SENTENZA
     nei  giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt.  1,
 3 e 4, primo  comma,  della  legge  11  febbraio  1971,  n.  11  (nuova
 disciplina  dell'affitto  di  fondi  rustici),  promossi  con ordinanze
 emesse  il  17  dicembre  1971  dal  tribunale  di  Sassari  -  sezione
 specializzata    agraria    -   nei   procedimenti   civili   vertenti,
 rispettivamente,  tra  Sechi  Antonio e Fancellu Pietro, e tra Gandolfo
 Carla e Mura Sebastiana ed altro, iscritte ai nn. 46 e 47 del  registro
 ordinanze  1972  e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 78 del 22 marzo 1972 e n. 90 del 25 aprile 1972.
     Visti gli atti di costituzione di Sechi Antonio, Fancellu Pietro  e
 Gandolfo   Carla  e  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 4 luglio 1972 il  Giudice  relatore
 Ercole Rocchetti;
     uditi  gli avvocati Aldo Sandulli e Gavino Pinna, per il Sechi e la
 Gandolfo, gli avvocati Emilio Romagnoli e Giuseppe Di Stefano,  per  il
 Fancellu,  ed  il  sostituto  avvocato  generale  dello  Stato  Michele
 Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     Nel corso del procedimento civile  tra  Sechi  Antonio  e  Fancellu
 Pietro,  avente  per oggetto il pagamento di canoni di affitto di fondi
 rustici, il tribunale di  Sassari,  con  ordinanza  17  dicembre  1971,
 riteneva,  oltre  che  rilevante,  non  manifestamente  infondata,  con
 riferimento agli artt.  42,  terzo  comma,  e  3,  primo  comma,  della
 Costituzione,  la  questione di legittimita' costituzionale degli artt.
 1, 3 e 4, primo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente  per
 oggetto la nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici.
     Secondo  l'ordinanza  di  rimessione, la nuova normativa (artt. 3 e
 4), che impone  di  determinare  il  canone  moltiplicando  il  reddito
 dominicale  risultante  dal catasto terreni, per il coefficiente che la
 Commissione tecnica provinciale (di cui all'art 2 della legge 18 agosto
 1948, n. 1140) stabilisce ogni quadriennio, per zone agrarie omogenee e
 per ciascuna qualita' di cultura e classe, ma entro i coefficienti  che
 la  legge  impugnata  fissa nel minimo di 12 e nel massimo di 45, viola
 l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, perche' riduce il canone ad
 una misura irrisoria e quindi produce, in sostanza, gli effetti di  una
 espropriazione  della proprieta' del concedente senza la corresponsione
 del dovuto indennizzo.
     Inoltre, il detto sistema automatico di determinazione  del  canone
 in base ai redditi dominicali, la cui ultima revisione generale rimonta
 all'anno 1939, viola l'art. 3, comma primo, della Costituzione, perche'
 applica  un  trattamento uguale a situazioni che sono andate fortemente
 differenziandosi tra loro, con evoluzione variata da regione a regione,
 negli oltre trenta anni da allora decorsi, a causa  del  mutamento  dei
 tipi  di  cultura,  dei modi di lavorazione, delle trasformazioni delle
 strutture aziendali e del prezzo dei prodotti, e su cui ha inciso anche
 la svalutazione monetaria.
     Infine, l'obbligo, sancito contro l'antica tradizione e l'anteriore
 normativa, di determinare il canone soltanto in danaro (art.  1)  viola
 parimenti,  secondo l'ordinanza di rimessione, l'art.  42, terzo comma,
 della Costituzione, perche' nullifica nel tempo il  valore  del  canone
 gia'  irrisorio,  ove  si  consideri  la  lunga durata stabilita per il
 contratto e il  fenomeno,  connaturale  alla  economia  moderna,  della
 svalutazione monetaria.
     Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti sia il Sechi che
 il  Fancellu  ed  e'  anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato.
