ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei   giudizi   di    legittimita'    costituzionale    dell'art.
47-quinquies, comma 7, della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), promossi con ordinanze del 10
aprile 2024 dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Bologna  e  del  26
settembre  2024  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia,   nei
procedimenti di sorveglianza nei  confronti  di  M.  C.  e  D.  M.G.,
rispettivamente iscritte ai numeri 174 e 197 del  registro  ordinanze
2024 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 40
e 44, prima serie speciale, dell'anno 2024. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  10  marzo  2025  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 10 marzo 2025. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 10 aprile 2024 (iscritta al n. 174 del reg.
ord. 2024), il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato,  in
via principale, questioni di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
47-quinquies, comma 7, della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), in riferimento agli artt.  2,
3, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,
quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo, nella parte in cui prevede che  la  detenzione
domiciliare puo' essere concessa al padre detenuto «se  la  madre  e'
deceduta o impossibilitata e non vi e' modo di affidare la  prole  ad
altri che al padre». 
    In via subordinata, la medesima  disposizione  e'  censurata,  in
riferimento agli stessi parametri, nella parte in cui prevede che  la
detenzione domiciliare puo' essere concessa al padre detenuto se «non
vi e' modo di affidare la prole ad altri che al padre». 
    1.1.- Il rimettente deve provvedere sulla  richiesta  di  M.  C.,
detenuto presso la Casa circondariale di  Ferrara  dal  10  settembre
2023 per scontare una pena di quattro  anni,  undici  mesi  e  dodici
giorni di reclusione, volta ad ottenere la concessione  della  misura
della   detenzione   domiciliare   speciale   ai   sensi    dell'art.
47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit., al fine  di  provvedere
alla cura e all'assistenza dei figli minori. 
    Il giudice a quo espone  che  i  figli  del  richiedente,  a  lui
affidati dal Tribunale per i  minorenni,  sono  attualmente  accuditi
dalla loro sorella maggiore. 
    L'istanza del detenuto dovrebbe, pertanto, essere  rigettata.  Da
un lato, la madre avrebbe comunque diritto di vedere  i  figli  e  di
mantenere un  rapporto  con  gli  stessi,  seppur  non  continuativo;
dall'altro, i figli vivrebbero attualmente in una  situazione  serena
presso la famiglia della sorella, senza che emergano carenze di  cura
e di assistenza. 
    1.2.- Il rimettente dubita, tuttavia, della compatibilita' con  i
parametri costituzionali menzionati della disposizione censurata. 
    Cio', anzitutto, in relazione alla «scelta legislativa di operare
a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali,  padre  e
madre, nella cura del minore  (o  del  figlio  affetto  da  handicap)
stabilendo una cornice normativa evidentemente piu' favorevole per le
detenute di sesso femminile rispetto ai detenuti di  sesso  maschile,
in cui l'elemento discretivo e' dato esclusivamente  dal  genere  del
genitore».  Tale  scelta  si  tradurrebbe  in   una   discriminazione
irragionevole, tenuto conto dello scopo della disposizione censurata,
«in cui l'interesse costituzionale prevalente  non  e'  tanto  quello
della tutela della maternita', bensi' quello di garantire  assistenza
al soggetto bisognoso  di  cura  in  modo  da  non  pregiudicarne  lo
sviluppo psico-affettivo». 
    Il rimettente ripercorre dettagliatamente l'evoluzione  normativa
e gli interventi di questa Corte che  hanno,  a  partire  dagli  anni
Ottanta, introdotto e poi progressivamente esteso misure  alternative
alla detenzione, benefici penitenziari e misure cautelari  specifiche
in  favore  dei  genitori  di  figli  in  tenera  eta'   ovvero   con
disabilita', nonche' il differimento della pena in favore della madre
di prole di eta' inferiore ai tre anni; e  cio'  parallelamente  allo
sviluppo della normativa giuslavoristica e  previdenziale,  parimenti
rivolta a tutelare l'«esercizio della genitorialita' quale  attivita'
di cura ed educazione della prole nell'interesse di quest'ultima». 
    Peraltro, il legislatore, in un contesto storico  in  cui  ancora
«il lavoro di cura era culturalmente prerogativa della  madre-donna»,
avrebbe «scelto di non realizzare una esatta parificazione tra i  due
sessi, attribuendo al padre un ruolo di mera supplenza rispetto  alla
madre». 
    Tale scelta normativa risulterebbe oggi inadeguata rispetto  alle
recenti acquisizioni della  letteratura  scientifica,  che  avrebbero
«messo in discussione l'assunto per  cui  le  funzioni  dei  genitori
siano biologicamente determinate in ragione del genere  del  soggetto
accudente». Se e' pur vero, afferma il  giudice  a  quo,  «che  nella
maggior parte delle societa' umane in genere e' una donna  -  ma  non
sempre la madre biologica - o un gruppo di  donne  ad  occuparsi  dei
bambini, si sono registrate anche opzioni sociali differenti, in  cui
il ruolo di cura della prole (parenting) e' o  affidato  direttamente
al padre (raramente) o modellato su una cooperazione tra i  genitori,
fino  a  forme  di   intercambiabilita'   diffusa   tra   le   figure
genitoriali». Sebbene «non possa negarsi che  la  madre  puo'  avere,
quantomeno in una fase iniziale dello sviluppo del bambino, un  ruolo
di cura primario, legato prevalentemente  all'allattamento  al  seno,
successivamente le differenze nel  rapporto  di  interazione  tra  le
figure  genitoriali  e  la  prole»   sarebbero   «piu'   propriamente
condizionate  da  condizioni  ecologiche   [...]   e   da   costrutti
sociali-ambientali, piuttosto che dal sesso del genitore». 
    Gli studi piu' recenti evidenzierebbero inoltre  che  «l'ambiente
piu' confacente all'armonico sviluppo della personalita'  del  minore
e' quello in cui si realizza il cosiddetto coparenting, vale  a  dire
la   cooperazione   tra   i   ruoli   genitoriali    fondata    sulla
intercambiabilita' e condivisione del ruolo di cura, piuttosto che su
una rigida separazione di funzioni fondata sul genere». 
    Tali acquisizioni avrebbero trovato  riconoscimento  normativo  -
nel diritto di famiglia italiano e, a livello  sovranazionale,  nella
Convenzione  sui  diritti  del  fanciullo  del  1989   -   attraverso
l'affermazione  di  un  «generale  diritto  del  minore   alla   c.d.
bigenitorialita'», quale corollario del dovere di entrambi i genitori
di garantire cura ed educazione alla prole. 
    Importanti  statuizioni  di  principio   potrebbero   trarsi   in
proposito  dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, secondo la  quale  ogni  differenziazione  di  trattamento
sulla base del sesso deve essere sorretta da ragioni  particolarmente
pregnanti, non risultando sufficienti, in  particolare,  «riferimenti
alle  tradizioni,  ad  assunti  generali  o  ad  attitudini   sociali
prevalenti in un dato paese» (sono citate Corte EDU,  terza  sezione,
sentenza 19 marzo 2024, B.T.  contro  Russia,  paragrafo  38;  grande
camera, sentenze 11 ottobre 2022, Beeler contro  Svizzera,  paragrafo
113 e 22 marzo 2012, Konstantin Markin contro Russia, paragrafo 127). 
    Alla luce di tutto cio',  dovrebbe  ritenersi  che  «la  inesatta
parificazione del padre e della madre  detenuti  per  l'accesso  alla
detenzione  domiciliare  speciale  sia  il  frutto  di   una   scelta
intrinsecamente irragionevole e fondata su una  tradizione  culturale
priva di effettivo portato empirico». In assenza di pericoli  per  la
collettivita',  «un'esecuzione  penale  esterna   che   mediante   il
ripristino della convivenza con il figlio bisognoso di cura  consenta
l'esercizio  della  genitorialita'»  sarebbe  in  via  generale   «da
ritenersi   costituzionalmente   preferibile   ad   una    esecuzione
inframuraria che, irragionevolmente, sacrifichi la tutela della prole
in eta' di sviluppo e  dei  soggetti  affetti  da  handicap».  In  un
siffatto contesto,  una  «differenziazione  uomo-donna»  risulterebbe
«ingiustificata rispetto all'oggetto di tutela», dal momento  che  la
figura maschile e quella femminile sarebbero  entrambe  adeguatamente
in grado di assolvere al ruolo genitoriale. 
    La disposizione censurata si porrebbe, cosi',  in  contrasto  con
l'art.  3,  secondo  comma  (recte:  primo  comma),  Cost.,   poiche'
disciplinerebbe «situazioni che  si  ritengono  equivalenti  in  modo
diseguale». 
    Essa violerebbe inoltre gli artt. 29, 30  e  31,  secondo  comma,
Cost., in quanto la  previsione  di  favore  da  essa  stabilita  non
sarebbe  giustificabile  rispetto  alle  esigenze  di  tutela   della
famiglia, della genitorialita' e della parita' tra  coniugi-genitori,
nonche' della protezione della gioventu'. 
    In particolare, effetti discriminatori  si  verificherebbero  nei
confronti della madre-lavoratrice, la quale,  in  assenza  del  padre
detenuto, dovrebbe farsi carico tanto della cura della  prole  quanto
del mantenimento economico della famiglia, sacrificando eventualmente
la propria capacita' lavorativa; mentre il  padre-lavoratore  non  si
troverebbe  mai  in  questa   situazione,   potendo   contare   sulla
concessione della misura alternativa per la madre detenuta. 
    Sarebbe altresi' violato l'art. 2 Cost., «laddove si  considerino
gli effetti della disciplina in esame in  relazione  alle  cosiddette
famiglie di fatto o omogenitoriali»,  la  cui  tutela  sarebbe  stata
ricondotta da questa Corte «nell'alveo di quelle  formazioni  sociali
in cui si esplica la personalita' degli individui». In particolare, i
figli di una unione civile tra due uomini sarebbero irragionevolmente
sottoposti ad una disciplina deteriore di quella riservata  ai  figli
di una unione civile tra due  donne,  risultando  qui  «residuale  la
possibilita' per i  figli  della  coppia  di  avere  la  presenza  di
entrambi i genitori». 
    Infine, per il tramite dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  la
disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 8 e  14
CEDU,  cosi'  come  interpretati  dalla  Corte   EDU   nella   citata
giurisprudenza. 
