ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 5, 42, 43 e 47
 del codice penale e dell'art. 17, lett. b), della  legge  28  gennaio
 1977,  n.  10  (Norme per l'edificabilita' dei suoli) promossi con le
 seguenti ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 22 luglio 1980 dal Pretore di Cingoli nel
 procedimento penale a carico di Marchegiani Mario ed altri,  iscritta
 al  n.  694  del  registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 338 dell'anno 1980;
     2)  ordinanza  emessa il 14 maggio 1982 dal Pretore di Padova nel
 procedimento penale a carico di Marin Giacinto, iscritta  al  n.  472
 del  registro  ordinanze  1982  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 351 dell'anno 1982;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  29  settembre  1987 il Giudice
 relatore Renato Dell'Andro;
    Udito  l'Avvocato  dello  Stato Giorgio Azzariti per il Presidente
 del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso d'un giudizio penale a carico di Marchegiani Mario
 e altri, imputati della contravvenzione di cui all'art. 17, lett. b),
 legge  28  gennaio  1977, n. 10, per avere eseguito senza concessione
 edilizia notevoli opere di bonifica di  un  terreno  agricolo  e  per
 finalita'  agricole,  con  esclusione d'ogni intento edificatorio, il
 Pretore  di  Cingoli  -  ritenendo   gli   imputati   meritevoli   di
 proscioglimento  perche'  avevano  creduto  in buona fede, sulla base
 della giurisprudenza del Consiglio di  Stato,  di  poter  eseguire  i
 lavori  senza licenza - con ordinanza del 22 luglio 1980 ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt.
 2,  3,  24,  27, primo comma, 54, 73, 111 e 113 Cost., degli artt. 5,
 42, quarto comma, 43, 47 cod. pen. e 17, lett. b), legge  28  gennaio
 1977,  n.  10,  nella  parte  in cui non prevedono la rilevanza della
 precitata  "buona  fede",  determinata   da   interpretazioni   della
 giurisprudenza del supremo consesso di giustizia amministrativa.
    Il  giudice  a quo osserva che le norme impugnate contrastano: con
 l'art. 2 Cost., perche' la liberta' dell'uomo viene  ad  essere  lesa
 proprio  da  una situazione anormale creata dallo stesso ordinamento;
 con l'art. 3 Cost., in  quanto  le  norme  impugnate  escludono  ogni
 rilievo   della  carenza  di  coscienza  dell'antigiuridicita'  della
 condotta e dell'errore  sulle  leggi  amministrative  richiamate  nel
 precetto penale; nonche' con gli artt. 24, 111 e 113 Cost., nei quali
 e' contenuto il principio dell'unitarieta' dell'ordinamento nel campo
 della difesa degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi.
    Il  Pretore  di  Cingoli ritiene sussista altresi' contrasto delle
 norme impugnate con  gli  artt.  54  e  73  Cost.,  che  stabiliscono
 l'obbligo  del  rispetto  delle  leggi,  in  quanto, nell'ipotesi che
 l'errore sia dipeso da difformi interpretazioni giurisprudenziali, il
 cittadino  che rispetti l'interpretazione d'un giudice non si ribella
 all'autorita' dello Stato ma si adegua all'obbligo di cui agli stessi
 articoli.
    Lo  stesso  Pretore  rileva,  infine,  il  contrasto  delle  norme
 impugnate con il primo  comma  dell'art.  27  Cost.,  che  impone  la
 possibilita' della conoscenza della legge penale.
    2.  -  E'  intervenuto  il  Presidente del Consiglio dei ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato,
 deducendo l'infondatezza della questione.
    Osserva   preliminarmente  l'Avvocatura  che,  quale  che  sia  la
 corretta soluzione da darsi  all'antico  problema  della  buona  fede
 nelle  contravvenzioni,  e' certo che essa non involge l'applicazione
 di norme o principii costituzionalmente garantiti. L'unico  principio
 costituzionale,   pilastro   fondamentale  di  qualsiasi  ordinamento
 giuridico, e' quello che si ricava dall'art. 73, terzo  comma,  Cost.
 coordinato  con  l'art. 25, secondo comma, Cost., e con l'art. 5 cod.
 pen. e che da secoli viene compendiato nel brocardo nemo ius ignorare
 censetur.   Alla   stregua   di   tali   disposizioni,  un  contrasto
 d'interpretazione d'una data norma tra  giurisdizioni  superiori  non
 puo'  giustificare  la condotta di chi si determini esclusivamente in
 base  all'orientamento  a  se'  piu'  favorevole   ignorando   quello
 contrario.
    Quanto  al  preteso  contrasto  delle norme impugnate con l'art. 2
 Cost., l'argomento del giudice a  quo  appare,  secondo  l'Avvocatura
 dello   Stato,   "misterioso",  in  quanto  le  norme  denunciate  si
 compendiano nel principio dell'obbligatorieta' della legge,  esigenza
 imprescindibile  del  vivere  civile.  Obbligatoria,  tuttavia, e' la
 legge non gia' l'interpretazione che ne  abbia  dato  questo  o  quel
 giudice:   tale   interpretazione   non   e'  fonte  di  diritto.  La
 possibilita'  di   interpretazioni   giurisprudenziali   diverse   e'
 fisiologica nel nostro sistema e non si vede come potrebbe eliminarsi
 senza eliminare quella pluralita' di giurisdizioni superiori  che  e'
 consacrata  dalla  stessa  Costituzione.  Di  fronte  a  contrasti di
 giurisprudenza il cittadino e' libero di determinarsi nel  modo  piu'
 acconcio.
    Quanto  al  contrasto  con  l'art.  3  Cost., la stessa Avvocatura
 osserva  che   il   principio   d'obbligatorieta'   della   legge   e
 d'irrilevanza  dell'errore  di diritto vale in modo uguale per tutti.
 Ne' e' ravvisabile, prosegue  l'Avvocatura  dello  Stato,  violazione
 degli  artt.  24,  111  e  113  Cost., giacche' dai medesimi non puo'
 desumersi alcuna norma che garantisca costituzionalmente il cittadino
 dal pericolo di giudicati contrastanti, tanto piu' quando, come nella
 specie, si tratti  non  di  conflitto  pratico  di  giudicati  ma  di
 semplici orientamenti difformi su casi analoghi.
    Infine,  in  ordine al contrasto, che il Pretore di Cingoli assume
 esistente tra gli articoli impugnati e l'art. 27, primo comma, Cost.,
 l'Avvocatura  osserva  che,  ai  fini dell'operativita' del principio
 d'obbligatorieta'  della  legge,  e'  necessaria  e  sufficiente   la
 possibilita',  offerta  a  chiunque,  di conoscere la norma nel testo
 promulgato (art. 73, terzo comma, Cost.) possibilita' che  non  viene
 certo meno per effetto d'una interpretazione giudiziale.