     Nelle  deduzioni  e nelle memorie presentate, il Sechi ha sostenuto
 che  le  disposizioni  denunziate,  determinando  il  canone   con   un
 procedimento  arbitrario,  in misura irrisoria e in valori non stabili,
 come  quelli  monetari,  violano  le  norme  della   Costituzione   cui
 l'ordinanza  fa  riferimento;  invece,  secondo il Fancellu, le censure
 prospettate dal giudice a  quo,  con  riferimento  all'art.  42,  terzo
 comma,  Cost.,  non  sono pertinenti, in quanto le norme denunciate non
 incidono sul diritto di proprieta', ma sull'autonomia contrattuale  che
 non  riceve una tutela diretta dalla Costituzione. Aggiunge il Fancellu
 che, comunque, il canone, dato l'arco dei coefficienti  entro  i  quali
 esso  viene  determinato,  non e' affatto irrisorio ne' e' avulso dalla
 concreta situazione cui deve aderire.
     La difesa dello Stato, nel chiedere che la Corte dichiari infondata
 la questione proposta, sostiene che il sistema  di  determinazione  del
 canone   con  riferimento  ai  valori  catastali  ha  il  pregio  della
 obiettivita' e della certezza, mentre i coefficienti minimi e  massimi,
 proprio   perche'   consentono   di   tenere   conto  delle  situazioni
 modificantisi nel tempo, conferiscono al canone un valore  che  risolve
 nell'equita'  i  contrapposti  interessi  delle  parti  contraenti, nel
 quadro  di  un  piu'  razionale  sfruttamento   del   suolo   e   della
 instaurazione di piu' giusti rapporti sociali.
     Con   altra   ordinanza,   emessa  in  pari  data,  nel  corso  del
 procedimento civile promosso da Gandolfo Carla contro i  coniugi  Onida
 Raffaele   e  Mura  Sebastiana,  lo  stesso  tribunale  di  Sassari  ha
 denunciato soltanto gli artt. 1 e 3, secondo comma, della legge  n.  11
 del  1971,  con  riferimento  non solo agli artt. 42, terzo comma, e 3,
 primo comma, della Costituzione, ma anche alle disposizioni di cui agli
 artt. 42, secondo comma, e 44 della Costituzione.
     Il tribunale ribadisce in questa ordinanza  gli  argomenti  esposti
 nella  precedente,  ampliandone  il  discorso  per  quanto attiene alla
 tutela del diritto di proprieta'  che,  pur  nei  limiti  previsti,  e'
 riconosciuta  e garantita dalla legge, e che, se piccola e media, e' da
 essa "aiutata".
     Nel giudizio dinanzi alla Corte si  e'  costituita,  per  le  parti
 private,  soltanto  la Gandolfo che, nelle sue deduzioni, aderisce alle
 censure prospettate nella ordinanza di rinvio; e' altresi' intervenuta,
 per il Presidente del Consiglio, l'Avvocatura generale dello Stato che,
 con argomentazioni analoghe a quelle esposte nel  precedente  giudizio,
 ha  chiesto  che  la  Corte  dichiari infondate le dedotte questioni di
 legittimita' costituzionale.
     Nella discussione orale le  parti  costituite  hanno  ulteriormente
 illustrato   le  proprie  tesi  ed  hanno  insistito  nelle  rispettive
 conclusioni.
                         Considerato in diritto:
     1. - I giudizi  proposti  dal  tribunale  di  Sassari  con  le  due
 ordinanze   di  pari  data,  poiche'  hanno  per  oggetto  le  medesime
 questioni, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
     2. - Nelle dette ordinanze vengono denunciati gli artt. 1, 3  e  4,
 comma  primo,  della  legge 11 febbraio 1971, n. 11, avente per oggetto
 "nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici", perche' ritenuti  in
 contrasto con gli artt. 3, comma primo, 42, commi secondo e terzo, e 44
 della Costituzione.
     Secondo  il  giudice  a quo, la legge impugnata, per aver stabilito
 che il canone debba  essere  determinato  con  riferimento  al  reddito
 imponibile  del  fondo,  espresso  in catasto con la tariffa formata in
 base ai prezzi del 1939 (1. 29 giugno 1939, n. 976)  e  aggiornata  con
 coefficienti  di moltiplicazione fissati nel minimo di 12 e nel massimo
 di 45, violerebbe, tra le altre norme costituzionali richiamate, l'art.
