ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  438,  comma
1-bis, del codice di procedura penale,  come  inserito  dall'art.  1,
comma  1,  lettera  a),  della  legge   12   aprile   2019,   n.   33
(Inapplicabilita' del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la
pena dell'ergastolo), nonche' degli artt. 3 e 5 della medesima  legge
n. 33 del 2019, promossi complessivamente  dal  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario della Spezia con ordinanza del  6
novembre 2019, dalla Corte di assise di Napoli con  ordinanza  del  5
febbraio 2020 e dal Giudice dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di Piacenza con ordinanza del  16  luglio  2020,  iscritte,
rispettivamente, ai numeri 1, 77 e 127 del registro ordinanze 2020  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 4,  27  e
38, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti gli atti di costituzione di F. F., di A. C.  e  di  A.  F.,
nonche' gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nell'udienza pubblica  del  18  novembre  2020  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi gli avvocati Fabio Sommovigo per F.  F.,  Alfonso  Liccardo
per A. C., Andrea Perini per A. F. e l'avvocato  dello  Stato  Ettore
Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 18 novembre 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 6 novembre 2019 (r.o. n. 1  del  2020),  il
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario della Spezia
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  438,
comma 1-bis, del codice di procedura penale, come inserito  dall'art.
1,  comma  1,  lettera  a),  della  legge  12  aprile  2019,  n.   33
(Inapplicabilita' del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la
pena dell'ergastolo), in riferimento agli  artt.  3  e  111,  secondo
comma, della Costituzione, nonche' dell'art. 5 della  medesima  legge
n. 33 del 2019, in riferimento all'art. 117, primo comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 7 della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo
(CEDU). 
    1.1.- Il giudice a quo  si  trova  a  vagliare  la  richiesta  di
giudizio abbreviato formulata da un imputato per il  delitto  di  cui
agli artt. 575, 576, primo comma, numero 1) (in riferimento  all'art.
61, numero 1), e 577, secondo comma, del  codice  penale,  per  avere
cagionato la morte della moglie, verificatasi il 28 maggio  2019,  in
conseguenza  dell'accoltellamento  subito  ad  opera   dello   stesso
imputato il 20 marzo 2019 in occasione di un litigio  insorto  tra  i
coniugi per il malfunzionamento di una caldaia. 
    Rileva il rimettente che, essendo entrata in vigore, il 20 aprile
2019, la menzionata legge n. 33 del 2019, che  preclude  il  giudizio
abbreviato per  gli  imputati  di  un  delitto  punito  con  la  pena
dell'ergastolo, come l'omicidio aggravato dai futili motivi  commesso
a  danno  della  moglie,  l'istanza  dell'imputato  dovrebbe   essere
respinta,  dovendo  ritenersi  che  il  fatto  contestato  sia  stato
commesso il 28 maggio 2019, e dunque che a esso si applichi la  nuova
disciplina processuale in forza dell'art. 5 della medesima  legge  n.
33 del 2019, che  limita  la  sua  applicazione  ai  «fatti  commessi
successivamente» alla sua entrata in vigore. 
    Il giudice dubita, tuttavia,  della  legittimita'  costituzionale
tanto della preclusione del giudizio abbreviato per gli  imputati  di
delitti puniti con l'ergastolo sancita  dal  nuovo  art.  438,  comma
1-bis, cod. proc. pen., quanto della disciplina intertemporale di cui
al citato art. 5 della legge n. 33 del 2019. 
    1.2.- In punto di rilevanza  delle  questioni  relative  all'art.
438, comma 1-bis, cod. proc. pen., il rimettente  ritiene  «pacifica»
l'applicabilita'  della  nuova  disciplina  al  procedimento   penale
pendente nei confronti dell'imputato, dal momento che il  delitto  di
omicidio contestatogli si sarebbe consumato soltanto nel  maggio  del
2019, e dunque successivamente all'entrata in vigore della  legge  n.
33 del 2019. Tale conclusione non potrebbe essere revocata in  dubbio
sulla  base  della  recente  giurisprudenza  (sono  citate  Corte  di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 luglio 2018, n.  40986,
e sezione quarta penale, sentenza 20 dicembre 2018, n. 16026) che, in
tema di successione di  leggi  penali  rispetto  a  reati  "a  evento
differito", ha identificato nel  momento  della  condotta  il  tempus
commissi  delicti,  dal   momento   che   tale   principio   varrebbe
esclusivamente nella materia del diritto penale  sostanziale,  e  non
gia' in materia  processuale,  dove  impererebbe  invece  il  diverso
principio tempus  regit  actum,  secondo  il  quale  tutti  gli  atti
successivi rispetto all'entrata in vigore di una nuova norma  debbono
essere compiuti secondo i presupposti richiesti da  quest'ultima  (e'
citata Corte di cassazione, sesta sezione penale, sentenza 12  giugno
2019, n. 39823). 
    1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni,  il
rimettente dubita, anzitutto, della compatibilita' con i principi  di
uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. del  divieto  di
giudizio abbreviato introdotto dal nuovo art. 438, comma 1-bis,  cod.
proc. pen. 
    Il  giudice   a   quo   e'   consapevole   della   giurisprudenza
costituzionale  che  ha  ritenuto  non  sindacabili  le  disposizioni
normative che stabiliscono preclusioni all'accesso ai  riti  premiali
per alcune tipologie di reati  (e'  citata  l'ordinanza  n.  433  del
2006),  ma   ritiene   che   la   preclusione   qui   censurata   sia
«potenzialmente foriera di esiti applicativi discriminatori,  sia  in
termini di trattamenti differenziati per situazioni omogenee, sia, ex
adverso,  in  termini  di  ingiustificata  parificazione  di  ipotesi
obiettivamente differenti». 
    Ad avviso del rimettente, la  violazione  dell'art.  3  Cost.  si
coglierebbe  con  particolare  chiarezza  nelle  ipotesi  in  cui  la
comminatoria dell'ergastolo consegue - come nel caso di specie  -  al
ricorrere  di  una  circostanza  aggravante,  come  tale  soggetta  a
potenziale elisione nel giudizio di bilanciamento di cui all'art.  69
cod. pen., con conseguente applicazione della pena della  reclusione.
Cio'  accadrebbe,  in  particolare,  rispetto  alla  figura  criminis
dell'omicidio volontario aggravato, che accomunerebbe «una  serie  di
ipotesi che, in concreto, pur nella comunanza dell'evento tipico,  si
differenziano  profondamente  per  modalita'  dell'azione  e  per  la
configurazione dell'elemento psicologico», e che  pertanto  sarebbero
connotate   da   un   disvalore    disomogeneo;    con    conseguente
irragionevolezza della scelta normativa di assoggettare tutte  queste
ipotesi a un medesimo  regime  processuale,  come  gia'  ritenuto  da
questa Corte in  relazione  alla  presunzione  di  adeguatezza  della
custodia cautelare in carcere (e'  citata  la  sentenza  n.  164  del
2011). Sarebbe, in particolare, irragionevole  equiparare,  sotto  il
profilo processuale, omicidi commessi «sulla  base  di  una  pulsione
occasionale e in una situazione di parziale incapacita' di  intendere
e di volere»  e  omicidi  «perpetrati  in  contesti  di  criminalita'
organizzata, oppure commessi con premeditazione,  oppure  ancora  con
modalita' esecutive particolarmente  crudeli»;  e  cio'  specialmente
quando, come nel caso di specie, lo stato di incapacita' parziale sia
gia' stato processualmente accertato. 
    L'equiparazione operata dalla disposizione censurata  produrrebbe
«[a]naloghe aporie e potenziali discriminazioni»  in  relazione  alla
eterogeneita'   dei   delitti    puniti    con    l'ergastolo,    che
comprenderebbero fattispecie offensive di diversi beni giuridici e di
disvalore profondamente differenziato. 
    Ne' si comprenderebbero le ragioni per le quali talune ipotesi di
omicidio aggravato per le quali e' prevista  una  pena  temporanea  -
come  quella  di  cui  all'art.  577,  secondo  comma,  cod.  pen.  -
dovrebbero  consentire  l'accesso  al  giudizio  abbreviato  e   alla
conseguente riduzione di pena, trattandosi di fattispecie «di analogo
allarme  sociale  o  addirittura,  a  seconda  del   caso   concreto,
potenzialmente maggiore». 
    In definitiva, la scelta legislativa di ancorare  la  preclusione
del rito all'unico criterio della  pena  comminata  in  astratto  dal
legislatore risulterebbe irragionevole, non trattandosi  di  criterio
«idoneo a selezionare le  condotte  effettivamente  connotate  da  un
maggiore  disvalore  per  poi   assoggettarle   ad   una   disciplina
processuale piu' severa». Tale  scelta  si  porrebbe,  peraltro,  «in
netta  controtendenza  rispetto  ai  piu'   recenti   approdi   della
giurisprudenza costituzionale e  della  CEDU»,  che  sottolineano  la
essenziale funzione rieducativa  della  pena  anche  con  riferimento
all'ergastolo. 
    1.4.- Il nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. si porrebbe
inoltre in contrasto con il principio della  ragionevole  durata  del
processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. 
    La necessita' di procedere sempre con rito ordinario per i  reati
puniti  con   l'ergastolo   produrrebbe   infatti   un   rischio   di
congestionamento nell'ordinaria gestione delle attivita' giudiziarie,
specialmente  nelle  realta'  di  fori  di  piccole  dimensioni,  che
verrebbero sovraccaricate di dibattimenti complessi; con  conseguenti
inevitabili dilatazioni dei tempi della loro definizione, e dei tempi
della custodia cautelare in carcere degli imputati. 
    1.5.- La disposizione transitoria di cui all'art. 5  della  legge
n. 33 del 2019 sarebbe, infine, di dubbia compatibilita'  con  l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 CEDU. 
    Il rimettente ritiene, in proposito, di  non  potere  discostarsi
dal  «diritto  vivente»  nella  determinazione  del  tempus  commissi
delicti del reato sottoposto  alla  sua  cognizione,  imperniato  sul
criterio processuale tempus regit actum; e ribadisce pertanto di  non
potere applicare al caso concreto la disciplina  processuale  vigente
al momento della condotta dell'imputato. Osserva, tuttavia,  che  una
simile  soluzione  risulti  incompatibile  con   il   «requisito   di
prevedibilita'   della   legge»   enucleato   dalla    giurisprudenza
convenzionale in materia di art. 7 CEDU (e' citata Corte europea  dei
diritti dell'uomo, grande camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris
contro Cipro), requisito che deve essere ritenuto valevole anche  per
le disposizioni che - pur collocate nel codice di procedura penale  -
hanno un immediato riflesso sulla severita' della pena da  infliggere
in caso di condanna, come quelle  che  stabiliscono  i  requisiti  di
accesso al giudizio abbreviato (e' citata Corte EDU,  grande  camera,
sentenza 17 settembre  2009,  Scoppola  contro  Italia,  n.  2).  Dal
momento,  allora,  che  la  nuova  disciplina  determina  in  ipotesi
addirittura  l'applicazione   di   una   pena   di   specie   diversa
(l'ergastolo) «da quella che, al momento della commissione del fatto,
era ragionevolmente prospettabile in capo all'agente  consapevole  di
poter  beneficiare  del  rito  alternativo»,  essa  si  porrebbe   in
contrasto con l'art. 7 CEDU, e dunque con lo stesso art.  117,  primo
comma, Cost., nella parte in cui consente - appunto -  l'applicazione
del nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. anche agli  imputati
di delitti puniti con l'ergastolo  che  abbiano  tenuto  la  condotta
prima dell'entrata in vigore della legge n. 33 del 2019. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, eccependo l'inammissibilita' e  manifesta  infondatezza  delle
questioni. 