    3. - Analoga questione di costituzionalita' e' stata sollevata dal
 Pretore di Padova, il quale - nel corso d'un  procedimento  penale  a
 carico  di  Marin  Giacinto,  imputato  della  contravvenzione di cui
 all'art. 666 cod. pen., per avere  senza  licenza  detenuto  e  fatto
 funzionare  nel  suo  bar  un  apparecchio  radio, un videogame ed un
 flipper -  con  ordinanza  del  14  maggio  1982  ha  impugnato,  per
 contrasto  con  gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma,
 Cost., l'art. 5 cod. pen., nella parte in  cui  nega  ogni  rilevanza
 all'errore od all'ignoranza scusabile.
    Il  Pretore  osserva preliminarmente che, nella specie, l'imputato
 aveva creduto in buona fede che per la radio non fosse necessaria  la
 licenza  e che per gli altri apparecchi la situazione fosse regolare,
 essendo stato indotto in tale errore sia dall'oscurita'  delle  norme
 in tema di licenza per apparecchi radiofonici sia dalle assicurazioni
 verbalmente fornitegli  da  funzionari  comunali.  In  situazioni  di
 questo  genere,  continua  il  Pretore,  quando  cioe'  "nella  selva
 legislativa e' difficile trovare la giusta via e l'imputato  da'  una
 spiegazione  logica  del  proprio  comportamento", lo stesso imputato
 dovrebbe poter invocare la propria  buona  fede,  il  che  invece  e'
 vietato dall'art. 5 c.p.
    Senonche',  tale  disposizione,  in  quanto  nega  ogni  rilevanza
 all'errore od all'ignoranza scusabile derivante dall'oscurita'  della
 legge  penale  e  dalla  mancata concreta possibilita' di conoscerla,
 appare innanzitutto in contrasto con l'art. 27, terzo  comma,  Cost..
 Quest'ultimo  articolo,  attribuendo  alla pena funzione rieducativa,
 pone in risalto il rapporto tra il reo ed i valori violati, nel senso
 che  l'opera rieducativa della pena e' ipotizzabile soltanto nel caso
 in cui l'agente abbia dimostrato indifferenza od  ostilita'  verso  i
 valori tutelati dall'ordinamento.
    In  secondo  luogo  sussisterebbe contrasto con l'art. 25, secondo
 comma, Cost., il quale, col divieto di retroattivita' e l'esigenza di
 tassativita' della norma penale, tende a garantire la possibilita' di
 conoscere la  legge  penale,  possibilita'  che  dovrebbe  escludersi
 quando  l'ignoranza  discenda  da  una causa qualificata, oggettiva e
 scusabile, quale sarebbe la difficolta' d'interpretazione della legge
 stessa.
    Sussisterebbe  infine  contrasto  con gli artt. 2 e 3 Cost., per i
 quali la Repubblica s'impegna a garantire i diritti inviolabili ed il
 pieno  sviluppo  della persona ed a rimuovere gli ostacoli che a tale
 sviluppo si frappongono. Qualora i limiti fra il lecito e  l'illecito
 non  fossero chiaramente delineati, l'ordinamento, anziche' rimuovere
 i predetti ostacoli, ne costituirebbe esso stesso un esempio vistoso.
    4.  -  Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato, deducendo l'infondatezza della questione.
    Rileva  l'Avvocatura  che  il  giudice  a  quo da un lato esaspera
 alcuni aspetti di ordine pratico, che potrebbero essere adeguatamente
 risolti  sol che si giudicasse con un po' di buon senso e logica e da
 un altro lato non tien conto della sentenza n. 74 del  1975,  che  ha
 gia'  risolto  la  questione  della conformita' dell'art. 5 c.p. agli
 artt. 2 e 25 Cost.
    Quanto  al  preteso contrasto delle norme impugnate con l'art. 27,
 terzo  comma,  Cost.,  l'Avvocatura  rileva  che,  se  fosse   esatto
 l'assunto  del Pretore, l'ignoranza della norma dovrebbe escludere la
 pena in ogni caso e non soltanto nell'ipotesi d'ignoranza inevitabile
 e, pertanto, scusabile.
    L'Avvocatura  esclude  che  possa ravvisarsi contrasto delle norme
 impugnate con l'art. 25, secondo comma, Cost.,  in  quanto  "la  base
 costituzionale  dell'art.  5  c.p. risiede nell'art. 73, terzo comma,
 Cost."; ed esclude anche contrasto tra le stesse norme e gli artt.  2
 e  3  Cost.,  non  potendo  affermarsi che difficolta' interpretative
 delle norme penali siano d'ostacolo al pieno sviluppo  della  persona
 umana o violino il principio d'eguaglianza dei cittadini;
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  ordinanze  in  epigrafe  propongono analoghe questioni:
 riuniti i giudizi,  le  stesse  questioni  possono,  pertanto,  esser
 decise con unica sentenza.
    2.  -  L'ordinanza  di rimessione del Pretore di Cingoli riferisce
 che agli imputati e'  stata  contestata  la  contravvenzione  di  cui
 all'art.  17,  lettera  b),  della  legge  28  gennaio  1977, n. 10 e
 l'ordinanza  di  rimessione  del  Pretore  di  Padova  riferisce  che
 l'imputato  e'  stato  chiamato a rispondere della contravvenzione di
 cui  all'art.  666  c.p.:  mentre  le  predette  ordinanze  risultano
 sufficientemente  motivate  in  ordine alla rilevanza non si puo' qui
 far riferimento al  notissimo  indirizzo  giurisprudenziale  relativo
 alla  "buona  fede" nelle contravvenzioni senza impostare e risolvere
 il generale problema della legittimita' dell'art. 5 c.p.: a parte  la
 sua non uniformita', il predetto indirizzo giurisprudenziale, come in
 seguito si motivera', non trova fondamento nella vigente legislazione
 a  causa  della  norma  di "sbarramento", di cui all'art. 5 c.p., che
 impedisce ogni rilievo, comunque, all'ignoranza della  legge  penale,
 sia  essa  qualificata  o  meno.  Come e' stato esattamente rilevato,
 disciplinando un elemento negativo (l'ignoranza) lo  stesso  articolo
 non  offre  possibilita'  d'operare  distinzioni di disciplina tra le
 diverse cause dell'ignoranza o tra le varie modalita' concrete  nelle
 quali la medesima si manifesta.
    3.  -  Prima  d'esaminare se ed in quali limiti l'art. 5 c.p. deve
 ritenersi  illegittimo,  a  seguito  dell'entrata  in  vigore   della
 Costituzione  repubblicana,  vanno qui brevemente sottolineate alcune
 premesse ideologiche, di metodo, storiche e dommatiche.