 3, comma primo, della Costituzione  perche'  "mentre  si  preoccupa  di
 assicurare  l'equa remunerazione del fattore della produzione agricola,
 che e' costituito dal lavoro (garantito fin dai  principi  fondamentali
 della  Costituzione  e  massimamente  degno  di  tutela),  sembra pero'
 ignorare le esigenze della proprieta' della terra, frutto anch'essa  di
 lavoro  e  di risparmio, protetta da una norma costituzionale specifica
 nelle forme piccole e media e fonte, non di rado, di  un  sostentamento
 essenziale a favore della persona".
     Secondo   questa   prima   censura,   sarebbe   dunque  illegittimo
 comprimere, peraltro in modo massiccio,  il  reddito  del  proprietario
 concedente per ampliare corrispondentemente l'utile dell'affittuario.
     Accantonando  per  il  momento  il  problema  se la riduzione cosi'
 operata sul reddito rispetti o no, per la sua entita', il  diritto  del
 proprietario  a conseguire dalla cosa, anche se utilizzata direttamente
 da altri, un beneficio, e restringendo l'esame al  rilievo  concernente
 lo  squilibrio  apportato dalla legge nella ripartizione del rendimento
 della terra, occorre dire che la questione,  cosi'  proposta,  e'  solo
 parzialmente fondata.
     Essa  non e' fondata se ad aver vantaggio della compressione che la
 legge esercita sul beneficio fondiario sia un affittuario  che  coltivi
 direttamente  la  terra  con  le  forze  di  lavoro  proprie e dei suoi
 familiari, mentre e' invece  fondata  se  di  quella  compressione  dei
 diritti  dominicali  debba lucrare gli utili conseguenti un affittuario
 imprenditore che la terra presa in fitto faccia lavorare da altri.
     Cio'  perche',  mentre   l'affittuario   coltivatore   gode   della
 situazione  privilegiata che gli artt. 35 e segg. Cost. assicurano alla
 posizione  del  lavoratore,  garantendo,  tra  l'altro,  che   la   sua
 retribuzione  sia  in  ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla
 sua   famiglia   un'esistenza   libera   e   dignitosa,   l'affittuario
 imprenditore  ha  a  sua  tutela solo il principio sancito dall'art. 41
 Cost. e relativo alla liberta' della iniziativa economica privata.
     La legge quindi, nel dettare, negli artt. 3 e 4,  primo  comma,  le
 nuove  norme  sulla  formazione  del canone con riferimento a tutti gli
 affittuari, siano  essi  coltivatori  diretti,  come  imprenditori  non
 coltivatori,  viola l'art.  3, comma primo, della Costituzione che, nel
 sancire, tra i principi fondamentali, l'eguaglianza  fra  i  cittadini,
 postula,  come  e'  stato  sempre  ritenuto  da  questa  Corte,  che  a
 situazioni  differenziate  tra  loro  non  possa  praticarsi   identico
 trattamento.
     Con  cio',  ed in riferimento al caso specifico, non vuol dirsi che
 la  determinazione  del  canone  tra  il  proprietario   concedente   e
 l'affittuario  imprenditore  debba  lasciarsi affidata alle sole regole
 dell'economia di mercato. Ma vuol dirsi soltanto che tra due  forme  di
 attivita'  economiche,  piu'  o meno equivalenti sul piano della tutela
 costituzionale (perche' entrambe fruenti di garanzie generiche),  quali
 appunto  l'esercizio  dei  diritti dominicali sulla terra e la gestione
 dell'impresa che provvede, con lavoro altrui, alla cultura di essa,  il
 pubblico  interesse  volto  ad  assicurare  risultati  vantaggiosi alla
 comunita', quali il  razionale  sfruttamento  del  suolo,  l'abbondanza
 della  produzione,  il contenimento del prezzo dei prodotti, ecc., deve
 utilizzare, perche' il canone di  affitto  sia  equo,  altre  forme  di
 intervento,  che  trovino  la  loro  estrinsecazione in un'analisi piu'
 approfondita dei dati economici del fenomeno produttivo e  non  possano
 limitarsi  alla semplice massiccia compressione del beneficio fondiario
 come mezzo per devolvere l'ampio margine di differenza  all'impresa,  a
 copertura delle spese di produzione e alla formazione del profitto.