    1.3.- A fronte della denunciata irragionevolezza del  trattamento
differenziato   tra   madre   e   padre,   due   opzioni    sarebbero
«normativamente praticabili  e  ragionevoli  costituzionalmente»:  «o
omologare la condizione della madre a quella del padre, valutando  se
l'assenza del genitore donna pregiudichi in concreto lo sviluppo  dei
figli a fronte della presenza dell'altro partner uomo o di  terzi  in
grado di assicurare assistenza; o (ed e' quel  che  qui  si  auspica)
parificare la condizione del padre a quella della  madre,  garantendo
il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori, laddove
non  sussistano,  in  concreto,  pericoli  per  la  collettivita'   e
consentendo di tutelare massimamente l'interesse di cura della  prole
di cui all'art. 31 c. 2 della Carta Costituzionale». 
    La prima opzione comporterebbe una pronuncia  additiva  in  malam
partem  da  parte  di  questa  Corte  in  materia  penale,  cio'  che
renderebbe manifestamente  inammissibili  le  questioni  prospettate.
Sarebbe  invece  «preferibile  e  costituzionalmente  vincolata»   la
seconda   opzione,   che   garantirebbe   la    massima    espansione
dell'interesse alla  tutela  della  prole,  salvaguardando  al  tempo
stesso la sicurezza  della  collettivita'  e  gli  interessi  sottesi
all'esecuzione della pena. 
    1.4.-  Le  questioni  di  legittimita'  costituzionale   indicate
sarebbero  rilevanti  ai  fini  della   decisione   sull'istanza   di
detenzione domiciliare speciale, a prescindere dall'accertamento  nel
caso di specie degli altri requisiti a tal fine necessari. Cio' sulla
base della considerazione che la decisione di accoglimento di  questa
Corte influirebbe quantomeno sull'iter argomentativo della  decisione
sull'istanza del ricorrente. 
    Ad ogni modo, il giudice a quo segnala che  l'istruttoria  svolta
suggerisce l'effettiva ricorrenza delle condizioni ulteriori  per  la
concessione della misura in esame,  in  caso  di  accoglimento  delle
questioni di legittimita' costituzionale. 
    1.5.-  In  via  subordinata,  il  giudice  a  quo   solleva,   in
riferimento  ai  medesimi  parametri,   questioni   di   legittimita'
costituzionale sul solo frammento della disposizione  censurata  che,
in caso  di  decesso  o  impossibilita'  della  madre,  subordina  la
concessione della misura al padre alla condizione che non vi sia modo
di affidare la prole a persone diverse da quest'ultimo. 
    Tale previsione frusterebbe irragionevolmente il ruolo del padre,
«attribuendogli  rilevanza  solo  quale   extrema   ratio   normativa
nell'affidamento dei figli». 
    Essa sarebbe, inoltre, distonica rispetto ad  altre  disposizioni
assunte a tertia comparationis, quali l'art. 47-ter, comma 1, lettera
b), ordin. penit.,  che  consente  la  concessione  della  detenzione
domiciliare "ordinaria" al padre laddove  la  madre  sia  deceduta  o
altrimenti  assolutamente  impossibilitata  a  dare  assistenza  alla
prole, e l'art. 275, comma 4, del  codice  di  procedura  penale,  il
quale, in presenza di  tale  condizione,  esclude  che  possa  essere
disposta la custodia cautelare in carcere nei  confronti  del  padre,
salvo che sussistano esigenze  cautelari  di  eccezionale  rilevanza.
Nessuna delle due disposizioni richiede la dimostrazione dell'assenza
di terze persone in grado di prendersi cura dei minori. 
    Ne' si potrebbe  sostenere  che  il  piu'  restrittivo  requisito
previsto dalla  disposizione  censurata  valga  a  «controbilanciare»
l'assenza di limiti  di  pena  per  l'accesso  alla  misura  da  essa
prevista, diversamente  da  quanto  avviene  per  la  misura  di  cui
all'art. 47-ter ordin. penit. Infatti, «prevedere che, nonostante  il
padre risulti non pericoloso e possa eseguire all'esterno la  propria
pena, il suo ruolo di cura venga  postergato  a  quello  fornito  dai
terzi» costituirebbe «scelta illogica che  sacrifica  sull'altare  di
esigenze  securitarie  astratte  il   rapporto   genitoriale   contro
l'interesse del padre (con lesione degli artt. 3  c.  2  e  30  Cost.
rispetto alla madre) e del minore-figlio (con lesione dell'art. 31 c.
2 Cost.)». La stessa giurisprudenza di  legittimita'  sull'art.  275,
comma 4, cod. proc. pen. avrebbe,  del  resto,  sottolineato  che  la
legge non ha riconosciuto una funzione sostitutiva  a  terze  persone
rispetto al ruolo del  padre,  «considerato  che  la  formazione  del
bambino puo'  essere  gravemente  pregiudicata  dall'assenza  di  una
figura genitoriale, la cui infungibilita' deve,  pertanto,  fin  dove
possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia  che
l'articolo  31  Cost.  accorda  all'infanzia»  (e'  citata  Corte  di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 30 aprile-4  luglio  2014,
n. 29355). 
    Nel  caso,  infine,  in  cui  fossero  accolte  le  questioni  di
legittimita'  costituzionale  sollevate  in   via   subordinata,   il
rimettente sottopone all'attenzione di questa Corte l'opportunita' di
una declaratoria di illegittimita' costituzionale consequenziale,  ex
art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione  e
sul funzionamento  della  Corte  costituzionale),  dell'art.  21-bis,
comma  3,  ordin.  penit.,  che  -  nel   disciplinare   l'assistenza
all'esterno dei figli  minori  -  prevede  la  medesima  limitazione,
esponendosi cosi' alle stesse censure prospettate con  riguardo  alla
disposizione censurata. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  o,
comunque, infondate. 
    2.1.- L'Avvocatura generale dello Stato ritiene, in primo  luogo,
che le questioni di legittimita' costituzionale siano  inammissibili,
in quanto irrilevanti o, comunque, in  ragione  della  «insufficiente
descrizione della fattispecie di incostituzionalita'». 
    L'ordinanza  non  chiarirebbe,  in  particolare,  «se   dopo   la
detenzione del padre il Tribunale per i minorenni  abbia  formalmente
disposto l'affidamento dei minori alla sorella o  se  allo  stato  si
tratti di affidamento in  via  di  mero  fatto»;  ne'  il  rimettente
avrebbe verificato «se non sia adesso possibile,  nella  sopravvenuta
indisponibilita' del padre, affidare i minori alla madre». 
    La   questione   di   legittimita'   costituzionale,   «sollevata
nell'ottica specifica di tutela del superiore interesse della prole a
godere della presenza dei genitori», sarebbe poi  «priva  di  ragione
perche' irrilevante», potendo la madre occuparsi della  crescita  dei
figli, come riconosciuto dal Tribunale per i minorenni. 
    Inammissibili  sarebbero,  in  secondo  luogo,  le  questioni  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  21-bis  ordin.  penit.,   da
dichiararsi   fondate   con   una   pronuncia    di    illegittimita'
costituzionale  consequenziale,  in  quanto  tale  disposizione   non
sarebbe  avvinta   a   quella   censurata   da   alcun   vincolo   di
consequenzialita', disciplinando un istituto del tutto differente  da
quello ora in esame. 
    2.2.- Nel  merito,  le  questioni  sollevate  in  via  principale
sarebbero comunque infondate. 
    Non  potrebbe  infatti  ritenersi  irragionevole  la   differente
considerazione della posizione della madre e del padre nei  confronti
dei figli minori, posta a fondamento della generale preferenza per la
madre espressa nella disposizione censurata, come riconosciuto  dalla
sentenza n. 219 del 2023 di questa Corte pronunciando sulle  analoghe
censure formulate con riguardo all'art. 47-ter, comma 1, lettera  b),
ordin. penit. 
    Parimenti  infondata  sarebbe  la  questione  sollevata  in   via
subordinata. 
    In  particolare,  non  sarebbe   irragionevole   la   riscontrata
differenza di disciplina tra  la  disposizione  censurata  e  le  due
disposizioni assunte a tertia comparationis.  Con  riguardo  all'art.
47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., non potrebbe non  tenersi
conto della minore pericolosita' del soggetto  condannato  desumibile
dai limiti di pena massima previsti per l'applicazione  della  misura
contemplata da tale disposizione; mentre con riguardo  all'art.  275,
comma 4, cod. proc. pen. non potrebbe trascurarsi la circostanza  che
la norma non attenga all'espiazione della pena,  ma  all'applicazione
di una misura cautelare. 
    3.- Ai sensi dell'art. 6 delle Norme integrative  per  i  giudizi
davanti  alla  Corte  costituzionale,  l'Associazione  italiana   dei
professori  di  diritto  penale  (AIPDP)  ha  depositato  un'opinione
scritta  in  qualita'  di  amicus   curiae,   ammessa   con   decreto
presidenziale del 17 gennaio 2025. 
    L'AIPDP  condivide  integralmente   i   dubbi   di   legittimita'
costituzionale sollevati dal giudice  rimettente,  ritenendo  che  la
disposizione   censurata   determini   una    differenziazione    non
giustificabile tra i ruoli  genitoriali  fondata  esclusivamente  sul
genere. Tale disposizione  si  fonderebbe  su  una  concezione  ormai
anacronistica e contraria alle recenti acquisizioni della letteratura
scientifica, muovendo dall'insostenibile presupposto secondo  cui  il
padre  svolgerebbe  un  ruolo  meramente   subalterno   e   residuale
nell'accudimento e nella crescita della prole, anche «nelle  fasi  di
sviluppo successive a quella neo-natale». Essa si  porrebbe  pertanto
in   conflitto   con   il   principio   di   uguaglianza,    ritenuto
«incomprimibile» e  dunque  non  bilanciabile  con  altri  interessi,
individuali o collettivi. 
    L'opinione si sofferma inoltre sulle conseguenze  in  termini  di
discriminazione  economica  in  base  al   genere   derivanti   dalla
disciplina in esame cosi' come interpretata dalla giurisprudenza,  la
quale esclude in particolare che l'attivita' lavorativa  della  madre
possa integrare una situazione di  impossibilita'  nella  cura  della
prole. La madre che non possa contare sul supporto nella  cura  della
prole da  parte  del  padre  detenuto  sarebbe  di  fatto  indotta  a
sacrificare la propria  attivita'  lavorativa,  abbandonando  il  suo
impegno lavorativo ovvero riducendo gli orari di  lavoro,  in  favore
degli impegni familiari. Cio' rischierebbe di «acuire il  gender  gap
lavorativo in un contesto in cui il nostro Paese gia' rappresenta  il
fanalino di coda nelle classifiche UE per  il  piu'  basso  tasso  di
occupazione delle donne». 
