ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  80,  comma
19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante  «Disposizioni  per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello  Stato  (legge
finanziaria 2001)»,  promosso  dalla  Corte  di  cassazione,  sezione
lavoro, nel procedimento  vertente  tra  l'Istituto  nazionale  della
previdenza sociale (INPS) e V. M., con ordinanza dell'8  marzo  2023,
iscritta al n. 82 del registro  ordinanze  2023  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  26,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2023. 
    Visti gli atti di costituzione dell'INPS e di V. M.; 
    udita nell'udienza  pubblica  del  10  gennaio  2024  la  Giudice
relatrice Maria Rosaria San Giorgio; 
    uditi gli avvocati Patrizia Ciacci per l'INPS e  Alberto  Guariso
per V. M.; 
    deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza dell'8  marzo  2023,  iscritta  al  n.  82  del
registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione  lavoro,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 38, primo comma,  e  117,
primo comma, della Costituzione - quest'ultimo in relazione  all'art.
34  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  e
all'art. 12, paragrafo 1, lettera e), della  direttiva  (UE)  2011/98
del Parlamento  europeo  e  del  Consiglio,  del  13  dicembre  2011,
relativa a una procedura unica di  domanda  per  il  rilascio  di  un
permesso  unico  che  consente  ai  cittadini  di  Paesi   terzi   di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno  Stato  membro  e  a  un
insieme comune di  diritti  per  i  lavoratori  di  Paesi  terzi  che
soggiornano  regolarmente  in  uno  Stato  membro  -   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 80, comma 19,  della  legge  23
dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)»,
«nella parte in cui condiziona la corresponsione dell'assegno sociale
ai  cittadini  extracomunitari  al  possesso  della  (ex)  carta   di
soggiorno». 
    1.1.- La Corte  rimettente  riferisce  di  essere  investita  del
ricorso promosso dall'Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale
(INPS) per la cassazione della  sentenza  della  Corte  d'appello  di
Firenze con la quale, in riforma della pronuncia di primo grado,  era
stata accolta la domanda di riconoscimento  dell'assegno  sociale  ex
art. 3, comma 6, della legge 8  agosto  1995,  n.  335  (Riforma  del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare) avanzata  da  una
cittadina albanese priva del permesso di soggiorno di lungo periodo. 
    I giudici di appello avevano, infatti, ritenuto  che  l'art.  20,
comma 10, del decreto-legge 25  giugno  2008,  n.  112  (Disposizioni
urgenti  per  lo   sviluppo   economico,   la   semplificazione,   la
competitivita',  la  stabilizzazione  della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella  legge
6  agosto  2008,  n.  133,   nel   condizionare   il   riconoscimento
dell'assegno  sociale  alla   permanenza   continuativa,   da   parte
dell'avente diritto, per almeno dieci anni sul territorio  nazionale,
avesse implicitamente abrogato il requisito, previsto  dall'art.  80,
comma 19, della legge n. 388 del 2000, del possesso  della  carta  di
soggiorno (ora permesso di soggiorno UE  per  soggiornanti  di  lungo
periodo). 
    Il  giudice  a  quo,  richiamando  proprie  precedenti  pronunce,
osserva che il citato art. 20, comma 10, del d.l. n.  112  del  2008,
come convertito, impone un requisito aggiuntivo, e  non  sostitutivo,
rispetto a quello della titolarita' del  permesso  di  soggiorno  per
soggiornanti di lungo periodo richiesto dall'art. 80, comma 19, della
legge n. 388 del 2000. 
    Ad avviso del Collegio rimettente, occorre, tuttavia,  verificare
se  la  sentenza  impugnata  possa  essere  confermata  in  relazione
all'argomentazione, svolta dalla controricorrente anche nei gradi  di
merito, secondo la quale  il  condizionamento  della  provvidenza  al
possesso  di  quest'ultimo  requisito  contrasti  con  la   direttiva
2011/98/UE. 
    A tale riguardo, il giudice a quo ricorda che questa  Corte,  con
la sentenza n. 50 del 2019, ha gia' scrutinato l'art. 80,  comma  19,
della legge n.  388  del  2000,  escludendone  il  contrasto  con  la
Costituzione,  e  affermando  in  particolare   che   «[u]n   obbligo
costituzionale di attribuire l'assegno sociale allo  straniero  privo
della (ex) carta di soggiorno non deriva neppure dall'art.  12  della
direttiva 2011/98/UE [...]  che,  ai  fini  della  equiparazione  dei
cittadini stranieri extracomunitari ai cittadini  italiani,  richiama
il regolamento (CE) n. 883/2004 [...] relativo al  coordinamento  dei
sistemi di sicurezza sociale, che impone la  parita'  di  trattamento
tra i lavoratori stranieri e i cittadini dello Stato europeo  che  li
ospita per quanto riguarda il settore della  sicurezza  sociale,  non
venendo qui in considerazione la posizione di lavoratori». 
    Pur tuttavia, si osserva nell'ordinanza di rimessione,  la  Corte
di giustizia dell'Unione  europea,  adita  con  rinvio  pregiudiziale
disposto da  questa  Corte  con  l'ordinanza  n.  182  del  2020,  ha
affermato, con la sentenza della grande sezione, 2 settembre 2021, in
causa C-350/20, O. D. e altri, che il citato art.  12,  paragrafo  1,
della direttiva 2011/98/UE si applica sia ai cittadini di Paesi terzi
che sono stati ammessi in uno Stato membro per finalita'  lavorative,
sia ai cittadini di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro per  fini
diversi dall'attivita' lavorativa ai quali e' consentito  lavorare  e
che sono in possesso  di  un  permesso  di  soggiorno  ai  sensi  del
regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002,  che
istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati
a cittadini di Paesi terzi. 
    La Corte di giustizia - ricorda, ancora, il giudice a quo - ha, a
tal fine, valorizzato il considerando n. 20  della  citata  direttiva
2011/98/UE, il  quale  non  si  limita  a  garantire  la  parita'  di
trattamento ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma si applica
anche ai titolari di  un  permesso  di  soggiorno  per  fini  diversi
dall'attivita' lavorativa che sono autorizzati a lavorare nello Stato
membro ospitante. 
    La Corte di Lussemburgo ha anche ribadito  che  il  principio  di
parita' di trattamento espresso dall'art. 12,  paragrafo  1,  lettera
e), della citata direttiva riguarda le prestazioni che rientrano  nei
settori della sicurezza sociale  definiti  dal  regolamento  (CE)  n.
883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile  2004,
relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. 
    Il Collegio rimettente  rileva,  quindi,  che  tale  regolamento,
all'art. 3, paragrafo 3, precisa che la propria disciplina si applica
non solo ai settori  di  sicurezza  sociale  enumerati  nell'art.  3,
paragrafo  1,  ma  anche  alle  prestazioni  speciali  in  denaro  di
carattere  non  contributivo  di  cui  all'art.   70   del   medesimo
regolamento e, quindi, anche a quelle prestazioni che sono dirette  a
fornire copertura in via complementare, suppletiva o  accessoria  dei
rischi corrispondenti ai settori  di  sicurezza  sociale  di  cui  al
citato art. 3, paragrafo 1, e a garantire alle persone interessate un
reddito minimo di sussistenza in relazione al  contesto  economico  e
sociale dello Stato membro interessato, per le quali il finanziamento
deriva esclusivamente dalla tassazione obbligatoria intesa a  coprire
la spesa pubblica generale, senza alcun contributo del  beneficiario,
e che «sono elencate nell'Allegato X» al medesimo regolamento. 
    Detto Allegato - osserva la Corte  di  cassazione  -  per  quanto
concerne l'Italia, alla lettera g), contempla  l'assegno  sociale  di
cui all'art. 3, comma 6, della  legge  n.  335  del  1995,  il  quale
«nell'ottica del diritto dell'Unione si rivela pertanto  "prestazione
speciale in denaro di carattere non contributivo", volta a  garantire
una copertura in via suppletiva del rischio della vecchiaia (art.  3,
paragrafo 1, lett. d) del regolamento cit.) mediante l'erogazione  di
un reddito minimo di sussistenza a carico della spesa pubblica». 