    2.1.-  Le  questioni  sarebbero,  anzitutto,  inammissibili   per
irrilevanza, dal momento che il giudice a quo avrebbe dovuto ritenere
non applicabile la nuova disciplina nel caso di  specie,  sulla  base
della interpretazione fornita  dalla  sentenza  delle  Sezioni  unite
penali n. 40986 del 2018 citata dalla stessa ordinanza di rimessione,
che avrebbe dovuto condurre alla individuazione del  tempus  commissi
delicti - ai fini della disciplina  transitoria  di  cui  all'art.  5
della legge n. 33 del 2019 - nel momento della  condotta,  e  non  in
quello successivo di verificazione dell'evento. 
    Le questioni sarebbero, altresi', inammissibili in considerazione
della  discrezionalita'  del  legislatore  nella  individuazione  dei
titoli di reato esclusi dal rito alternativo, salvo il  limite  della
manifesta irragionevolezza, non attinto dalla disposizione censurata. 
    2.2.- La questione sollevata sull'art. 5 della legge  n.  33  del
2019 sarebbe, infine, manifestamente infondata, dal momento che  tale
disposizione si  porrebbe  in  linea  di  piena  conformita'  con  la
giurisprudenza della Corte EDU invocata dal rimettente. 
    3.- Si e' costituito l'imputato nel giudizio a quo, il  quale  ha
invece concluso nel senso della fondatezza delle questioni  sollevate
dal rimettente, ripercorrendo adesivamente l'iter  della  motivazione
dell'ordinanza  e  insistendo,  in   particolare,   sulla   difficile
comprensibilita'  di  una  «scelta   legislativa   di   erigere   uno
sbarramento totale e indiscriminato per gli imputati di reati  puniti
con una determinata pena edittale, senza l'inserimento quantomeno  di
ulteriori  criteri  selettivi  volti  a  consentire  al  giudice  una
valutazione sulla personalita' del soggetto ovvero sulla gravita'  in
concreto del fatto-reato,  quantomeno  nelle  forme  di  un  giudizio
prognostico circa la specie di pena che sara' irrogata all'esito  del
giudizio». 
    La  parte  stigmatizza,  altresi',  la  logica  che   permeerebbe
l'intero impianto della legge  n.  33  del  2019,  la  quale  sarebbe
finalizzata  in  effetti  a  irrigidire  le  soglie  del  trattamento
sanzionatorio, spingendole verso l'alto e riducendo  progressivamente
gli spazi di discrezionalita' del giudice; cio' che  si  porrebbe  in
contrasto,  peraltro,  con  i   piu'   recenti   orientamenti   della
giurisprudenza costituzionale e convenzionale,  come  gia'  osservato
dall'ordinanza di rimessione. 
    4.- L'Unione camere penali italiane (UCPI) ha  infine  presentato
un'opinione scritta in qualita' di amicus curiae ai  sensi  dell'art.
4-ter  delle  Norme  integrative  per  i  giudizi  davanti  la  Corte
costituzionale, ammessa con decreto del Presidente della Corte del  9
settembre 2020, a sostegno delle censure del rimettente  relative  al
nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. 
    Rammentate le considerazioni che avevano indotto  la  Commissione
redigente del codice di procedura  penale  vigente  ad  estendere  il
giudizio  abbreviato  anche  ai  delitti  puniti  con  l'ergastolo  e
ricostruite  brevemente  le  vicende  storiche  che  hanno   condotto
all'attuale disciplina, l'UCPI insiste sulla  irragionevolezza  della
disciplina stessa, basata su di  una  indiscriminata  preclusione  in
ragione soltanto del titolo di reato contestato,  e  sui  conseguenti
effetti discriminatori che avrebbero «quale unica ratio  ispiratrice,
e  quale  finalita'  apertamente  dichiarata,   quella   di   piegare
l'accertamento giudiziale alla inflizione della pena  massima,  cosi'
abbandonando il principio della pena giusta  (art.  27  Cost.)  quale
unico approdo costituzionalmente  legittimo  di  un  Giusto  processo
(art. 111 Cost.)». Una ratio, peraltro, che sarebbe tutta  incentrata
su  una  concezione   unicamente   retributiva   della   pena,   come
risulterebbe dalla lettura della stessa originaria proposta di legge,
la quale a sua volta rappresenterebbe uno degli «evidenti segnali  di
una politica criminale che si  distanzia  sempre  piu'  dai  principi
costituzionali e dalla interpretazione che  di  questi  ne  danno  le
Corti europee e la stessa Corte costituzionale». 
    La  preclusione  al  giudizio  abbreviato  risulterebbe,  d'altra
parte,  del  tutto  irragionevole  laddove  l'imputato   abbia   reso
confessione gia' in fase di indagini, ovvero  quando  l'imputato  reo
confesso e' anche collaboratore di giustizia. In tali situazioni,  la
necessita'   di   celebrare   un   dibattimento   determinerebbe   un
significativo aggravio del carico di lavoro delle  corti  di  assise,
senza al contempo alleggerire quello  dei  giudici  per  le  indagini
preliminari, «relegando la ragionevole durata del processo a miraggio
difficilmente raggiungibile»,  come  gia'  nella  sostanza  segnalato
dallo stesso  Consiglio  superiore  della  magistratura  nel  proprio
parere  del  6  febbraio  2019  sull'imminente  riforma.  Con   esiti
particolarmente gravi per i processi  caratterizzati  da  imputazioni
cumulative, alcune delle quali definibili e altre non definibili  con
giudizio abbreviato, una simile evenienza determinando la  necessita'
di inevitabili duplicazioni del procedimento e  conseguente  aggravio
per entrambi gli uffici. 
    5.- In  prossimita'  dell'udienza,  l'Avvocatura  generale  dello
Stato ha presentato memoria illustrativa con la quale ha approfondito
gli  argomenti  a   sostegno   dell'eccezione   di   inammissibilita'
precedentemente formulata, e ha comunque  chiesto  che  le  questioni
sollevate siano dichiarate infondate. 
    6.- Con ordinanza del 5 febbraio 2020 (r.o. n. 77 del  2020),  la
Corte di  assise  di  Napoli  ha  parimenti  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 438, comma  1-bis,  cod.  proc.
pen., in riferimento agli artt. 3, 24 «anche in relazione agli  artt.
2, 3 e 27», nonche' agli artt. 111, primo comma, e 117, primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU. 
    6.1.- La Corte rimettente si trova a  vagliare  la  richiesta  di
definizione  del  processo  nelle  forme  del   giudizio   abbreviato
presentata da  un  imputato,  rinviato  a  giudizio  con  decreto  di
giudizio immediato per il delitto di cui agli «artt. 575-576 n.  2  -
in relazione all'art.  61,  n.  1-4  c.p.»,  per  avere  cagionato  a
coltellate, il 26 aprile 2019, la morte del padre  in  seguito  a  un
banale litigio per motivi lavorativi. 
    Espone il giudice a quo che, in seguito all'emissione del decreto
di  giudizio  immediato,  l'imputato  aveva  formulato  richiesta  di
giudizio abbreviato; richiesta  che  era  stata  pero'  respinta  dal
giudice per  le  indagini  preliminari,  il  quale  l'aveva  ritenuta
inammissibile, in ragione dell'entrata in vigore -  prima  del  fatto
contestato - della legge n. 33 del 2019.  Tale  richiesta,  reiterata
dal difensore nelle fasi preliminari del dibattimento,  dovrebbe  ora
essere vagliata dalla Corte di  assise  rimettente,  sulla  base  dei
principi  enucleabili  dalla  giurisprudenza  costituzionale   e   di
legittimita' (sono citate, in particolare, la  sentenza  n.  169  del
2003 di questa Corte, nonche'  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite
penali, sentenza 15 maggio 2014, n. 20214, e  sezione  prima  penale,
sentenza 16 maggio 2019, n.  21439).  L'istanza  dovrebbe,  peraltro,
essere parimenti respinta, sulla base di  quanto  disposto  dall'art.
438, comma 1-bis, cod. proc. pen., e  cioe'  della  norma  della  cui
legittimita' costituzionale il rimettente dubita: donde la  rilevanza
delle questioni prospettate. 
    6.2.- La disposizione censurata contrasterebbe, anzitutto, con  i
principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., per
motivi analoghi a quelli gia' sviluppati dal GUP del Tribunale  della
Spezia, di cui si e' poc'anzi dato  conto  (supra,  punto  1.3.).  La
Corte rimettente sottolinea altresi' le irragionevoli  disparita'  di
trattamento che sarebbero create dalla disciplina in  esame  rispetto
al diverso trattamento  sanzionatorio  che  sarebbe  oggi  riservato,
rispettivamente, a chi uccida ad esempio il fratello  o  la  sorella,
che potrebbe accedere al giudizio abbreviato e  godere  del  relativo
sconto di pena, e a chi uccida invece l'ascendente o un  discendente,
che ne sarebbe invece escluso. 
    6.3.- La disposizione censurata violerebbe poi l'art.  24  Cost.,
sub specie di «diritto di  accesso  ai  riti»;  diritto  che  sarebbe
pregiudicato da una disposizione,  come  quella  all'esame,  che  non
consenta a taluni imputati di accedere a qualsiasi rito  alternativo,
non potendosi  peraltro  considerare  sufficiente  -  ai  fini  della
garanzia del diritto di difesa - la possibilita'  per  l'imputato  di
prestare, in dibattimento, consenso all'acquisizione  degli  atti  di
indagine, rendendo cosi' piu' veloce la  celebrazione  del  processo,
similmente a quanto accade in sede di giudizio abbreviato. 
    6.4.- Sarebbe poi violato «l'art. 24 in relazione agli artt. 2  e
3 della Costituzione», sotto il  profilo  del  «diritto  al  rispetto
della   dignita'   e   della    riservatezza»    posto    in    causa
dall'impossibilita'  di  accedere  a  un'udienza  camerale  e   dalla
necessita' di affrontare il  dibattimento  in  udienza  pubblica.  Ad
avviso  del  giudice  a  quo,  infatti,  un  tale  assetto  normativo
risulterebbe incompatibile con la necessita' di «tutelare un  profilo
di riservatezza che quanto maggiore e' la consapevolezza della  colpa
e la conseguente  contrizione  da  parte  dell'imputato,  tanto  piu'
appare meritevole di tutela in linea con il rispetto della  persona»;
profilo di riservatezza che sarebbe riconducibile allo stesso diritto
di difesa, e che dovrebbe garantire all'imputato la «possibilita'  di
accedere a forme processuali  che  limitino  l'esposizione  pubblica,
soprattutto rispetto ai fatti piu' infamanti per i  quali  la  scelta
del rito camerale puo' essere indice di  contrizione  e  pentimento».
Cio' che varrebbe «a maggior ragione, quando l'imputato  ritenga  che
dagli atti di indagini non risulti dimostrata la  sua  colpevolezza»,
in omaggio al principio della presunzione di non colpevolezza di  cui
all'art. 27, secondo comma, Cost. 
    Di talche' la  preclusione  totale  del  giudizio  abbreviato  in
queste ipotesi risulterebbe  «lesiva  [...]  del  diritto  di  difesa
inteso come rispetto della dignita', cio'  anche  in  relazione  alle
disparita' con tutti gli altri imputati e, quindi, in relazione  agli
artt. 2 e 3 della Costituzione». 
    6.5.- La disciplina censurata violerebbe  poi  il  principio  del
giusto  processo  di  cui  all'art.  111,  primo  comma,   Cost.   La
preclusione  ivi  stabilita  priverebbe  infatti   l'imputato   della
possibilita' di accedere a un rito che consenta una decisione rapida,
laddove la "giustizia" del processo presupporrebbe necessariamente la
sua rapidita'; cio' che sarebbe particolarmente  pregiudizievole  nei
confronti  degli  imputati  che   intendano   ottenere   una   rapida
affermazione  della  propria  innocenza,  i  quali  sarebbero   cosi'
costretti ad affrontare una «esposizione alla udienza pubblica» e gli
«ineliminabili tempi lunghi del dibattimento». 