    Fondate  sarebbero,  poi,  anche  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale sollevate in via subordinata.  L'irragionevolezza  del
frammento di disposizione censurato emergerebbe  in  particolare  dal
raffronto con l'art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.,  che
non contiene l'inciso «e non vi e' modo di affidare la prole ad altri
che al padre». Tale requisito non potrebbe  «trovare  giustificazione
nell'ottica del bilanciamento, interno all'opzione normativa,  tra  i
diversi  interessi  in  gioco».  La  preferenza  accordata  ai  terzi
nell'accudimento della  prole  apparirebbe,  infatti,  ingiustificata
tanto rispetto alle esigenze di  tutela  della  prole,  che  verrebbe
privata dell'assistenza e dell'affetto di entrambi i genitori, quanto
con riguardo alle esigenze di difesa  sociale,  dal  momento  che  la
misura potrebbe comunque applicarsi solo  laddove  «non  sussiste  un
concreto pericolo di commissione di  ulteriori  delitti».  La  scelta
legislativa, dunque, non potrebbe spiegarsi se non con la volonta' di
«assicurare, ad ogni costo,  l'esecuzione  intramuraria  della  pena,
ritenuta evidentemente quella in grado di soddisfare maggiormente  la
pretesa punitiva dello Stato». 
    4.- Con ordinanza del 26 settembre 2024 (iscritta al n.  197  del
reg. ord. 2024), il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato
questioni  di   legittimita'   costituzionale   del   medesimo   art.
47-quinquies, comma 7, ordin. penit., in riferimento agli artt. 2, 3,
27, terzo comma, 29, 30, 31 e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo
in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, «nella parte in cui prevede  che
ai detenuti padri puo'  essere  concessa  la  detenzione  domiciliare
speciale solo "se la madre e' deceduta o impossibilitata e non vi  e'
modo di affidare la prole ad altri che al padre"». 
    4.1.-  Il  rimettente  deve   provvedere   sulla   richiesta   di
concessione della detenzione domiciliare  speciale  di  cui  all'art.
47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit. formulata  da  D.  M.G.,
detenuto presso la casa circondariale di Vicenza per scontare la pena
di undici anni, un mese e quindici giorni di  reclusione,  risultante
dal cumulo di due distinte sentenze di condanna per vari reati, tra i
quali associazione a delinquere, furto, rapina e ricettazione. 
    Il richiedente, che ha gia' fruito di permessi di  necessita'  ex
art. 30 ordin. penit. e di visite al minore infermo ex  art.  21-ter,
comma 1, ordin. penit., ha un figlio  minore  in  una  situazione  di
grave disabilita', con necessita' di continua assistenza, dovuta a un
trauma cranico commotivo riportato a  seguito  di  un  incidente.  Il
bambino  e'  «alimentato  tramite   PEG,   comunica   attraverso   le
espressioni del volto e il pianto, usa tutori per gamba e piede e  il
bustino; subisce periodici ricoveri e visite specialistiche e la  sua
situazione e' ad oggi descritta dai sanitari come  caratterizzata  da
cronicita',   irreversibilita'    e    progressiva    degenerazione».
Dall'indagine socio-familiare  condotta  dall'ufficio  di  esecuzione
penale esterna (UEPE)  emerge  altresi'  come  la  madre  del  minore
attualmente  si   occupi   da   sola   del   bambino,   non   essendo
significativamente supportata ne' dalla propria famiglia di  origine,
ne' da quella del marito. La madre riferisce inoltre come il  recente
peggioramento delle condizioni  del  bambino  ne  renda  sempre  piu'
difficoltosa la gestione, anche in relazione alle sue frequenti crisi
respiratorie; e sottolinea come il marito nel corso delle  esperienze
premiali  abbia  «dimostrato  una   capacita'   di   gestione   della
responsabilita' genitoriale che permett[e] a lei di  riposarsi  anche
solo per qualche ora». La documentazione medica acquisita conferma il
complessivo recente peggioramento  delle  condizioni  di  salute  del
bambino,  che  renderebbe  indicata  una   terapia   antalgica   piu'
aggressiva, rispetto alla  quale  la  madre  ha  espresso  obiezioni,
mentre il padre appare comprenderne la necessita'. 
    Il giudice a quo evidenzia poi come la condotta intramuraria  del
richiedente appaia complessivamente corretta e caratterizzata da  una
positiva partecipazione alle  attivita'  trattamentali  e  al  lavoro
presso la cucina dell'istituto; parimenti, la sua condotta durante  i
permessi speciali di cui ha  sin  qui  fruito  risulta  essere  stata
corretta. 
    Quanto ai presupposti per la concessione del beneficio richiesto,
il rimettente osserva che il detenuto istante non ha  ancora  espiato
un terzo  della  pena,  cio'  che  rende  inapplicabile  il  comma  1
dell'art. 47-quinquies ordin. penit. Tuttavia, il comma  1-bis  della
medesima disposizione, in combinato disposto con il successivo  comma
7, consente anche ai padri condannati per reati di cui all'art. 4-bis
ordin. penit. (come nel caso del richiedente) l'accesso  alla  misura
alternativa, laddove non sussista un concreto pericolo di commissione
di ulteriori delitti o di fuga: pericoli che il giudice a quo ritiene
non sussistenti nel caso in esame, anche alla luce  dei  benefici  di
cui il richiedente ha gia'  fruito  in  passato.  Apparirebbe  dunque
possibile, sotto questo profilo, un ripristino della  convivenza  tra
padre e figlio, «potendo senz'altro la vicinanza della figura paterna
avere effetti positivi quantomeno a  livello  emotivo-sensoriale  del
bambino». 
    Non  costituirebbe  ostacolo  a  una  tale  soluzione   la   pena
accessoria della  sospensione  dall'esercizio  della  responsabilita'
genitoriale applicata in una delle due sentenze  in  esecuzione,  dal
momento che, ai sensi dell'art. 7 della legge 8  marzo  2001,  n.  40
(Misure  alternative  alla  detenzione  a  tutela  del  rapporto  tra
detenute e figli minori), l'applicazione  di  un  beneficio  previsto
dalla legge determina, per il tempo in cui lo stesso e' applicato, la
sospensione della pena accessoria. Ove dunque il giudice ritenga che,
come nel caso all'esame, il ripristino della convivenza tra  genitore
e minore sia  effettivamente  funzionale  alla  tutela  dei  migliori
interessi  del  minore,  la  pena  accessoria  dovrebbe  considerarsi
sospesa. Anche in assenza della previsione di cui  all'art.  7  della
legge n. 40 del 2001, peraltro, la pena accessoria non farebbe  venir
meno il generale dovere di cura verso i figli in capo al genitore. 
    A  impedire,  pero',  la  concessione  del  beneficio   richiesto
starebbe la condizione, stabilita dal comma 7 dell'art.  47-quinquies
ordin.   penit.   per   i   condannati   padri,   del    decesso    o
dell'impossibilita' della madre, e del non esservi modo  di  affidare
la prole ad altri che al  padre.  E  cio'  anche  in  relazione  alla
interpretazione di tale requisito da parte  della  giurisprudenza  di
legittimita', secondo  cui  il  requisito  dell'impossibilita'  della
madre  andrebbe  inteso  in  senso  oggettivo,   in   una   accezione
equivalente alla «impossibilita' assoluta» di accudire il figlio  (e'
citata  Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  sentenza  19
dicembre  2017-5  giugno  2018,  n.  25164),  non   integrata   dalla
circostanza del mero impegno lavorativo della  madre  (e'  richiamata
Corte di cassazione,  sezione  prima  penale,  sentenza  15  marzo-12
settembre  2016,  n.  37859)  e  identificabile  piuttosto   in   una
situazione che «determina il rischio concreto  per  la  prole  di  un
grave deficit assistenziale e di un'irreversibile compromissione  del
suo processo evolutivo ed educativo» (e' citata Corte di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 10 dicembre 2020-8 febbraio  2021,  n.
4796). 
    La disposizione in esame considererebbe, dunque,  il  padre  come
«fruitore del beneficio solo  in  funzione  "vicaria"  rispetto  alla
madre,  ritenuta  dal  legislatore  come  il  genitore   maggiormente
"votato" alla cura dei figli in tenera eta' o disabili». 
    4.2.- Il giudice  a  quo  dubita,  tuttavia,  della  legittimita'
costituzionale di tale disposizione. 
    Il  rimettente  rammenta  che  questa  Corte  si  e'  di  recente
pronunciata, con la sentenza n. 219 del 2023, sulla disciplina  della
detenzione domiciliare ordinaria di cui  all'art.  47-ter,  comma  1,
lettere a) e b), ordin. penit., giudicando non fondate  le  questioni
di legittimita' costituzionale allora  sollevate.  Tuttavia,  osserva
come in quell'occasione venissero in considerazione i soli  interessi
del minore a una relazione  continuativa  con  entrambi  i  genitori,
ritenuti  non  necessariamente  prevalenti  rispetto  alle   esigenze
sottese  alla  esecuzione  della  pena,  non  essendo  stata   invece
censurata la disciplina «in relazione alla diversa considerazione dei
diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli  che  fanno
capo alla madre», ne'  essendo  stata  sollevata  «una  questione  di
discriminazione in base al  sesso  tra  le  due  figure  genitoriali,
rispetto all'accesso a misure alternative alla detenzione».  Profili,
entrambi, che il giudice a quo intende ora sottoporre  all'attenzione
di questa Corte. 
    Ad avviso  del  rimettente,  la  disposizione  censurata  sarebbe
viziata  in  effetti  da  una  «impostazione  discriminatoria»,   che
assegnerebbe alla madre «l'indefettibile ruolo di  genitore  deputato
alla cura della prole», e al padre  «un  ruolo  meramente  vicario  e
subalterno, addirittura rispetto anche  ad  altre  "terze"  persone».
Tale discriminazione si  tradurrebbe,  d'altra  parte,  anche  in  un
«vulnus  alla  tutela  del  minore  (non  sotto  il   profilo   della
bigenitorialita') ma sotto il profilo educativo  e  assistenziale  in
se', posto che egli di fatto potra' fruire dell'unica figura  materna
- vulnus che si amplifica solo a considerare le  ipotesi  in  cui  vi
siano piu' figli minori da accudire». 