    Sulla scorta di tali premesse, il Collegio rimettente ritiene che
il dubbio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  80,  comma  19,
della legge n. 388 del 2000 abbia ragione di porsi nuovamente, avendo
la Corte di  giustizia  chiarito  che  il  principio  di  parita'  di
trattamento nell'accesso alle prestazioni di cui al regolamento  (CE)
n. 883/2004 non concerne soltanto i titolari di un permesso unico  di
lavoro, ma si applica anche ai titolari di un permesso  di  soggiorno
per fini diversi dall'attivita' lavorativa  che  sono  autorizzati  a
lavorare nello Stato membro ospitante. 
    Al riguardo, il giudice  a  quo  assume  che  il  rinvio  operato
dall'art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE  al
regolamento (CE) n.  883/2004  non  debba  essere  limitato  ai  soli
settori di cui all'art. 3, paragrafo 1, del medesimo regolamento,  ma
si riferisca anche alle prestazioni indicate dal successivo paragrafo
3, tra le quali figura l'assegno sociale. Cio' in quanto una  lettura
restrittiva non sarebbe coerente con la lettera della disposizione in
esame, «stante che il paragrafo 3  si  propone  pur  sempre  di  dare
copertura "in via complementare, suppletiva o accessoria  dei  rischi
corrispondenti ai settori di sicurezza sociale  di  cui  all'art.  3,
paragrafo 1", ma soprattutto non e' stata fatta propria  dalla  Corte
di Giustizia dell'Unione Europea» (vengono citate le  sentenze  della
Corte di giustizia dell'Unione europea,  21  giugno  2017,  in  causa
C-449/16, Martinez Silva, e,  ancora,  2  settembre  2021,  in  causa
C-350/20, O. D. e altri). 
    Il Collegio rimettente aggiunge che la stessa Corte di  giustizia
dell'Unione europea, nella sentenza in causa C-350/20, O. D. e altri,
ha affermato che il diritto alla parita' di trattamento  nel  settore
della sicurezza sociale, definito nei suoi contenuti essenziali dalla
direttiva 2011/98/UE, «da' espressione concreta al diritto di accesso
alle  prestazioni  di  sicurezza  sociale  di  cui  all'articolo  34,
paragrafi 1 e 2, della Carta». 
    L'ordinanza di rimessione richiama, quindi, la sentenza n. 54 del
2022, con la quale questa Corte ha  precisato  che  il  principio  di
parita' di trattamento  nel  settore  della  sicurezza  sociale,  nei
termini delineati dall'art. 34  CDFUE  e  dal  diritto  derivato,  si
raccorda ai principi consacrati dall'art. 3 Cost. e  «ne  avvalora  e
illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una  piu'
ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi». 
    Conclude, quindi, il giudice a quo che, nonostante questa  stessa
Corte, con la sentenza n. 50 del  2019,  abbia  scrutinato  l'odierna
questione  per  contrasto  con  l'art.  3  Cost.,  dichiarandola  non
fondata, l'obbligo costituzionale  di  attribuire  l'assegno  sociale
allo straniero privo della (ex) carta di  soggiorno  potrebbe  essere
ritenuto sussistente in ragione della «riconosciuta interpenetrazione
assiologica delle disposizioni  dell'art.  3  Cost.  e  dell'art.  34
CDFUE» nonche' per la  diversa  interpretazione  dell'art.  12  della
direttiva 2011/98/UE fornita dalla  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea. 
    In aggiunta, il giudice rimettente ritiene  che  la  disposizione
censurata si ponga in contrasto con l'art.  38,  primo  comma,  Cost.
«non potendo dubitarsi della stretta correlazione  esistente  tra  di
esso e l'art. 34 CDFUE, che, nel sancire  il  diritto  all'assistenza
sociale e all'assistenza abitativa, mira  a  "garantire  un'esistenza
dignitosa a tutti coloro che non dispongono di  risorse  sufficienti"
(CGUE, 24.4.2012, C-571/10)». 
    Precisa, infine, la Corte di cassazione che, poiche' nel caso  di
specie si ravvisa una ipotesi di cosiddetta doppia  pregiudizialita',
contrastando la disposizione censurata sia  con  gli  artt.  3  e  38
Cost., sia con l'art. 34 CDFUE e con l'art. 12 della citata direttiva
2011/98/UE,  nella  prospettiva  delineata  da  questa  Corte   nella
sentenza n.  269  del  2017,  debba  essere  privilegiata  «in  prima
battuta»  la   questione   di   legittimita'   costituzionale   della
disposizione censurata anche con riferimento  agli  artt.  11  e  117
Cost., in  relazione  agli  artt.  34  CDFUE  e  12  della  direttiva
2011/98/UE. 
    2.- Nel giudizio innanzi a questa Corte si e' costituito  l'INPS,
ricorrente nel giudizio principale, concludendo per  la  declaratoria
di inammissibilita' e comunque  di  non  fondatezza  delle  questioni
sollevate. 
    Sotto il primo profilo, si deduce che la Corte rimettente «non ha
tenuto  conto  del  "petitum"   principale   espresso   dall'Istituto
ricorrente»,  in  quanto  non  ha  considerato  che  il  permesso  di
soggiorno UE per motivi familiari, in forza del  quale  nel  2006  la
controricorrente e' entrata in Italia, postula che il  familiare  con
il quale  e'  avvenuto  il  ricongiungimento  percepisca  un  reddito
sufficiente per mantenere anche l'interessata. 
    Inoltre, la Corte  di  cassazione  non  avrebbe  sufficientemente
motivato il dubbio di legittimita'  costituzionale,  non  avendo,  in
particolare, evidenziato quali sarebbero, con riferimento all'assegno
sociale, «le finalita'  volte  a  rimediare  a  gravi  situazioni  di
urgenza,  tali  da  imporne  l'erogazione  senza   alcun   discrimine
temporale di permanenza stabile e duratura  nel  paese  destinato  ad
erogare la prestazione». 
    Nel merito, l'INPS osserva anzitutto che l'assegno sociale e' una
prestazione  assistenziale  destinata  a  durare  nel  tempo  ed   e'
necessariamente legata alla titolarita' di un  permesso  duraturo,  e
che esso non e' inscrivibile tra le prestazioni essenziali e speciali
- e dunque nell'ambito applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004 -
e, quindi, e'  sottratto  al  principio  di  parita'  di  trattamento
enunciato  dalla  direttiva  2011/98/UE.   Da   tali   considerazioni
l'Istituto fa derivare la conseguenza che il  differente  trattamento
riservato ai cittadini extracomunitari «non comporta  automaticamente
una violazione dell'art. 14 e 34 CEDU [recte: degli artt. 14  CEDU  e
34 CDFUE] rientrando nei poteri degli Stati membri un  certo  margine
di apprezzamento nello stabilire se ed in quale misura  differenziare
l'accesso alla prestazione in considerazione  delle  finalita'  della
stessa,  nonche'  della   limitatezza   delle   risorse   finanziarie
disponibili». 
    Osserva,  ancora,  l'Istituto  che   la   stessa   giurisprudenza
costituzionale ha chiarito che, entro i limiti  consentiti  dall'art.
11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25  novembre  2003,
relativa  allo  status  dei  cittadini  di  Paesi  terzi  che   siano
soggiornanti di lungo periodo, il legislatore puo'  riservare  talune
prestazioni  assistenziali  ai  soli   cittadini   e   alle   persone
soggiornanti in Italia ad essi equiparate, il cui status vale di  per
se'  a  generare  un  adeguato  nesso  tra  la  partecipazione   alla
organizzazione  politica  economica  e  sociale  della  Repubblica  e
l'erogazione della provvidenza. 