    La  mancata  considerazione  delle  relazioni tra soggetto e legge
 penale, l'idea che nessun rilievo  giuridico  va  dato  all'ignoranza
 della  legge  penale,  e',  fra  l'altro,  il  risultato  di  tre ben
 caratterizzate  impostazioni  ideologiche.  La  prima,  in   radicale
 critica   alla   concezione   normativa  del  diritto,  contesta  che
 l'obbedienza o la trasgressione della legge abbia  attinenza  con  la
 conoscenza  od  ignoranza  della medesima. La seconda sottolinea che,
 essendo l'ordinamento giuridico sorretto da  una  "coscienza  comune"
 che  lo  legittima  e  costituendo,  pertanto, la trasgressione della
 legge "episodio" particolare,  incoerente  e  percio'  ingiustificato
 (attuato  da  chi,  conoscendo  e  contribuendo a realizzare i valori
 essenziali che sono  alla  base  dello  stesso  ordinamento,  appunto
 arbitrariamente  ed  incoerentemente si pone in contrasto con uno dei
 predetti  valori)  non  puo'  lo  stesso   ordinamento   condizionare
 l'effettiva  applicazione  della  sanzione  penale  alla  prova della
 conoscenza, da parte dell'agente, per ogni illecito, del  particolare
 precetto  violato.  La  terza  impostazione  ideologica,  comunemente
 ritenuta soltanto politica, attiene all'illuministica "maesta'" della
 legge, la cui obbligatorieta', si sostiene, non va condizionata dalle
 mutevoli "psicologie" individuali nonche' dall'alea della  prova,  in
 giudizio, della conoscenza della stessa legge.
    Senonche',  contro  la  prima  tesi,  va  osservato  che, supposta
 l'esistenza  di  leggi  giuridiche  statali,   nessun   dubbio   puo'
 fondatamente    sorgere   in   ordine   al   principio   che   spetta
 all'ordinamento dello Stato stabilire le condizioni in presenza delle
 quali esso entra in funzione (e, tra queste, ben puo' essere prevista
 la conoscenza della  legge  che  si  viola).  Alla  seconda  tesi  va
 obiettato  che,  in tempi in cui le norme penali erano circoscritte a
 ben precisi illeciti, ridotti nel numero e, per lo piu',  costituenti
 violazione  anche  di  norme sociali universalmente riconosciute, era
 dato sostenere  la  regolare  conoscenza,  da  parte  dei  cittadini,
 dell'illiceita'  dei  fatti  violatori  delle leggi penali; ma, oggi,
 tenuto conto del notevole  aumento  delle  sanzioni  penali,  sarebbe
 quasi impossibile dimostrare che lo Stato sia effettivamente sorretto
 da una "coscienza comune" tutte le volte che  "aggiunge"  sanzioni  a
 violazioni  di particolari, spesso "imprevedibili", valori relativi a
 campi, come quelli previdenziale, edilizio, fiscale ecc.,  che  nulla
 hanno   a  che  vedere  con  i  delitti,  c.d.  naturali,  di  comune
 "riconoscimento" sociale. Alla terza impostazione ideologico-politica
 va obiettato che, certamente, e' pericoloso, per la tutela dei valori
 fondamentali sui quali si fonda lo Stato, condizionare, di  volta  in
 volta, alla prova in giudizio della conoscenza della legge penale, da
 parte dell'agente, l'effettiva applicabilita' delle  sanzioni  penali
 ma    che,   tuttavia,   il   principio   dell'irrilevanza   assoluta
 dell'ignoranza della legge penale non  discende  dall'obbligatorieta'
 della  stessa  legge; tant'e' vero che, come e' stato sottolineato di
 recente  dalla  dottrina,  nei  sistemi  nei  quali  si   attribuisce
 rilevanza  all'ignoranza  della  legge penale non per questo la legge
 diviene "meno obbligatoria".
    Vero  e'  che  gli  opposti  principi  dell'assoluta irrilevanza o
 dell'assoluta rilevanza dell'ignoranza della legge penale non trovano
 valido   fondamento:   ove,   infatti,   s'accettasse   il  principio
 dell'assoluta  irrilevanza  dell'ignoranza  della  legge  penale   si
 darebbe  incondizionata  prevalenza  alla tutela dei beni giuridici a
 scapito della liberta' e dignita' della persona  umana,  costretta  a
 subire  la  pena  (la piu' grave delle sanzioni giuridiche) anche per
 comportamenti (allorche' l'ignoranza della legge sia inevitabile) non
 implicanti  consapevole  ribellione  o  trascuratezza  nei  confronti
 dell'ordinamento; ove,  invece,  si  sostenesse  l'opposto  principio
 dell'assoluta   scusabilita'  della  predetta  ignoranza,  l'indubbio
 rispetto della  persona  umana  condurrebbe  purtroppo  (a  parte  la
 questione della possibilita' che esistano soggetti che volutamente si
 tengano all'oscuro dei doveri giuridici) a rimettere  alla  variabile
 "psicologia"  dei  singoli la tutela di beni che, per essere tutelati
 penalmente, si suppone siano  fondamentali  per  la  societa'  e  per
 l'ordinamento giuridico statale.
    4.  -  Sul  piano metodologico va osservato che non e' prospettiva
 producente ed esaustiva quella che  esamini  il  tema  dell'ignoranza
 della  legge  penale  considerando  il  solo  "istante"  nel quale il
 soggetto oggettivamente viola la legge  penale  nell'ignoranza  della
 medesima.  E'  indispensabile,  infatti,  non  trascurare le "cause",
 remote e prossime, della predetta ignoranza  e,  pertanto,  estendere
 l'indagine  al  preliminare  stato  delle  relazioni  tra ordinamento
 giuridico e soggetti ed in particolare ai rapporti tra l'ordinamento,
 quale soggetto attivo dei processi di socializzazione di cui all'art.
 3, secondo comma, Cost. ed autore  del  fatto  illecito.  Se  non  si
 manchera' d'accennare a tale indagine, va, peraltro, sottolineato che
 la  medesima   non   potra',   ovviamente,   esser   sufficientemente
 approfondita in questa sede.
    5.  -  Dal  punto  di  vista  storico  e  di  diritto comparato va
 sottolineato che  il  principio  dell'irrilevanza  dell'ignoranza  di
 diritto   non   e'   mai  stato  positivamente  affermato  nella  sua
 assolutezza. Si puo', anzi, affermare che la storia del principio  in
 esame  coincida  con  la  storia  delle  sue  eccezioni:  dal diritto
 romano-classico, per il quale era consentito alle donne ed ai  minori
 di  25  anni  "ignorare  il diritto", attraverso i "glossatori" ed il
 diritto canonico, fino alle attuali normative  di  diritto  comparato
 (codici   penali  tedesco-occidentale,  austriaco,  svizzero,  greco,
 polacco, iugoslavo, giapponese ecc.)  si  evidenziano  tali  e  tante
 "eccezioni"  all'assolutezza  del  principio  in  discussione  che il
 codice Rocco si puo' sostenere  sia  rimasto,  in  materia,  isolato,
 neppure  piu'  seguito  dal  codice  penale portoghese. Quest'ultimo,
 infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il
 c.d.  "errore  intellettuale", nel quale rientra l'errore sul divieto
 la cui conoscenza appare ragionevolmente indispensabile perche' possa
 aversi coscienza dell'illiceita' del fatto.