    Violato sarebbe, anzitutto, il principio dell'eguaglianza  morale
e giuridica tra i  coniugi  di  cui  all'art.  29  Cost.  Dopo  avere
brevemente    ripercorso    l'evoluzione     della     giurisprudenza
costituzionale in  materia,  il  rimettente  osserva  come  il  ruolo
genitoriale, di madre e di padre, dovrebbe oggi ritenersi parificato,
nel senso di possibilita' di accesso  di  entrambi  i  genitori  alle
misure che nei vari settori  dell'ordinamento  mirano  ad  assicurare
l'effettivita' dei rapporti con i figli. 
    La  differente  disciplina  dettata  in  materia  di   detenzione
domiciliare  speciale  si   tradurrebbe   cosi'   in   una   «duplice
discriminazione: ai danni della donna in quanto, come madre, le viene
attribuito un ruolo primario ed indispensabile anche  a  scapito  del
rispetto del suo essere come  donna  o  in  generale  come  "persona"
(pretendendosene di fatto un  annullamento  in  nome  della  cura  ed
assistenza alla prole), ma altresi' ai  danni  del  padre  poche'  la
norma ne ritaglia un ruolo vicario e suppletivo,  anziche'  paritario
ed autonomo». 
    Una simile  disciplina  sarebbe  basata  su  «dati  e  tradizioni
culturali»  che  non  sarebbero  piu'  giustificabili  di  fronte  ai
mutamenti sociali che hanno interessato l'ambito familiare. 
    Da  cio'  deriverebbe  altresi'  il  contrasto  della  disciplina
medesima con l'art. 3, secondo comma  (recte:  primo  comma),  Cost.,
«posta la palese violazione dell'uguaglianza tra persone  in  ragione
del sesso di appartenenza», nonche' con l'art. 2 «volendo  riguardare
alla parita' tra le persone da riconoscersi anche  nell'ambito  delle
formazioni sociali oltre che nell'ambito del rapporto coniugale (art.
29 Cost.)». 
    La disciplina censurata sarebbe, altresi', incompatibile con  gli
artt. 30 e 31 Cost., per le ragioni gia' evidenziate  dalla  sentenza
n. 215 del 1990 di questa Corte, con la  quale  fu  esteso  anche  al
padre -  nel  caso  in  cui  la  madre  manchi  o  sia  assolutamente
impossibilitata ad espletare il  compito  di  cura  e  assistenza  al
minore - l'accesso alla misura della  detenzione  domiciliare  allora
prevista dall'art. 47-ter, primo comma, numero 1), ordin. penit. 
    In definitiva, la mancata parita' di condizioni di  accesso  alla
misura violerebbe, al contempo, «l'uguaglianza tra uomo e  donna,  la
parita' tra i genitori e lo stesso interesse primario del minore». 
    La disposizione sarebbe, inoltre, incompatibile con  l'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14  CEDU,  stabilendo
una ingiustificata «differenziazione  del  trattamento  normativo  in
base al sesso» (sono citate  le  sentenze  Konstantin  Markin  contro
Russia,  paragrafo  127;  Beeler  contro  Svizzera,  paragrafi  93  e
seguenti; B.T. contro Russia, paragrafi 40 e  seguenti),  anche  alla
luce dell'art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull'eliminazione di
ogni forma di discriminazione nei confronti della donna,  adottata  a
New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva  con  legge
14 marzo 1985, n. 132, a tenore  del  quale  «[l]'adozione  da  parte
degli Stati di misure speciali, comprese  le  misure  previste  dalla
presente Convenzione, tendenti a  proteggere  la  maternita'  non  e'
considerato un atto discriminatorio». 
    Il rimettente da' conto, peraltro, di talune pronunce con cui  la
Corte EDU non ha ritenuto sussistere una violazione dell'art. 14 CEDU
in materia di  discriminazioni  tra  uomo  e  donna  nel  trattamento
sanzionatorio e penitenziario (sono citate Corte EDU, grande  camera,
sentenza 24  gennaio  2017,  Khamtokhu  e  Aksenchik  contro  Russia;
sezione quarta, sentenza 3  ottobre  2017,  Alexandru  Enache  contro
Romania; sezione  quinta,  sentenza  10  gennaio  2019,  Ēcis  contro
Lettonia), ma osserva come nel caso all'esame si discute  non  di  un
bambino in tenerissima eta', specialmente bisognoso delle cure  della
madre, ma di un «minore afflitto da grave disabilita' rispetto a  cui
il ruolo genitoriale appare del tutto intercambiabile». 
    Infine, sarebbero violati il principio di ragionevolezza ex  art.
3 Cost. e il principio della funzione rieducativa della pena  di  cui
all'art.  27,  terzo  comma,  Cost.  -   «funzione   a   cui   devono
evidentemente tendere in generale anche le  misure  alternative  alla
pena e dunque anche l'art. 47 quinquies co. 7 o.p., e che non sarebbe
realizzata negando al padre detenuto l'accesso alla misura, ponendosi
cio' anzi in termini  tutt'altro  che  rieducativi,  perpetrando  una
concezione oggi non piu' accettabile (ne' rispondente  alla  realta')
dei ruoli sociali e all'interno della famiglia (lato sensu intesa)». 
    La  disposizione  censurata  sarebbe  dunque   costituzionalmente
illegittima tanto con riferimento all'inciso «se la madre e' deceduta
o impossibilitata»; quanto con riferimento all'inciso  successivo  «e
non vi e' modo di affidare la prole  ad  altri  che  al  padre»,  che
«assegna al  ruolo  di  padre-genitore  una  posizione  assolutamente
marginale e  residuale»,  con  scelta  distonica  rispetto  a  quella
compiuta, ad esempio, dall'art. 275, comma 4, cod.  proc.  pen.,  che
non  contempla  una  simile  condizione  rispetto   al   divieto   di
applicazione della custodia cautelare in carcere  nei  confronti  del
padre, salvo  il  ricorrere  di  esigenze  cautelari  di  eccezionale
rilevanza, in caso di assoluta impossibilita' della madre a prendersi
cura dei figli. 
    5.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate  inammissibili  o,
comunque, infondate. 
    5.1.- L'Avvocatura  generale  dello  Stato  eccepisce,  in  primo
luogo, il difetto di rilevanza delle questioni. 
    La  situazione  familiare  del  detenuto  istante  sarebbe  stata
ricostruita  dal   rimettente   «con   dettagli   alquanto   scarsi»,
sufficienti peraltro a escludere la  ricorrenza  del  presupposto  di
applicazione della disposizione censurata, e  cioe'  l'impossibilita'
in  concreto  di  affidamento  della  prole  alla  madre.   Da   cio'
deriverebbe l'irrilevanza  della  questione,  «posto  che  il  minore
fruisce in atto dell'assistenza della madre, oltre  che  dei  presidi
medico-sanitari messi a disposizione dal SSN», sicche'  «la  funzione
della norma censurata,  di  tutelare  il  superiore  interesse  della
prole» sarebbe gia' adeguatamente assolta. 
    5.2.- Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente  infondate
nel merito. 
    Nel caso in cui «difettino i presupposti  di  applicazione  della
norma», «l'interesse collettivo all'esecuzione della  sanzione,  come
presidio di difesa sociale», non potrebbe  soccombere  di  fronte  ai
concorrenti interessi individuati  dal  giudice  rimettente,  dovendo
trovare conferma quanto affermato da questa Corte nella  sentenza  n.
219 del 2023 con riferimento all'interesse  del  minore.  Invero  gli
altri valori costituzionali richiamati  dall'ordinanza  sarebbero  di
rango inferiore rispetto a quest'ultimo.  La  disposizione  censurata
mostrerebbe «una evidente e indiscutibile razionalita'» nel  limitare
l'accesso alla detenzione domiciliare speciale soltanto ai  casi  nei
quali essa sia imposta «da una necessita' davvero insuperabile»,  che
sola sarebbe in grado di «rendere recessiva l'altrettanto  necessaria
esecuzione della pena per le sue forme proprie». 
    Quanto al profilo - «l'unico [...] potenzialmente  meritevole  di
piu' attenta valutazione» -  del  trattamento  differenziato  tra  il
genitore di sesso maschile e quello di sesso femminile, esso  non  si
connoterebbe   di   alcuna   irragionevolezza,   per   le    medesime
considerazioni, trasponibili al caso di specie, gia' spese da  questa
Corte nella menzionata sentenza n. 219 del 2023. 
    Infondate sarebbero, infine, le censure  relative  all'inciso  «e
non vi e' modo di affidare la  prole  ad  altri  che  al  padre».  La
previsione di un trattamento di maggior favore per la detenuta  madre
sarebbe giustificata dal contesto normativo di rango  internazionale,
evocato dalla precedente sentenza di questa Corte, «che per la  madre
pretende una maggior tutela e che legittima anche il  sacrificio  del
valore di rango costituzionale [de]ll'esecuzione della sanzione, come
strumento di difesa sociale». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza iscritta al n. 174 del  reg.  ord.  2024,  il
Tribunale di  sorveglianza  di  Bologna  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 47-quinquies, comma  7,  ordin.
penit., con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, secondo comma, e
117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e  14
CEDU, nella parte  in  cui  prevede  che  la  detenzione  domiciliare
sostitutiva puo' essere concessa al padre detenuto  soltanto  «se  la
madre e' deceduta o impossibilitata e non vi e' modo di  affidare  la
prole ad altri che al padre». 
    In via subordinata, il rimettente solleva identiche questioni sul
solo inciso «e non vi e' modo di affidare la prole ad  altri  che  al
padre». 
    2.- Con l'ordinanza iscritta al n. 197 del  reg.  ord.  2024,  il
Tribunale di  sorveglianza  di  Venezia  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale del medesimo art. 47-quinquies, comma  7,
ordin. penit. in riferimento agli artt. 2, 3, 27,  terzo  comma,  29,
30, 31 e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  agli
artt. 8 e 14 CEDU, nella parte  in  cui  prevede  che  la  detenzione
domiciliare puo' essere concessa al padre detenuto  soltanto  «se  la
madre e' deceduta o impossibilitata e non vi e' modo di  affidare  la
prole ad altri che al padre». 
    3.-  I  due  giudizi  concernono  questioni   in   larga   misura
sovrapponibili e meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini  della
decisione. 