    Tale assunto avrebbe ricevuto conferma dalla sentenza  di  questa
Corte n. 50 del 2019, la' dove ha evidenziato  che  «la  Costituzione
impone  di  preservare  l'eguaglianza   nell'accesso   all'assistenza
sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato,  e  cittadini
extracomunitari  dall'altro,  soltanto  con  riguardo  a  servizi   e
prestazioni  che,  nella  soddisfazione  di  "un   bisogno   primario
dell'individuo che non tollera un distinguo correlato al  radicamento
territoriale" (sentenza n. 222 del 2013), riflettano il godimento dei
diritti inviolabili della persona». 
    Evidenzia, inoltre, l'INPS che la Corte di giustizia  dell'Unione
europea, con la sentenza 14 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano  e
altro, ha precisato che le prestazioni in  denaro  di  carattere  non
contributivo  rientrano  tra  i  regimi   di   assistenza   istituiti
dall'autorita' pubblica a livello nazionale, cui  puo'  ricorrere  un
soggetto che non disponga delle risorse  economiche  sufficienti  per
far fronte ai bisogni elementari propri e a quelli della sua famiglia
e che rischia di diventare un onere per le  finanze  pubbliche  dello
Stato  ospitante.  Sebbene  le  prestazioni  di  assistenza   sociale
possano, in linea teorica, rientrare tra le prestazioni di  sicurezza
sociale di cui al regolamento (CE) n. 883 del  2004,  la  parita'  di
accesso ad esse riguarderebbe i soli «soggiornanti permanenti  mentre
per  quelli  di  breve  periodo  se  inattivi  la  concessione  della
prestazione e' e rimane una misura meramente discrezionale». 
    L'INPS richiama  anche  le  sentenze  della  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea 15  settembre  2015,  grande  sezione,  in  causa
C-67/14, Alimanovic e altri, e 15 luglio  2021,  grande  sezione,  in
causa  C-709/20,  CG,  con  le  quali  e'  stato  ribadito   che   il
riconoscimento ai cittadini dell'Unione che  non  beneficiano  di  un
diritto  di  soggiorno  in  forza  della  direttiva  2004/38/CE,  del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004,  relativa  al
diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e
di soggiornare liberamente nel territorio  degli  Stati  membri,  che
modifica il regolamento (CEE)  n.  1612/68  ed  abroga  le  direttive
64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE,
90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, della possibilita' di  fruire  di
prestazioni di assistenza sociale allo stesso  titolo  dei  cittadini
nazionali  consentirebbe  a  cittadini   dell'Unione   economicamente
inattivi di utilizzare il sistema di protezione sociale  dello  Stato
membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento. 
    Sarebbe   pertanto   paradossale,   secondo   l'INPS,   ammettere
limitazioni alle prestazioni sociali di durata  per  i  familiari  di
cittadini europei non titolari di un permesso destinato  a  permanere
nel  tempo   per   poi   consentire   a   familiari   di   lavoratori
extracomunitari di accedere  a  prestazioni  di  durata  destinate  a
sopperire al rischio di poverta'. 
    La   dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale   della
disposizione   censurata   genererebbe,   inoltre,   notevoli   oneri
finanziari  di  difficile  quantificazione  per  lo  Stato  italiano,
imponendo allo stesso, come agli altri  Stati  europei,  il  rilascio
allo straniero di un permesso di soggiorno per residenza  elettiva  -
per essere lo stesso richiedente  divenuto  titolare  di  prestazione
concessa dal medesimo Stato - «con aperta violazione della  normativa
di ordine pubblico vigente in Italia e di cui al Testo Unico». 
    3.- Si e' costituita in giudizio anche  V.  M.,  controricorrente
nel processo a quo, che ha chiesto, in  via  principale,  dichiararsi
l'inammissibilita'  delle   sollevate   questioni   di   legittimita'
costituzionale sul  rilievo  che  il  giudizio  incidentale  dovrebbe
essere definito - come quello di cui alla sentenza n. 67 del  2022  -
riconoscendo il «potere/dovere del giudice rimettente di dare diretta
applicazione all'obbligo di parita'  di  trattamento  che  lo  stesso
giudice ha individuato nel diritto derivato». 
    In via subordinata, previo eventuale  rinvio  pregiudiziale  alla
Corte di giustizia dell'Unione europea ai  sensi  dell'art.  267  del
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), la  difesa  di
V. M. ha chiesto dichiararsi  l'illegittimita'  costituzionale  della
previsione censurata, nella parte in cui condiziona la corresponsione
dell'assegno sociale ai cittadini extracomunitari al  possesso  della
(ex) carta di soggiorno. 
    3.1.- Nel merito, la parte privata ha richiamato, condividendole,
le censure svolte nell'ordinanza di rimessione ed ha svolto ulteriori
argomenti. 
    4.-  Nell'imminenza  della  udienza  pubblica,  le  parti   hanno
depositato memorie illustrative. 
    4.1.- L'INPS, a sostegno delle conclusioni assunte  nell'atto  di
costituzione,  ha  evidenziato  che  l'ordinanza  di  rimessione  non
apporta argomenti nuovi rispetto a quelli  gia'  valutati  da  questa
Corte nella sentenza n. 50 del 2019. 
    Le odierne  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  essendo
state riproposte nei medesimi termini di  quelle  allora  scrutinate,
dovrebbero, pertanto, essere dichiarate manifestamente infondate. 
    4.2.- La parte privata ha replicato alle difese dell'INPS  ed  ha
ulteriormente  sviluppato  le  deduzioni  poste  a   sostegno   delle
conclusioni assunte nell'atto di costituzione. 
    Nella memoria si rimarca che le  deduzioni  svolte  dall'Istituto
esulano dal  thema  decidendum,  in  quanto  riproducono  i  passaggi
argomentativi della motivazione della sentenza n. 50 del 2019,  senza
considerare la «radicale diversita'» tra l'incidente di  legittimita'
costituzionale con essa definito e quello promosso con l'ordinanza in
scrutinio. 
    La parte obietta, altresi', che la difesa dell'INPS  non  avrebbe
preso posizione sul passaggio dell'ordinanza di rimessione in cui  si
evidenzia che l'assegno sociale  e'  ricompreso  tra  le  prestazioni
soggette al regolamento (CE) n. 883/2004, in quanto e'  espressamente
menzionato nell'Allegato X dello stesso regolamento. 
    La  stessa  parte  contesta  altresi'  l'affermazione  avversaria
secondo  la  quale  anche  nell'ordinamento  europeo  permarrebbe  la
distinzione tra sicurezza sociale e  assistenza  sociale,  osservando
che tale dicotomia non rileva ai fini della  definizione  dell'ambito
di applicazione del suddetto regolamento, il quale include  anche  le
prestazioni "miste". 
    Ancora, la qualificazione,  prospettata  dell'INPS,  dell'assegno
sociale in termini di misura di sostegno alla poverta' contrasterebbe
con il requisito anagrafico previsto per il  suo  riconoscimento,  il
quale vale ad inscrivere detta  provvidenza  tra  le  prestazioni  di
vecchiaia di cui all'art. 3, paragrafo 1,  dello  stesso  regolamento
(CE) n. 883/2004. 
    V. M. confuta, poi, l'affermazione dell'INPS secondo la quale  il
titolare  di  permesso  unico  di  lavoro,  ove  ammesso   a   fruire
dell'assegno sociale, riceverebbe un trattamento migliore rispetto  a
quello riservato ad un cittadino dell'Unione in analoga condizione. 
    Il prospettato raffronto sarebbe privo di  fondamento  normativo,
posto che il cittadino extracomunitario titolare di un permesso unico
ai sensi della direttiva 2011/98/UE non e' un soggetto  inattivo,  ma
«semplicemente una persona che non ha maturato il requisito minimo di
20 anni di contribuzione per accedere, a 67 anni, a una  pensione  di
vecchiaia contributiva». 
    La  facolta'  degli  Stati  membri,  affermata  dalla  Corte   di
giustizia UE nelle sentenze in causa C-333/13,  Dano  e  altro  e  in
C-67/14, Alimanovic e altri, di non concedere prestazioni  a  chi  si
trovi nelle condizioni di cui all'art. 14, comma 4, lettera b), della
direttiva 2004/38/CE, cioe' a chi abbia fatto ingresso  in  un  Paese
dell'Unione per cercare un lavoro e non abbia, poi, mai lavorato, non
riguarderebbe la fattispecie in scrutinio. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Questa Corte deve pronunciarsi sulla compatibilita' dell'art.