     3.  -  Le  ordinanze  deducono  poi che il sistema introdotto dalla
 legge, di determinare  il  canone  assumendo  a  parametro  il  reddito
 imponibile  risultante  dal catasto, la cui ultima revisione rimonta al
 1939, "si presenta ictu oculi, ove appena si consideri  i  rivolgimenti
 politici,   sociali   ed   economici  degli  ultimi  trent'anni,  e  la
 svalutazione monetaria in  questo  tempo  intervenuta,  tanto  falso  e
 anacronistico che vorrebbe dirsi arbitrario". Il che, sempre secondo le
 ordinanze, produrrebbe anche gravi squilibri tra le varie zone agricole
 del  Paese, perche' "l'ancoraggio al reddito dominicale del 1939, nelle
 regioni che fin da allora avevano conseguito un alto grado di  sviluppo
 e  di  produzione  agricola,  non produce effetti cosi' iniqui, e cosi'
 stridenti con  la  realta',  come  in  queste  altre  regioni"  (Italia
 meridionale e insulare) "in cui il progresso e' cominciato da poco".
     La  censura  investe gli artt. 3 e 4, primo comma, della legge e il
 riferimento e' all'art. 3, primo comma, della Costituzione.
     La questione non sembra fondata.
     Per quanto, in  linea  di  massima,  gli  anzidetti  argomenti  non
 possano  dirsi  privi  di consistenza, tuttavia essi appaiono di scarso
 rilievo se si considera che il legislatore, nella sua discrezionalita',
 intendeva non instaurare, con quegli accorgimenti che  si  esamineranno
 tra  poco, un metodo di determinazione del canone che abbia il caranere
 preminente della precisione (impossibile, per altro, a conseguirsi  con
 qualsiasi procedimento di valutazione), ma adoperare un mezzo che serva
 solo  a fissarne i valori in maniera piu' o meno prossima alla realta',
 mediante un sistema semplice  e  ispirato  a  un  automatismo  volto  a
 contenere   le   contestazioni   cui  aveva  dato  luogo  la  normativa
 precedente.
     Ma tale scopo che il legislatore si  e'  proposto  non  varrebbe  a
 salvare  il sistema dalla censura di irrazionalita' se nel contempo non
 si fosse dato cura, con quegli accorgimenti di cui e' fatto  cenno,  di
 rendere  meno  distanti  dalla  realta' attuale i dati catastali che si
 riferiscono al lontano anno dell'ultima revisione.
     Per conseguire tale  accostamento  dei  vecchi  dati  alla  odierna
 realta' economica, la legge dispone (art. 4) che, qualora la qualita' e
 classe  dei  terreni  componenti il fondo risultassero mutati, si possa
 chiedere la revisione e il nuovo classamento; e dispone  altresi'  che,
 nei casi di migliorie introdotte (si intende fra il 1939 e l'entrata in
 vigore della legge) dal proprietario del fondo, e che non giustifichino
 una  modifica  della qualita' e classe (costruzione di edifici ed altri
 manufatti, ecc.  non  tassati  in  catasto),  le  Commissioni  tecniche
 provinciali possono stabilire criteri e misure di aumento del canone.
     Ottenuto  cosi'  un  certo aggiornamento della consistenza dei dati
 catastali, il legislatore, tenuto conto che  le  relative  valutazioni,
 anche  in  caso  di  revisione  di  qualita' e classe, sono espresse in
 moneta del 1939, ha cercato di effettuare  una  rivalutazione  di  quei
 dati   sul   piano   dei  valori  monetari,  mediante  coefficienti  di
 moltiplicazione fissati entro il minimo di 12 e  il  massimo  di  45  e
 stabiliti  in  36  nel caso di cui al sesto comma dell'art. 3. Tuttavia
 tali  coefficienti,  per  quanto  si  dira'   in   seguito,   risultano
 inadeguati.