    6. - Va, infine, ricordato che, come rilevato da recente dottrina,
 il principio dell'inescusabilita' dell'ignoranza della legge  penale,
 concepito  nella  sua  assolutezza,  non  trova  neppure  convincente
 sistemazione dommatica. Escluso che  possa  prospettarsi  l'esistenza
 d'un   "dovere   autonomo  di  conoscenza"  della  legge  penale  (ne
 mancherebbe, fra l'altro, la relativa sanzione) anche le  tesi  della
 presunzione  iuris  et de iure e della "finzione" di conoscenza della
 legge penale (a parte  la  considerazione  che  le  medesime,  mentre
 ritengono  essenziale al reato la coscienza dell'antigiuridicita' del
 comportamento criminoso, "presumono", in  fatto,  cio'  che  assumono
 essenziale   in  teoria)  s'inseriscono  in  un  contesto  che  parte
 dall'opposto principio dell'essenzialita' al  reato  della  coscienza
 dell'illiceita'  e,  pertanto,  della  "scusabilita'"  dell'ignoranza
 della legge penale.
    7.  -  Prima  d'iniziare il confronto tra l'art. 5 c.p. e la Carta
 fondamentale, va, ancora, ricordato che, a  seguito  dell'entrata  in
 vigore  di  quest'ultima,  lo  stesso  articolo  e'  stato oggetto di
 numerose,  pesanti  critiche.   Partendo   da   ben   note   premesse
 sistematiche  (l'imperativita'  della  norma  penale);  ricordata  la
 strumentalizzazione  che  lo  Stato  autoritario  aveva  operato  del
 principio dell'assoluta irrilevanza dell'ignoranza della legge penale
 (gia'   nel   1930   tal   principio,   trasferito    dal    capitolo
 dell'imputabilita',  nel  quale  era  inserito dal codice del 1879, a
 quello  dell'obbligatorieta'  della  legge   penale,   era   divenuto
 "cardine"   del   sistema);   ed  affermata  la  necessita',  per  la
 punibilita'  del  reato,   dell'effettiva   coscienza,   nell'agente,
 dell'antigiuridicita'  del  fatto; e' stata con forza sottolineata la
 stridente  incompatibilita'  dell'art.  5  c.p.,   qualificato   come
 "incivile", con la Costituzione.
    E'   stato,   tuttavia,   agevole,  sul  versante  delle  premesse
 sistematiche, contrapporre  alla  tesi  dell'effettiva  imperativita'
 della  norma  penale,  la formula dell'idoneita' della stessa norma a
 funzionare come comando e, sul versante dell'illegittimita' dell'art.
 5  c.p.,  contrapporre  alla  richiesta  di  totale  abrogazione o di
 dichiarazione d'illegittimita'  costituzionale  dell'intero  articolo
 l'inesistenza,  nella  Costituzione, d'un vincolo, per il legislatore
 ordinario, di non sanzionare  penalmente  fatti  carenti  d'effettiva
 coscienza dell'antigiuridicita'. Le risposte, indubbiamente corrette,
 da una parte hanno, tuttavia, finito  col  "chiudere"  ogni  indagine
 sulla  relazione tra ordinamento giuridico e soggetti, viventi in una
 determinata  concretezza  storica,  in  una  particolare   situazione
 sociale   e   d'altra  parte  hanno  precluso,  tranne  lodevolissime
 eccezioni, ogni ulteriore esame della  Costituzione,  allo  scopo  di
 verificare  se,  in  mancanza  del precitato "vincolo" dell'effettiva
 presenza della coscienza dell'antigiuridicita', non esistessero altri
 vincoli,   per   il   legislatore   ordinario,  mirati  ad  escludere
 l'incriminazione di fatti commessi in carenza di altre, anche se meno
 penetranti, relazioni tra soggetto e legge penale.
    Sorge,  invero,  spontanea  la domanda: a che vale richiedere come
 essenziale requisito subiettivo (minimo) d'imputazione uno  specifico
 rapporto  tra  soggetto  ed evento, tra soggetto e fatto, quando ogni
 "preliminare"  esame  delle  relazioni  tra  soggetto  e   legge   e,
 conseguentemente,   tra   soggetto   e   fatto  considerato  nel  suo
 "integrale" disvalore antigiuridico viene eluso? E come e'  possibile
 risolvere i quesiti attinenti alla c.d. costituzionalizzazione (salve
 le osservazioni che, in proposito, saranno  prospettate  in  seguito)
 del principio di colpevolezza, intesa quest'ultima come relazione tra
 soggetto e fatto, quando, non "rimuovendo"  il  principio  d'assoluta
 irrilevanza  dell'ignoranza  della  legge penale, sancito dall'art. 5
 c.p., vengono "stroncate", in radice,  le  indagini  sulle  metodiche
 d'incriminazione    dei    fatti   e   quelle   sulla   chiarezza   e
 riconoscibilita' dei  contenuti  delle  norme  penali  nonche'  sulle
 "certezze"  che  le  norme  penali dovrebbero assicurare e, pertanto,
 sulle garanzie che, in materia, di  liberta'  d'azione,  il  soggetto
 attende dallo Stato?
    8.  -  Allo scopo d'un attento approccio all'esegesi dell'art. 27,
 primo comma, Cost, occorre preliminarmente  accennare  al  valore  ed
 alla funzione che il momento subiettivo dell'antigiuridicita' penale,
 il personale contrasto con la norma penale, assume nel sistema  della
 vigente  Costituzione.  Si  noti:   una parte della dottrina richiede
 anche un mutamento terminologico, valido a distinguere la  concezione
 della  colpevolezza  quale  fondamento  etico  della  responsabilita'
 penale dalla concezione che ne accentua la sua funzione di limite  al
 potere    coercitivo    dello   Stato.   A   parte   ogni   questione
 sull'ammissibilita'  d'un'idea  di  colpevolezza  che  limiti   senza
 fondare  la  potesta'  punitiva  dello  Stato,  i richiesti mutamenti
 terminologici appaiono necessari ed anche urgenti;  e,  tuttavia,  in
 questa  sede,  e'  preferibile  mantenersi  fermi  alla  tradizionale
 etichetta "colpevolezza" sia per ovvii motivi di  chiarezza  sia  per
 sottolineare,  pur  nel  variare,  storicamente  condizionato,  delle
 nozioni dommatiche, la continuita' dell'esigenza  costituzionale  del
 rispetto e tutela della persona alla quale viene attribuito il reato.