80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 con gli artt.  3,  11,  38,
primo comma, e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione
all'art. 34 CDFUE e all'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della
direttiva (UE) 2011/98, relativa a una procedura unica di domanda per
il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini  di  Paesi
terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro  e
a un insieme comune di diritti per i lavoratori di  Paesi  terzi  che
soggiornano regolarmente in uno Stato membro. 
    Le questioni sono state  sollevate  dalla  Corte  di  cassazione,
sezione lavoro, investita  del  ricorso  promosso  dall'INPS  per  la
cassazione della sentenza della Corte d'appello  di  Firenze  con  la
quale, in riforma della pronuncia di primo grado, era  stata  accolta
la domanda di riconoscimento di assegno sociale avanzata  da  V.  M.,
cittadina albanese titolare  di  permesso  di  soggiorno  per  motivi
familiari, ma priva di permesso di soggiorno di lungo periodo. 
    1.1.- A sostegno delle censure di illegittimita'  costituzionale,
il giudice a quo ha evocato disposizioni sia costituzionali,  sia  di
diritto dell'Unione, ritenendo, in primo luogo, che la previsione  in
scrutinio confligga con il principio  di  parita'  trattamento  nella
sicurezza sociale sancito dall'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),
della direttiva 2011/98/UE, il quale  «da'  espressione  concreta  al
diritto di accesso alle  prestazioni  di  sicurezza  sociale  di  cui
all'articolo 34, paragrafi 1 e 2, della Carta»  (Corte  di  giustizia
UE, in causa C-350/20, O.D. e altri). 
    In linea con quanto affermato  dalla  Corte  di  giustizia  nella
sentenza ora richiamata, il Collegio  rimettente  sottolinea  che,  a
norma dell'art. 3 della citata direttiva, detto  principio  opera  in
favore sia dei cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno
Stato membro a fini lavorativi, sia dei cittadini extra UE che,  come
la parte  privata  controricorrente  nel  giudizio  principale,  sono
titolari  di  un  permesso  di  soggiorno   per   finalita'   diverse
dall'attivita' lavorativa, ma che consente di lavorare. 
    A giudizio del rimettente, la norma oggetto di censura lederebbe,
al contempo, l'art. 3 Cost., in quanto il  principio  di  parita'  di
trattamento nella sicurezza  sociale,  come  delineato  dalle  citate
fonti  di  diritto  primario   e   derivato   dell'Unione   e   dalla
giurisprudenza della  Corte  di  giustizia,  interseca  il  principio
costituzionale di eguaglianza e «ne avvalora e illumina il  contenuto
assiologico, allo scopo di promuovere  una  piu'  ampia  ed  efficace
integrazione dei cittadini dei Paesi terzi» (e' citata la sentenza di
questa Corte n. 54 del 2022). 
    La Corte di cassazione ritiene, infine, che la norma in scrutinio
contrasti con l'art. 38,  primo  comma,  Cost.,  attesa  la  «stretta
correlazione esistente tra di esso e l'art. 34 CDFUE», il quale, come
affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea  (sentenza  24
aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj), nel riconoscere il diritto
all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa, mira  a  garantire
un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono  di  risorse
sufficienti. 
    2.- Tanto premesso, deve, anzitutto, ribadirsi che, nel  caso  in
cui  il  giudice  comune  sollevi  una  questione   di   legittimita'
costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea, questa Corte non puo' esimersi  dal
fornire una risposta con gli strumenti  che  le  sono  propri  e  che
l'effetto diretto delle norme di diritto primario e derivato  evocate
dal giudice a  quo  (sentenza  n.  67  del  2022,  nonche'  Corte  di
giustizia UE, in causa C-350/20, O.D. e altri) non rende  le  odierne
questioni inammissibili, in quanto esse prospettano il contrasto  tra
una disposizione  di  legge  nazionale  e  diritti  della  Carta  che
«intersecano in larga misura i principi e i diritti  garantiti  dalla
stessa Costituzione italiana» (sentenza n. 149 del 2022). 
    3.- I dubbi di legittimita'  costituzionale  sollevati  involgono
primariamente la questione interpretativa della  riconducibilita',  o
meno, dell'assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del
1995 tra le prestazioni di sicurezza sociale rispetto  alle  quali  i
cittadini  di  Paesi  terzi  muniti  di  permesso  di  soggiorno  per
finalita'  lavorative  o  che,  comunque,   consenta   di   lavorare,
beneficiano della parita' di trattamento ex  art.  12,  paragrafo  1,
lettera e), della direttiva 2011/98/UE. 
    Tale quesito esige preliminarmente una risposta nella prospettiva
del diritto europeo  e,  poiche'  non  e'  ancora  stato  oggetto  di
specifiche pronunce della Corte di giustizia, cui spetta la  funzione
di interpretare il diritto dell'Unione in modo  tale  da  assicurarne
l'uniforme  applicazione  in  tutti  gli  Stati  membri,  si  ritiene
necessario interpellare, mediante il rinvio pregiudiziale,  la  Corte
medesima  affinche'  chiarisca,  rispetto  all'istituto  di   diritto
interno che viene in rilievo nel caso di specie,  la  portata  e  gli
effetti  delle  norme  dell'Unione  assunte  a  parametro  interposto
nell'odierno incidente di costituzionalita'. 
    4.- In un quadro  di  costruttiva  e  leale  cooperazione  tra  i
diversi sistemi di garanzia (sentenza n. 269 del 2017;  ordinanze  n.
216 e n. 217 del 2021, n. 182 del 2020 e n.  117  del  2019),  questa
Corte reputa opportuno illustrare, anzitutto, i tratti salienti della
disciplina nazionale applicabile. 
    5.- L'assegno sociale di cui si  tratta  e'  una  prestazione  in
denaro che l'INPS eroga, su domanda, ai soggetti di eta' superiore  a
sessantacinque anni (dal 1° gennaio 2019, superiore  a  sessantasette
anni) che versano in disagiate condizioni economiche, in quanto  sono
sprovvisti di reddito o lo  percepiscono  in  misura  inferiore  alla
soglia stabilita annualmente dalla legge nell'ammontare massimo dello
stesso assegno in oggetto. 
    Tale  provvidenza  viene  riconosciuta  indipendentemente   dalla
circostanza che il beneficiario sia stato un lavoratore, ed ha natura
«meramente assistenziale» (sentenza n. 137 del 2021). 
    L'assegno sociale mira, infatti, esclusivamente a far fronte allo
stato di bisogno,  derivante  dall'indigenza,  nel  quale  versano  i
soggetti sprovvisti di risorse economiche adeguate  e  che,  a  causa
della vecchiaia, vedono scemare le proprie energie lavorative. 
    Esso si distingue, dunque, sia  dalle  prestazioni  assistenziali
che - come l'indennita'  di  accompagnamento  -  sono  preordinate  a
soccorrere il bisogno determinato dalla grave invalidita' o dalla non
autosufficienza dell'avente diritto (sentenze n. 137 del 2021, n.  12
del 2019 e n. 400 del 1999), sia dalle misure di sostegno che -  come
l'abrogato reddito di cittadinanza e il reddito di inclusione -  sono
motivate da ulteriori finalita', come il reinserimento  lavorativo  e
l'inclusione sociale (sentenze n. 34 e n. 19 del 2022, n.  137  e  n.
126 del 2021). 
    5.1.- Diverso dall'istituto in scrutinio e' l'assegno sociale che
opera come prestazione sostitutiva delle provvidenze  per  inabilita'
gia' in godimento. In  quest'ultima  ipotesi,  che  non  riguarda  la
fattispecie in  esame,  una  volta  che  l'invalido  o  inabile  gia'
titolare di prestazione di  invalidita'  civile  abbia  raggiunto  il
limite di eta' suddetto, la pensione di  inabilita'  e  l'assegno  di
invalidita' vengono automaticamente sostituiti dall'assegno  sociale,
sul quale si proietta la funzione  previdenziale  di  protezione  nel
caso dell'evento avverso della disabilita'. 