     Ma,  a  questo punto, il discorso sulla utilizzabilita' in astratto
 dei dati catastali,  ai  fini  della  determinazione  del  canone  puo'
 concludersi  in  senso  positivo,  stante  che  non mancano, come si e'
 visto, nella legge, procedimenti  che  tendano  ad  aggiornare  dati  e
 valori  e, se non pervengono a risultati accettabili, non e' detto che,
 con opportune modifiche, non possano conseguire l'effetto.
    Per gli stessi motivi non e' fondato il  rilievo  che  eccepisce  la
 violazione   dell'art.   3,   primo   comma,   della  Costituzione  per
 l'applicazione delle stesse norme  denunciate  alle  zone  agrarie  del
 territorio  nazionale,  senza  tener  conto  del  loro  vario  grado di
 sviluppo.
     4.  -  Si  lamenta  poi  nelle  ordinanze  di  rimessione  che   il
 "pretendere  di  accertare  il  reddito  dominicale secondo la stima di
 prima della  guerra,  significa  creare  una  finzione  che  puo'  solo
 condurre,  qualunque coefficiente moltiplicatorio voglia congetturarsi,
 a un canone legale incongruo, elusivo  nella  sostanza  della  garanzia
 costituzionale,  che  esige un indennizzo serio, anche se non completo,
 del diritto colpito, e che ha da essere lealmente rispettato". Dal  che
 deriverebbe  la  violazione  dell'art. 42, secondo e terzo comma, della
 Costituzione.
     L'assunto dell'ordinanza, secondo il quale, qualsiasi  coefficiente
 si adottasse, si giungerebbe sempre a un canone incongruo, va precisato
 nel  senso  che  quelli  stabiliti  dalla  legge  sono  insufficienti e
 conducono alla  formazione  di  un  canone  inaccettabile  per  la  sua
 distanza dai valori reali.
     Quei  coefficienti  hanno  infatti  lo scopo di aggiornare i valori
 monetari per eliminare o ridurre  gli  effetti  della  svalutazione,  e
 ragione della loro determinazione fra un minimo ed un massimo e' quella
 di  fornire  un  dato variabile che meglio si adatti alla molteplicita'
 dei casi cui deve aderire, e che  e'  differenziata  in  rapporto  alle
 modificazioni  intervenute  nel  tempo  nella formazione dei prezzi dei
 prodotti, soprattutto a seguito dei mutamenti tecnologici nella cultura
 della terra.
     Ora, la assoluta inadeguatezza  dei  coefficienti  stabiliti  dalla
 legge  risulta  innanzi  tutto  dal  loro confronto con l'entita' della
 svalutazione monetaria che, rispetto al 1939, ha, secondo i dati Istat,
 superato la quota 100. Ma, in modo  che  appare  anche  piu'  evidente,
 risulta  dall'ammontare  del  carico fiscale che, per il solo complesso
 dei tributi strettamente gravanti sul reddito dominicale  dei  terreni,
 ha  superato  la  cifra  di  lire  1.400 per ogni 100 lire accertate in
 catasto a seguito della revisione del 1939. Ove si  aggiungano  a  quei
 tributi  gli  altri  connessi, come l'imposta complementare e quella di
 famiglia, si vedra' che  una  larga  fascia  di  canoni,  ottenuta  con
 coefficienti  di  rivalutazione  anche superiori al minimo di 12, resta
 assorbita dalle  imposte  e  che  il  beneficio  fondiario  ne  risulta
 annullato.  La  constatazione  resta  confermata  e  non  eliminata dal
 successivo intervento legislativo (l. 4 agosto 1971,  n.  592)  che  ha
 esentato  dal  pagamento  delle  imposte e sovrimposte sui terreni quei
 proprietari di fondi concessi in  affitto  il  cui  reddito  dominicale
 complessivo  non  superi  le lire 8.000 e l'imponibile in complementare
 non  superi  lire  1.800.000.  Cio'  perche'  tale  intervento,  se  ha
 sollevato  i  minori  e  i  minimi  proprietari,  non  ha modificato la
 situazione rispetto a tutti gli altri,  le  cui  condizioni  economiche
 meno disagiate, o anche addirittura floride, non autorizzano a privarli
 di   quanto  e'  loro  dovuto  entro  i  limiti  segnati  dalla  tutela
 costituzionale loro spettante.