    Va,   a   questo   proposito,   sottolineato   che  non  e'  stato
 sufficientemente posto l'accento sulla diversita'  di  due  accezioni
 del  termine  colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai
 requisiti  subiettivi  della  fattispecie  penalmente  rilevante  (ed
 eventualmente  anche  alla  valutazione  di  tali  requisiti  ed alla
 rimproverabilita' del  soggetto  agente);  la  seconda,  fuori  dalla
 sistematica   degli   elementi   del   reato,   denota  il  principio
 costituzionale, garantista (relativo alla personalita'  dell'illecito
 penale,  ai  presupposti della responsabilita' penale personale ecc.)
 in base  al  quale  si  pone  un  limite  alla  discrezionalita'  del
 legislatore   ordinario   nell'incriminazione  dei  fatti  penalmente
 sanzionabili, nel senso che  vengono  costituzionalmente  indicati  i
 necessari   requisiti   subiettivi   minimi  d'imputazione  senza  la
 previsione  dei  quali  il  fatto  non  puo'  legittimamente   essere
 sottoposto  a pena. Qui si usera' il termine colpevolezza soprattutto
 in quest'ultima accezione mentre lo stesso termine, all'infuori della
 prospettiva    costituzionale    (nell'impossibilita'   di   ritenere
 "costituzionalizzata", come si precisera' fra breve, una delle  tante
 concezioni   della   colpevolezza  proposte  dalla  dottrina)  verra'
 riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42,  43,  47,
 59  ecc. c.p.: questo sistema verra', infatti, posto in raffronto con
 l'art. 27,  primo  e  terzo  comma  e  con  i  fondamentali  principi
 dell'intera  Costituzione,  al  fine  di chiarire come l'art. 5 c.p.,
 incidendo negativamente  sul  sistema  ordinario  della  colpevolezza
 (attraverso  l'esclusione d'ogni rilievo della conoscenza della legge
 penale) fa si' che lo stesso sistema  non  si  riveli  adeguato  alle
 direttive  costituzionali  in  tema  di  requisiti  subiettivi minimi
 d'imputazione.
    Va,  a  questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che
 la colpevolezza costituzionalmente richiesta,  come  avvertito  dalla
 piu'  recente  dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da
 poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato,  scambiato,
 sostituito   con  altri  o  paradossalmente  eliminato.  Limpidamente
 testimonia cio' la stessa recente,  particolare  accentuazione  della
 funzione  di  garanzia  (limite  al  potere statale di punire) che le
 moderne concezioni sulla pena attribuiscono  alla  colpevolezza.  Sia
 nella  concezione  che  considera  quest'ultima  "fondamento", titolo
 giustificativo  dell'intervento  punitivo  dello  Stato   sia   nella
 concezione  che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite
 allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento  del
 sistema)  inalterato  permane  il "valore" della colpevolezza, la sua
 insostituibilita'.
    Per  precisare ancor meglio l'indispensabilita' della colpevolezza
 quale attuazione, nel sistema ordinario,  delle  direttive  contenute
 nel  sistema  costituzionale  vale ricordare non solo che tal sistema
 pone al vertice della scala dei valori  la  persona  umana  (che  non
 puo',   dunque,  neppure  a  fini  di  prevenzione  generale,  essere
 strumentalizzata)  ma  anche  che  lo  stesso  sistema,  allo   scopo
 d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio
 di  legalita',  ritiene  indispensabile  fondare  la  responsabilita'
 penale  su "congrui" elementi subiettivi. La strutturale "ambiguita'"
 della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme
 titolo idoneo d'intervento contro la criminalita' e garanzia dei c.d.
 destinatari della legge  penale.  Nelle  prescrizioni  tassative  del
 codice  il  soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli e'
 lecito e cosa gli e' vietato: ed a questo fine sono necessarie  leggi
 precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento.
 Il principio di colpevolezza e',  pertanto,  indispensabile,  appunto
 anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione:
 per garantirgli, cioe', che sara' chiamato  a  rispondere  penalmente
 solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo
 fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e,  comunque,
 mai  per  comportamenti realizzati nella "non colpevole" e, pertanto,
 inevitabile ignoranza del precetto.
    A nulla varrebbe, infatti, in sede penale, garantire la riserva di
 legge statale, la tassativita' delle leggi ecc.  quando  il  soggetto
 fosse chiamato a rispondere di fatti che non puo', comunque, impedire
 od in relazione ai quali non e' in grado, senza la benche' minima sua
 colpa,  di  ravvisare  il dovere d'evitarli nascente dal precetto. Il
 principio di colpevolezza, in  questo  senso,  piu'  che  completare,
 costituisce  il  secondo  aspetto  del  principio,  garantistico,  di
 legalita', vigente in ogni Stato di diritto.
    9.  - Le premesse precisazioni indicano la "chiave di lettura", il
 quadro garantistico entro il quale inserire l'esegesi  dell'art.  27,
 primo comma, Cost.
    Va,   intanto,   notato   che  l'art.  27  Cost.  non  puo'  esser
 adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera,  per  cosi'  dire,
 spezzettata,  senza  collegamenti  "interni".  I  commi primo e terzo
 vanno letti in stretto collegamento: essi,  infatti,  pur  enunciando
 distinti  principi,  costituiscono  un'unitaria presa di posizione in
 relazione ai requisiti subiettivi minimi che il reato deve  possedere
 perche'   abbiano   significato   gli  scopi  di  politica  criminale
 enunciati, particolarmente, nel terzo comma. Delle due  l'una:  o  il
 primo  e'  in  palese  contraddizione con il terzo comma dell'art. 27
 Cost. oppure e', appunto, quest'ultimo comma che  svela,  ove  ve  ne
 fosse  bisogno,  l'esatto  significato  e  la  precisa portata che il
 principio  della  responsabilita'  penale  personale   assume   nella
 Costituzione.   Sicche',  quand'anche  la  lettera  del  primo  comma
 dell'art. 27 desse  luogo  a  dubbi  interpretativi,  essi  sarebbero
 certamente  fugati da un'attenta considerazione delle finalita' della
 pena, di cui al terzo comma dello stesso articolo.
    10.  -  Nell'esame  del  merito dell'interpretazione dell'art. 27,
 primo comma, Cost., vanno approfonditi i dibattiti svoltisi durante i
 lavori preparatori.
    E'  anzitutto  da  sottolineare  che la motivazione politica della
 norma in  esame  non  risulta  essere  stata  l'unico  argomento  dei
 dibattiti  svoltisi,  nella seduta del 18 settembre 1946, presso la I
 sottocommissione (della "Commissione per la Costituzione") anzi, tale
 motivazione  venne introdotta, come opinione personale del presidente
 della stessa sottocommissione, quasi alla fine della seduta  ed  allo
 scopo  di "mantenere" la norma (che costituiva il capoverso dell'art.
 5 del  Progetto  di  Costituzione)  contro  le  richieste  della  sua
 soppressione.  Gli  argomenti trattati in precedenza risultano essere
 stati vari, tutti, comunque, tendenti ad escludere che  da  una,  sia
 pur   erronea,   interpretazione   della  formula  normativa  potesse
 desumersi   la   legittimita'   di   responsabilita'   penali   senza
 partecipazione subiettiva.
    Alcuni  Costituenti  mostrarono,  con  felice  intuizione, davvero
 premonitrice, forti preoccupazioni  sulla  possibilita'  di  equivoci
 nell'interpretazione  della  formula  "La  responsabilita'  penale e'
 personale" e ne chiesero la soppressione, temendo si potesse ritenere
 "configurabile" una responsabilita' penale senza elemento subiettivo.
 La terminologia e' spesso imprecisa ma la volonta' certa.