    Entrambi i rimettenti si  dolgono,  in  sintesi,  del  differente
trattamento  del  padre  e  della  madre  condannati,   quanto   alle
condizioni  di  accesso  alla  misura  alternativa  della  detenzione
domiciliare speciale. Tale misura e' prevista dall'art.  47-quinquies
ordin. penit. per i genitori condannati che non possano fruire  della
detenzione domiciliare "ordinaria" ai sensi dell'art.  47-ter,  comma
1, lettere a) e b), ordin. penit., la quale e'  invece  riservata  ai
condannati che espiino una pena detentiva  non  superiore  a  quattro
anni, anche se costituente parte residua di maggior pena. 
    Le condannate madri di figli di eta' non superiore a dieci  anni,
ovvero gravemente disabili, possono essere ammesse alla  misura,  una
volta scontato almeno un terzo della pena ovvero  quindici  anni  nel
caso di condanna all'ergastolo, «se non sussiste un concreto pericolo
di commissione di ulteriori delitti» (comma 1); ovvero anche prima di
tale termine, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di
ulteriori delitti o di fuga» (comma 1-bis). 
    Il padre condannato puo', invece, essere ammesso alla  misura  ai
sensi del censurato comma 7, in presenza  delle  condizioni  indicate
nei commi 1 e 1-bis (comuni alle condannate madri), soltanto  «se  la
madre e' deceduta o impossibilitata e non vi e' modo di  affidare  la
prole ad altri che al padre». 
    I due giudici a  quibus  sollecitano  questa  Corte  a  eliminare
quest'ultimo inciso, equiparando cosi' le condizioni di accesso  alla
misura per i detenuti padri e madri. 
    Secondo i rimettenti, l'attuale disciplina violerebbe: 
    - il principio di pari dignita' e  di  uguaglianza  davanti  alla
legge senza distinzione di sesso (art. 3,  primo  comma,  Cost.),  il
divieto di  discriminazione  fondato  sul  sesso  nel  godimento  del
diritto alla vita familiare (artt.  8  e  14  CEDU,  per  il  tramite
dell'art. 117, primo comma,  Cost.),  il  principio  dell'uguaglianza
morale e giuridica tra i coniugi (art.  29,  secondo  comma,  Cost.),
nonche' il  principio  di  parita'  di  trattamento  delle  parti  di
formazioni sociali diverse dal matrimonio, che troverebbe il  proprio
fondamento nell'art. 2 Cost.; 
    - il principio  dell'interesse  primario  del  minore  desumibile
dagli artt. 30 e 31 Cost., e in particolare - secondo il Tribunale di
sorveglianza di Bologna -  il  diritto  del  minore  alla  cosiddetta
"bigenitorialita'",  quale  corollario  del  dovere  di  entrambi   i
genitori di garantire cura ed educazione alla prole; 
    -  la  necessaria  funzione  rieducativa  della   pena,   sancita
dall'art.  27,  terzo  comma,  Cost.,  per  il  solo   Tribunale   di
sorveglianza di Venezia. 
    Il solo Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via subordinata,
auspica l'ablazione quanto meno del frammento normativo «e non vi  e'
modo  di  affidare  la  prole  ad  altri  che  al  padre»:  cio'  che
consentirebbe al padre  condannato  di  essere  ammesso  alla  misura
allorche' la madre sia deceduta o impossibilitata,  indipendentemente
dalla circostanza che altre persone siano  in  grado  di  accudire  i
bambini. 
    4.- Circa  l'ammissibilita'  delle  questioni,  occorre  rilevare
quanto segue. 
    4.1.-  Rispetto  alle  questioni  sollevate  dal   Tribunale   di
sorveglianza di Bologna, l'Avvocatura generale dello Stato  eccepisce
il loro difetto di rilevanza, o comunque l'insufficiente  descrizione
della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Il  rimettente  riferisce  un  quadro  fattuale   sufficiente   a
consentire a questa Corte la verifica della rilevanza delle questioni
aventi ad oggetto la disposizione censurata. Dall'ordinanza  risulta,
infatti, che i figli minori del condannato istante erano, al  momento
della  proposizione  delle  questioni,  affidati  alla  loro  sorella
maggiore, aggiungendo che non erano evidenziabili deficit di  cura  e
assistenza nei confronti dei medesimi. In tale situazione,  l'accesso
alla  detenzione  domiciliare  speciale  era  a  priori  precluso  al
richiedente,  sulla  base  della   disposizione   censurata,   e   in
particolare dell'inciso «se la madre e' deceduta o impossibilitata  e
non vi e' modo di affidare la prole ad altri che al padre» su cui  si
indirizzano le censure del rimettente. L'ablazione di tale inciso  da
parte di questa Corte consentirebbe invece al Tribunale  di  valutare
funditus se ricorrano o meno le ulteriori  condizioni  per  l'accesso
alla misura stabilite dalla disposizione censurata. 
    Analoga conclusione si impone per cio' che concerne le questioni,
formulate in via subordinata, che investono soltanto il frammento  «e
non vi e' modo di affidare la prole ad altri che al  padre».  Secondo
la  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  infatti,   non   e'
necessario - ai fini della rilevanza di una questione -  che  il  suo
accoglimento determini un esito decisionale diverso da quello cui  si
perverrebbe in applicazione  della  disposizione  censurata,  essendo
sufficiente   che   esso    necessariamente    influisca    sull'iter
motivazionale che dovra' condurre alla decisione (da ultimo, sentenze
n. 135 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto;  n.  122  del
2024, punto 2.1. del Considerato in diritto; n. 164 del 2023, punto 4
del Considerato in diritto). Nel caso oggetto  del  giudizio  a  quo,
alla luce della disposizione censurata il giudice dovrebbe  rigettare
de plano l'istanza del richiedente, per la  sola  circostanza  che  i
minori sono attualmente affidati alla loro sorella maggiore. Laddove,
invece, venissero accolte le questioni formulate in via  subordinata,
l'eventuale  rigetto  dell'istanza   dovrebbe   essere   diversamente
motivato, sulla base di un accertamento  in  concreto  dell'idoneita'
della madre a  prendersi  cura  dei  figli:  accertamento  che,  alla
stregua della disposizione cosi'  come  attualmente  configurata,  il
giudice rimettente non aveva alcuna necessita' di compiere. 
    4.2.- Rispetto, poi, alle questioni sollevate  dal  Tribunale  di
sorveglianza  di  Venezia,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato   ne
eccepisce nuovamente  il  difetto  di  rilevanza,  assumendo  che  il
rimettente  avrebbe  ricostruito  in  termini  «alquanto  scarsi»  la
situazione familiare dell'istante, ma comunque in modo sufficiente  a
escludere  che  sussistesse  una  situazione  di  impossibilita'   di
affidare il figlio minore alla madre. 
    L'eccezione e', in questo caso, ictu oculi infondata. 
    Anzitutto, l'ordinanza di rimessione ricostruisce con dovizia  di
dettagli la condizione in cui versa il nucleo familiare del detenuto,
che e' stata qui soltanto riassunta al punto  4.1.  del  Ritenuto  in
fatto. Ma, soprattutto, e' precisamente la situazione di  affidamento
attuale del minore alla madre, su cui si basa  l'eccezione  formulata
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  a  rendere   rilevanti   le
questioni   formulate.    Solo    l'eventuale    loro    accoglimento
consentirebbe,  infatti,  al  giudice  di   valutare   la   possibile
concessione all'istante della detenzione domiciliare speciale, che e'
oggi  preclusa  dalla   vigente   formulazione   della   disposizione
censurata. 
    4.3.-    Deve,    invece,     essere     dichiarata     d'ufficio
l'inammissibilita' delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti
in riferimento all'art. 2 Cost., sulla base del principio  che  -  in
particolare - il Tribunale di sorveglianza di  Venezia  definisce  di
«parita' tra le  persone  da  riconoscersi  anche  nell'ambito  delle
formazioni sociali oltre che nell'ambito del rapporto  coniugale»,  e
segnatamente nell'ambito delle famiglie di fatto o omogenitoriali. La
censura  e'   irrilevante   quanto   al   riferimento   alle   coppie
omogenitoriali,  dal  momento  che  nessuno  dei  casi  oggetto   dei
procedimenti a quibus concerne  coppie  dello  stesso  sesso,  ed  e'
sfornita di motivazione sulla non manifesta infondatezza quanto  alle
famiglie di fatto, non avendo i rimettenti chiarito perche' dall'art.
2 Cost. - che indubbiamente riconosce i diritti  di  tali  formazioni
sociali e delle persone che ne fanno parte (da  ultimo,  sentenza  n.
148 del 2024, punto 11 del Considerato in diritto) -  sia  evincibile
anche un principio di parita'  di  trattamento  tra  i  loro  singoli
componenti,  che  appare  invece  piu'   propriamente   riconducibile
all'art. 3 Cost. 
    5.- Nel merito,  occorre  anzitutto  valutare  le  questioni  che
mirano all'integrale ablazione, nel comma  7  dell'art.  47-quinquies
ordin. penit., dell'inciso «se la madre e' deceduta o impossibilitata
e non vi e' modo di affidare la prole  ad  altri  che  al  padre»,  e
dunque all'equiparazione della posizione del  padre  a  quella  della
madre condannata, quanto alle condizioni di accesso  alla  detenzione
domiciliare speciale. 
    5.1.- Questa Corte ha gia' avuto occasione di esaminare,  con  la
recente  sentenza  n.  219  del  2023,  questioni   di   legittimita'
costituzionale concernenti la parallela disciplina  della  detenzione
domiciliare "ordinaria" di cui all'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e
b),  ordin.  penit.  -  che  parimenti  detta  una  disciplina   piu'
restrittiva per il padre condannato rispetto a quella prevista per la
madre condannata -; questioni formulate,  allora,  sotto  l'esclusiva
prospettiva del dedotto contrasto con gli interessi del minore a  una
relazione  continuativa  con  entrambi  i  genitori.  Interessi   che
all'epoca il giudice a quo aveva evocato attraverso il richiamo  agli
artt. 3 (sub specie di principio di  ragionevolezza)  e  31,  secondo
comma, Cost., e che gli odierni rimettenti evocano invece richiamando
congiuntamente gli artt. 30 e 31 Cost. 