    5.2.- A norma dell'art. 3, comma 6, della legge n. 335 del  1995,
il richiedente la prestazione in esame  deve  avere  la  cittadinanza
italiana e la residenza in Italia. Ai cittadini italiani residenti in
Italia sono equiparati quelli di uno  Stato  dell'Unione  europea  e,
secondo quanto disposto dall'art. 80, comma 19, della  legge  n.  388
del 2000, oggetto di censura, i cittadini  di  Paesi  terzi  titolari
della carta di soggiorno, titolo, questo, sostituito dal permesso  di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all'art. 9 del
decreto legislativo  25  luglio  1998,  n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1, comma
1,  lettera  a),  del  decreto  legislativo  8  gennaio  2007,  n.  3
(Attuazione della  direttiva  2003/109/CE  relativa  allo  status  di
cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo). 
    5.2.1.- Il permesso di soggiorno di  lungo  periodo  e'  concesso
qualora ricorra una serie di presupposti che attestino la  stabilita'
della presenza dell'interessato sul territorio, e il suo  regime  «si
colloca nella logica di una ragionevole prospettiva  di  integrazione
del destinatario nella  comunita'  ospitante»  (sentenza  n.  34  del
2022). Piu' precisamente, in base all'art. 9, commi 1  e  2-bis,  del
d.lgs. n. 286 del 1998, il rilascio di questo titolo di soggiorno  e'
condizionato alla sussistenza dei seguenti requisiti:  a)  «possesso,
da almeno cinque anni, di  un  permesso  di  soggiorno  in  corso  di
validita'»;  b)  «disponibilita'  di   un   reddito   non   inferiore
all'importo annuo dell'assegno sociale»;  c)  «alloggio  idoneo»;  d)
«superamento, da parte del richiedente,  di  un  test  di  conoscenza
della lingua italiana». Il permesso e' a tempo indeterminato (art. 9,
comma 2, t.u. immigrazione) e tra le cause della sua  revoca  non  e'
prevista la perdita dei requisiti sopra indicati (cioe', del  reddito
e dell'alloggio idoneo). 
    5.3.- Ai fini del riconoscimento dell'assegno sociale e', infine,
necessario, ai sensi dell'art. 20, comma 10,  del  d.l.  n.  112  del
2008,  come   convertito,   che   l'interessato   abbia   soggiornato
legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio
nazionale. 
    Tale requisito riguarda tutti gli aventi diritto, ivi compresi  i
cittadini extra UE, e, per questi ultimi, concorre con  quello  della
titolarita' del permesso di soggiorno di  lungo  periodo  (ex  aliis,
Corte di cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13  marzo  2023,
n. 7229). 
    5.4.- Questa Corte si e'  gia'  ripetutamente  pronunciata  sulla
conformita' dell'art. 80, comma 19, della  legge  n.  388  del  2000,
nella parte in cui subordina l'accesso a determinate  provvidenze  al
possesso della (ex) carta di soggiorno, sia agli artt. 3 e 38  Cost.,
sia all'art. 14 CEDU. 
    5.4.1.- In riferimento alle citate disposizioni costituzionali, e
con specifico riguardo all'assegno  sociale  di  cui  si  tratta,  la
sentenza  n.  50  del  2019  di  questa   Corte   ha   ritenuto   non
discriminatoria, ne' manifestamente  irragionevole  l'assunzione  del
permesso  di  soggiorno  UE  per  soggiornanti  di  lungo  periodo  a
presupposto per godere di tale provvidenza economica. 
    La  pronuncia  ha  evidenziato  che  la  Costituzione  impone  di
preservare  l'eguaglianza  nell'accesso  all'assistenza  sociale  tra
cittadini italiani e comunitari da un  lato,  e  cittadini  extra  UE
dall'altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che,  nella
soddisfazione di «un bisogno primario dell'individuo che non  tollera
un distinguo correlato al radicamento  territoriale»,  riflettano  il
godimento dei diritti inviolabili della persona. In tale  ipotesi  la
prestazione non e' tanto una componente dell'assistenza sociale  (che
l'art. 38, primo comma, Cost.  riserva  al  «cittadino»),  quanto  un
necessario strumento di garanzia  di  un  diritto  inviolabile  della
persona (art. 2 Cost.). 
    Nella richiamata sentenza n. 50 del 2019 si e' altresi' affermato
che, stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di  la'  del
confine invalicabile appena indicato, rientra nella  discrezionalita'
del  legislatore  graduare  con  criteri   restrittivi,   e   persino
escludere, l'accesso del cittadino extra UE a provvidenze  ulteriori.
Per esse «laddove e' la cittadinanza stessa, italiana o  comunitaria,
a presupporre e giustificare l'erogazione della prestazione ai membri
della comunita', viceversa ben puo' il legislatore esigere in capo al
cittadino extracomunitario ulteriori  requisiti,  non  manifestamente
irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo». 
    Tali  provvidenze  «divengono   il   corollario   dello   stabile
inserimento dello straniero in Italia, nel senso  che  la  Repubblica
con esse ne riconosce e valorizza  il  concorso  al  progresso  della
societa',  grazie  alla  partecipazione  alla  vita  di  essa  in  un
apprezzabile arco di tempo». Difatti, la titolarita' del permesso  UE
per soggiornanti di lungo periodo postula,  diversamente  dalla  mera
residenza  legale  in  Italia,  la  produzione  di  un  reddito,   la
disponibilita' di un alloggio e la conoscenza della lingua  italiana,
che  costituiscono  «indici   non   irragionevoli   di   una   simile
partecipazione». 
    Nella sentenza n. 50 del 2019 si e', quindi, concluso che rientra
«nella discrezionalita' del legislatore riconoscere  una  prestazione
economica al solo straniero, indigente e privo di  pensione,  il  cui
stabile inserimento nella  comunita'  lo  ha  reso  meritevole  dello
stesso sussidio concesso al cittadino italiano». 
    5.5.- La richiamata pronuncia converge con  la  piu'  generale  e
costante affermazione della giurisprudenza costituzionale secondo  la
quale il legislatore puo' legittimamente circoscrivere la platea  dei
beneficiari delle prestazioni sociali in  ragione  della  limitatezza
delle risorse destinate al loro finanziamento, purche'  rispetti  gli
obblighi europei, che esigono, tra l'altro, la parita' di trattamento
tra i cittadini italiani ed europei e  i  cittadini  di  Paesi  terzi
soggiornanti di lungo periodo, e il principio di ragionevolezza. Cio'
sempre   a   condizione   che   la   distinzione   non   si   traduca
«nell'esclusione  del  non  cittadino  dal  godimento   dei   diritti
fondamentali  che  attengono  ai  "bisogni  primari"  della  persona,
indifferenziabili   e   indilazionabili,   riconosciuti   invece   ai
cittadini» (sentenza n. 166 del 2018; in senso conforme, ex aliis, le
sentenze n. 54 del 2022 e n. 222 del 2013). 
    6.- Quanto alle  disposizioni  del  diritto  dell'Unione  europea
rilevanti  nell'odierno  giudizio,  ferma  restando   la   competenza
esclusiva della  Corte  di  giustizia  a  fornirne  l'interpretazione
uniforme, nello spirito di collaborazione che caratterizza i rapporti
tra le Corti, si prospettano i seguenti argomenti. 
    6.1.- La direttiva 2011/98/UE persegue l'obiettivo di  «garantire
l'equo trattamento dei cittadini  dei  Paesi  terzi  che  soggiornano
regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di
«una politica di integrazione piu' incisiva» (considerando n.  2),  e
di «ridurre la disparita' di diritti tra i cittadini dell'Unione e  i
cittadini di paesi terzi  che  lavorano  regolarmente  in  uno  Stato
membro» (considerando n. 19). 