    Si  inizio', da parte di alcuni Costituenti, rilevando che vi sono
 casi in cui e' "discutibile se si tratti di responsabilita' personale
 o non si tratti di responsabilita' penale anche per fatto altrui". Si
 prosegui' sottolineando che non  si  devono  creare  equivoci,  anche
 "avuto  riguardo  agli  artt.  1151,  1152  e 1153 del vecchio Codice
 civile, articoli che non trovano la loro  corrispondenza  nel  codice
 fascista".
    Si   sostenne,   da   altro   Costituente,   che  la  formula  "La
 responsabilita' penale e' personale"  fosse  da  mantenersi,  essendo
 essa  affermazione  di liberta' e civilta', limpidamente aggiungendo:
 "Si  risponde  per  fatto  proprio  e  si  risponde  attraverso  ogni
 partecipazione personale al fatto proprio. Questo e' il principio del
 diritto moderno, che trova la sua  espressione  nel  principio  della
 consapevolezza  che  deve accompagnare il fatto materiale. Parlare di
 responsabilita' personale significa richiamarsi ad un  principio  che
 domina nell'odierno pensiero della scienza giuridica".
    Intorno  ai "dubbi" (ripetiamo, non sulla necessita' dell'elemento
 subiettivo per la responsabilita' penale ma sulla  possibilita'  che,
 interpretando   erroneamente   la   formula,   si   potesse  ritenere
 ammissibile  una  responsabilita'  senza  elemento   subiettivo)   si
 chiesero  "chiarimenti" sui "fatti penali commessi per ordine altrui"
 e, dando all'espressione "fatto altrui" un significato che  includeva
 nel  termine  "fatto"  anche  l'elemento  subiettivo, si osservo' che
 quest'ultimo manca, talvolta, in chi  pur  consuma  materialmente  il
 reato  e  che,  appunto  per tale mancanza, non puo' esser chiamato a
 rispondere  penalmente.  Se  chi  opera   materialmente,   s'affermo'
 esplicitamente, agisce per fatto altrui, per esempio per l'esecuzione
 d'un  ordine,  la  responsabilita'   non   e'   piu'   dell'esecutore
 dell'ordine,  il  quale  ha  consumato  il  reato  ma  di chi ha dato
 l'ordine. Non e', dunque, responsabile "chi  ha  eseguito  un  ordine
 legittimo  dell'autorita'" perche' manca di elemento subiettivo ed e'
 responsabile chi ha commesso il fatto (altrui rispetto all'esecutore)
 perche' nel fatto e' incluso il predetto elemento.
    Si  replico',  puntualmente,  da  parte di autorevoli Costituenti,
 affermando che "Colui che ha commesso un atto delittuoso risponde  di
 persona propria se si trovava nella condizione di poter disobbedire":
 "altrimenti rispondera' colui che ha dato l'ordine e  rispondera'  in
 persona  propria  per aver prodotto il fatto delittuoso stesso". E si
 aggiunse che colui  che  esegue  l'ordine  "non  risponde  penalmente
 perche' da lui non si poteva pretendere che agisse diversamente".
    Vi  fu,  poi, chi osservo' che la responsabilita' personale non e'
 un principio moderno ma un principio che, gia' nel 1500  o  1600,  il
 diritto  canonico,  riportando  il  delitto ad un peccato dell'anima,
 aveva reso effettivo; e chiese la soppressione della formula in esame
 da  un  canto  perche'  scontata e dall'altro perche', ritornando sul
 principio, si potevano provocare confusioni in tema di  soggetti  che
 sono  in  colpa (e per questo devono penalmente rispondere) ma le cui
 azioni non sono causa  diretta  o  prossima  dell'evento  ("non  sono
 direttamente colpevoli").
    Tutti  i  Costituenti,  dunque,  almeno  fino a questo momento del
 dibattito,  sostennero  che  la  responsabilita'   penale   personale
 implicava necessariamente, oltre all'elemento materiale, un requisito
 subiettivo e, per alcuni Costituenti,  l'esistenza,  in  particolare,
 della  possibilita'  di muovere rimprovero all'agente, potendo da lui
 pretendersi un comportamento diverso.
    Esaminando  gli  ulteriori  interventi  ci s'accorge che, soltanto
 quasi  alla  fine  della  discussione,  mirandosi  a  respingere   le
 richieste  di  soppressione  della  norma  in  esame,  si  sposto' il
 dibattito sulle motivazioni politiche della stessa  norma  sostenendo
 che  non  si  doveva  dimenticare che, in occasione di attentati alla
 vita di Mussolini, si erano perseguiti i  familiari  dell'attentatore
 od  i  componenti dei circoli politici a cui era affiliata la persona
 che aveva consumato l'attentato e  che,  pertanto,  la  norma  andava
 mantenuta.
    Da  cio' si desume da un canto che il termine fatto (altrui) venne
 usato, da chi sosteneva la motivazione  politica  dell'attuale  primo
 comma  dell'art.  27 Cost., come comprensivo dell'elemento subiettivo
 (attentare  alla  vita  di  Mussolini  e'  agire   colpevolmente)   e
 dall'altro  che  tale  motivazione tendeva (dichiarata per l'avvenire
 l'illegittimita' costituzionale di sanzioni  collettive)  a  non  far
 ricadere  su  innocenti  "colpe"  altrui.   L'intervento successivo a
 quello del  presidente  della  prima  sottocommissione  e'  oltremodo
 eloquente  in  proposito:  "...Proprio in questi ultimi tempi si sono
 viste delle  persone  pagare  con  la  vita  colpe  che  non  avevano
 assolutamente  commesso".  La  motivazione  politica  della norma e',
 dunque, quella d'impedire che  "colpe  altrui"  ricadano  su  chi  e'
 estraneo alle medesime.
    Ne'  va  dimenticato  che,  nella  seduta successiva (19 settembre
 1946) della stessa prima sottocommissione, allorche'  si  tratto'  di
 sostituire  il  termine  "colpevole" con quello di "reo", dapprima si
 suggeri' d'usare  la  parola  "condannato"  ma,  successivamente,  di
 fronte  alla  contestazione sull'inusualita' del termine "condannato"
 fuori dalla sede processuale, si torno', per un momento, alla  parola
 "colpevole",  dichiarandosi  espressamente:  "Questa  parola  e' piu'
 chiara, specialmente quando si parla di rieducazione  del  colpevole,
 perche' il termine di rieducazione presuppone una colpa".