    In sintesi, la sentenza n. 219 del 2023 ha, anzitutto,  affermato
che da una lettura delle garanzie costituzionali concernenti i minori
alla luce dei numerosi strumenti internazionali e dell'Unione europea
al  cui  rispetto  il  nostro  Paese  si  e'  vincolato  si   desume,
effettivamente, «il diritto di ciascun genitore e del minore a godere
di una mutua relazione», inteso a sua volta  quale  declinazione  del
piu' generale principio dell'interesse "preminente" del minore (punto
4.2. del Considerato in diritto). 
    Tuttavia, la sentenza ha soggiunto che «il  principio  in  parola
impone si' una considerazione particolarmente attenta degli interessi
del  minore  in  ogni  decisione  -  giudiziaria,  amministrativa   e
legislativa - che  lo  riguarda,  ma  non  ne  assicura  l'automatica
prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo»; e che,
pertanto, tale principio ben puo' essere bilanciato con il fascio  di
interessi, pure di  rilievo  costituzionale,  sottesi  all'esecuzione
della pena, dovendosi riconoscere che - in alcune circostanze  almeno
- la compressione  dell'interesse  del  minore  al  rapporto  con  il
genitore   detenuto   o   internato   costituisce   una   conseguenza
inevitabile, e costituzionalmente  non  censurabile,  dell'esecuzione
della pena (punto 4.3. del Considerato in diritto). 
    Il punto  di  equilibrio  costituzionalmente  sostenibile  tra  i
contrapposti interessi - ha proseguito la sentenza n. 219 del 2023  -
e'  stato  individuato  dalla  giurisprudenza  di  questa  Corte  nel
ritenere che «i pur rilevanti interessi sottesi all'esecuzione  della
pena [devono], di regola, cedere di fronte all'esigenza di assicurare
che i minori in tenera eta' possano godere di una  relazione  diretta
almeno con uno dei due genitori».  E  cio'  sempre  che  il  genitore
condannato che si trovi nelle condizioni  previste  dalla  legge  per
fruire  della  misura  non  sia  socialmente  pericoloso  -  ipotesi,
quest'ultima,   in   cui   gli   interessi   del   bambino   dovranno
necessariamente essere assicurati in forma diversa dall'affidamento a
uno dei genitori (punto 4.4. del Considerato in diritto). 
    In questo contesto, la scelta del legislatore  di  assicurare  in
via primaria il rapporto del bambino con  la  madre,  attribuendo  al
padre il compito di occuparsi del bambino allorche' la madre non  sia
in condizioni di provvedervi e' stata  giudicata  immune  da  censure
sotto  lo  specifico  profilo  della  sua  idoneita'  ad  assicurare,
comunque, il rapporto del bambino con uno almeno dei genitori  (punto
4.5. del Considerato in diritto). 
    Tali considerazioni devono essere integralmente confermate  anche
con  riferimento  alla   disciplina   in   questa   sede   censurata,
strutturalmente analoga a quella risultante dall'art.  47-ter,  comma
1, lettere a) e b), ordin. penit. allora esaminata. 
    Dal che la non fondatezza  delle  questioni,  aventi  ad  oggetto
l'intero inciso «se la madre e' deceduta o impossibilitata e  non  vi
e' modo di affidare la prole ad altri che al padre», formulate  dagli
odierni rimettenti in riferimento agli artt. 30 e 31 Cost. 
    5.2.- La sentenza n. 219 del  2023  ha,  peraltro,  espressamente
sottolineato che questa Corte non era stata  chiamata  dall'ordinanza
di rimessione a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale  della
disciplina   «in   relazione   alla   diversa   considerazione    dei
diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli  che  fanno
capo alla madre», ne'  sull'eventuale  «discriminazione  in  base  al
sesso tra le due figure genitoriali, rispetto  all'accesso  a  misure
alternative alla detenzione» (punto 4.1. del Considerato in diritto). 
    Proprio su questi profili richiamano invece  l'attenzione  i  due
rimettenti odierni, allorche' evocano: il principio di pari  dignita'
e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso,  fondato
sull'art. 3,  primo  comma,  Cost.;  il  divieto  di  discriminazione
fondato sul sesso nel  godimento  del  diritto  alla  vita  familiare
(artt. 8 e 14 CEDU,  per  il  tramite  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost.); e il principio dell'uguaglianza  morale  e  giuridica  tra  i
coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.). 
    La disciplina censurata violerebbe tali principi, perche' prevede
condizioni piu'  favorevoli,  nell'accesso  alla  misura  alternativa
della detenzione domiciliare  speciale,  per  la  madre  rispetto  al
padre: cosi' realizzando al tempo stesso, secondo  la  prospettazione
dei rimettenti, (a) una discriminazione non  consentita  in  base  al
sesso  del  condannato,  e   (b)   una   violazione   del   principio
dell'uguaglianza  morale  e  giuridica  dei  coniugi  con   specifico
riferimento alla cura e all'educazione dei figli. 
    L'angolo visuale da cui muovono tutte queste censure e',  dunque,
rovesciato rispetto a quelle gia' esaminate dalla sentenza n. 219 del
2023: mentre le doglianze di allora erano formulate dalla prospettiva
del minore e dei suoi preminenti interessi,  le  censure  odierne  si
focalizzano, invece, sui doveri e diritti che fanno capo  a  ciascuno
dei   due   genitori,   che   verrebbero   disciplinati    in    modo
ingiustificatamente differenziato dalla disposizione all'esame. 
    5.2.1.- In proposito,  non  puo'  non  riconoscersi  una  qualche
distonia tra la disposizione censurata e lo stadio attuale del quadro
ordinamentale, che - anche  per  effetto  della  mutata  sensibilita'
sociale - tende ormai a riconoscere l'equivalenza  delle  due  figure
genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento  ed  educazione
dei  figli.  Cio',  in  particolare,   in   materia   lavoristica   e
previdenziale, ove - per  effetto  anche  degli  stimoli  provenienti
dalle pronunce di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 179 del 1993,
n. 341 del 1991 e n. 1 del 1987) - si sono riconosciuti spazi  sempre
piu' ampi al ruolo del padre rispetto a tali compiti, categorizzabili
al tempo stesso come "doveri" e  "diritti"  di  entrambi  i  genitori
(art. 30, primo comma, Cost.). 
    La disciplina penitenziaria - che prevede  oggi  numerose  misure
atte a favorire il mantenimento di un rapporto  continuativo  tra  la
madre condannata e i figli in tenera eta'  -  continua  invece,  come
sottolineato dai rimettenti e dall'amicus curiae,  a  riconoscere  al
padre condannato l'accesso alle misure in questione soltanto  laddove
manchi  una  figura  materna  in  grado  di  assicurare  la  cura   e
l'educazione dei figli. 
    5.2.2.- Occorre, pero', anche  considerare  che  le  misure  oggi
previste dalla legge sull'ordinamento penitenziario in  favore  delle
madri condannate sono il frutto di una graduale evoluzione normativa,
gia' ricostruita nei suoi tratti essenziali da precedenti pronunce di
questa Corte (in particolare, dalla sentenza n. 239 del  2014,  punti
4-6 del Considerato in diritto, richiamata dalla stessa  sentenza  n.
219 del 2023  piu'  volte  citata,  punto  4.5.  del  Considerato  in
diritto).  Tratto  caratteristico  di  tale   evoluzione   e'   stato
l'obiettivo «di assicurare in via primaria il rapporto del minore con
la madre» (sentenza n. 17  del  2017,  punto  5  del  Considerato  in
diritto). 
    Il  risultato  e',  oggi,  un   sistema   penitenziario   che   -
parallelamente a quanto accade nel  settore  delle  misure  cautelari
personali,  ispirato  ad  analoghi  principi  -  offre   una   tutela
particolarmente avanzata degli interessi del minore la cui madre  sia
stata condannata,  garantendo  di  regola  al  bambino  di  eta'  non
superiore ai dieci anni  la  possibilita'  di  continuare  ad  essere
accudito direttamente dalla mamma presso la propria abitazione  o  in
altro luogo idoneo, salvo che la  madre  stessa  risulti  socialmente
pericolosa o - nei casi di cui all'art.  47-quinquies,  comma  1-bis,
ordin. penit. - sussista un concreto pericolo di fuga. 
    Al  tempo  stesso,  un  sistema   siffatto   invera   in   misura
particolarmente pregnante i principi della  finalita'  rieducativa  e
del minimo sacrificio necessario della liberta' personale (da ultimo,
sentenze n. 30 del 2025, punto 6.4. del Considerato in diritto; n. 24
del 2025, punti 5 e seguenti del Considerato in diritto;  n.  84  del
2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22  del  2022,  punto
5.2. del Considerato in diritto), che ai sensi rispettivamente  degli
artt. 27, terzo comma, e  13  Cost.  devono  orientare  l'azione  del
legislatore,  dell'amministrazione   penitenziaria   e   del   potere
giudiziario rispetto all'esecuzione della pena. In particolare,  esso
favorisce il reinserimento sociale delle condannate madri  attraverso
il mantenimento e rafforzamento dei loro legami con la  comunita'.  E
cio' a partire proprio da quella micro-comunita' che e' rappresentata
dal nucleo familiare, nel quale la condannata e' chiamata a vivere  i
propri doveri e la propria responsabilita' di  madre,  nell'interesse
dei figli a lei affidati: avviando, con cio' stesso, un significativo
percorso di rieducazione e reinserimento sociale. 
    Come gia' osservato nella sentenza n. 219 del  2023  (punto  4.5.
del Considerato in diritto), e' verosimile che il  legislatore  abbia
ritenuto  -  nell'esercizio  della  propria  discrezionalita'  -   di
compiere passi cosi' significativi nella direzione di una piu'  piena
attuazione dei principi costituzionali dell'interesse preminente  dei
minori, della funzione rieducativa della pena e del minimo sacrificio
necessario  della  liberta'   personale   anche   in   considerazione
dell'impatto complessivamente modesto delle misure in questione sugli
interessi contrapposti  in  gioco  -  segnatamente,  sugli  interessi
sottesi all'effettiva esecuzione di  pene  detentive  di  consistente
entita', irrogate  in  conseguenza  della  commissione  di  reati  di
gravita'  significativa.   Cio'   anche   in   considerazione   della
proporzione particolarmente esigua di donne condannate rispetto  alla
popolazione totale dei condannati (pari, sulla base delle statistiche
del Ministero della giustizia alla data del 28 febbraio 2025, a 2.729
unita' rispetto a un totale di 62.165 detenuti, e dunque a circa il 4
per cento della popolazione carceraria). 