    La   violazione   dell'invocato   parametro   costituzionale   si
coglierebbe  anche  in  conseguenza  dell'allargamento  dell'area  di
concreta applicabilita' della pena dell'ergastolo,  che  risulterebbe
distonica  rispetto  ai  recenti  orientamenti  della  giurisprudenza
costituzionale (e' citata estesamente la sentenza n. 149 del 2018). 
    6.6.- La disposizione in esame sarebbe, infine, incompatibile con
l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli art.  6  e  7  CEDU,
privando arbitrariamente gli imputati di taluni  reati  dei  vantaggi
connessi alla possibile scelta di «procedure semplificate» (e' citata
Corte EDU, decisione 8 dicembre 2015,  Mihail-Alin  Podoleanu  contro
Italia). 
    7.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le  questioni  siano  dichiarate  manifestamente
infondate, in ragione della discrezionalita'  del  legislatore  nello
stabilire preclusioni ai riti abbreviati, non censurabili  da  questa
Corte se non sotto il profilo della loro manifesta  irragionevolezza,
qui certamente insussistente, anche in considerazione del fatto che i
delitti puniti con l'ergastolo sono quelli che si collocano all'apice
della scala di gravita' dei reati previsti dall'ordinamento penale. 
    8.- Si e' costituito in giudizio anche il difensore dell'imputato
nel giudizio a quo, concludendo  nel  senso  della  fondatezza  delle
questioni dopo aver ripercorso in  senso  adesivo  le  argomentazioni
svolte nell'ordinanza di rimessione. 
    La  parte  sottolinea  inoltre  come  -  a  fronte  della   piena
confessione dell'imputato e della compiuta ricostruzione  del  fatto,
come nel caso oggetto del procedimento a quo - la celebrazione di  un
dibattimento appaia «inutile, dilatoria, dolorosa per le pp.oo.  (che
saranno costrette a ripercorrere  in  pubblica  udienza  i  fatti  di
causa), insomma ingiustificata rispetto al fine dell'accertamento dei
fatti, che appaiono evidenti gia' alla mera  lettura  degli  atti  di
indagine acquisibili nell'ipotesi di celebrazione del processo  nelle
forme del rito abbreviato». 
    La  scelta  legislativa   censurata   sarebbe,   d'altra   parte,
espressiva  dell'unica  finalita'  di  sancire   l'imprescindibilita'
dell'inflizione della pena  dell'ergastolo  rispetto  ai  reati  piu'
gravi, finalita' che risulterebbe pero' in contrasto con la  funzione
rieducativa della pena di cui all'art. 27 Cost. 
    9.- In  prossimita'  dell'udienza,  l'Avvocatura  generale  dello
Stato ha presentato memoria illustrativa con la quale ha ribadito  la
richiesta che le questioni sollevate siano dichiarate  manifestamente
infondate, sulla base dei medesimi argomenti  gia'  articolati  nella
memoria relativa alla causa introdotta  dall'ordinanza  del  GUP  del
Tribunale della Spezia (supra, punto 5.). 
    10.- Con ordinanza del 16 luglio 2020 (r.o. n. 127 del 2020),  il
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di  Piacenza
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  438,
comma 1-bis, cod. proc. pen. e dell'art. 3  della  legge  n.  33  del
2019, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111,  secondo
comma, Cost. 
    10.1.- Il rimettente e' investito  della  richiesta  di  giudizio
abbreviato formulata da un imputato del delitto  di  cui  agli  artt.
575, 577, primo comma, numero 1), cod. pen., per  avere  cagionato  a
coltellate, il 6 maggio 2019, la morte della moglie. 
    Anche  in  questo  caso,  il  GUP  non  potrebbe  accogliere   la
richiesta, essendo ormai entrata in vigore la legge n. 33  del  2019,
della cui legittimita' costituzionale egli tuttavia dubita. 
    10.2.- Circa la rilevanza delle questioni, il rimettente  precisa
che - contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa - la preclusione
stabilita dal nuovo  art.  438,  comma  1-bis,  cod.  proc.  pen.  si
dovrebbe ritenere applicabile non solo ai delitti per i quali gia' la
norma  incriminatrice  della  fattispecie  base   prevede   la   pena
dell'ergastolo, ma anche a quelli - come l'omicidio  -  per  i  quali
tale pena sia prevista soltanto in conseguenza della  sussistenza  di
una circostanza aggravante a effetto speciale. 
    10.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il
rimettente dubita anzitutto  della  compatibilita'  del  nuovo  comma
1-bis dell'art. 438 cod. proc. pen. con il principio  di  presunzione
di non colpevolezza, di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. 
    Ad avviso del giudice a quo, la riforma sarebbe stata attuata «al
precipuo  scopo  di  evitare  che  il  meccanismo   delle   riduzioni
sanzionatorie operante in caso di condanna possa provocare effetti in
contrasto  con  la  percezione  della  gravita'  di   certi   episodi
delittuosi da parte dell'opinione pubblica», e dunque per «soddisfare
le istanze punitive da una parte dell'elettorato».  In  tal  modo  il
legislatore avrebbe pero' «implicitamente anticipato  un'affermazione
di colpevolezza dell'accusato, precludendo allo stesso di  fruire  di
una  modalita'  procedurale  di  accertamento  dei  fatti   e   delle
responsabilita' che non  necessariamente  deve  concludersi  con  una
sentenza di condanna», e che potrebbe svolgersi in modo piu' celere e
snello di quanto consentito da un dibattimento. 
    10.4.- Strettamente connessa alla precedente censura e' il dubbio
del  rimettente  relativo  alla  compatibilita'   della   preclusione
legislativa in parola con il principio della ragionevole  durata  del
processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., da  interpretarsi
anche alla luce dell'art. 6 CEDU. 
    Tale  preclusione  influirebbe  infatti  sulle   prospettive   di
celerita' del processo, che - nel rito  dibattimentale  -  sconta  la
fisiologica  complessita'  legata  all'assunzione  di  prove   orali,
nonche' l'«impossibilita' di fruire, se non  con  il  consenso  delle
parti, di contributi probatori gia'  confezionati  al  termine  delle
indagini» e i rischi di mutamenti in  corso  di  causa  del  collegio
giudicante, particolarmente elevati in un collegio  di  otto  giudici
come quello delle corti di  assise;  senza  contare,  poi,  le  «note
difficolta' di organizzazione di processi di competenza  della  Corte
di Assise in realta' di uffici giudiziari medio-piccoli  [...],  dove
non e' generalmente prevista l'istituzione di  sezioni  appositamente
dedicate a simili incombenze, con il problema della calendarizzazione
di  udienze  "eccezionali"  rispetto  al   regime   ordinario   delle
trattazioni  assegnate  ai  giudici  togati  in  servizio  presso  il
Tribunale». 
    Simili difficolta' inciderebbero in senso  negativo  tanto  sulla
«aspettativa dell'imputato alla celebrazione del  processo  in  tempi
congrui - tanto piu' allorche' [...] lo stesso si trovi in  stato  di
custodia cautelare - [quanto sul] principio della ragionevole  durata
del  processo  quale  garanzia  della  giurisdizione  e  valvola   di
equilibrato funzionamento del sistema». 
    10.5.- La disciplina di cui all'art. 438, comma 1-bis, cod. proc.
pen. risulterebbe poi in contrasto con i principi  di  eguaglianza  e
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. 
    Tale disciplina  determinerebbe  un'irragionevole  disparita'  di
trattamento  tra  situazioni  omogenee,  ad  esempio  precludendo  il
giudizio abbreviato a chi abbia cagionato la morte  della  moglie  in
costanza del vincolo matrimoniale e non, invece, a chi abbia commesso
il medesimo fatto a danno della moglie divorziata; ovvero consentendo
il "recupero" della riduzione della pena in esito al dibattimento nei
confronti dell'imputato nei cui confronti sia risultata insussistente
l'aggravante contestata, che determinava l'applicabilita' della  pena
dell'ergastolo, ma non nei confronti dell'imputato al quale la  corte
di assise abbia riconosciuto la sussistenza di circostanze attenuanti
prevalenti o equivalenti rispetto a tale aggravante. 
    Simili situazioni mostrerebbero «l'illogicita'  dell'attribuzione
al  Pubblico  Ministero  del  potere  di  condizionare   in   maniera
irreversibile,  attraverso  la  contestazione  di   una   circostanza
aggravante la cui fondatezza possa essere  accertata  solo  all'esito
del dibattimento, la modalita' di svolgimento del processo». 
    La   disposizione   censurata   comporterebbe,   d'altra   parte,
l'irragionevole equiparazione nella  stessa  preclusione  processuale
per  situazioni  eterogenee,   come   risulterebbe   evidente   dalla
considerazione della radicale diversita' delle fattispecie rientranti
nel catalogo dei reati punibili con l'ergastolo. 
    11.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  e
comunque infondate, essenzialmente in ragione della  discrezionalita'
legislativa nell'individuazione del perimetro  applicativo  dei  riti
alternativi. 
    12.- Si e' costituito l'imputato nel giudizio a quo,  sviluppando
articolate  considerazioni  a   sostegno   della   fondatezza   delle
questioni, in parte ripercorrendo e approfondendo gli argomenti  gia'
svolti nell'ordinanza di rimessione. 
    Rispetto all'ipotizzato contrasto con l'art. 3 Cost., la parte ha
in particolare insistito sui profili differenziali  tra  il  giudizio
abbreviato e gli altri riti alternativi,  rispetto  ai  quali  questa
Corte ha sinora ritenuto non irragionevoli le preclusioni oggettive e
soggettive  fissate  dal  legislatore,  sottolineando   la   pienezza
dell'accertamento svolto dal giudice nel rito ora in esame; cio'  che
renderebbe  difficilmente  comprensibile  la  scelta  legislativa  di
escludere indiscriminatamente  un  rito  generalmente  accessibile  a
tutti gli altri imputati soltanto per gli imputati  di  reati  puniti
con l'ergastolo, i quali verrebbero cosi' privati della  possibilita'
di celebrare un  processo  "a  porte  chiuse"  in  ipotesi  «ispirate
dall'esigenza dell'imputato di tutelare la riservatezza familiare, al
fine di arginare la diffusione di notizie riguardanti i figli minori,
vittime indirette della vicenda processuale». 
    Quanto poi all'allegata violazione dell'art. 111, secondo  comma,
Cost., la parte richiama la delibera-parere del  Consiglio  superiore
della magistratura del 6 febbraio 2019  sull'originaria  proposta  di
legge,  la  quale   -   dopo   aver   evidenziato   il   rischio   di
disincentivazione  delle  collaborazioni  processuali  indotte  dalla
preclusione  in  parola  -  gia'  sottolineava  come  «la  scelta  di
rinunciare agli effetti deflattivi del rito abbreviato in un  settore
della giurisdizione penale in cui risulta aver dato  buoni  risultati
sembra non in linea con  l'esigenza  da  piu'  parti  manifestata  di
ridurre i tempi di durata dei procedimenti penali e  di  favorire  il
ricorso ai riti alternativi». 
    13.- In prossimita'  dell'udienza,  l'Avvocatura  generale  dello
Stato ha presentato memoria illustrativa, con la quale ha ribadito la
richiesta che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e
comunque infondate. 