     A conferma della assoluta inadeguatezza  dei  coefficienti  fissati
 tra  12  e  45 stanno, inoltre, altri elementi deducibili da uno studio
 proveniente dall'Amministrazione del Catasto e pubblicato in calce alle
 relazioni parlamentari sulla legge in esame. Trattasi  del  "promemoria
 dell'Amministrazione  del  Catasto  in  data 18 giugno 1969", in cui si
 rende noto che, nel primo scorcio degli anni sessanta, in vista di  una
 allora  progettata  e  poi  non attuata revisione generale degli estimi
 catastali, si effettuo', operando, col  metodo  del  campione,  su  300
 Comuni sparsi in quasi tutte le provincie del territorio nazionale e su
 oltre  ventimila  aziende,  la determinazione dei redditi catastali con
 riferimento  alla  consistenza  e  ai  valori  monetari  del   triennio
 1958-1960.   I  risultati  ottenuti  portarono  alla  conclusione  che,
 rispetto ai dati catastali del 1939, i nuovi si attestavano fra le 25 e
 le 75 volte quelli anteriori.  Partendo  da  questi  dati,  e,  con  un
 calcolo assai semplice ma indicativo, applicando ad essi i coefficienti
 di  ulteriore  svalutazione della lira 1971 rispetto a quella del 1960,
 che e' di 1,5365 (Istat, costo vita) si  ha  che  ora  essi  dovrebbero
 raggiungere i valori di 38 nel minimo e di 105 nel massimo.
     La  minore  misura  dei  coefficienti,  che la legge fissa in cifre
 tanto lontane da queste, non e'  giustificata  sul  piano  economico  e
 quindi neppure su quello giuridico-costituzionale.
     Dalla  assoluta inadeguatezza dei coefficienti consegue infatti una
 misura del canone tanto esigua da  rendere  lo  stesso  privo  di  ogni
 valore  rappresentativo  del  reddito  che la terra deve pur fornire al
 proprietario ai sensi delle norme della Costituzione.
     Al riguardo, le ordinanze  richiamano  l'art.  42  nei  suoi  commi
 secondo e terzo e l'art. 44.  Ora, ai sensi del secondo comma dell'art.
 42, la proprieta' e' riconosciuta e garantita dalla legge la quale, per
 l'art.  44,  primo comma, aiuta la piccola e media proprieta'. Entrambi
 gli articoli indicano poi numerosi limiti che  la  legge  puo'  imporre
 alla   proprieta'  allo  scopo  di  assicurarne  la  funzione  sociale,
 conseguire  il  razionale  sfruttamento  del  suolo  e  stabilire  equi
 rapporti sociali. Ma e' ovvio che tali limiti, se possono comprimere le
 facolta' che formano la sostanza del diritto di proprieta', non possono
 mai  pervenire  ad annullarle. Del che fornisce riprova il disposto del
 terzo comma  dello  stesso  art.  42  il  quale,  nel  sancire  che  la
 proprieta'  privata  puo'  essere  espropriata  per motivi di interesse
 generale, fa salvo in tal caso per  il  proprietario  il  diritto  alla
 corresponsione  di  un indennizzo. La proprieta' non puo' quindi cedere
 del tutto, e cioe' scomparire, senza che il proprietario ne  riceva  un
 corrispettivo,  e quindi un utile, persino quando il pubblico interesse
 ne richieda il sacrificio, perche' anche  in  tal  caso  e'  dovuta  la
 corresponsione   di   un   indennizzo   (nei  limiti  che  la  pubblica
 amministrazione e' in grado di corrispondere in rapporto  all'interesse
 che  persegue),  ma che, come questa Corte ha piu' volte affermato, non
 sia ne' simbolico ne' irrisorio.