    5.2.3.- Resta, a questo punto, da  chiedersi  se  la  scelta  del
legislatore  di  attuare  in  forma  tanto  avanzata  i  principi  in
questione con riferimento alle sole madri condannate crei,  al  metro
della Costituzione e della CEDU, una  illegittima  discriminazione  a
danno dei padri condannati e, assieme, una violazione  del  principio
dell'uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, per il caso in cui
i genitori siano uniti in matrimonio. 
    Questa  Corte  ritiene  che  la  scelta  compiuta  sin  qui   dal
legislatore  non  possa  essere  considerata  incompatibile   con   i
parametri costituzionali nazionali evocati. 
    Giova riflettere  anzitutto  sulla  circostanza  che  l'art.  31,
secondo  comma,  Cost.  impone  alla  Repubblica  di   tutelare   «la
maternita'»:  e  dunque  di  introdurre  specifiche  previsioni   che
favoriscano   l'assunzione   e   il   concreto   svolgimento    della
responsabilita' materna nei  confronti  dei  figli.  Il  che  implica
necessariamente l'adozione di misure calibrate sulla figura materna e
non su quella paterna; misure che - peraltro - non mettono di per se'
in discussione il principio della parita'  morale  e  giuridica  «dei
coniugi»  stabilito  dall'art.  29,  secondo  comma,  Cost.,  per  la
semplice ragione che operano su un  piano  diverso:  non  quello  dei
rapporti tra i coniugi, ma quello dei rapporti tra i genitori  -  non
necessariamente uniti in matrimonio - e i figli. 
    Nello stesso senso merita di essere ricordato l'art. 4, paragrafo
2,   della   Convenzione   sull'eliminazione   di   ogni   forma   di
discriminazione nei confronti della donna, rilevante nell'ordinamento
costituzionale nazionale in forza dell'art. 117, primo  comma,  Cost.
Tale disposizione prevede, testualmente, che «[l]'adozione  da  parte
degli Stati di misure speciali, comprese  le  misure  previste  dalla
presente Convenzione, tendenti a  proteggere  la  maternita'  non  e'
considerato un atto discriminatorio». 
    Di questi dati normativi non puo' non tenersi conto  quali  punti
di riferimento significativi  nella  valutazione  della  legittimita'
costituzionale di trattamenti stabiliti dalla legge specificamente in
favore delle madri: anche con riguardo  alla  materia  penitenziaria,
che viene qui in considerazione. 
    5.2.4.- La conclusione non muta, ad avviso di questa  Corte,  con
riguardo al divieto di discriminazione secondo il sesso nel godimento
del diritto alla vita familiare, tutelato dagli artt. 8 e 14 CEDU. 
    E' pur vero che, come rilevano i rimettenti, la Corte EDU ha piu'
volte  affermato  che  in  linea  di  principio  solo  ragioni  assai
consistenti («very weighty reasons») possono giustificare  differenze
di trattamento basate sul sesso nel godimento di  diritti  rientranti
nell'ambito di applicazione di una norma della Convenzione o dei suoi
protocolli,  e  che  in  quest'ambito  assunti  generali  sul   ruolo
femminile o attitudini sociali prevalenti in un Paese  specifico  non
possono  essere  considerati,  di  per   se',   una   giustificazione
sufficiente per trattamenti differenziati (Corte EDU, sentenza Beeler
contro Svizzera, paragrafo 95, e  ivi  ulteriori  riferimenti).  Cio'
vale anche allorche' il trattamento  differenziato  concerna  diritti
rientranti in linea di principio nella sfera di applicazione  di  una
norma della Convenzione o dei suoi protocolli, ma che abbiano  natura
"addizionale", in quanto il loro riconoscimento nel caso concreto non
costituisca un  obbligo  a  carico  dello  Stato  parte  (Corte  EDU,
sentenza Khamtokhu e Aksenchik contro Russia,  paragrafo  58,  e  ivi
ulteriori riferimenti). 
    Sulla base di tali principi, la Corte  EDU  ha  sovente  ritenuto
incompatibili con gli artt. 8  e  14  CEDU  normative  nazionali  che
prevedevano trattamenti piu' favorevoli per le  donne  rispetto  agli
uomini (ancora sentenze Beeler contro Svizzera, paragrafo 95  e,  con
riferimento specifico ai benefici penitenziari, Ēcis contro Lettonia,
paragrafi 90-93, peraltro  con  la  precisazione  che,  in  linea  di
principio, «talune divergenze di trattamento tra  detenuti  uomini  e
donne  possono  essere  giustificate»);  ovvero  che  -  in   materia
giuslavoristica - privilegiavano le madri rispetto ai padri (sentenza
Konstantin Markin contro Russia). 
    Tuttavia, in un caso particolarmente significativo in cui era  in
discussione  la   previsione   della   pena   dell'ergastolo,   nella
Federazione Russa, per i soli i condannati uomini  di  eta'  compresa
tra i 18 e i 65 anni, la grande camera della Corte EDU - muovendo dal
riconoscimento a ciascuno Stato di un ampio margine di  apprezzamento
nella definizione della propria  politica  in  materia  sanzionatoria
penale - ha ritenuto giustificata la disparita' di trattamento  cosi'
creata tra condannati uomini e donne. 
    La Corte EDU ha posto tra l'altro  l'accento:  sull'esistenza  di
vari strumenti di diritto internazionale che riconoscono lo  speciale
bisogno di tutela della donna detenuta in relazione alla gravidanza e
alla  maternita'  (sentenza  Khamtokhu  e  Aksenchik  contro  Russia,
paragrafo 82); sui dati statistici che indicavano  come  anche  nella
Federazione Russa le condannate donne  costituissero  solo  un'esigua
porzione  della  popolazione  complessiva   dei   detenuti   (ancora,
paragrafo 82); nonche'  sull'inesistenza  di  un  obbligo  deducibile
dalla Convenzione di abolire interamente l'ergastolo (paragrafo  86).
Constatazione, quest'ultima,  che  rendeva  «difficile»,  secondo  la
Corte EDU, «criticare il legislatore russo per avere stabilito  [...]
l'esenzione  dall'ergastolo   di   una   determinata   categoria   di
condannati», nell'ambito di una  fase  ancora  «transizionale»  della
legislazione  penale  (paragrafo  85)  che  pero'  si  muoveva  nella
direzione di un sicuro «progresso» verso  la  piu'  piena  attuazione
delle garanzie convenzionali (paragrafo 86). 
    Le opinioni concorrenti di piu' giudici in quella decisione hanno
in particolare sottolineato come il cammino verso  un'espansione  dei
diritti proceda, realisticamente, in modo graduale; cio'  che  impone
di tollerare situazioni di - transitoria - ineguale distribuzione  di
nuovi benefici, sempre che nessun  gruppo  sia  privato  del  livello
minimo di tutela convenzionalmente garantito. In ogni  caso,  non  si
potrebbe rimproverare uno Stato per  non  avere  garantito  subito  a
tutti i consociati i nuovi e piu' elevati livelli di  tutela  (cosi',
in particolare, le opinioni concorrenti  delle  giudici  Nußberger  e
Turković). 
    Considerazioni analoghe  possono  formularsi,  mutatis  mutandis,
anche in  relazione  alle  questioni  ora  all'esame.  Come  poc'anzi
rammentato, il livello minimo di tutela costituzionalmente necessario
per  gli  interessi  del   minore,   cosi'   come   enucleato   dalla
giurisprudenza di questa Corte, e' quello che assicura al bambino, di
regola, la presenza di almeno uno dei genitori.  La  scelta  compiuta
dal  legislatore  di  assicurare  la  presenza  anche   della   madre
condannata a  una  pena  detentiva,  pur  laddove  il  padre  sia  in
condizione di farsi carico della cura e dell'educazione  del  minore,
e' il frutto di un bilanciamento non  irragionevole  tra  l'interesse
all'esecuzione della pena detentiva - e quindi della pretesa punitiva
dello Stato - e l'interesse del minore alla relazione genitoriale. 
    E' sempre dalla prospettiva della tutela del minore che  occorre,
dunque, valutare la scelta normativa: il legislatore, che in linea di
principio e' costituzionalmente obbligato ad assicurare  la  presenza
di almeno uno dei genitori, ha scelto di riconoscere al minore stesso
un livello addizionale di tutela, non costituzionalmente obbligato  e
pero' certamente attuativo dei principi costituzionali. 
    La scelta ha  innegabilmente  dei  riflessi  sull'omogeneita'  di
trattamento  dei  genitori,  ma  non  al  punto  da  debordare  nella
discriminazione ingiustificata, non potendosi ritenere  irragionevole
la scelta di procedere gradualmente nella direzione di una piu' piena
attuazione dei  principi  costituzionali  menzionati,  attraverso  la
selezione di una platea, peraltro numericamente ridotta,  di  persone
condannate oggetto di specifiche direttive di tutela da  parte  della
stessa Costituzione e di varie fonti internazionali di  hard  e  soft
law (si vedano, tra l'altro, le rules numeri 2, 58 e 64 delle «United
Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and  Non-custodial
Measures for Women Offenders» adottate dall'Assemblea generale  delle
Nazioni Unite il 21 dicembre 2010,  gia'  testualmente  citate  nella
sentenza n. 219 del 2023, punto  4.5.  del  Considerato  in  diritto,
dalle quali si evince un generale favor per la concessione di  misure
extracarcerarie alle madri detenute). 
    5.2.5.- I rimettenti, e con essi l'amicus curiae, assumono che la
disciplina censurata produrrebbe  altresi'  una  discriminazione  non
solo a danno dei padri,  ma  anche  a  danno  delle  madri,  mogli  o
compagne dei condannati padri. Le prime infatti sarebbero costrette a
sacrificare la propria carriera lavorativa per occuparsi  dei  figli,
mentre i mariti o compagni delle condannate madri potrebbero contare,
grazie alla misura  alternativa  all'esame,  sull'apporto  di  queste
ultime per far fronte ai carichi familiari, potendo cosi' liberamente
dedicarsi alle loro attivita' professionali. 