    14.-  Anche  il  difensore  della  parte  ha  depositato  memoria
illustrativa   in   prossimita'   dell'udienza,   nella   quale    ha
ulteriormente approfondito, in replica alla posizione dell'Avvocatura
generale dello Stato, gli  argomenti  gia'  svolti  nella  precedente
memoria. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del  Tribunale  ordinario
della  Spezia  (r.o.  n.  1  del  2020)  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, del codice di
procedura penale, come inserito dall'art. 1,  comma  1,  lettera  a),
della legge 12 aprile 2019,  n.  33  (Inapplicabilita'  del  giudizio
abbreviato per i delitti  puniti  con  la  pena  dell'ergastolo),  in
riferimento agli artt. 3 e 111, secondo  comma,  della  Costituzione,
nonche'  dell'art.  5  della  medesima  legge  n.  33  del  2019,  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7
della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). 
    2.- La Corte di assise  di  Napoli  (r.o.  n.  77  del  2020)  ha
parimenti  sollevato   questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., in riferimento agli art.
3, 24 «anche in relazione agli artt. 2, 3 e 27», nonche'  agli  artt.
111,  primo  comma,  e  117,  primo  comma,  Cost.,  quest'ultimo  in
relazione agli artt. 6 e 7 CEDU. 
    3.- Infine, il Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di Piacenza (r.o. n. 127 del 2020) ha  sollevato  questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, cod. proc.
pen. e dell'art. 3 della legge n. 33 del  2019  in  riferimento  agli
artt. 3, 27, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. 
    4.- Le tre ordinanze sollevano questioni analoghe, e  i  relativi
giudizi meritano pertanto di essere riuniti ai fini della decisione. 
    5.-  Prima  di  esaminare  le  questioni,   conviene   rammentare
sinteticamente   le   vicende   storiche    che    hanno    condotto,
dall'emanazione del vigente codice di procedura penale in  poi,  alla
disciplina oggi censurata. 
    5.1.- Nella sua versione originaria, l'art. 442,  comma  2,  cod.
proc.  pen.  prevedeva  espressamente  la  sostituzione  della   pena
dell'ergastolo, all'esito del giudizio abbreviato, con  quella  della
reclusione   di   anni   trenta;   dando   cosi'   per    presupposta
l'ammissibilita' del rito anche per i reati puniti con tale pena.  La
Commissione  redigente   del   progetto   preliminare,   dopo   ampia
discussione, aveva infatti ritenuto di proporre tale  soluzione  (poi
accolta dal Governo), nonostante il silenzio serbato sul punto  dalla
legge delega, al fine di «consentire il maggiore spazio possibile  al
giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto  che  esso  e'  richiesto
dall'imputato, il quale - nella logica  del  processo  accusatorio  -
puo'   anche   rinunziare   alla   garanzia    rappresentata    dalla
partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise» (Relazioni al
progetto preliminare e al testo definitivo del  codice  di  procedura
penale, delle disposizioni sul processo penale a carico  di  imputati
minorenni  e   delle   norme   per   l'adeguamento   dell'ordinamento
giudiziario al nuovo processo penale  ed  a  quello  a  carico  degli
imputati  minorenni,  pubblicate  nella  Gazzetta   Ufficiale   della
Repubblica, serie generale, 24  ottobre  1988,  n.  250,  supplemento
ordinario  n.  93,  sub  Libro  VI,  Titolo  I,  Premessa);  e  aveva
conseguentemente  ritenuto  di  determinare  nella  misura  fissa  di
trent'anni di reclusione la pena conseguente alla scelta del rito per
il caso di condanna,  non  potendo  applicarsi,  rispetto  alla  pena
perpetua, il  criterio  indicato  dalla  stessa  legge  delega  della
diminuzione di un terzo della pena. 
    Con la sentenza n. 176 del 1991, tuttavia, questa Corte dichiaro'
illegittimo l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in  cui
prevedeva che «[a]lla pena dell'ergastolo e' sostituita quella  della
reclusione di anni trenta» per violazione  dell'art.  76  Cost.,  dal
momento che la legge delega prevedeva  unicamente,  per  il  giudizio
abbreviato, il criterio della diminuzione di  un  terzo  della  pena,
evidentemente inapplicabile ai reati puniti con l'ergastolo. Il venir
meno di tale disposizione, dichiarata incostituzionale, non pote' che
determinare - secondo quanto espressamente affermato  dalla  sentenza
n. 176 del 1991  -  l'inapplicabilita'  del  giudizio  abbreviato  ai
«processi concernenti delitti punibili con l'ergastolo». 
    Risolvendo  le  incertezze  interpretative  emerse  nella  prassi
all'indomani di tale pronuncia,  le  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione affermarono che l'inammissibilita' del giudizio abbreviato
conseguente  alla  dichiarazione  di  illegittimita'   costituzionale
dovesse valere in ogni caso  in  cui  l'imputazione  enucleata  nella
richiesta di rinvio a giudizio concernesse un  reato  «punibile»  con
l'ergastolo, anche laddove il giudice ritenesse -  in  ragione  della
sussistenza di circostanze attenuanti - doversi in concreto applicare
una pena diversa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza
6 marzo 1992, n. 2977). 
    Poco  dopo,  con  l'ordinanza  n.  163  del  1992,  questa  Corte
dichiaro' manifestamente inammissibili  le  questioni  poste  da  due
ordinanze di  rimessione,  che  si  dolevano  appunto  della  mancata
possibilita' di definire  il  giudizio  con  rito  abbreviato  per  i
delitti punibili con l'ergastolo, conseguente alla  sentenza  n.  176
del 1991. La Corte ritenne, in  particolare,  che  l'inapplicabilita'
del giudizio abbreviato ai reati punibili con l'ergastolo  non  fosse
di per se' irragionevole, ne' determinasse ingiustificate  disparita'
di trattamento rispetto ad altri reati. 
    5.2.- L'art. 30 della legge 16 dicembre 1999, n.  479  (Modifiche
alle  disposizioni  sul  procedimento   davanti   al   tribunale   in
composizione monocratica e altre modifiche  al  codice  di  procedura
penale. Modifiche al codice di  procedura  penale  e  all'ordinamento
giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile  pendente,
di indennita' spettanti al giudice  di  pace  e  di  esercizio  della
professione forense), la cosiddetta "legge  Carotti",  ripristino'  -
nel contesto di una piu' generale modifica dei tratti strutturali del
giudizio abbreviato - la possibilita' di accesso a tale  rito  per  i
delitti puniti con l'ergastolo, aggiungendo  un  secondo  periodo  al
comma 2 dell'art. 442 cod. proc. pen., con cui reiterava l'originaria
soluzione dei compilatori del codice,  prevedendo  che  «[a]lla  pena
dell'ergastolo e' sostituita quella della reclusione di anni trenta». 
    Il di poco successivo art. 7 del decreto-legge 23 novembre  2000,
n. 341 (Interpretazione autentica dell'articolo  442,  comma  2,  del
codice di procedura penale e  disposizioni  in  materia  di  giudizio
abbreviato  nei  processi  per   reati   puniti   con   l'ergastolo),
convertito, con modificazioni, nella legge 10  gennaio  2001,  n.  4,
stabili' quindi che «[n]ell'articolo 442, comma  2,  ultimo  periodo,
del codice di procedura penale, l'espressione  "pena  dell'ergastolo"
deve intendersi  riferita  all'ergastolo  senza  isolamento  diurno»,
aggiungendo poi allo stesso art. 442, comma 2,  cod.  proc.  pen.  un
terzo  periodo,  dal  seguente   tenore   letterale:   «[a]lla   pena
dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e
di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo». 
    In seguito a tali novelle, dunque, il giudizio abbreviato  torno'
ad operare anche per i reati punibili  con  la  pena  dell'ergastolo,
dando luogo - in caso di condanna - alle pene previste dall'art. 442,
comma 2, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen.,  in  sostituzione,
rispettivamente,   dell'ergastolo   senza   isolamento    diurno    e
dell'ergastolo con isolamento diurno. 
    5.3.- La legge n. 33 del  2019,  le  cui  disposizioni  sono  ora
oggetto di censura, ha  nuovamente  previsto  l'inapplicabilita'  del
giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo. 
    In particolare, l'art. 1, comma 1, lettera a), di tale  legge  ha
introdotto il comma 1-bis dell'art. 438 cod. proc. pen., censurato da
tutte le ordinanze di rimessione, il quale  espressamente  stabilisce
che «[n]on e' ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con
la pena dell'ergastolo». 
    L'art. 3 della legge n.  33  del  2019,  censurato  dal  GUP  del
Tribunale di Piacenza, ha parallelamente abrogato  il  secondo  e  il
terzo periodo dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.,  introdotti  -
come si e' poc'anzi rammentato - rispettivamente dalla legge  Carotti
e dal d.l. n. 341 del 2000, come convertito, eliminando cosi' le pene
eventualmente  applicabili  in  luogo  dell'ergastolo  (con  o  senza
isolamento diurno) in esito al giudizio abbreviato. 
    Infine, l'art. 5 della legge n. 33 del 2019,  censurato  dal  GUP
del Tribunale della Spezia, stabilisce che le nuove disposizioni  «si
applicano ai fatti commessi successivamente alla data di  entrata  in
vigore» della legge medesima. 
    6.- Debbono a  questo  punto  essere  vagliate  le  eccezioni  di
inammissibilita' formulate dall'Avvocatura generale dello Stato. 
    6.1.- Anzitutto, le questioni sollevate  dal  GUP  del  Tribunale
della Spezia sull'art. 438, comma 1-bis, cod.  proc.  pen.  sarebbero
irrilevanti,  dal  momento  che  il  rimettente   -   facendo   retta
applicazione dell'art. 5 della legge n. 33 del 2019 - avrebbe  dovuto
applicare  nel  procedimento  a  quo  la  disciplina  previgente,   e
ammettere pertanto l'imputato al giudizio abbreviato. 
    L'eccezione e' fondata. 
    6.1.1.- Il rimettente si  confronta  invero  estesamente  con  il
menzionato art. 5,  concludendo  che  l'espressione  «fatti  commessi
successivamente alla data di entrata in vigore» della legge n. 33 del
2019 non possa che riferirsi ai reati  consumatisi  dopo  tale  data,
anche allorche' la condotta costitutiva del reato sia stata posta  in
essere prima di tale data, ma l'evento si  sia  verificato  in  epoca
successiva. Nel caso di specie (come a suo tempo  riferito:  Ritenuto
in fatto, punto 1.2.), il tempus  commissi  delicti  dovrebbe  a  suo
avviso essere identificato nel momento  della  morte  della  vittima,
avvenuta il 28 maggio 2019, e dunque  successivamente  alla  data  di
entrata in vigore della legge (20 aprile 2019); a nulla rilevando che
la condotta costitutiva del reato sia  stata  compiuta  in  una  data
anteriore (il 20 marzo 2019). 
    Il rimettente e', altresi', consapevole che una recente pronuncia
delle sezioni unite della Corte  di  cassazione  ha  identificato  il
tempus  commissi  delicti  -  con  riferimento  ai  reati  "a  evento
differito" - nel momento della condotta, e non in  quello  successivo
dell'evento, ai fini della  individuazione  della  legge  applicabile
nelle ipotesi di successioni di leggi penali  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 29 luglio 2018, n. 40986); ma  ritiene
che tale principio valga unicamente nell'ambito  del  diritto  penale
sostanziale, e non in materia processuale, dove vige invece l'opposto
principio tempus regit actum. 
    6.1.2.- A giudizio di questa Corte, la valutazione  di  rilevanza
delle questioni compiuta dal giudice a quo  riposa  pero'  su  di  un
erroneo presupposto interpretativo. 