    Ma la conferma definitiva per la quale i Costituenti mirarono, con
 la norma di cui al primo comma dell'art. 27 Cost.,  ad  escludere  la
 responsabilita' penale senza elemento subiettivo si ha ricordando che
 alcuni Costituenti presentarono, questa volta  in  Assemblea  (seduta
 antimeridiana del 15 aprile 1947) un emendamento alla norma in esame,
 sostitutivo della parola  "personale"  con  l'espressione  "solo  per
 fatto personale" e che, nella seduta del 26 marzo 1947 dell'Assemblea
 costituente, si motivo' l'emendamento, fra l'altro, affermando che si
 doveva armonizzare la responsabilita' penale per fatto proprio con la
 responsabilita' del direttore di giornali per reati di stampa, "cosi'
 che la presunzione assoluta di colpa iuris et de iure si trasformi in
 presunzione iuris tantum". E nella seduta pomeridiana  del  27  marzo
 1947  della  stessa  Assemblea, si motivo' ancora una volta, da parte
 d'altro   autorevole    presentatore,    il    citato    emendamento,
 dichiarandosi:  "...  E qui conviene stabilire che la responsabilita'
 penale e' sempre per  fatto  proprio  mai  per  fatto  altrui;  cosi'
 delimitandosi   quell'arbitraria   inaccettabile   configurazione  di
 responsabilita'   presuntiva   in    materia    giornalistica".    La
 responsabilita'  penale  sorge,  dunque, solo nell'effettiva presenza
 dell'elemento subiettivo: non si puo' mai dare per presunta la colpa.
    Se  si  tien presente che il caso della responsabilita' penale del
 direttore  di  giornali  per  reati  commessi  a  mezzo  stampa   era
 considerato,  nel  1946-47, dall'assoluta maggioranza della dottrina,
 classico caso di responsabilita' penale senza elemento subiettivo  di
 collegamento  con  l'evento,  non  si puo' non dare il giusto rilievo
 all'"assicurazione" che il Presidente della  prima  sottocommissione,
 nella  seduta  antimeridiana del 15 aprile 1947 dell'Assemblea, diede
 ai presentatori del citato emendamento, nel  pregarli  di  ritirarlo,
 sull'inesistenza    delle    preoccupazioni   affacciate,   data   la
 formulazione proposta dalla Commissione.
    In  conclusione,  va  confermato  che,  per  quanto  si  usino  le
 espressioni fatto proprio e fatto  altrui,  che  possono  indurre  in
 errore,  in  realta', in tutti i lavori preparatori relativi al primo
 comma dell'art. 27 Cost.,  i  Costituenti  mirarono,  sul  piano  dei
 requisiti d'imputazione del reato, ad escludere che si considerassero
 costituzionalmente legittime ipotesi carenti di  elementi  subiettivi
 di  collegamento  con  l'evento  e,  sul  piano  politico,  a non far
 ricadere su "estranei" "colpe altrui". E mai,  in  ogni  caso,  venne
 usato  il termine fatto come comprensivo del solo elemento materiale,
 dell'azione cosciente e volontaria seguita dal solo  nesso  oggettivo
 di  causalita':  anzi,  sempre  venne  usato  lo  stesso termine come
 comprensivo anche d'un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli
 relativi alla coscienza e volonta' dell'azione.
    11.  -  Ma  il  significato  del primo comma dell'art. 27 Cost. va
 chiarito, anche  a  parte  i  citati  lavori  preparatori,  nei  suoi
 particolari  rapporti  con il terzo comma dello stesso articolo e con
 gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma, Cost.
    Anzitutto, e' significativa la "lettera" del primo comma dell'art.
 27 Cost. Non si legge, infatti, in esso: la responsabilita' penale e'
 "per  fatto  proprio"  ma  la  responsabilita' penale e' "personale".
 Sicche', chi tendesse ad esaminare lo stesso comma sotto il  profilo,
 per  quanto,  in  sede  penale, superato, della distinzione tra fatto
 proprio ed altrui (salvo a precisare l'esatta accezione, in  materia,
 del  termine  "fatto") dovrebbe almeno leggere la norma in esame come
 equivalente a: "La responsabilita'  penale  e'  per  personale  fatto
 proprio".
    Ma  e'  l'interpretazione sistematica del primo comma dell'art. 27
 Cost. che ne svela l'ampia portata.
    Collegando  il primo al terzo comma dell'art. 27 Cost. agevolmente
 si  scorge  che,  comunque  s'intenda  la  funzione  rieducativa   di
 quest'ultima,  essa  postula almeno la colpa dell'agente in relazione
 agli  elementi  piu'  significativi  della  fattispecie  tipica.  Non
 avrebbe senso la "rieducazione" di chi, non essendo almeno "in colpa"
 (rispetto al fatto) non ha, certo, "bisogno" di essere "rieducato".
    Soltanto  quando  alla  pena  venisse assegnata esclusivamente una
 funzione deterrente (ma cio' e' sicuramente da escludersi, nel nostro
 sistema   costituzionale,   data  la  grave  strumentalizzazione  che
 subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima  una
 responsabilita' penale per fatti non riconducibili (oltre a quanto si
 dira' in  tema  d'ignoranza  inevitabile  della  legge  penale)  alla
 predetta  colpa  dell'agente,  nella  prevedibilita'  ed evitabilita'
 dell'evento.
    12.  -  Non  e'  dato  qui  scendere ad ulteriori precisazioni: va
 soltanto chiarito che quanto sostenuto e' in  pieno  accordo  con  la
 tendenza  mostrata  dalle decisioni assunte da questa Corte allorche'
 e' stata chiamata  a  decidere  sulla  costituzionalita'  di  ipotesi
 criminose  che  si  assumeva  non  contenessero  requisiti subiettivi
 sufficienti a realizzare il dettato dell'art.  27  Cost.  Qui  quella
 tendenza si completa e conclude.
    A  parte un momento le affermazioni "di principio" contenute nelle
 citate decisioni, nessuno puo' disconoscere che, sempre, le sentenze,
 in  materia,  hanno  cercato  di  ravvisare,  nelle  ipotesi concrete
 sottoposte all'esame della Corte,  un  qualche  "requisito  psichico"
 idoneo  a  renderle immuni da censure d'illegittimita' costituzionale
 ex art. 27 Cost. Le  stesse  decisioni,  pur  muovendosi  nell'ambito
 dell'alternativa  tra  fatto  proprio ed altrui, non hanno mancato di
 ricercare  spesso  un  qualche  coefficiente  soggettivo  (anche   se
 limitato)  sul  presupposto  che  il  "fatto proprio" debba includere
 anche  simile  coefficiente  per  divenire  "compiutamente   proprio"
 dell'agente:  cosi', ad esempio, nella sentenza n. 54 del 1964, nella
 quale si afferma che il reato in  esame  "presuppone  nell'agente  la
 volonta'  di svolgere quell'attivita' che va sotto il nome di ricerca
 archeologica e che la legge interdice ai soggetti non legittimati dal
 necessario  provvedimento  amministrativo. Il fatto punito e' percio'
 sicuramente un fatto proprio del  soggetto  cui  la  sanzione  penale
 viene  comminata":  si  noti  che  l'attivita'  indicata, in mancanza
 d'evento naturalistico, integra l'intero  fatto,  oggettivo  che,  in
 conseguenza  del  riferimento  ad  esso  della  volonta' dell'autore,
 "percio' sicuramente" costituisce "fatto proprio" dell'agente;  cosi'
 nella sentenza 17 febbraio 1971, n. 20 ove, a proposito dell'art. 539
 c.p.,  si  rileva  come,  pur  in  presenza   dell'errore   sull'eta'
 dell'offeso,  "la  condotta  del delitto di violenza carnale, essendo
 posta  in  essere  volontariamente  (e  si   badi:   non   esistendo,
 nell'ipotesi  esaminata, evento naturalistico, tal condotta esaurisce
 il  fatto,  oggettivamente  considerato,  al  quale  va  riferita  la
 volontarieta')  e' con certezza riferibile all'autore come "fatto suo
 proprio"; e cosi' ancora, a tacere di altre decisioni, in quella  del
 17 febbraio 1971, n. 21.
