ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 9 e 12 della
 legge 22 maggio 1978, n. 194  (Norme  per  la  tutela  sociale  della
 maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza), promosso
 con ordinanza emessa il 24 settembre 1984  dal  giudice  tutelare  di
 Napoli,  sulla richiesta proposta da Mangiapia Silvia, iscritta al n.
 1236  del  registro  ordinanze  1984  e  pubblicata  nella   Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 71- bis dell'anno 1985.
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  25 marzo 1987 il Giudice
 relatore Giuseppe Borzellino.
                       Ritenuto in fatto
    Con  ordinanza emessa il 24 settembre 1984 (R.O. n. 1236 del 1984)
 il giudice tutelare di Napoli, nel procedimento promosso da Mangiapia
 Silvia,  ha  proposto,  in riferimento agli artt. 2, 3, 19 e 21 della
 Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt.  9
 e  12  della  l.  22  maggio 1978 n. 194 (Norme per la tutela sociale
 della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza) nei
 limiti  in  cui  tali disposizioni non consentono al giudice tutelare
 medesimo di  sollevare  obiezione  di  coscienza  relativamente  alle
 procedure di cui all'art. 12 ed in particolare in relazione al potere
 di autorizzare la minore a decidere l'interruzione della  gravidanza.
    Il  giudice a quo, dato atto che nella specie appaiono espletati i
 compiti e le procedure di cui  all'art.  5  della  legge  medesima  e
 rilevato  che  - in considerazione della volonta' della minore, delle
 ragioni da essa addotte, nonche'  delle  risultanze  della  relazione
 della   struttura   socio-sanitaria  -  sussistono  gli  estremi  per
 autorizzare l'interruzione della gravidanza, osserva che la legge  in
 questione  consente  l'esercizio  dell'obiezione di coscienza solo al
 personale sanitario od esercente le attivita'  ausiliarie  e  non  al
 giudice   tutelare  che  pur  e'  chiamato  dalla  legge  a  svolgere
 un'attivita' rilevante nella procedura abortiva.
    Espresso "il proprio profondo e radicato convincimento, fondato su
 motivi scientifici, filosofici e religiosi  che  con  l'aborto  viene
 soppressa  volontariamente  la  vita di un essere umano, tale dovendo
 essere ritenuto  il  concepito,  riconosciuto  peraltro  destinatario
 della   tutela   costituzionale   nella  nota  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 27 del 1975", il giudice remittente afferma che  "i
 propri  convincimenti  trovano  ampia  tutela  negli articoli 21 e 19
 della  Costituzione,  che  garantiscono  i  diritti  di  liberta'  di
 coscienza  e  manifestazione  del  pensiero  nonche'  il  diritto  di
 liberta'  religiosa,  indubbiamente  da  annoverarsi  tra  i  diritti
 inviolabili di cui all'art. 2 della Costituzione".
    Anche  a far rientrare l'attivita' in questione fra quelle tipiche
 della  funzione  giudiziaria,  secondo  il  remittente  le   liberta'
 sopramenzionate  devono  essergli  riconosciute  al pari di qualsiasi
 altro cittadino; ne' e' dato esigere dal giudice  tutelare  che,  per
 converso,   rassegni   le  dimissioni  e  rinunci  alle  funzioni  di
 magistrato, con conseguente  compressione  della  libera  espressione
 della sua personalita'.
                         Considerato in diritto
    1.  -  L'art. 12, secondo comma, della legge 22 maggio 1978 n. 194
 (Norme per la tutela sociale  della  maternita'  e  sull'interruzione
 volontaria   della   gravidanza)   prevede   che   la   richiesta  di
 interruzione, se fatta da minore, debba  ottenere  l'assenso  di  chi
 esercita  la  patria  potesta'  o  la  tutela. Tuttavia, nei casi che
 impediscano o sconsiglino la  consultazione  dei  predetti  soggetti,
 ovvero se questi rifiutino l'assenso ovvero esprimano pareri tra loro
 difformi,  il  giudice  tutelare  competente  puo'   autorizzare   la
 richiedente a decidere l'interruzione medesima.
    Il  giudice  tutelare  di  Napoli  ravvisa,  in  presenza  di tale
 normativa, che ove sussista, per convincimento profondo e radicato in
 lui contro l'aborto, "conflitto insanabile tra la propria coscienza e
 gli obblighi derivantigli dalle funzioni"  debba  essergli  accordata
 facolta'  di  sollevare  obiezione  di  coscienza;  ma  tanto  non e'
 positivamente previsto, all'incontro di quanto disposto (art. 9)  per
 il  personale  sanitario  (od  esercente le attivita' ausiliarie) che
 intervenga nelle procedure abortive.