    Se e' vero, infatti, che  in  materia  di  successione  di  leggi
processuali vige in via generale il principio tempus regit actum - in
forza del quale ciascun "atto" processuale e' regolato dalla legge in
vigore al momento dell'atto, e non da quella in vigore al momento  in
cui e' stato commesso il fatto di reato per  cui  si  procede  -,  e'
evidente che la legge n. 33  del  2019  ha  inteso  derogare  a  tale
principio generale, dettando una disciplina transitoria di  carattere
speciale che confina espressamente l'applicabilita' della preclusione
del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l'ergastolo ai  soli
procedimenti concernenti fatti  commessi  dopo  l'entrata  in  vigore
della legge. 
    La ratio di questa  disciplina  transitoria  e',  d'altra  parte,
altrettanto evidente. Il legislatore era, in effetti, ben consapevole
che una disciplina siffatta, pur incidendo su disposizioni  collocate
nel codice di procedura penale concernenti il rito,  ha  un'immediata
ricaduta sulla tipologia e sulla durata  delle  pene  applicabili  in
caso di condanna, e non puo' pertanto che soggiacere ai  principi  di
garanzia che vigono in materia di diritto penale sostanziale, tra cui
segnatamente il divieto di applicare una pena piu'  grave  di  quella
prevista al momento del fatto, affermato tanto  dalla  giurisprudenza
della Corte di Strasburgo con specifico riferimento  alla  disciplina
del giudizio abbreviato in relazione ai reati puniti con  l'ergastolo
(Corte EDU, grande  camera,  sentenza  17  settembre  2009,  Scoppola
contro Italia, n. 2), quanto da questa Corte, con riferimento a tutte
le norme processuali o penitenziarie che incidano direttamente  sulla
qualita' e quantita' della pena in concreto applicabile al condannato
(sentenza n. 32 del 2020). 
    L'art. 5 della  legge  n.  33  del  2019  si  limita,  invero,  a
escludere l'applicazione della nuova disciplina «ai fatti commessi» -
recte:  ai  «procedimenti  concernenti  i  fatti  commessi»  -  prima
dell'entrata  in  vigore   della   legge   stessa,   senza   chiarire
espressamente quale sia il criterio per stabilire quando il fatto  si
debba considerare "commesso": quesito  praticamente  rilevante  nelle
ipotesi di reati cosiddetti "a evento differito",  caratterizzati  da
uno iato temporale tra il momento di  commissione  della  condotta  e
quello di verificazione dell'evento.  La  determinazione  del  tempus
commissi delicti in simili ipotesi e' dunque affidata dal legislatore
all'interprete, il  quale  e'  chiamato  peraltro  a  ricostruire  il
significato della disposizione  in  conformita'  alla  sua  ratio  di
garanzia, nei termini appena segnalati. 
    Sgomberato allora il  campo  da  ogni  improprio  riferimento  al
principio  tempus  regit  actum  -  al  quale,  per   l'appunto,   il
legislatore  ha  inteso  derogare  -,  occorre   chiedersi   se   sia
maggiormente  conforme  alla  ratio  di  garanzia  perseguita   dalla
disposizione identificare tale tempus  nel  momento  della  condotta,
ovvero  in  quello   successivo   della   verificazione   dell'evento
costitutivo del reato. 
    La risposta non e' dubbia: se una delle rationes fondamentali del
divieto di applicazione retroattiva di leggi penali che  inaspriscano
il  trattamento  sanzionatorio  e'  quella  di  assicurare   che   il
consociato sia  destinatario  di  un  chiaro  avvertimento  circa  le
possibili  conseguenze  penali  della  propria   condotta,   si'   da
preservarlo da «un successivo mutamento peggiorativo "a sorpresa" del
trattamento penale della fattispecie» (sentenza n. 230 del  2012;  ma
si veda anche, in senso conforme, gia' la sentenza n. 394 del  2006),
una tale funzione non puo' che essere riferita - appunto - al momento
del compimento della condotta, e cioe' al momento nel quale la  norma
esplica la sua capacita' deterrente. Precisamente per tale essenziale
ragione, del resto, la citata  pronuncia  n.  40986  del  2018  delle
sezioni unite della Corte di  cassazione,  in  esito  a  un  percorso
argomentativo particolarmente approfondito, ha fissato  il  principio
che «[i]n tema di successione  di  leggi  penali,  a  fronte  di  una
condotta interamente posta in essere sotto il  vigore  di  una  legge
penale piu' favorevole e di un evento intervenuto  nella  vigenza  di
una legge penale piu' sfavorevole, deve trovare applicazione la legge
vigente al momento della condotta». Principio, quest'ultimo, che deve
senz'altro essere  assunto  a  criterio  interpretativo  anche  della
disposizione transitoria ora all'esame. 
    Da cio' consegue che il giudice a quo avrebbe dovuto  considerare
applicabile all'imputato la disciplina processuale vigente al momento
della condotta, e ammetterlo pertanto al giudizio abbreviato  da  lui
richiesto; con la conseguente  irrilevanza  delle  questioni  da  lui
prospettate sull'art. 438, comma 1-bis, cod. proc.  pen.,  nonche'  -
come si dira' piu' innanzi (infra, punto 13.)  -  la  non  fondatezza
della questione sollevata sull'art. 5 della legge n. 33 del 2019. 
    6.2.-  L'Avvocatura  generale  dello  Stato   ha   poi   eccepito
l'inammissibilita' delle questioni sollevate dal GUP del Tribunale di
Piacenza  in  ragione,  essenzialmente,  della  discrezionalita'  del
legislatore nella configurazione  delle  preclusioni  all'accesso  ai
riti abbreviati. 
    L'eccezione non puo' essere accolta, attenendo -  all'evidenza  -
al merito delle questioni sollevate. 
    7.- Nel merito, tanto la Corte di assise di Napoli, quanto il GUP
del  Tribunale  di  Piacenza   sollevano   anzitutto   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 438, comma  1-bis,  cod.  proc.
pen. e - limitatamente al secondo  rimettente  -  dell'art.  3  della
legge n. 33 del 2019 in riferimento all'art. 3 Cost. 
    Le questioni non sono fondate. 
    7.1.- Secondo i giudici a  quibus,  la  preclusione  al  giudizio
abbreviato  per  gli  imputati  di  delitti  puniti   con   la   pena
dell'ergastolo produrrebbe da  un  lato  irragionevoli  equiparazioni
sanzionatorie tra fatti aventi  disvalore  differente,  e  dall'altro
irragionevoli  disparita'  di  trattamento  sanzionatorio  tra  fatti
aventi disvalore omogeneo. 
    Sotto il primo profilo, i rimettenti osservano come,  nel  novero
stesso delle figure  di  omicidio  doloso  aggravato,  la  previsione
astratta  della  pena  dell'ergastolo  accomuni  fatti  di   gravita'
diversa,   come,   da   un   lato,   omicidi   commessi   nell'ambito
dell'attivita' di  grandi  organizzazioni  criminali  e,  dall'altro,
omicidi non premeditati  commessi  in  un  momentaneo  accesso  d'ira
contro  congiunti,  come  sarebbe  accaduto  nei  casi  oggetto   dei
procedimenti a quibus. L'esame dell'elenco  dei  delitti  puniti  con
l'ergastolo  previsti  dal  vigente  codice  penale   evidenzierebbe,
inoltre,  il  loro  disvalore  assai   eterogeneo,   che   renderebbe
irragionevole l'esclusione a priori dalla possibilita' di accedere al
giudizio abbreviato per i relativi imputati. 
    Sotto il secondo profilo, la  preclusione  in  esame  produrrebbe
irragionevoli disparita' di trattamento, esemplificate dal  confronto
tra le ipotesi punite con l'ergastolo riconducibili  al  primo  comma
dell'art. 577 cod. pen., che comprendono oggi l'omicidio del  coniuge
anche  legalmente  separato  (per  cui  e'   precluso   il   giudizio
abbreviato,  con  conseguente  impossibilita'  di  beneficiare  della
riduzione di pena in caso di condanna), e quelle di  cui  al  secondo
comma, punite con la pena da ventiquattro a trent'anni di reclusione,
che comprendono l'omicidio del coniuge  divorziato  (ipotesi  per  la
quale  e'  il  giudizio  abbreviato  e'   invece   ammissibile,   con
correlativa possibilita' di ottenere il relativo sconto  di  pena  in
caso di condanna). Sarebbe, altresi', irragionevole la disparita'  di
trattamento creata dalla disposizione  censurata  tra  l'imputato  di
omicidio  nei  cui  confronti,  in  esito  al   giudizio   ordinario,
l'aggravante contestata venga esclusa - il novellato art. 438,  comma
6-ter, cod. proc. pen. prevedendo che la corte di assise applichi  la
riduzione di pena conseguente al giudizio  abbreviato,  ingiustamente
negatogli -, e l'imputato di omicidio nei cui confronti venga  bensi'
riconosciuta la sussistenza in fatto della circostanza aggravante che
determina   l'astratta   applicabilita'   dell'ergastolo,   ma   tale
circostanza  venga  "elisa"  ai  fini  sanzionatori  da  una  o  piu'
circostanze attenuanti presenti nel caso di specie  -  ipotesi  nella
quale  l'art.  438,  comma  6-ter,  cod.  proc.  pen.  non   parrebbe
consentire,  quantomeno   secondo   l'implicita   ricostruzione   dei
rimettenti, il "recupero" della pena connesso al rito. 
    Le ordinanze  di  rimessione  lamentano,  altresi',  l'intrinseca
irragionevolezza della disciplina,  sotto  il  profilo  dell'asserita
illogicita' della scelta di far conseguire alla mera contestazione di
un determinato titolo di reato effetti preclusivi  della  scelta  del
rito, dolendosi altresi' di quella che  appare  ai  medesimi  l'unica
reale   finalita'   perseguita   dal    legislatore,    rappresentata
dall'inasprimento della reazione sanzionatoria contro gli autori  dei
reati abbracciati dalla preclusione,  e  segnatamente  degli  omicidi
aggravati - profilo, quest'ultimo, sul quale si  sofferma  ampiamente
anche, quale amicus curiae, l'Unione camere  penali  italiane,  nella
propria opinione scritta. 
    7.2.- Prima di esaminare il merito di queste doglianze,  conviene
rammentare che questa Corte si e' gia' pronunciata,  con  l'ordinanza
n. 163 del 1992, sulla preclusione del giudizio  abbreviato  per  gli
imputati di delitti punibili  con  l'ergastolo,  rilevando  che  tale
disciplina - conseguente alla precedente sentenza n. 176 del 1991,  e
rimasta in vigore sino alla legge n. 479 del 1999 (supra, punti  5.1.
e 5.2.) - «non e' in se' irragionevole, ne'  l'esclusione  di  alcune
categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l'ergastolo,
in  ragione  della  maggiore  gravita'   di   essi,   determina   una
ingiustificata disparita' di trattamento rispetto agli  altri  reati,
trattandosi di situazioni non omogenee». 
    In successive pronunce, questa Corte ha escluso  l'illegittimita'
costituzionale delle preclusioni di  natura  oggettiva,  fondate  sul
titolo astratto del reato, poste dal legislatore all'accesso ad altri
riti speciali ad effetto premiale. In particolare, l'ordinanza n. 455
del  2006   ha   affermato,   con   riferimento   alla   legittimita'
costituzionale  delle  preclusioni   al   cosiddetto   patteggiamento
allargato,  che  «l'individuazione  delle  fattispecie  criminose  da
assoggettare al trattamento piu' rigoroso - proprio in quanto  basata
su  apprezzamenti  di  politica  criminale,   connessi   specialmente
all'allarme sociale generato dai  singoli  reati,  il  quale  non  e'
necessariamente correlato al mero livello della pena edittale - resta
affidata alla discrezionalita' del legislatore; e le relative  scelte
possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto  alle  eventuali
disarmonie  del  catalogo  legislativo,  allorche'  la  sperequazione
normativa tra figure omogenee di reati assuma  aspetti  e  dimensioni
tali da  non  potersi  considerare  sorretta  da  alcuna  ragionevole
giustificazione». La medesima ordinanza n. 455 del  2006  ha  d'altra
parte sottolineato che  «l'ordinamento  annovera  un'ampia  gamma  di
ipotesi  nelle  quali,  per  ragioni  di   politica   criminale,   il
legislatore connette al titolo del reato - e non (o non soltanto)  al
livello della pena edittale  -  l'applicabilita'  di  un  trattamento
sostanziale o processuale piu' rigoroso»,  formulando  poi  un  lungo
elenco di esempi a supporto di tale affermazione,  e  insistendo  sul
principio (anche di recente ribadito nella sentenza n. 95  del  2015)
secondo cui la discrezionalita' legislativa e' soggetta,  rispetto  a
tali scelte,  al  solo  limite  della  manifesta  irragionevolezza  o
dell'arbitrarieta'. 