     Ora,  la  legge  impugnata,  rendendo,  specie  a   ragione   della
 insufficienza   dei   suoi   coefficienti  di  rivalutazione,  a  volte
 addirittura  onerosa  la   proprieta'   della   terra,   ed   a   volte
 determinandone  il  reddito  in  misura irrisoria, viola gli artt.  42,
 secondo  comma,  e  44,  primo comma, della Costituzione perche' incide
 fortemente, fino  ad  annullarlo,  su  di  un  diritto  riconosciuto  e
 garantito, e talvolta addirittura oggetto di una specifica tutela.
     Le  ordinanze  denunciano poi, in rapporto alla stessa fattispecie,
 anche la violazione del comma terzo dell'art. 42 circa la  mancanza  di
 un  indennizzo  in  quella  che  viene prospettata come una sostanziale
 espropriazione,  attuata   mediante   la   compressione   dei   diritti
 dominicali.
     Poiche',  pero',  alla  dichiarazione di illegittimita' delle norme
 della legge impugnata si perviene di gia' con  riferimento  al  secondo
 comma  dello  stesso articolo, questa ulteriore questione va dichiarata
 assorbita.
     5. - Le ordinanze denunciano  infine  "l'art.  1  della  legge,  in
 rapporto  anche  all'art.  3,  secondo  comma,  in  cui  il  canone  e'
 determinato in danaro, e per un tempo lungo" perche' "allarga ancora la
 divergenza  tra  diritto  e  indennita',   a   causa   della   continua
 svalutazione  monetaria e dell'inverso movimento di ascesa dei prodotti
 agricoli".
     Anche qui il riferimento  e'  all'art.  42,  secondo  comma,  della
 Costituzione.
     La questione e' fondata.
     E'  innanzi  tutto da premettere che, per l'art. 17 della legge, la
 durata del contratto di affitto per l'affittuario  imprenditore  e'  di
 anni 15, mia quella durata puo' essere, a richiesta dell'affittuario, e
 per  effetto dell'art. 1, terzo comma, della richiamata legge 22 luglio
 1966, n. 607, aumentata di altri 3 anni e, inoltre, puo' ancora essere,
 a mezzo di sua iniziativa concretantesi nella esecuzione a sue spese di
 miglioramenti, accresciuta di almeno altri 12 anni; laddove l'affitto a
 coltivatore diretto non ha alcuna scadenza (art.  14  l.  15  settembre
 1964,  n.  756).  In  sostanza,  il contratto, sol che l'affittuario lo
 voglia, ha una durata superiore in complesso ai trenta anni, quando non
 ne ha una illimitata, come per l'affittuario coltivatore. Di  fronte  a
 una  simile  lunga  o  indefinita  durata  del  rapporto,  il  disposto
 dell'art.  1 della legge impugnata,  stabilendo  che  "nell'affitto  di
 fondo  rustico  il  canone  e'  determinato  e  corrisposto  in danaro"
 introduce un nuovo strumento di riduzione del canone, la cui azione  e'
 prevedibile  come  certa  se  si  pensa  che la svalutazione monetaria,
 almeno nei limiti di quella cosi'  detta  strisciante,  e'  considerata
 fenomeno  naturale  e,  in  certo  senso, necessario, dell'economia dei
 paesi moderni.
     Ora, se la corresponsione del  canone  in  danaro  costituisce  una
 innovazione  che  trova  ragione  nel  nuovo  sistema di sua formazione
 ottenuta con riferimento al reddito catastale, che e' appunto  espresso
 in  danaro,  nessuna ragione puo' trovare la soppressione di ogni forma
 di ragguaglio al prezzo di determinati prodotti che era  antica  regola
 sancita  anche,  da  ultimo, nell'art. 1 della legge 12 giugno 1962, n.
 567; come nulla puo' giustificare la mancata introduzione di  qualsiasi
 altra forma di aggiornamento monetario.
     Ne'  alcun  ausilio  puo'  fornire a tal fine la periodicita' della
 determinazione della tabella dei canoni di equo fitto che, per l'art. 3
 della legge, la Commissione tecnica provinciale e' tenuta ad  elaborare
 ogni  quattro anni, perche', nel compimento di tale operazione, essa e'
 tenuta a restare entro i  limiti  dei  coefficienti  minimi  e  massimi
 stabiliti  dalla  legge.  Mentre  e'  ovvio che, determinata che sia la
 tabella e stabilito poi (art. 4) il canone entro quei  limiti,  il  suo
 ammontare, se si ammette che un aggiornamento monetario sia necessario,
 deve  essere  indipendente  dai  limiti  stessi,  potendo anche, ove il
 calcolo lo comporti, superarli.
