente la rubrica dell'art.  516  cod.  proc.
pen., concernente la  contestazione  del  fatto  diverso  -  appariva
infatti evidente come  la  distinta  fattispecie  del  mutamento  del
titolo del reato, disposto ex officio, non  potesse  essere  attratta
sic  et  simpliciter  nel  raggio   operativo   della   disposizione.
Diversamente dalle nuove contestazioni in fatto, che vengono  operate
dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, l'attribuzione  di
una diversa definizione giuridica del  fatto  da  parte  del  giudice
avviene, secondo la disciplina del codice, in  sentenza,  dunque  nel
provvedimento che conclude il giudizio: con  la  conseguenza  che  il
correttivo previsto dalla  interpolata  disciplina  del  procedimento
oblativo, ovvero la rimessione in termini dell'imputato, non  era  in
grado di operare. 
    Chiamate nel 2006  a  dirimere  il  contrasto  di  giurisprudenza
insorto sul punto, le sezioni unite della Corte di cassazione l'hanno
risolto affermando che il meccanismo della rimessione in termini  non
puo' trovare applicazione a fronte di una riqualificazione  giuridica
del fatto  disposta  dal  giudice,  a  meno  che  l'imputato  si  sia
premurato di far rilevare preventivamente  l'errore  di  diritto  con
contestuale  proposizione  di  domanda   di   oblazione   (Corte   di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 febbraio  2006-2  marzo
2006, n. 7645). 
    Tale soluzione e' stata ribadita dalle stesse sezioni  unite  nel
2014, con un piu' ampio supporto argomentativo (Corte di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 26  giugno  2014-22  luglio  2014,  n.
32351). 
    In  quest'ultima  pronuncia,   le   sezioni   unite   hanno,   in
particolare, rilevato che «[a]lla  difesa  come  diritto  [...]  deve
necessariamente riconnettersi anche  [...]  uno  specifico  onere  di
interlocuzione su tutti  i  punti  che  costituiscono  oggetto  della
devoluzione; e cio' al fine di  scongiurare  l'insorgere  di  effetti
preclusivi che il sistema e' fisiologicamente chiamato a  predisporre
a salvaguardia dello  stesso  ordo  iudiciorum.  In  una  prospettiva
siffatta,  nella  ipotesi  in  cui  l'imputato,  a  fronte   di   una
contestazione  "in  forma  chiara  e  precisa,   del   fatto,   delle
circostanze  aggravanti  e   di   quelle   che   possono   comportare
l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi
articoli di legge" (art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c), [...]  ometta
di contestare la non pertinenza  del  nomen  iuris  alla  fattispecie
dedotta in rubrica, assumendo una posizione  di  nolo  contendere  su
tale qualificante  punto  della  futura  decisione,  nessun  tipo  di
doglianza potra' essere formulata  -  circa  le  preclusioni  che  ne
possono essere derivate per i riti alternativi - ove il  giudice,  in
sede di decisione, abbia ritenuto di dare a quel  fatto  una  diversa
qualificazione giuridica». 
    Di conseguenza, «[o]ve [...] la qualificazione del fatto  integri
un reato la cui  pena  edittale  non  consenta  il  procedimento  per
oblazione, e' onere  dell'imputato  sindacare  la  correttezza  della
qualificazione  stessa,  investendo  il  giudice  di  una   richiesta
specifica con la quale formuli istanza di  oblazione  in  riferimento
alla qualificazione giuridica del fatto che ritenga corretta: in modo
tale da permettere, all'esito  del  necessario  contraddittorio,  una
decisione altrettanto specifica sul punto, con gli evidenti, naturali
riverberi in sede di impugnazione. Solo in presenza di una  effettiva
domanda di oblazione e' infatti possibile soddisfare  l'esigenza  del
contraddittorio e del rispetto delle regole sancite dal  procedimento
scandito dall'art. 141 disp.  att.  c.p.p.,  con  la  conseguenza  di
permettere al pubblico ministero di interloquire e, al tempo  stesso,
investire formalmente il giudice della questione». 
    Secondo le sezioni unite, non si tratterebbe qui «di "antevedere"
le  possibili  scelte  del  giudice  in  ordine  ad   una   eventuale
riqualificazione del fatto»: si tratterebbe, «piu' semplicemente,  di
esercitare  il  proprio  diritto  ad  una  qualificazione   giuridica
corretta, con le conseguenze che da cio' possono derivare proprio sul
terreno della oblabilita' del reato; un diritto che [...] rappresenta
al tempo stesso  un  onere  che,  se  non  adempiuto,  ben  puo'  far
insorgere  la  preclusione  temporale  connessa  alla  procedura   di
oblazione, quale  istituto  idealmente  teso  ad  evitare,  e  non  a
seguire, gli esiti del dibattimento. Ove cosi' non fosse, infatti, in
presenza  di  una  scorretta  qualificazione  giuridica  del   fatto,
emergente gia' all'atto del rinvio a giudizio e tale da  precludergli
formalmente    l'accesso    all'oblazione,    l'imputato    finirebbe
paradossalmente per fruire di un singolare meccanismo di restituzione
nel termine,  che  gli  consentirebbe  di  beneficiare  di  tutto  il
dibattimento  e  regolarsi,  all'esito  delle  sue   risultanze,   se
domandare l'oblazione previa derubricazione del fatto». 