    7.3.- Rispetto alle questioni  ora  all'esame,  questa  Corte  e'
dunque sollecitata a valutare se rimeditare (anche  alla  luce  delle
modificazioni  strutturali  subite   nel   frattempo   dal   giudizio
abbreviato) il proprio specifico precedente in termini, rappresentato
dalla menzionata ordinanza n. 163 del 1992, concludendo che la scelta
legislativa di ancorare la preclusione del giudizio  abbreviato  alla
contestazione  di  un  delitto   punito   con   l'ergastolo   risulti
manifestamente irragionevole, o addirittura arbitraria. 
    Pur avendo attentamente vagliato i molti argomenti offerti  dalle
ordinanze di rimessione, dalle parti costituite e dall'amicus curiae,
anche nelle discussioni svolte in udienza, la Corte  non  ritiene  di
dover pervenire a tale conclusione. 
    7.4.-  Quanto  anzitutto  alle  irragionevoli  equiparazioni  che
sarebbero prodotte dalla disciplina censurata, i giudici a  quibus  e
le parti si dolgono  a  ben  vedere  della  previsione  dell'unica  e
indifferenziata pena dell'ergastolo a fatti  dei  quali  assumono  il
differente disvalore (le diverse ipotesi di omicidio aggravato,  o  i
diversi delitti puniti con l'ergastolo): la preclusione  dell'accesso
al giudizio abbreviato - e la conseguente impossibilita'  di  operare
il relativo sconto di pena, in caso di  condanna  -  costituisce,  in
effetti, null'altro che  il  riflesso  processuale  della  previsione
edittale della pena dell'ergastolo per quelle ipotesi criminose. 
    Ma, se cosi' e',  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
avrebbero  dovuto  rivolgersi  propriamente   nei   confronti   della
previsione, da parte del legislatore, della pena  detentiva  perpetua
per i reati contestati nei procedimenti a quibus - l'omicidio a danno
dell'ascendente, in un caso, e l'omicidio del coniuge non divorziato,
nell'altro -, giacche' e'  proprio  da  tale  previsione  che  deriva
l'asserita diseguaglianza di  trattamento  sanzionatorio  rispetto  a
fatti che si assumono piu' gravi (come,  per  riprendere  un  esempio
formulato nelle  ordinanze  di  rimessione,  un  omicidio  perpetrato
nell'ambito delle attivita' di un'organizzazione criminale). 
    Nessuno dei rimettenti contesta, pero', la  ragionevolezza  della
scelta legislativa di comminare l'ergastolo per i titoli di reato per
i quali sta procedendo. 
    Di talche' resta da chiedersi se - rispetto a fatti tutti assunti
come legittimamente punibili con la medesima  pena  dell'ergastolo  -
possa  ritenersi  produttiva  di   irragionevoli   equiparazioni   di
trattamento una disciplina processuale che precluda, in via generale,
l'accesso al giudizio abbreviato a tutti indistintamente gli imputati
di tali reati. 
    La risposta non puo', ad  avviso  di  questa  Corte,  che  essere
negativa: la comminatoria edittale dell'ergastolo - che e' pena anche
qualitativamente  diversa  dalla  reclusione,  in  ragione  del   suo
carattere  potenzialmente  perpetuo,  come  evidenzia  non   a   caso
l'autonoma  considerazione  della  stessa  nell'elenco   delle   pene
principali di cui all'art. 17 cod. pen. - segnala infatti un giudizio
di  speciale  disvalore  della  figura  astratta  del  reato  che  il
legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che  non  e'
qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare; speciale  disvalore
che sta per l'appunto alla base della scelta del legislatore del 2019
di precludere l'accesso al giudizio abbreviato a tutti  gli  imputati
di tali delitti. 
    Una tale scelta non puo' certo essere qualificata ne' in  termini
di manifesta irragionevolezza, ne' di  arbitrarieta';  e  si  sottrae
pertanto, sotto lo specifico profilo qui esaminato, alle censure  dei
rimettenti. 
    7.5.- Quanto alle censure che lamentano irragionevoli  disparita'
di trattamento create dalla disciplina  in  esame,  priva  di  pregio
appare anzitutto - per ragioni analoghe a quelle appena esposte -  la
doglianza relativa al diverso trattamento dell'omicidio  del  coniuge
in costanza di matrimonio e di quello a danno del coniuge divorziato.
La disparita' di trattamento deriva, in realta',  direttamente  dalla
scelta legislativa - in questa sede non censurata - che si  situa  "a
monte" della disciplina del giudizio abbreviato, e cioe' dalla scelta
di prevedere la pena dell'ergastolo soltanto per la prima ipotesi (ai
sensi dell'art. 577, primo comma, numero 1, cod. pen.), e non per  la
seconda (per la quale l'art. 577, secondo comma,  cod.  pen.  prevede
invece una pena detentiva  temporanea).  Di  talche'  la  presenza  o
l'assenza di preclusioni al giudizio  abbreviato  nelle  due  ipotesi
costituisce   una   mera   conseguenza    accessoria,    certo    non
stigmatizzabile  in   termini   di   manifesta   irragionevolezza   o
arbitrarieta',  della  diversa  comminatoria  edittale  per  le   due
ipotesi, che non e' in questa sede in discussione. 
    Quanto  poi  all'allegata  disparita'  di  trattamento   che   si
creerebbe tra l'ipotesi in cui, in  esito  al  dibattimento,  dovesse
essere  riconosciuta  l'insussistenza  dell'aggravante  dalla   quale
dipende la preclusione al giudizio abbreviato,  e  l'ipotesi  in  cui
tale aggravante fosse bensi'  ritenuta  sussistente  ma  "elisa",  in
forza dell'art. 69 cod. pen., da una o  piu'  circostanze  attenuanti
equivalenti o prevalenti, occorre rilevare  che  tale  situazione  e'
comune alla  generalita'  delle  ipotesi  in  cui  la  legge  penale,
sostanziale  o  processuale,  subordina  l'applicazione  di  un  dato
istituto (ad  esempio,  le  misure  cautelari,  l'intercettazione  di
comunicazioni, ma anche - sul piano del diritto sostanziale - la  non
punibilita' per particolare tenuita' del fatto) alla  condizione  che
sia prevista una determinata pena massima per il  reato  per  cui  si
procede. In base alla regola generale di cui all'art.  4  cod.  proc.
pen., spesso mutuata nella sostanza  anche  dalle  norme  del  codice
penale, ai fini della determinazione di tale pena  massima  si  tiene
conto delle sole circostanze aggravanti a effetto  speciale,  ma  non
delle circostanze attenuanti che possano  egualmente  concorrere  nel
caso concreto; senza, comunque, che venga mai richiesto all'autorita'
di volta in volta procedente di effettuare il bilanciamento  ex  art.
69  cod.  pen.  tra  tali  aggravanti  e  le   eventuali   attenuanti
(bilanciamento che altra regola di sistema riserva esclusivamente  al
giudice, in esito al giudizio). 
    La regola generale in parola, seguita anche dall'art. 438,  comma
1-bis, cod. proc. pen. in questa sede censurato, ha, d'altronde,  una
solida ragionevolezza: il legislatore fa dipendere la scelta relativa
all'applicazione o non applicazione di un dato  istituto  -  qui,  il
giudizio abbreviato - dalla sussistenza di una circostanza aggravante
che,  comminando  una  pena  distinta  da  quella  prevista  per   la
fattispecie base - nel nostro caso, la pena  dell'ergastolo  anziche'
quella della reclusione -, esprime un  giudizio  di  disvalore  della
fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che  connota  la
corrispondente fattispecie non aggravata;  e  cio'  indipendentemente
dalla sussistenza nel caso concreto di  circostanze  attenuanti,  che
ben potranno essere considerate  dal  giudice  quando,  in  esito  al
giudizio, irroghera' la pena nel caso di condanna. 
    Non sono pertanto utilmente comparabili,  ai  fini  del  giudizio
relativo alla disparita' di trattamento lamentata dai rimettenti,  la
situazione  di  chi  sia  accusato  di  avere  compiuto  un  omicidio
aggravato  punibile  con  l'ergastolo  in  presenza  di   circostanze
attenuanti che potrebbero essere considerate -  in  esito  al  futuro
giudizio - equivalenti o prevalenti rispetto all'aggravante, e quella
di chi  sia  invece  accusato  di  avere  compiuto  un  omicidio  non
aggravato. Solo il primo imputato  e',  infatti,  accusato  di  avere
posto in essere un reato che raggiunge la soglia di gravita'  che  il
legislatore considera astrattamente  incompatibile  con  il  giudizio
abbreviato. Di talche' appare logico che soltanto laddove,  in  esito
al   dibattimento,    risulti    in    concreto    non    sussistente
quell'aggravante,  la  cui  inesatta  contestazione  abbia   precluso
all'imputato l'accesso  al  giudizio  abbreviato,  egli  debba  poter
"recuperare" lo sconto di pena connesso al  rito  medesimo  ai  sensi
dell'art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen.; e  che  tale  "recupero"
non  possa  operare,   invece,   nei   confronti   di   chi   risulti
effettivamente avere compiuto l'omicidio aggravato che gli era  stato
contestato, sia pure in presenza di circostanze attenuanti,  che  ben
potranno essere valorizzate dal giudice del dibattimento in  sede  di
commisurazione della pena. 
    7.6.-  Quanto,  infine,  agli  eterogenei  profili  di   allegata
irragionevolezza intrinseca lamentati dai rimettenti, dalle  parti  e
dallo stesso  amicus  curiae,  neppur  essi  appaiono  meritevoli  di
accoglimento. 
    Come  gia'  osservato,  non  manifestamente  irragionevole,   ne'
arbitraria, appare la scelta legislativa di ancorare  la  preclusione
del rito alla pena edittale prevista per il reato  per  il  quale  si
procede. Un simile ancoraggio si ritrova del resto in  una  quantita'
di istituti  di  diritto  penale  sostanziale  o  processuale  (dalla
prescrizione alla non punibilita' per particolare tenuita' del fatto,
ovvero -  in  materia  processuale  -  dalle  misure  cautelari  alle
intercettazioni   di   comunicazioni);    e    la    sua    manifesta
irragionevolezza o arbitrarieta' deve qui tanto piu'  escludersi,  in
quanto la comminatoria che determina la preclusione e'  quella  della
pena piu' grave prevista nel nostro ordinamento, che segnala  -  come
parimenti si e' osservato - una valutazione di massimo disvalore  del
reato per il quale si procede. 
    Ne' la manifesta irragionevolezza o l'arbitrarieta' della  scelta
legislativa potrebbero dedursi dall'esame delle finalita'  perseguite
dal legislatore. 