     Pertanto,  la  mancata  previsione  di  un  qualche  strumento   di
 rivalutazione  del canone, in ordine alla svalutazione, rappresenta una
 grave carenza della legge, che appare ancor piu' evidente ove si  tenga
 presente  che,  nella  disciplina  generale della formazione dei prezzi
 imposti, introdotta dal d.l.lgt. 19 ottobre 1944,  n.  347,  istitutivo
 del  Comitato interministeriale prezzi e norme successive, la revisione
 di essi al variare dei presupposti e' ritenuta connaturale al  sistema,
 mentre  la  legge  18 dicembre 1970, n. 1138, contenente nuove norme in
 materia di enfitensi, ha stabilito all'art. 6, per quanto  concerne  le
 enfiteusi urbane, che "il canone... puo' essere in ogni caso rivalutato
 a  richiesta della parte interessata, in misura proporzionale al mutato
 potere  di  acquisto  della  lira  quale  risulta   dalle   statistiche
 dell'Istituto Centrale di Statistica".
     In  un  caso  del  genere,  in  cui,  in tema di espropriazione per
 pubblica utilita', la legge 167 del 1962 stabiliva  che  i  prezzi  dei
 beni  espropriandi  nel  previsto  corso  di  10  anni  dovevano essere
 determinati con riferimento a quelli vigenti  nei  due  anni  anteriori
 alla  entrata in vigore della legge stessa, la Corte, nella sentenza n.
 22 del 1965, riteneva la illegittimita' della disposizione,  in  quanto
 essa  poneva  in  essere,  nei  confronti  dei proprietari compresi nei
 piani, una situazione di incertezza o di alea, stante la  "possibilita'
 che,  nell'intervallo fra l'adozione dei piani e la loro attuazione, si
 verifichino eventi perturbatori tali da  condurre  a  una  liquidazione
 dell'indennita' in misura irrisoria o addirittura simbolica".
     Onde   la   Corte   concludeva   che,   con   la  dichiarazione  di
 illegittimita', non si intendeva "disconoscere la discrezionalita'  del
 legislatore  di  riportare  la liquidazione dell'indennita' ad una data
 anteriore a quella dell'espropriazione", la qual cosa non avrebbe  dato
 luogo  a  rilievi  purche'  fossero  stati  nel  contempo  dalla  legge
 predisposti "anche i necessari  temperamenti,  cosi'  da  eliminare  la
 possibilita' che l'indennizzo, con il concorso degli elementi di cui si
 e'  fatta  menzione,  possa  perdere  consistenza,  in modo tale da non
 assolvere piu' la funzione di garanzia cui si e' accennato".
     L'analogia  del  caso  e'  evidente:   esproprio   con   indennizzo
 retrodatato,  canone  da  pagarsi in futuro a valori nominali costanti,
 offrono le stesse alee e determinano gli stessi risultati erosivi della
 consistenza reale di un valore che la  svalutazione,  prevedibile  come
 certa, produce nel tempo.
     Si  deve,  in conclusione, riconoscere che la mancata previsione di
 una  rivalutazione  dei  canoni  in  una  misura  corrispondente   alle
 eventuali mutazioni del potere di acquisto della lira appare lesiva del
 diritto  del  proprietario concedente a conservare invariato nel valore
 di acquisto il canone autoritativamente determinato. Ed  e'  ovvio  che
 cio' e' vero sia che si tratti di canone gia' anteriormente determinato
 in  danaro,  sia  che  si  tratti  di  canone  determinato  in natura e
 convertito in danaro per effetto dell'art. 1 della legge.
     Dal  che  la  parziale  illegittimita'  dell'art.  1  della   legge
 impugnata  per  violazione  dell'art.  42, secondo comma, Cost., per le
 stesse ragioni esposte nei numeri precedenti.