    Ai cittadini provenienti da Paesi terzi che gia'  «contribuiscono
all'economia dell'Unione con il loro lavoro e i  loro  versamenti  di
imposte» (considerando n.  19),  la  direttiva  ha,  infatti,  inteso
attribuire un «insieme comune di diritti,  basato  sulla  parita'  di
trattamento  con  i  cittadini  dello  Stato  membro   ospitante,   a
prescindere  dal  fine  iniziale  o   dal   motivo   dell'ammissione»
(considerando  20),  precisando  che  il  diritto  alla  parita'   di
trattamento nei settori dalla  stessa  specificati  «dovrebbe  essere
riconosciuto non solo ai cittadini di  paesi  terzi  che  sono  stati
ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, ma anche a coloro  che
sono stati ammessi per altri motivi e che hanno ottenuto l'accesso al
mercato del lavoro di quello Stato membro  in  conformita'  di  altre
disposizioni del diritto dell'Unione o  nazionale»  (considerando  n.
20). 
    6.2.- In consonanza con tali  linee  programmatiche,  l'art.  12,
paragrafo 1, della direttiva  in  esame  riconosce  il  diritto  alla
parita' di trattamento nella sicurezza sociale sia ai  «cittadini  di
paesi terzi che sono  stati  ammessi  in  uno  Stato  membro  a  fini
lavorativi a norma del diritto  dell'Unione  o  nazionale»  (art.  3,
paragrafo 1, lettera c), sia ai «cittadini di paesi  terzi  che  sono
stati ammessi in uno  Stato  membro  a  fini  diversi  dall'attivita'
lavorativa a norma del diritto dell'Unione o nazionale, ai  quali  e'
consentito lavorare  e  che  sono  in  possesso  di  un  permesso  di
soggiorno ai sensi  del  regolamento  (CE)  n.  1030/2002»  (art.  3,
paragrafo 1, lettera b). 
    Il conseguimento di uno dei suindicati titoli  di  soggiorno  non
e', tuttavia,  sufficiente  affinche'  lo  straniero  benefici  dello
stesso regime di sicurezza sociale accordato ai cittadini dello Stato
membro che lo ospita, essendo anche richiesto che in tale Stato  egli
svolga o abbia svolto un'attivita' lavorativa. 
    L'art. 12, paragrafo 1, si riferisce, infatti,  espressamente  ai
«lavoratori dei paesi terzi  di  cui  all'articolo  3,  paragrafo  1,
lettere b e c)» e, proprio in ragione  di  tale  condizione,  accorda
loro il diritto alla parita' di trattamento in relazione ad una serie
di ambiti di disciplina afferenti ai momenti piu'  significativi  del
rapporto di lavoro, tra i quali figura anche quello della  protezione
sociale. 
    6.3.- Coerentemente, dal punto di vista oggettivo, la garanzia di
parita' di trattamento di cui  al  paragrafo  1,  lettera  e),  dello
stesso art. 12 opera per quanto concerne «i settori  della  sicurezza
sociale  definiti  nel  regolamento  (CE)  n.  883/2004»,  ossia   in
relazione agli ambiti disciplinari, indicati nell'art.  3,  paragrafo
1, di detto  regolamento,  corrispondenti  ad  una  serie  di  rischi
connessi, anche indirettamente, al rapporto di lavoro. 
    6.3.1.-  E'  appena  il  caso  di  ricordare   che   quest'ultima
disposizione  si  colloca  in   una   fonte   di   diritto   derivato
dichiaratamente  volta  a  realizzare  l'obiettivo,   ora   enunciato
nell'art. 48 TFUE, di favorire la mobilita' della  forza  lavoro  nel
mercato comune attraverso il miglioramento  del  livello  di  vita  e
delle condizioni di  occupazione  delle  persone  che  circolano  nel
territorio dell'Unione per finalita' lavorative. 
    Il  regolamento  (CE)  n.  883/2004  detta,  infatti,  norme   di
coordinamento  -  e  non  di  armonizzazione  (Corte   di   giustizia
dell'Unione europea, sentenza 25 novembre 2020,  in  causa  C-303/19,
INPS) -  dei  regimi  nazionali  della  sicurezza  sociale,  volte  a
garantire, nel rispetto delle  caratteristiche  proprie  di  ciascuna
legislazione (considerando n. 4), che i cittadini degli Stati membri,
gli apolidi e i rifugiati e i loro familiari e superstiti  -  nonche'
gli stessi cittadini di Paesi terzi, ai quali, come meglio  si  dira'
piu' innanzi, la normativa in esame e' stata resa applicabile -,  che
si spostano nel territorio  dell'Unione  per  lavoro,  fruiscano  dei
medesimi vantaggi sociali riservati ai lavoratori cittadini dei Paesi
membri ospitanti. 
    6.4.- Cio' posto, i «settori della sicurezza sociale» di  cui  fa
menzione  l'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della   direttiva
2011/98/UE sono  elencati  all'art.  3,  paragrafo  1,  del  suddetto
regolamento  e  definiscono   l'«[a]mbito   d'applicazione   "ratione
materiae"»  (come  recita  la  stessa  rubrica  dell'art.  3)   della
disciplina di coordinamento delle legislazioni nazionali. Si  tratta,
in particolare, dei «settori di sicurezza sociale riguardanti: a)  le
prestazioni di  malattia;  b)  le  prestazioni  di  maternita'  e  di
paternita'  assimilate;  c)  le  prestazioni  d'invalidita';  d)   le
prestazioni di vecchiaia; e) le prestazioni per i superstiti;  f)  le
prestazioni per infortunio sul lavoro e  malattie  professionali;  g)
gli assegni in caso di morte; h) le prestazioni di disoccupazione; i)
le prestazioni di prepensionamento; j) le prestazioni familiari». 
    6.5.-  Lo  stesso  art.  3,  al  paragrafo  3,  precisa  che   il
regolamento (CE) n.  883/2004  «si  applica  anche  alle  prestazioni
speciali in denaro di carattere non contributivo di cui  all'articolo
70»,  mentre,  al  paragrafo  5,  esclude  dal  relativo  ambito   di
operativita', tra l'altro, l'assistenza sociale e medica. 
    Il citato art. 70, al  paragrafo  1,  individua  le  «prestazioni
speciali in denaro di carattere non contributivo»,  denominate  anche
"miste"  o  "ibride",   in   quelle   provvidenze   «previste   dalla
legislazione la quale, a causa del suo ambito di applicazione ratione
personae, dei suoi obiettivi e/o delle condizioni di  ammissibilita',
ha caratteristiche tanto della legislazione in materia  di  sicurezza
sociale di cui all'articolo 3, paragrafo 1, quanto di quella relativa
all'assistenza sociale». 
    E sempre l'art. 70, al paragrafo 2, chiarisce che le  prestazioni
in esame sono quelle «a)  intese  a  fornire:  i)  copertura  in  via
complementare, suppletiva o accessoria dei rischi  corrispondenti  ai
settori di sicurezza sociale di cui all'articolo 3, paragrafo 1, e  a
garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza
in relazione al contesto  economico  e  sociale  dello  Stato  membro
interessato;  oppure  ii)  unicamente  la  protezione  specifica  dei
portatori di handicap, strettamente collegate al contesto sociale del
predetto soggetto nello Stato membro interessato; e b)  relativamente
alle quali il finanziamento deriva  esclusivamente  dalla  tassazione
obbligatoria intesa  a  coprire  la  spesa  pubblica  generale  e  le
condizioni per la concessione e per il calcolo della prestazione, non
dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario. Tuttavia, le
prestazioni concesse ad integrazione della  prestazione  contributiva
non sono da considerare  prestazioni  contributive  per  questo  solo
motivo; e c) sono elencate nell'allegato X». 
    7.- Tanto premesso, l'assegno sociale italiano, qui in scrutinio,
figurando nel citato Allegato X, risulta espressamente annoverato tra
le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo. 
    Il giudice rimettente assume che, poiche' il regolamento (CE)  n.