    Non v'e' dubbio - come i rimettenti, le parti e  l'amicus  curiae
concordemente sottolineano -  che  una  delle  finalita'  ispiratrici
della proposta di legge C. 392 del 27  marzo  2018  fosse  quella  di
conseguire un generale inasprimento delle pene concretamente inflitte
per reati punibili con l'ergastolo, precludendo la possibilita' per i
relativi imputati di accedere al giudizio abbreviato e al conseguente
sconto di pena; ma la parallela proposta di legge C. 460 del 3 aprile
2018,  poi  assorbita  nella  prima,  menzionava  altresi',  tra   le
finalita' della proposta, l'opportunita' che rispetto ai  reati  piu'
gravi previsti dall'ordinamento fosse celebrato un processo  pubblico
innanzi alla corte di assise e non a un giudice monocratico, «con  le
piene garanzie sia per l'imputato, sia per le vittime, di partecipare
all'accertamento della verita'». 
    Tutte queste finalita' possono essere o meno condivise; ma ne' le
finalita' in  se',  ne'  i  mezzi  individuati  dal  legislatore  per
raggiungerle, appaiono a  questa  Corte  connotabili  in  termini  di
manifesta  irragionevolezza  o  arbitrarieta'.  Piuttosto,  si   deve
ritenere che una disciplina mirante a imporre in  ogni  caso,  per  i
delitti piu' gravi previsti dall'ordinamento, lo  svolgimento  di  un
processo pubblico avanti una corte a composizione mista - nella quale
tra  l'altro   si   invera   la   previsione   costituzionale   della
«partecipazione  diretta   del   popolo   all'amministrazione   della
giustizia» (art. 102, terzo comma, Cost.) - rientri nel novero  delle
scelte discrezionali del legislatore,  rispetto  alle  quali  non  e'
consentito  a  questa   Corte   sovrapporre   la   propria   autonoma
valutazione. 
    La considerazione che precede vale  anche  con  riferimento  alle
ipotesi, su cui hanno in  particolare  insistito  i  difensori  delle
parti nella discussione orale, in cui  l'imputato  abbia  reso  piena
confessione  durante  le  indagini,  e   i   fatti   risultino   gia'
compiutamente accertati. Ritiene infatti questa Corte che  anche  con
riferimento a una tale situazione non possa qualificarsi  in  termini
di manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' la scelta legislativa -
magari discutibile sotto vari profili, e  certo  foriera  di  aggravi
processuali - di prevedere comunque la celebrazione  di  un  pubblico
dibattimento,  nel  quale  trova  piena  garanzia  il   "diritto   di
difendersi provando", per accertare il fatto e ascrivere le  relative
responsabilita', nell'interesse  dell'intera  collettivita'  e  delle
stesse vittime del reato. Vittime tra le quali - ai  sensi  dell'art.
2, paragrafo 1 della direttiva 2012/29/UE del  Parlamento  europeo  e
del Consiglio del 25 ottobre 2012  che  istituisce  norme  minime  in
materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato  e
che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI -  deve  annoverarsi
anche il «familiare di una persona la  cui  morte  e'  stata  causata
direttamente da un reato e che ha  subito  un  danno  in  conseguenza
della morte di tale persona»,  al  quale  l'art.  10  della  medesima
direttiva garantisce, in linea di principio,  il  diritto  di  essere
«sentit[o] nel corso del procedimento penale» e di «fornire  elementi
di  prova»,  in  conformita'  alle  norme  «stabilite   dal   diritto
nazionale». 
    Quanto  alla  finalita',  che  la  riforma  avrebbe  in   realta'
perseguito, di aumentare il numero di condanne all'ergastolo per  gli
autori di omicidi, ancorche'  rei  confessi,  occorre  d'altra  parte
considerare che non necessariamente al dibattimento deve  conseguire,
in caso di condanna, l'applicazione  della  pena  dell'ergastolo,  la
corte  di  assise  avendo  sempre  la  possibilita'  di   riconoscere
eventuali circostanze attenuanti  che  comportino  l'applicazione  di
pene  detentive  temporanee,  tra  cui  le   circostanze   attenuanti
generiche (art. 62-bis cod. pen.), le quali ben  potrebbero  fondarsi
anche sulla condotta dell'imputato successiva  alla  commissione  del
reato, comprensiva del suo contegno processuale. 
    8.- La Corte di assise di Napoli dubita, poi, della  legittimita'
costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen.  sotto  il
profilo della sua compatibilita' con il  diritto  di  difesa  di  cui
all'art. 24 Cost., in se' considerato e in relazione agli artt. 2,  3
e 27, secondo comma, Cost. 
    Nemmeno tali censure sono fondate. 
    8.1.- La Corte rimettente ritiene, anzitutto, che  la  disciplina
censurata,  precludendo  a  taluni  imputati  l'accesso  al  giudizio
abbreviato, vulneri il loro diritto costituzionale di difesa, di  cui
sarebbe parte integrante la  possibilita'  di  definire  il  giudizio
mediante i riti alternativi previsti dall'ordinamento. 
    In  secondo   luogo,   tale   disciplina   costringerebbe   anche
l'imputato, che pure e' presunto innocente  ai  sensi  dell'art.  27,
secondo comma, Cost., il quale intenda rinunciare alla garanzia della
pubblicita' del giudizio, ad affrontare il dibattimento  in  pubblica
udienza, con conseguente pregiudizio ai suoi diritti inviolabili alla
dignita' e alla riservatezza, riconducibili allo  spettro  di  tutela
degli artt. 2 e 3 Cost. 
    8.2.- Circa il primo profilo,  occorre  anzitutto  rammentare  la
costante giurisprudenza costituzionale secondo cui e'  ben  vero  che
«la facolta' di chiedere i riti alternativi - quando e'  riconosciuta
- costituisce una modalita', tra le  piu'  qualificanti  ed  incisive
(sentenze n. 237 del 2012 e  n.  148  del  2004),  di  esercizio  del
diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333  del
2009 e n. 219 del 2004). Ma e'  altrettanto  vero  che  la  negazione
legislativa di tale facolta' in rapporto ad una determinata categoria
di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del  predetto  diritto»
(sentenza n. 95 del 2015). 
    L'accesso  ai  riti  alternativi   costituisce,   dunque,   parte
integrante del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. soltanto in
quanto  il  legislatore  abbia  previsto  la  loro  esperibilita'  in
presenza di certe condizioni; di talche' esso deve essere garantito -
o quanto meno deve essere garantito  il  recupero  dei  vantaggi  sul
piano  sanzionatorio  che  l'accesso  tempestivo  al   rito   avrebbe
consentito  -   ogniqualvolta   il   rito   alternativo   sia   stato
ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del
pubblico  ministero  nella  formulazione  dell'imputazione,  di   una
erronea valutazione di un giudice  intervenuto  in  precedenza  nella
medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell'imputazione
nel corso del processo (sentenza n. 14  del  2020  e  precedenti  ivi
citati). Ma dall'art.  24  Cost.  non  puo'  dedursi  un  diritto  di
qualunque imputato ad accedere a tutti i  riti  alternativi  previsti
dall'ordinamento   processuale   penale,   come   invece    parrebbe,
erroneamente, presupporre il giudice a quo. 
    8.3.- Quanto poi alla lamentata violazione del diritto di  difesa
«in  relazione»  al  diritto  alla  dignita'  e   alla   riservatezza
dell'imputato, non v'e' dubbio che la pubblicita' delle  udienze  sia
concepita dall'art. 6, comma 1, CEDU, dall'art. 47,  comma  2,  della
Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione  europea   (CDFUE)   e
dall'art. 14, comma 1, del Patto internazionale dei diritti civili  e
politici come una garanzia soggettiva dell'imputato. 
    Tuttavia, la dimensione di diritto fondamentale riconosciuta alla
pubblicita' dei processi dalle carte internazionali dei diritti  alle
quali il nostro ordinamento e' vincolato non esaurisce la  ratio  del
principio  medesimo,  che  nel  suo  nucleo  essenziale   costituisce
altresi'  -  sul  piano  oggettivo-ordinamentale   -   un   connotato
identitario dello  stato  di  diritto,  in  chiave  di  «garanzia  di
imparzialita' ed obiettivita'» di un processo che «si svolge sotto il
controllo dell'opinione pubblica», quale corollario sia del principio
secondo cui «[l]a giustizia e' amministrata in nome del popolo» (art.
101, primo comma, Cost.), sia della garanzia di un «giusto  processo»
(art. 111, primo comma, Cost.) (sentenza n. 373  del  1992).  Il  che
appare di particolare significato nei processi relativi ai reati piu'
gravi, «che maggiormente  colpiscono  l'ordinata  convivenza  civile»
(ancora, sentenza n. 373 del 1992) e addirittura ledono il nucleo dei
diritti fondamentali delle vittime, a cominciare  dalla  loro  stessa
vita. Di talche' il mero consenso dell'imputato non basta  a  fondare
un suo diritto costituzionale - opposto, e  anzi  speculare,  al  suo
diritto alla pubblicita' delle udienze  -  alla  celebrazione  di  un
processo "a porte chiuse",  al  riparo  del  controllo  dell'opinione
pubblica. 
    A fronte, allora, di imputazioni relative a  delitti  gravissimi,
come quelli puniti con la pena dell'ergastolo, non puo'  considerarsi
sproporzionata rispetto alle esigenze  di  tutela  della  dignita'  e
della  riservatezza  dell'imputato   una   disciplina   come   quella
all'esame, che impone in ogni caso la  celebrazione  di  un  processo
pubblico, anche laddove l'imputato sia disposto a rinunziare  a  tale
garanzia. 
    9.- Il GUP del Tribunale di Piacenza dubita, dal canto suo, della
compatibilita' dell'art. 438, comma 1-bis, cod proc. pen. e dell'art.
3 della legge n. 33 del 2019 con il principio  della  presunzione  di
non colpevolezza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. 
    Nemmeno tali questioni sono fondate. 
    9.1.-  Alla  base   della   censura   sta,   verosimilmente,   la
considerazione che la preclusione del giudizio  abbreviato  stabilita
dalla disciplina in esame discenderebbe da una mera  valutazione  del
pubblico ministero, destinata a privare irrimediabilmente  l'imputato
- pur ancora presunto innocente - della possibilita'  di  accesso  al
rito alternativo e al relativo sconto di pena  nel  caso,  futuro  ed
eventuale, di una sua condanna. 
    Piu'  in  generale,  il  rimettente  appare  altresi'   censurare
l'intento legislativo di "punire" piu' severamente una  categoria  di
imputati,  a  dispetto  della  presunzione   di   non   colpevolezza,
precludendo loro l'accesso al giudizio abbreviato. 
    9.2.- Il primo profilo di censura  non  ha  pregio,  sol  che  si
consideri attentamente l'assetto normativo  scaturito  dalla  riforma
del 2019. 
    L'imputazione  formulata  dal  pubblico  ministero  e',  infatti,
oggetto di un primo vaglio da  parte  del  giudice  per  le  indagini
preliminari, che - al termine dell'udienza preliminare - e' tenuto  a
provvedere sulla  richiesta  originaria  formulata  dall'imputato,  e
comunque sull'eventuale  riproposizione  della  domanda  di  giudizio
abbreviato (art. 438, comma  6,  cod.  proc.  pen.,  come  modificato
dall'art. 1, comma 1, lettera b, della legge n. 33 del  2019),  e  ad
ammetterlo al rito alternativo richiesto, qualora lo  stesso  giudice
dia al fatto una definizione giuridica diversa  da  quella  enunciata
nell'imputazione, tale da rendere ammissibile il giudizio  abbreviato
(art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen.). 
    Il gia'  menzionato  art.  438,  comma  6-ter,  cod.  proc.  pen.
prevede, poi, il "recupero" in sede dibattimentale della riduzione di
pena conseguente  al  giudizio  abbreviato,  allorche'  in  esito  al
giudizio non sia risultato provato il fatto cosi' come contestato dal
pubblico ministero; e gia' nella fase preliminare del dibattimento  -
come esattamente rilevato dalla  Corte  di  assise  di  Napoli  nella
propria ordinanza di rimessione  -  si  deve  ritenere  che  sia  ben
possibile per la corte di assise  ammettere  l'imputato  al  giudizio
abbreviato, allorche' tale rito gli sia stato erroneamente negato dal
giudice dell'udienza preliminare (Ritenuto in fatto, punto 6.1.). 