    In  conseguenza,  ha sollevato d'ufficio questione di legittimita'
 costituzionale dei predetti artt. 9 e 12 legge n. 194  del  1978,  in
 riferimento   -   oltre  che  all'art.  3  Cost.  per  disparita'  di
 trattamento col personale sanitario e paramedico - agli artt. 2, 19 e
 21,  ritenuti  complessivamente  inerenti alla garanzia di tutela dei
 propri diritti inviolabili, sia di professione di fede religiosa  che
 di liberta' di manifestazione del pensiero.
    2. - La questione non e' fondata.
    Occorre ricordare che la normativa dettata dalla legge in discorso
 conferisce rilievo alla salute psico-fisica della  gestante,  essendo
 la condizione di questa del tutto particolare (sent. n. 27 del 1975).
 In  presenza  percio',  entro  i  primi  novanta  giorni,  di  "serio
 pericolo"  (art.  4)  maggiore  o  minore  di  eta' che la donna sia,
 secondo parametri ben individuati e circoscritti nella  legge  (stato
 di  salute, condizioni economiche, o sociali o familiari, circostanze
 del concepimento, ovvero previsioni di anomalie nel concepito)  viene
 accordata  facolta'  alla richiedente di adire le esistenti strutture
 socio-sanitarie (art. 5). Gli accertamenti  necessari  si  concludono
 col   rilascio   di   un  documento,  di  cui  la  gestante  e'  resa
 compartecipe, abilitante  alla  interruzione  volontaria  presso  una
 delle sedi all'uopo autorizzate.
   Stante i richiamati scopi del contesto di legge, nessuna differenza
 v'e' nelle procedure suddette - ne' puo'  ovviamente  esservi  -  tra
 donna  maggiore  o minore degli anni diciotto; tant'e' che in caso di
 urgenza,  rivelandosi  cioe'   "grave"   pericolo   per   la   salute
 (connotazione  ben piu' specifica ed incisiva del "serio" pericolo di
 cui gia' si e' detto) la posizione della minorenne  viene  parificata
 in toto (art. 12, penultimo comma) con quella della gestante maggiore
 d'eta', nel senso che non e' piu' richiesto assenso di sorta.
    In  ogni  altro  caso  occorre per la donna minore l'assenso degli
 aventi titolo: sostituibile da quella  "autorizzazione  a  decidere",
 disposta dal giudice tutelare e di cui si e' piu' sopra riferito.
    Ancorche'  sui  generis  sia perche' fatto salvo da reclamo, cosi'
 come di regola previsto, invece, per effetto  dell'art.  739  c.p.c.,
 sia perche' non decisorio bensi' meramente attributivo della facolta'
 di  decidere,  il  menzionato  provvedimento   rientra   pur   sempre
 nell'ambito  degli schemi autorizzatori adversus volentem: unicamente
 di integrazione, cioe', della volonta' della minorenne, per i vincoli
 gravanti sulla sua capacita' d'agire (sent. n. 109 del 1981).
    Dunque,  esso  rimane  esterno  alla  procedura  di riscontro, nel
 concreto,  dei  parametri  previsti  dal  legislatore   per   potersi
 procedere  all'interruzione  gravidica.  Ed  una volta che i disposti
 accertamenti  siansi  identificati  quale   antefatto   specifico   e
 presupposto di carattere tecnico, al magistrato non sarebbe possibile
 discostarsene; intervenendo egli, come si  e'  chiarito,  nella  sola
 generica  sfera  della  capacita'  (o  incapacita') del soggetto, tal
 quale viene a verificarsi per altre consimili  fattispecie  (per  gli
 interdicendi, ad es., a sensi dell'art. 414 cod. civ.). Ne' potrebbe,
 peraltro, indurre a diversa considerazione  la  dizione  della  norma
 secondo  cui  il  giudice  "puo'"  autorizzare  la  donna, poiche' il
 termine e' piuttosto da  riferire,  in  particolare,  alla  attivita'
 sostitutiva,  anche  in  presenza  di  rifiuto  da parte della patria
 potesta'.