883/2004, all'art. 3, paragrafo  3,  dispone  che  dette  prestazioni
ricadono nel proprio ambito di operativita' e l'art. 12, paragrafo 1,
lettera e), della direttiva 2011/98/UE, nel delimitare  il  perimetro
applicativo del  principio  di  parita'  di  trattamento,  rinvia  ai
settori della sicurezza sociale definiti  dal  suddetto  regolamento,
anche le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo
- e, tra esse, l'assegno sociale - beneficerebbero di tale garanzia. 
    In proposito, si osserva quanto segue. 
    Il rinvio operato dall'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  ai
settori della sicurezza sociale  definiti  dal  regolamento  (CE)  n.
883/2004 non sembra consentire un'automatica estensione del principio
di parita' di trattamento a tutte le  prestazioni  sociali  ricadenti
nel  dominio  della   fonte   regolamentare,   ostandovi   tanto   la
formulazione   testuale   della   norma   richiamante,   quanto    la
ricostruzione sistematica della disciplina richiamata. 
    7.1.- Anzitutto,  l'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della
direttiva in questione, nell'individuare  le  prestazioni  presidiate
dal divieto di discriminazione, non rimanda a  tutte  le  provvidenze
inscrivibili  nel  perimetro  applicativo  del  regolamento  (CE)  n.
883/2004, ma piu' precisamente alle prestazioni correlate ai «settori
della sicurezza sociale» da questo definiti, da identificarsi con gli
specifici ambiti della sicurezza  sociale  individuati  dall'art.  3,
paragrafo 1, dello stesso regolamento, sopra menzionati. 
    Inoltre, come gia' evidenziato, lo stesso art. 12,  paragrafo  1,
attribuisce il diritto alla parita' di trattamento ai  cittadini  dei
Paesi terzi indicati nell'art. 3,  paragrafo  1,  lettere  b)  e  c),
identificandoli come «lavoratori», la' dove le  prestazioni  speciali
ex art. 70 del predetto  regolamento,  rispetto  ai  cittadini  dello
Stato   sede   dell'istituzione    debitrice,    non    presuppongono
necessariamente una connessione, diretta o indiretta, con un rapporto
di lavoro e dunque con un rapporto contributivo. 
    7.2.- Deve, altresi', rilevarsi che, nell'ambito della disciplina
di  coordinamento  dettata  dal  regolamento  (CE)  n.  883/2004,  le
prestazioni  "miste"  esibiscono  autonomi  connotati  strutturali  e
funzionali rispetto alle prestazioni di sicurezza sociale volte a far
fronte agli eventi indicati nel paragrafo 1 dell'art. 3 del  medesimo
regolamento. 
    A differenza di queste, le prestazioni speciali di carattere  non
contributivo forniscono una copertura dei suddetti  rischi  non  gia'
diretta,  ma  «complementare,  suppletiva  o  accessoria»,  intesa  a
«garantire,  alle  persone  interessate,   un   reddito   minimo   di
sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello  Stato
membro interessato». 
    Deve, poi, considerarsi che, tra le provvidenze di cui si tratta,
l'art. 70, paragrafo 2, lettera a),  ii),  dello  stesso  regolamento
annovera significativamente anche quelle che offrono  «unicamente  la
protezione  specifica  dei  portatori   di   handicap,   strettamente
collegate al contesto  sociale  del  predetto  soggetto  nello  Stato
membro interessato». 
    Infine, le prestazioni in esame  sono  finanziate  esclusivamente
attraverso la fiscalita' generale intesa a coprire la spesa  pubblica
generale, e le condizioni per la concessione e  per  il  calcolo  del
dovuto non dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario. 
    7.2.1.-  La  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea  ha,   al
riguardo,  affermato  che  la  prestazione  speciale  in  denaro   di
carattere non contributivo e' caratterizzata da una finalita' diversa
da quella propria delle prestazioni  di  sicurezza  sociale,  dovendo
costituire «una sostituzione o  un'integrazione  di  una  prestazione
previdenziale  e  presentare  i  caratteri  di   un   aiuto   sociale
giustificato da motivi economici e sociali e deciso da una  normativa
che fissa criteri obiettivi» (Corte di giustizia, sentenza 29  aprile
2004,  in  causa  C-160/02,  Skalka,  punto  25).  Essa  ha   «natura
assistenziale, soprattutto per il  fatto  che  la  concessione  della
prestazione prevista prescinde dal compimento di periodi di attivita'
lavorativa,  di  iscrizione  o  di  contribuzione  assicurativa,   si
avvicina tuttavia sotto altri aspetti  al  settore  della  previdenza
sociale» (Corte di giustizia delle  Comunita'  europee,  sentenza  20
giugno 1991, in causa C-356/89, Newton, punto 13). 
    7.3.-  Proprio  in  ragione  delle  indicate  caratteristiche  il
regolamento  (CE)  n.  883/2004  riserva  alle  prestazioni   "miste"
(richieste dallo straniero  al  Paese  membro  ospitante)  un  regime
parzialmente diverso rispetto a quello, improntato  alla  parita'  di
trattamento (art. 4), dettato per le prestazioni di sicurezza sociale
di cui al precedente art. 3, paragrafo 1. 
    Ad esse, infatti, il citato art. 70, al paragrafo 3, prevede  che
non si applichi il principio della  esportabilita'  che,  invece,  il
precedente art. 7 pone a  presidio  delle  prestazioni  di  sicurezza
sociale. 
    Per effetto di tale deroga, l'art. 70,  paragrafo  4,  chiarisce,
infatti, che le  prestazioni  "miste"  «sono  erogate  esclusivamente
nello Stato membro in cui gli interessati risiedono e ai sensi  della
sua legislazione [...] dall'istituzione del luogo di residenza e sono
a suo carico». 
    Il legislatore europeo ha inteso, cosi',  condizionare  l'accesso
alle  prestazioni  in  esame  al  radicamento  del  richiedente   nel
territorio dello Stato  chiamato  a  sopportare  l'onere  finanziario
della erogazione. 
    7.4.- La nozione di residenza presupposta dalla regola della  non
esportabilita', da individuarsi, ai sensi dell'art.  1,  lettera  j),
dello stesso regolamento (CE) n. 883/2004,  nel  «luogo  in  cui  una
persona risiede abitualmente», si fonda  sul  fatto  oggettivo  della
stabile permanenza dell'interessato  nel  luogo  scelto  come  dimora
abituale. 
    Cio' significa che, nel caso in cui tale luogo si  trovi  in  uno
Stato  membro  diverso  da  quello  di  cui   l'interessato   ha   la
cittadinanza, la residenza qui in esame  puo'  ritenersi  sussistente
soltanto se ricorrono anche i requisiti richiesti  per  il  soggiorno
permanente in un Paese dell'Unione diverso da quello d'origine. 
    Per i cittadini dell'Unione viene, pertanto, in considerazione la
direttiva 2004/38/CE e in particolare, l'art. 7, paragrafo 1, a mente
del quale ciascun cittadino dell'Unione per poter soggiornare per  un
periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro,
deve essere un lavoratore subordinato o autonomo nello  Stato  membro
ospitante o disporre, per se' e per i propri  familiari,  di  risorse
economiche sufficienti, affinche'  non  divenga  un  onere  a  carico
dell'assistenza sociale  dello  Stato  membro  ospitante  durante  il
periodo di  soggiorno,  e  deve  essere  munito  di  un'assicurazione
malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante. 
    Infine, a norma dell'art. 16, paragrafo 1, della stessa direttiva
2004/38/CE,  i  cittadini  dell'Unione  acquisiscono  il  diritto  di
soggiorno permanente  dopo  aver  soggiornato  legalmente  e  in  via
continuativa per  cinque  anni  nel  territorio  dello  Stato  membro
ospitante. 
    7.5.- Alla luce delle fonti normative  richiamate,  la  Corte  di
giustizia ha osservato che  le  prestazioni  speciali  in  denaro  di
carattere non contributivo sono  concesse,  ai  sensi  dell'art.  70,
paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 883/2004,  esclusivamente  nello
Stato membro  di  residenza  dell'interessato  e  conformemente  alla
normativa dello stesso, con la conseguenza che «nulla osta a  che  la
concessione   di   tali   prestazioni   a    cittadini    dell'Unione
economicamente  inattivi  sia  subordinata  al  requisito  che   essi
soddisfino le condizioni per disporre  di  un  diritto  di  soggiorno
nello Stato membro ospitante ai sensi della direttiva 2004/38» (Corte
di  giustizia  dell'Unione  europea,  grande  sezione,  sentenza   11
novembre 2014, in causa C-333/13, Dano e altro, punto 83). 