    In proposito, deve pero' rilevarsi che - una  volta  che  si  sia
ritenuta non irragionevole la scelta  legislativa  di  apprestare  un
trattamento di speciale favore per il mantenimento del  rapporto  tra
madre e figlio, nell'interesse di quest'ultimo - la situazione appena
descritta  costituisce   null'altro   che   una   delle   conseguenze
collaterali a carico di terzi non colpevoli necessariamente  connesse
all'esecuzione della pena detentiva. Il carcere colpisce il  reo,  ma
produce effetti indiretti  pregiudizievoli  anche  nei  confronti  di
altre persone: in primis, dei suoi familiari, che vengono privati del
suo apporto - affettivo, ma anche finanziario e organizzativo -  alla
gestione dei carichi familiari.  Queste  conseguenze  sono  purtroppo
inevitabili, e messe in conto dall'ordinamento  nel  momento  in  cui
ritiene necessario privare la persona ritenuta colpevole di un  reato
della propria liberta' personale, per la  realizzazione  degli  scopi
legittimi della pena. 
    5.2.6.- Tutto cio', naturalmente, non impedisce al legislatore di
considerare l'opportunita' di un'estensione della misura  a  tutti  i
detenuti - padri e madri - non socialmente pericolosi, nel quadro  di
un complessivo bilanciamento tra tutti gli  interessi  individuali  e
collettivi coinvolti. Una tale  scelta  potrebbe,  anzi,  valorizzare
ulteriormente  il  principio  costituzionale  del  minimo  sacrificio
necessario della liberta' personale. 
    Ma una simile decisione, a giudizio di questa Corte,  resta  allo
stato riservata alla discrezionalita' del  legislatore,  non  potendo
considerarsi imposta ne' dalle norme costituzionali,  ne'  da  quelle
convenzionali evocate dai rimettenti. 
    Dal che la  non  fondatezza  anche  delle  censure  formulate  in
riferimento agli artt. 3, 29, 30,  31  e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU. 
    5.3.- Nemmeno e' fondata la censura formulata dal solo  Tribunale
di sorveglianza di Venezia in riferimento all'art. 27,  terzo  comma,
Cost. 
    Assume il rimettente che la differente disciplina di accesso alla
misura per padri e madri condannati si tradurrebbe in un  pregiudizio
per la stessa funzione  rieducativa  della  pena  nei  confronti  del
detenuto, «perpetrando una concezione oggi non piu' accettabile  (ne'
rispondente alla realta')  dei  ruoli  sociali  e  all'interno  della
famiglia». 
    L'argomento e', in verita', meramente ancillare rispetto a quelli
addotti a sostegno delle censure appena  esaminate,  e  ritenute  non
fondate per le ragioni  sin  qui  illustrate.  Esso  potrebbe  essere
considerato  al  piu'  meritevole  di   attenzione   da   parte   del
legislatore, ma non certo di tale pregnanza da condurre addirittura a
una dichiarazione di incompatibilita' con  la  finalita'  rieducativa
della  pena  di  una  disciplina   che   -   per   ragioni   ritenute
costituzionalmente  non  insostenibili  da  questa  Corte  -  tuttora
differenzia  il  ruolo  della  madre  e  del  padre  in  materia   di
concessione delle misure alternative alla detenzione. 
    5.4.-  In  conclusione,  nessuna  delle  censure  che   investono
l'inciso «se la madre e' deceduta o impossibilitata e non vi e'  modo
di affidare la prole ad altri che al padre» e' fondata. 
    Spettera' al prudente apprezzamento del giudice  di  sorveglianza
valutare se e in che misura il  concetto  di  "impossibilita'"  della
madre possa essere esteso, in via interpretativa, anche a  situazioni
- diverse dal mero svolgimento di un'attivita'  lavorativa  da  parte
della  madre,  in  presenza  di  supporti  familiari  o  sociali  che
garantiscano la necessaria cura dei minori durante i  suoi  orari  di
lavoro - in cui l'eccezionalita' del carico  connesso  ai  doveri  di
cura renda inesigibile che la  sola  madre  vi  faccia  efficacemente
fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore
soffra e alle sue necessita' di continua assistenza  (sul  punto,  si
veda anche Cass., n. 4796 del 2021). 
    6.- Rimangono infine da esaminare le censure,  formulate  in  via
subordinata dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, concernenti  il
solo frammento normativo «e non vi e' modo di affidare  la  prole  ad
altri che al padre», le quali mirano a consentire al  padre  detenuto
di  accedere  alla  detenzione  domiciliare  speciale   quanto   meno
allorche' la madre sia deceduta  o  sia  comunque  impossibilitata  a
provvedere alla cura e all'educazione del figlio. 
    Le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 3, 30  e  31,
secondo comma, Cost., sulla base dei principi  gia'  enunciati  nella
sentenza n. 219 del 2023, restando assorbiti gli ulteriori parametri. 
    6.1.- Come gia' rammentato, in tale sentenza si e' affermato  che
il principio dell'interesse preminente del  minore  -  desunto  dalle
citate  previsioni  costituzionali,  interpretate  alla  luce   delle
pertinenti norme internazionali e dell'Unione europea (ampiamente sul
punto sentenza n.  102  del  2020,  punto  4.1.  del  Considerato  in
diritto)  -  richiede  che  gli  interessi   sottesi   all'esecuzione
intramuraria  della  pena  debbano,  di  regola,  cedere  di   fronte
all'esigenza di assicurare che i minori in tenera eta' possano godere
di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori. 
    Di tale esigenza si e' fatto carico il  legislatore  in  numerose
discipline, tra cui  le  due  evocate  dal  rimettente  quali  tertia
comparationis: 
    - l'art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che  ammette
il  detenuto  padre  alla  misura,  strutturalmente  analoga,   della
detenzione domiciliare "ordinaria" nel caso  di  decesso  o  assoluta
impossibilita' della madre a far fronte alla propria  responsabilita'
genitoriale, senza richiedere l'ulteriore condizione dell'assenza  di
altre persone in grado di prendersi cura dei figli; e 
    - l'art. 275, comma  4,  cod.  proc.  pen.,  che  stabilisce  tra
l'altro il divieto di disporre la custodia  cautelare  in  carcere  a
carico del padre del figlio di eta' non superiore a sei  anni,  salvo
che  sussistano  esigenze  cautelari  di  eccezionale  rilevanza,  in
presenza delle medesime condizioni previste dall'art.  47-ter,  comma
1, lettera b), ordin. penit. 
    In particolare il primo tertium e' certamente  omogeneo  rispetto
alla disciplina ora  censurata,  come  questa  Corte  ha  piu'  volte
sottolineato, evidenziando  l'identita'  di  ratio  della  detenzione
domiciliare "ordinaria"  e  speciale,  allorche'  siano  disposte  in
funzione della cura dei figli minori o con  disabilita'  (ex  multis,
sentenze n. 30 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 18
del 2020, punto 3.3. del Considerato in diritto). 
    Contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura generale  dello
Stato, non pare d'altra parte a questa Corte che la sola  circostanza
che i condannati ai quali puo' applicarsi la  detenzione  domiciliare
speciale debbano scontare una pena  detentiva  (anche  residua)  piu'
lunga rispetto a  quelli  ai  quali  puo'  applicarsi  la  detenzione
domiciliare  "ordinaria"   valga   a   giustificare   il   sacrificio
addizionale imposto a soggetti estranei rispetto al  reato  (i  figli
minori del condannato). Per  effetto  della  disposizione  censurata,
essi  si  vedono  attualmente,   senza   eccezioni,   privati   della
possibilita'  di  vivere  una  relazione  continuativa  con   l'unico
genitore ancora in vita, o comunque in  condizioni  di  assolvere  le
proprie responsabilita' di cura. 
    Cio'   che   resta   fondamentale   e',   piuttosto,    l'attento
accertamento,  da  parte  del  giudice  della  sorveglianza,  con  il
necessario supporto dei  servizi  sociali,  non  solo  che  il  padre
condannato non manifesti «un  concreto  pericolo  di  commissione  di
ulteriori delitti» (e di fuga, nelle ipotesi  del  comma  1-bis),  ma
altresi' che il ripristino della convivenza con i  figli  minori,  in
alternativa rispetto all'affidamento di costoro a  terze  persone  in
grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi,
alla cui tutela e' finalizzata la misura alternativa in esame; e  che
tale   rispondenza   sia   poi   concretamente   verificata   durante
l'esecuzione della misura, attraverso i controlli stabiliti dall'art.
284, comma 4, cod. proc.  pen.  (richiamato  dal  comma  3  dell'art.
47-quinquies ordin. penit.), nonche' dal comma 5  dello  stesso  art.
47-quinques ordin. penit. Cio' al fine, in  particolare,  di  evitare
ogni impropria  strumentalizzazione  dei  minori  al  solo  scopo  di
ottenere il beneficio da parte di un padre in realta' non idoneo alla
cura degli stessi. 
    6.2.- Deve, pertanto, dichiararsi l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 47-quinquies, comma 7, limitatamente alle parole «e non  vi
e' modo di affidare la prole ad altri che al padre». 
    7.- Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollecitato questa
Corte a valutare, in caso di accoglimento della  questione  sollevata
in  via  subordinata,   la   possibilita'   di   estendere   in   via
consequenziale  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
all'art.  21-bis   ordin.   penit.,   che   disciplina   l'assistenza
all'esterno  dei  figli  minori,  e  che   parimenti   subordina   la
concedibilita'  del  beneficio  alla  condizione  che  la  madre  sia
detenuta o impossibilitata, e non vi sia modo di affidare la prole ad
altri che al padre. 
    L'Avvocatura dello Stato ha formulato, in proposito, un'eccezione
di inammissibilita' di una simile «questione», che tuttavia non  puo'
essere considerata tale: il che toglie ogni  sostanza  all'eccezione.
La decisione di estendere, in via consequenziale, a una  disposizione
distinta da  quella  censurata  la  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953,  e'
in effetti frutto di una valutazione che questa Corte compie di volta
in  volta  motu  proprio,  laddove  ritenga  sussistere  i  requisiti
indicati dalla legge. Tale valutazione non  e'  dunque  vincolata  da
eventuali  sollecitazioni  da  parte  dell'ordinanza  di  rimessione;
sollecitazioni che, peraltro,  il  giudice  a  quo  resta  libero  di
formulare, in chiave di mero suggerimento. 
    Dal  momento  che  l'art.  21-bis  ordin.  penit.  disciplina  un
istituto distinto da quello in questa sede esaminato, e che  peraltro
non viene in considerazione nel caso  oggetto  del  giudizio  a  quo,
questa Corte non ritiene sussistenti i presupposti di cui all'art. 27
della legge n. 87 del 1953.