    La  preclusione  all'accesso  al  giudizio  abbreviato   dipende,
dunque, soltanto nella fase iniziale dalla valutazione  del  pubblico
ministero sull'oggetto della contestazione; ma  tale  valutazione  e'
poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che  intervengono
nelle fasi successive del processo,  ed  e'  sempre  suscettibile  di
correzione,  quanto  meno  nella  forma  del   riconoscimento   della
riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto
a ogni altro rito alternativo; senza alcuna violazione, dunque, della
presunzione di non colpevolezza di cui all'art.  27,  secondo  comma,
Cost. 
    9.3.- Il secondo profilo di censura, attinente  a  una  ipotetica
volonta' "punitiva" del legislatore nei  confronti  di  imputati  che
sono presunti non colpevoli, appare per la verita' di  non  immediata
intelligibilita'. 
    Se il rimettente avesse inteso alludere alle conseguenze negative
che  derivano  dalla  necessita'  di  affrontare  in  ogni  caso   il
dibattimento, sulla base di un'imputazione per  un  delitto  punibile
con l'ergastolo, il suo rilievo  risulterebbe  certamente  infondato,
una volta che si  riconosca  che  non  esiste  un  diritto  di  rango
costituzionale ad accedere a qualsiasi rito alternativo per qualunque
imputato, e  che  l'ordinamento  processuale  ben  puo'  condizionare
l'accesso al giudizio abbreviato  a  specifiche  condizioni,  la  cui
determinazione e' affidata  alla  discrezionalita'  del  legislatore,
salvi i limiti  della  manifesta  irragionevolezza  o  arbitrarieta'.
Condizioni tra le quali certamente  puo'  figurare  la  tipologia  di
reato contestato dal  pubblico  ministero,  e  sottoposto  al  vaglio
successivo dei diversi giudici che si succederanno nelle  varie  fasi
processuali, secondo le modalita' di cui si e' appena detto. 
    Se, invece, il rimettente avesse voluto evocare una volonta'  del
legislatore  di   assicurare   comunque   l'inflizione   della   pena
dell'ergastolo nei confronti degli imputati dei  reati  punibili  con
tale pena, pur presunti innocenti, sarebbe agevole replicare,  da  un
lato, che l'inflizione della pena presuppone  -  nel  rito  ordinario
come  in  quello  abbreviato  -  la   prova   della   responsabilita'
dell'imputato, che dovra' in ogni caso  essere  oggetto  di  puntuale
dimostrazione  da  parte  del  pubblico  ministero,  al  metro  dello
standard probatorio dell'"oltre ogni ragionevole  dubbio"  (art.  533
cod. proc. pen.); e dall'altro, come gia' rammentato, che nemmeno nel
giudizio ordinario l'imputato sara' indefettibilmente punito  con  la
pena dell'ergastolo,  ove  ritenuto  colpevole,  ben  potendo  essere
riconosciute  anche  in  quella  sede,  in  suo  favore,  circostanze
attenuanti che potrebbero  determinare  l'applicazione  di  una  pena
detentiva temporanea. 
    10.- Il GUP del Tribunale di Piacenza solleva  poi  questione  di
legittimita' costituzionale degli artt. 438, comma 1-bis, cod.  proc.
pen. e 3 della legge n. 33 del  2019,  in  riferimento  al  principio
della ragionevole durata del processo di cui  all'art.  111,  secondo
comma, Cost. 
    Nemmeno tale censura e' fondata. 
    10.1.- Ritiene il rimettente che l'onere  di  procedere  in  ogni
caso con rito ordinario innanzi alla corte  di  assise  per  i  reati
puniti con l'ergastolo provocherebbe inevitabilmente una  dilatazione
dei tempi processuali non necessaria, e anzi particolarmente gravosa,
per imputati che spesso si trovano in custodia cautelare; dilatazione
connessa anche alle gravi  difficolta'  -  soprattutto  per  le  sedi
giudiziarie piu' piccole - determinate dall'organizzazione del lavoro
delle stesse corti di assise, che si vedono ora  confrontate  con  un
carico di lavoro assai piu' gravoso di  quanto  non  accadesse  prima
della riforma. 
    10.2.-  Le  osservazioni  del  rimettente  trovano  conforto,  in
verita', nel parere espresso il 6 marzo 2019 dal Consiglio  superiore
della magistratura a proposito della  riforma,  poi  confluita  nella
disciplina censurata; e riflettono la preoccupazione,  diffusa  nella
prassi, di una dilatazione dei tempi medi di definizione dei processi
per omicidio, in passato definiti mediante giudizi celebrati con rito
abbreviato in una percentuale di casi che l'amicus curiae  riferisce,
sulla base dei dati ministeriali relativi al 2017, essere stata  pari
al 70 per cento. 
    Anche  rispetto  alla  censura  in   esame,   tuttavia,   occorre
rammentare che il bilanciamento tra gli inconvenienti provocati dalla
disciplina censurata e le finalita' dalla stessa  perseguite  spetta,
primariamente, al legislatore. 
    E non puo',  al  riguardo,  non  rilevarsi  come  la  nozione  di
"ragionevole" durata del processo (in particolare penale) sia  sempre
il  frutto  di  un  bilanciamento  particolarmente  delicato  tra   i
molteplici - e tra loro confliggenti - interessi pubblici  e  privati
coinvolti   dal   processo   medesimo,   su   uno   sfondo   fattuale
caratterizzato  da  risorse  umane  e  organizzative  necessariamente
limitate. 
    Il che impone una cautela speciale nell'esercizio del  controllo,
in base  all'art.  111,  secondo  comma,  Cost.,  della  legittimita'
costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore,  al
quale compete  individuare  le  soluzioni  piu'  idonee  a  coniugare
l'obiettivo di un processo in  grado  di  raggiungere  il  suo  scopo
naturale dell'accertamento  del  fatto  e  dell'eventuale  ascrizione
delle relative responsabilita', nel  pieno  rispetto  delle  garanzie
della difesa, con  l'esigenza  pur  essenziale  di  raggiungere  tale
obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo. Sicche' una  violazione
del principio della ragionevole durata del processo di  cui  all'art.
111, secondo comma, Cost. potra' essere ravvisata soltanto  allorche'
l'effetto di dilatazione dei tempi  processuali  determinato  da  una
specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si
riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio  giustificativa  (ex
plurimis, sentenze n. 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. n. 63 e n.  56
del 2009). 
    Sulla base di un tale  criterio,  e  alla  luce  delle  legittime
finalita' perseguite dal legislatore, che secondo la valutazione  del
legislatore medesimo rendono opportuna la  celebrazione  di  processi
pubblici innanzi  alle  corti  di  assise  per  i  reati  puniti  con
l'ergastolo (valutazione della quale gia' si e' esclusa la  manifesta
irragionevolezza  o  arbitrarieta':  supra,  punto  7.6.),  non  puo'
ritenersi che la  dilatazione  dei  tempi  medi  di  risoluzione  dei
processi relativi a  questi  reati,  pur  certamente  prodotta  dalla
disciplina  censurata,  determini  di  per  se'   un   risultato   di
"irragionevole" durata di tali processi. 
    Dal che l'infondatezza delle  censure  formulate  in  riferimento
all'art. 111, secondo comma, Cost. 
    11.- La Corte di  assise  di  Napoli  solleva  poi  questione  di
legittimita' costituzionale del solo  art.  438,  comma  1-bis,  cod.
proc. pen. in riferimento all'art. 111, primo comma, Cost. 
    Le censure del rimettente sono formulate in relazione al generale
principio del "giusto" processo, ma si  riferiscono  a  ben  guardare
alla  necessita'  che  esso  si  svolga  entro  un  lasso  di   tempo
ragionevole; sicche' esse  si  sovrappongono  in  sostanza  a  quelle
sollevate dal GUP del Tribunale di  Piacenza  di  cui  si  e'  appena
detto, condividendone necessariamente l'esito di non fondatezza. 
    12.-  La  medesima  Corte  di  assise   dubita,   ancora,   della
compatibilita' della stessa disciplina con l'art. 117,  primo  comma,
Cost. in relazione agli artt. 6  e  7  CEDU,  dal  momento  che  essa
precluderebbe ingiustamente l'accesso al giudizio abbreviato a talune
categorie di imputati. 
    La censura e', in  questo  caso,  manifestamente  infondata,  dal
momento che l'unica decisione citata a supporto del principio  (Corte
EDU, decisione 8 dicembre 2015, Mihail-Alin Podoleanu contro  Italia)
afferma, da un lato, che «gli Stati  contraenti  non  sono  costretti
dalla Convenzione a prevedere [...] delle procedure semplificate»,  e
dall'altro lascia intenzionalmente aperta «la  questione  se,  quando
essi esistano, i principi dell'equo processo impongano di non privare
arbitrariamente  un  imputato   della   possibilita'   di   chiederne
l'adozione»: questione alla quale la giurisprudenza di questa  Corte,
come si e' visto, offre una risposta positiva alla luce dell'art.  24
Cost. (supra, punto 8.2.), ma che non  viene  in  considerazione  nel
caso di specie,  in  cui  si  discute  piuttosto  della  legittimita'
costituzionale della  scelta  legislativa  di  precludere  in  radice
l'accesso al giudizio abbreviato agli imputati di  reati  puniti  con
l'ergastolo.  Scelta  legislativa,  quest'ultima,  che   non   sembra
incontrare alcun ostacolo sul piano convenzionale, nemmeno alla  luce
dell'unica decisione invocata dal rimettente. 
    13.- Il GUP del Tribunale  della  Spezia  dubita,  infine,  della
legittimita' costituzionale dell'art. 5 della legge n. 33 del 2019 in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7
CEDU, dal momento che tale disposizione consentirebbe  l'applicazione
del nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. anche agli  imputati
di delitti puniti con l'ergastolo  che  abbiano  tenuto  la  condotta
prima dell'entrata in vigore della legge n. 33 del 2019. 
    La censura, come anticipato,  non  e'  fondata,  giacche'  riposa
sull'erroneo presupposto interpretativo secondo cui  la  disposizione
farebbe riferimento,  nei  reati  ad  evento  differito,  al  momento
dell'evento e non a quello, anteriore, della condotta. 
    Come a suo tempo illustrato  (supra,  punto  6.1.),  infatti,  la
ratio  della  disposizione   depone   inequivocabilmente   a   favore
dell'interpretazione secondo cui  -  nello  stabilire  l'applicazione
della nuova disciplina soltanto ai  «fatti  commessi  successivamente
all'entrata in vigore della  legge»  -  essa  identifichi  il  tempus
commissi delicti nel momento di commissione della condotta criminosa,
nel quale la norma svolge la propria funzione di  orientamento  della
condotta dei consociati. 
    Cosi' interpretata,  la  disposizione  si  pone  in  conformita',
anziche' in contrasto, con il  divieto  di  applicazione  retroattiva
della legge penale, sancito - oltre che dallo stesso art. 25, secondo
comma, Cost. - dall'art. 7 CEDU, escludendo  che  una  disciplina  di
natura  processuale  ma  avente  effetti  peggiorativi   sulla   pena
applicabile in caso  di  condanna,  come  quella  stabilita  nel  suo
complesso dalla legge n. 33 del 2019,  possa  applicarsi  a  condotte
commesse prima  della  sua  entrata  in  vigore,  ancorche'  l'evento
costitutivo del reato si sia verificato successivamente.