    Tali  essendo  i  ben  circoscritti  e  non  cospicui  margini  di
 intervento del giudice tutelare (ed integre  restando,  comunque,  le
 successive valutazioni della gestante abilitata essa sola a decidere)
 non sussiste disparita' col personale sanitario, al quale soltanto  -
 come  riconosce  la  stessa  ordinanza  di remissione - competono gli
 accertamenti  intesi  alla  previsione  d'aborto:  nessuna   lesione,
 percio',  per  difetto  di  omogeneita'  nei  differenti  stadi della
 procedura, ricorre nei confronti dell'art. 3 Cost.
    3.  -  La  questione  si  incentra  cosi'  nell'assunto  contrasto
 dell'art. 12 della legge n. 194 del 1978  (l'art.  9  reca  soltanto,
 infatti,  gli  elementi per il precedente raffronto) con gli artt. 2,
 19 e 21 Cost., venendo in  rilievo  la  denunciata  contrapposizione,
 nella  coscienza  del  remittente,  dei  suoi  convincimenti  interni
 virtutis  et  vitiorum  rispetto  alla   esistente   doverosita'   di
 satisfacere officio.
    Gli  invocati parametri indubbiamente rivestono in fattispecie una
 connotazione unitaria, poiche'  se  i  principi  di  cui  all'art.  2
 assumono  a  valore  primario  i  diritti  inviolabili  dell'uomo, le
 garanzie di liberta' della coscienza religiosa (secondo  i  contenuti
 resi  gia'  ostensivi da questa Corte con sentenza n. 117 del 1979) e
 di altrettanta liberta' della manifestazione del pensiero  (nei  suoi
 molteplici   aspetti)   restano   avvinti  da  una  complementarieta'
 d'intenti.
     A  ben  vedere,  trattasi di comporre un potenziale conflitto tra
 beni parimenti protetti in assoluto:  quelli  presenti  alla  realta'
 interna  dell'individuo,  chiamato poi, per avventura, a giudicare, e
 quelli relativi alle esigenze essenziali dello jurisdicere (ancorche'
 intra volentes).
    Orbene,  a parte i contenuti di doverosita' presenti nell'art. 54,
 secondo comma, Cost., un indice rimarchevole, sia pure a fronte della
 liberta'  di associazione, emerge dal dettato del successivo art. 98,
 terzo comma,  la'  dove  tale  estrinsecazione  di  una  fondamentale
 liberta'  individuale  soffre per il magistrato di limitazioni, avuto
 riguardo al dover questi  pronunciare,  tra  l'altro,  proprio  sulle
 questioni  familiari. E' peraltro, ancora, l'inamovibilita' garantita
 al magistrato (art. 107) che come lo pone al riparo  da  qualsivoglia
 interferenza  ab externo, cosi' comporta - salvi i casi ex artt. 51 e
 52 c.p.c. di  sopravvenuto  difetto  nella  neutralita'  propria  del
 decidere - l'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di
 giustizia, interesse d'ordine generale il cui rilievo  costituzionale
 questa  Corte  ha  ripetutamente riconosciuto (cfr. sentenza n. 1 del
 1981).
    Il magistrato e' tenuto ad adempiere con coscienza appunto (art. 4
 legge 23.12.1946, n. 478) ai doveri inerenti  al  suo  ministero:  si
 ricompongono  in tal modo, nella realta' oggettiva della pronuncia, e
 i suoi convincimenti e la norma obiettiva da  applicare.  E'  propria
 del  giudice,  invero,  la  valutazione,  secondo  il  suo "prudente"
 apprezzamento: principio  questo  proceduralmente  indicato,  che  lo
 induce a dover discernere - secondo una significazione gia' semantica
 della prudenza - intra virtutes et  vitia.  Cio'  beninteso  in  quei
 moduli  d'ampiezza  e  di  limite  che  nelle singole fattispecie gli
 restano  obiettivamente  consentiti  realizzandosi,  in  tal   guisa,
 l'equilibrio nel giudicare.
    E  comunque  a che siano evitate abnormi distorsioni all'enunciato
 equilibrio,   fisiologico   al   giudice,   l'ordinamento   appronta,
 d'altronde,    opportuni    rimedi   anche   sul   piano   soggettivo
 dell'esercizio  delle  funzioni:  alla  odierna   fattispecie   resta
 estranea,   tuttavia,   ogni   disamina   del  genere,  interna  alla
 strutturazione giudiziaria, alla quale pure compete  -  nei  casi  di
 particolare  difficolta'  -  la possibile adozione di adeguate misure
 organizzative (cfr. sentenza n. 57 del 1985).