    La giurisprudenza di legittimita' successiva a tale pronuncia  si
e' uniformata in modo compatto alla soluzione  da  essa  accolta,  la
quale puo' essere quindi qualificata - conformemente a quanto  assume
il rimettente - in  termini  di  "diritto  vivente",  utilizzando  lo
stesso criterio anche in rapporto all'ammissione alla sospensione del
procedimento con messa alla prova a seguito  di  diversa  definizione
giuridica del fatto (tra le altre, Corte di cassazione, sezione terza
penale, 5 dicembre 2019-5 marzo 2020, n. 8982; sezione quarta penale,
sentenza 8 maggio 2018-31 luglio  2018,  n.  36752),  cosi'  come  in
precedenza era avvenuto con  riguardo  al  patteggiamento  (Corte  di
cassazione, sezione quinta penale, sentenza 12 marzo  2010-12  aprile
2010, n. 13597). 
    10.- Con la questione oggi  sollevata,  il  rimettente  contesta,
tuttavia, che la  disposizione  censurata,  nella  lettura  offertane
dalle sezioni unite, possa ritenersi  realmente  compatibile  con  la
garanzia costituzionale dell'inviolabilita'  del  diritto  di  difesa
(art. 24, secondo comma,  Cost.),  quale  declinata  dalla  ricordata
giurisprudenza  di  questa  Corte  relativa  al  tema  specifico  del
ripristino della facolta' di accesso ai riti alternativi in  presenza
di modifiche dibattimentali dell'imputazione. Prospettiva nella quale
il giudice a quo richiede, quindi, una pronuncia  additiva  calibrata
sull'iniziativa da lui assunta nel caso  di  specie:  una  pronuncia,
cioe', che a fronte della prospettazione preventiva  alle  parti,  ad
opera del giudice, di una diversa qualificazione giuridica del fatto,
tale da permettere l'oblazione, rimetta  in  termini  l'imputato  per
proporre la relativa domanda  (in  particolare,  ai  sensi  dell'art.
162-bis cod. pen.). 
    Al  riguardo,  si  deve  peraltro  osservare  come  le  soluzioni
adottate da  questa  Corte,  in  punto  di  accessibilita'  dei  riti
alternativi a fronte  di  modifiche  fattuali  dell'imputazione,  non
siano estensibili sic et simpliciter alle modifiche  giuridiche,  che
nel sistema nel codice hanno una  distinta  disciplina,  di  riflesso
alla disomogeneita' dei due fenomeni. Disomogeneita'  gia'  posta  in
evidenza da questa Corte - proprio in  relazione  al  problema  della
tutela del diritto al contraddittorio - con la ricordata sentenza  n.
103 del 2010,  e  che  lo  stesso  rimettente  del  resto  riconosce,
allorche' giudica innegabile «l'oggettiva  diversita'  delle  vicende
modificative del fatto (nella  sua  dimensione  storica)  rispetto  a
quelle attinenti alla sua qualificazione giuridica». 
    Per quanto qui piu' direttamente rileva, non e' censurabile da un
punto di  vista  costituzionale  l'orientamento  nomofilattico  delle
sezioni unite della Corte di cassazione, circa la configurabilita' di
un onere dell'imputato, il quale si sia  visto  contestare  in  forma
chiara e precisa il  fatto  addebitatogli,  con  l'indicazione  degli
articoli di legge che si assumono violati, secondo quanto  prescritto
dall'art. 429, comma 1, lettera c), cod. proc.  pen.,  di  esercitare
prontamente e tempestivamente  il  suo  diritto  di  difesa  riguardo
all'inquadramento giuridico della vicenda. 
    Una cosa, infatti, e' il mutamento del dato  storico  su  cui  si
basa l'accusa,  legato  alle  risultanze  probatorie:  mutamento  che
l'imputato non sarebbe tenuto ad "antivedere", per adeguare  ad  esso
le proprie strategie in punto di opzione per un rito speciale;  donde
l'abbandono, da parte  di  questa  Corte,  del  vecchio  orientamento
basato sulla prevedibilita' di variazioni dell'imputazione nel  corso
del  dibattimento  e  sulla  conseguente  accettazione  del  relativo
«rischio» da parte dell'imputato che non abbia  richiesto  per  tempo
quel rito. 
    Altra cosa, invece, e' la sussunzione del dato storico sub specie
iuris, ossia il suo inquadramento sotto l'uno  o  l'altro  titolo  di
reato: tema sul quale l'imputato potrebbe invece interloquire subito,
nell'esercizio del suo diritto di difesa, particolarmente in rapporto
ai riflessi sull'accessibilita' al meccanismo oblativo, dolendosi, in
specie, di una qualificazione scorretta. 