    Analoghe considerazioni si rinvengono nella sentenza 15 settembre
2015, in causa C-67/14,  Alimanovic  e  altri  e  nella  sentenza  25
febbraio 2016, in causa C-299/14, Vestische  Arbeit  Jobcenter  Kreis
Recklinghausen, nelle quali la Corte  di  giustizia,  richiamando  le
affermazioni della sentenza 19 settembre  2013,  in  causa  C‑140/12,
Brey, ha precisato che, poiche' le prestazioni speciali in denaro  di
carattere non contributivo ex art. 70, paragrafo 2,  del  regolamento
(CE) n. 883/2004 sono concesse, ai sensi del paragrafo 4 del medesimo
articolo,   esclusivamente   nello   Stato   membro   di    residenza
dell'interessato e conformemente alla normativa dello  stesso,  nulla
osta - neppure il  principio  di  parita'  di  trattamento  enunciato
all'art. 4 del citato regolamento -  a  che  tali  prestazioni  siano
negate a cittadini di altri Stati membri che non abbiano lo status di
lavoratore subordinato o autonomo o a  persone  che  mantengano  tale
status durante i primi  tre  mesi  del  loro  soggiorno  nello  Stato
ospitante. 
    Se,  dunque,  in  mancanza  di  tali  condizioni,   i   cittadini
dell'Unione non possono fruire delle prestazioni  "miste"  presso  un
Paese membro diverso da  quello  di  cui  hanno  la  cittadinanza,  a
maggior ragione gli Stati membri  non  dovrebbero  essere  tenuti  ad
accordare dette provvidenze ai cittadini extra UE che non  dimostrino
un significativo radicamento nel loro territorio, attestato, in primo
luogo, dallo svolgimento di un rapporto di lavoro. 
    8.- D'altronde, la  disciplina  europea  di  coordinamento  della
sicurezza sociale, originariamente concepita  per  i  soli  cittadini
comunitari  che  si  spostano  nel  territorio  dell'Unione  a   fini
lavorativi, e' stata successivamente estesa ai cittadini appartenenti
a Paesi terzi, ma residenti regolarmente nel  territorio  comunitario
per svolgervi un'attivita' lavorativa, dapprima dalla  giurisprudenza
(sentenza Corte di giustizia delle  Comunita'  europee,  sentenza  12
ottobre  1978,  in  causa  C-10/78,  Belbouab)  e,  in  seguito,  dal
legislatore,  per  effetto  delle   raccomandazioni   scaturite   dal
Consiglio europeo straordinario di Tampere del 15 e  16  ottobre  del
1999, che aveva sollecitato l'adozione di  misure  atte  a  garantire
l'equo trattamento dei cittadini  dei  Paesi  terzi  che  soggiornano
legalmente nel territorio degli  Stati  membri,  ad  assicurare  loro
diritti e obblighi analoghi a quelli  dei  cittadini  dell'Unione,  a
rafforzare la non discriminazione nella  vita  economica,  sociale  e
culturale, nonche' a ravvicinare lo status  giuridico  dei  cittadini
dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. 
    Per quanto riguarda,  in  particolare,  il  regolamento  (CE)  n.
883/2004, l'estensione ai cittadini di Paesi terzi cui tale fonte  di
diritto derivato non fosse gia' applicabile unicamente a causa  della
nazionalita' e'  stata  disposta  mediante  il  regolamento  (UE)  n.
1231/2010 del Parlamento europeo e del  Consiglio,  del  24  novembre
2010, che estende il regolamento (CE) n. 883/2004  e  il  regolamento
(CE) n. 987/2009 ai cittadini di Paesi terzi cui tali regolamenti non
siano gia' applicabili unicamente a causa della nazionalita'. 
    L'attuale disciplina di coordinamento della sicurezza sociale  si
applica, quindi, sia ai cittadini di Paesi membri che si spostano nel
territorio dell'Unione per finalita' lavorative, sia ai cittadini  di
Paesi terzi regolarmente  soggiornanti  in  uno  Stato  membro,  che,
parimenti, «si trovino in una situazione che non  sia  confinata,  in
tutti i suoi aspetti, all'interno di un solo Stato  membro»  (art.  1
del regolamento n. 1231/2010/UE). Tale ultima disposizione chiarisce,
infatti, che anche per i  cittadini  extra  UE  l'applicazione  della
disciplina in esame  postula  uno  spostamento  dell'interessato  nel
territorio dell'Unione (come previsto  dal  considerando  n.  13  del
regolamento CE n. 883/2004). 
    Dalla  equiparazione  operata  dal  regolamento  n.  1231/2010/UE
deriva che i cittadini di Paesi terzi che si spostano nel  territorio
dell'Unione europea, al pari di quelli dei Paesi  membri,  per  poter
godere delle prestazioni in denaro di carattere non  contributivo  ex
art. 70 del regolamento (CE) n. 883/2004, devono avere un rapporto di
contribuzione con il sistema previdenziale dello Stato cui richiedono
la provvidenza. 
    8.1.- Cio' considerato, il principio di  parita'  di  trattamento
sancito dall'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della  direttiva
2011/98/UE non puo' attribuire ai cittadini di Paesi terzi muniti dei
titoli di legittimazione di cui all'art. 3, paragrafo 1, lettere b) e
c), una tutela piu' ampia di quella  delineata  dalla  disciplina  di
coordinamento  dei  sistemi  di  sicurezza  sociale,  cui  la  stessa
direttiva fa rinvio. 
    9.- Pare, dunque, a questa Corte che i cittadini di  Paesi  terzi
ai quali si  applica  l'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della
direttiva 2011/98/UE possano  beneficiare  dello  stesso  trattamento
riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano soltanto
se lavoratori e con esclusivo riferimento alle  prestazioni  relative
ai settori di sicurezza sociale elencati all'art. 3, paragrafo 1, del
regolamento (CE) n. 883/2004, mentre, per poter fruire delle speciali
prestazioni di cui all'art. 70 del medesimo  regolamento  -  nel  cui
novero si inscrive l'assegno sociale in scrutinio - non  possono  che
sottostare alle condizioni  per  esse  espressamente  previste  dalla
stessa disciplina di coordinamento nonche' dalla  legislazione  dello
Stato ospitante. 
    9.1.- In conclusione, questa Corte dubita che la sola titolarita'
di un permesso di soggiorno che consente di lavorare ai  sensi  della
citata direttiva conferisca al  cittadino  extra  UE  il  diritto  di
accedere  alle  prestazioni  "miste"  alle  stesse   condizioni   dei
cittadini del Paese membro in cui soggiorna. 
    Di qui la  necessita'  di  richiedere  alla  Corte  di  giustizia
l'interpretazione delle  disposizioni  del  diritto  dell'Unione  che
incidono sulla soluzione delle sollevate  questioni  di  legittimita'
costituzionale. 
    10.- Questa Corte ritiene, pertanto, di sospendere il giudizio in
corso e di sottoporre alla Corte di giustizia, ai sensi dell'art. 267
TFUE, il quesito  se  l'art.  12,  paragrafo  1,  lettera  e),  della
direttiva 2011/98/UE, quale espressione  concreta  della  tutela  del
diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale riconosciuta
dall'art. 34, paragrafi 1 e 2, CDFUE, debba essere  interpretato  nel
senso che nel suo ambito di applicazione rientri una provvidenza come
l'assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del  1995  e
se, pertanto, il diritto dell'Unione osti ad una normativa  nazionale
che non estende agli stranieri titolari del  permesso  unico  di  cui
alla  medesima  direttiva   la   provvidenza   sopra   citata,   gia'
riconosciuta agli  stranieri  a  condizione  che  siano  titolari  di
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.