    Tale diritto, a contestare la qualificazione giuridica  prescelta
dal pubblico ministero, si traduce - per ripetere  la  formula  della
sentenza n. 32351 del 2014 delle sezioni unite - anche in  un  onere,
«al fine di scongiurare l'insorgere  di  effetti  preclusivi  che  il
sistema e' fisiologicamente chiamato  a  predisporre  a  salvaguardia
dello stesso ordo iudiciorum». Detto altrimenti, per evitare  che,  a
fronte  della  scorretta  qualificazione,  l'imputato   "lucri"   uno
slittamento in  avanti  del  termine  per  oblare  che  erode,  senza
adeguata giustificazione,  gli  effetti  deflattivi  del  meccanismo,
permettendogli di "regolarsi" secondo gli esiti, a lui  piu'  o  meno
favorevoli, dell'istruttoria dibattimentale. E cio' tanto piu' in  un
caso,  quale  quello  oggetto  del  giudizio  a  quo,  nel  quale  la
riqualificazione che il rimettente reputa dovuta implica il  transito
dal reato di atti persecutori a quello di molestie: reato "finitimo",
evocato dalla stessa norma incriminatrice  di  cui  all'art.  612-bis
cod. pen. con l'uso della voce verbale «molesta». 
    Al riguardo, occorre  tenere  conto,  altresi',  del  fatto  che,
mentre gli artt. 516 e 517 cod. proc.  pen.  si  applicano  in  primo
grado, la riqualificazione giuridica potrebbe  essere  operata  anche
dalla Corte di  cassazione:  evenienza  nella  quale  l'obiettivo  di
economia  processuale,  sotteso  all'istituto   dell'oblazione,   ove
l'imputato  rimasto  inerte  fosse   restituito   nel   termine   per
richiederla, risulterebbe in pratica totalmente annullato. 
    11.- Giova soggiungere, infine, che,  sul  piano  sovranazionale,
mentre  la  Corte  di   Strasburgo   non   risulta   essersi   ancora
specificamente espressa sul diritto  dell'imputato  al  recupero  dei
riti alternativi a fronte di modifiche  delle  componenti  giuridiche
dell'accusa, la Corte di giustizia dell'Unione europea  lo  ha  fatto
invece di recente - anche alla luce della giurisprudenza della stessa
Corte EDU - con la sentenza 13 giugno 2019, causa C-646/17, Moro. 
    La  Corte  di  Lussemburgo  e'  stata,  infatti,  investita   dal
Tribunale ordinario  di  Brindisi  di  una  questione  pregiudiziale,
intesa a conoscere se la direttiva 2012/13/UE del Parlamento  europeo
e del Consiglio, del 22 maggio 2012, sul diritto all'informazione nei
procedimenti penali (in particolare, quanto agli artt.  2,  paragrafo
1, 3, paragrafo 1, lettera c, e 6, paragrafi 1, 2 e 3), e  l'art.  48
della Carta dei diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007, ostino a una legislazione nazionale che  distingue  le
garanzie difensive conseguenti alla modifica dell'imputazione secondo
che essa riguardi  gli  elementi  fattuali  o  quelli  giuridici,  in
particolare consentendo solo nel primo caso all'imputato di  accedere
al patteggiamento. 
    Al quesito la Corte  di  giustizia  ha  dato  risposta  negativa,
ritenendo un simile assetto compatibile con i parametri evocati. 
    La Corte europea ha rilevato, in specie, che tanto  la  direttiva
2012/13/UE (in modo specifico, il suo art. 6,  paragrafo  4),  quanto
l'art. 48, paragrafo 2, CDFUE (secondo cui il diritto  di  difesa  e'
garantito  ad  ogni  imputato)  esigono  -  anche  alla  luce   della
giurisprudenza della Corte EDU - che,  nel  caso  di  modifica  della
qualificazione dei fatti che sono oggetto dell'accusa, l'imputato  ne
sia informato in un momento in cui dispone  ancora  dell'opportunita'
di reagire in modo effettivo, affinche' egli sia posto  in  grado  di
predisporre in modo efficace la propria difesa. Ne' dalla  direttiva,
ne' dalla disposizione della  Carta  puo',  per  converso,  ricavarsi
l'obbligo, per il legislatore nazionale, di prevedere nella  suddetta
evenienza una rimessione in termini dell'imputato per accedere a riti
alternativi   a   carattere   "premiale"   (quale,   nella    specie,
l'applicazione della pena su richiesta). E  nemmeno  puo'  desumersi,
dalle garanzie assicurate a livello sovranazionale, la necessita'  di
equiparare, a livello nazionale, i diritti riconosciuti all'imputato,
in punto di fruibilita' dei riti alternativi, nel caso  di  modifiche
dei  fatti  oggetto  dell'imputazione  e  di  modifiche  della   loro
qualificazione giuridica. 
    12.- Alla luce delle considerazioni che precedono,  la  questione
va dichiarata, dunque, non fondata.