    Ed  anche a proposito delle dichiarazioni "di principio" contenute
 nelle citate sentenze va sottolineato che, se si deve qui  confermare
 che  il  primo comma dell'art. 27 Cost. contiene un tassativo divieto
 della responsabilita' "per fatto altrui", va comunque  precisato  che
 cio'  deriva  dall'altro,  ben  piu'  "civile"  principio, di non far
 ricadere su di un  soggetto,  appunto  estraneo  al  "fatto  altrui",
 conseguenze  penali  di  "colpe"  a  lui  non ascrivibili. Come e' da
 confermare che si risponde penalmente soltanto per il fatto  proprio,
 purche'  si  precisi  che  per "fatto proprio" non s'intende il fatto
 collegato al soggetto, all'azione  dell'autore,  dal  mero  nesso  di
 causalita'  materiale  (  da  notare  che,  anzi,  nella  fattispecie
 plurisoggettiva il fatto comune diviene anche "proprio"  del  singolo
 compartecipe in base al solo "favorire" l'impresa comune) ma anche, e
 soprattutto, dal momento subiettivo, costituito,  in  presenza  della
 prevedibilita'  ed  evitabilita'  del risultato vietato, almeno dalla
 "colpa" in senso stretto.
    Ed anche a proposito dell'esclusione, nel primo comma dell'art. 27
 Cost.,  del  tassativo  divieto  di  responsabilita'   oggettiva   va
 precisato  che  (ricordata  l'incertezza  dottrinale  in  ordine alle
 accezioni da attribuire alla predetta espressione) se  nelle  ipotesi
 di  responsabilita'  oggettiva  vengono  comprese  tutte quelle nelle
 quali anche un  solo,  magari  accidentale,  elemento  del  fatto,  a
 differenza  di  altri elementi, non e' coperto dal dolo o dalla colpa
 dell'agente (c.d. responsabilita' oggettiva spuria od  impropria)  si
 deve  anche  qui  ribadire  che il primo comma dell'art. 27 Cost. non
 contiene  un  tassativo  divieto  di   "responsabilita'   oggettiva".
 Diversamente va posto il problema, a seguito di quanto ora sostenuto,
 per la c.d. responsabilita' oggettiva pura o propria.  Si  noti  che,
 quasi sempre e' in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato
 che va posto il problema della violazione delle  regole  "preventive"
 che,   appunto   in  quanto  collegate  al  medesimo,  consentono  di
 riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato.
    Ma,  ove  non  si  ritenga  di restringere la c.d. responsabilita'
 oggettiva "pura" alle sole ipotesi nelle quali  il  risultato  ultimo
 vietato  dal  legislatore  non  e'  sorretto  da  alcun  coefficiente
 subiettivo, va, di volta in volta, a proposito delle diverse  ipotesi
 criminose, stabilito quali sono gli elementi piu' significativi della
 fattispecie che non possono non essere "coperti" almeno  dalla  colpa
 dell'agente  perche'  sia  rispettato  da  parte  del disposto di cui
 all'art. 27, primo comma, Cost. relativa  al  rapporto  psichico  tra
 soggetto e fatto.
    E  non  va,  infine,  dimenticata la sentenza n. 3 del 1956, nella
 quale limpidamente si afferma: "Ma appunto il direttore del periodico
 risponde  per fatto proprio, per lo meno perche' tra la sua omissione
 e  l'evento  c'e'  un  nesso  di  causalita'  materiale,   al   quale
 s'accompagna   sempre   un   certo  nesso  psichico  (art.  40  c.p.)
 sufficiente, come e'  opinione  non  contrastata,  a  conferire  alla
 responsabilita'  il  connotato  della  personalita'".  A  parte  ogni
 rilievo, peraltro gia' sottolineato, in  ordine  all'alternativa  tra
 fatto  proprio  ed altrui, e' altamente indicativa l'affermazione per
 la quale al nesso di causalita' materiale  s'accompagna  "sempre"  un
 certo nesso psichico.
    13.  -  La  verita'  e'  che non va "continuata" la polemica sulla
 costituzionalizzazione, o meno, del principio di colpevolezza, di cui
 agli  artt.  42, 43, 47, 59 ecc. c.p., quasi che, malgrado l'evidente
 inversione  metodologica,  sia  consentito  interpretare   le   norme
 costituzionali  alla  luce  delle norme ordinarie (qual e', peraltro,
 tra  le  tante  concettualizzazioni  scientifiche,  la   nozione   di
 colpevolezza che dovrebbe essere costituzionalizzata?) ma, chiariti i
 contenuti delle norme  costituzionali  che  determinano  i  requisiti
 subiettivi  "minimi"  d'imputazione,  a  prescindere  un  momento dal
 sistema ordinario, desunto dagli artt. 42,  43,  47,  59  ecc.  c.p.,
 occorre  verificare,  di  volta  in  volta,  se  le  singole  ipotesi
 criminose di parte speciale (collegate con le disposizioni  di  parte
 generale)  siano  o  meno conformi, quanto ad elementi subiettivi, ai
 requisiti minimi richiesti  dalle  autonomamente  interpretate  norme
 costituzionali.
    La  stessa  possibilita'  (che  si  chiarira',  fra  poco,  essere
 essenziale per il giudizio  di  responsabilita'  penale)  di  muovere
 all'autore  un  "rimprovero"  per  la  commissione  dell'illecito non
 equivale   ad   accoglimento   da   parte   della   Costituzione   (a
 costituzionalizzazione) d'una delle molteplici concezioni "normative"
 della  colpevolezza  prospettate  in  dottrina   bensi'   costituisce
 autonomo  risultato,  svincolato  da  ogni premessa concettualistica,
 dell'interpretazione dei commi primo  e  terzo  dell'art.  27  Cost.,
 anche  se, per accidens, tale "rimprovero" venga a coincidere con una
 delle nozioni di colpevolezza (normativa) prospettate in  dottrina  o
 desunte da un determinato sistema ordinario.
    A  conclusione  del primo approccio interpretativo del disposto di
 cui al primo comma dell'art. 27 Cost., deve, pertanto, affermarsi che
 il   fatto   imputato,  perche'  sia  legittimamente  punibile,  deve
 necessariamente includere almeno la colpa  dell'agente  in  relazione
 agli  elementi  piu' significativi della fattispecie tipica. Il fatto
 (punibile, "proprio" dell'agente) va, dunque, nella  materia  che  si
 sta   trattando,   costituzionalmente  inteso  in  una  larga,  anche
 subiettivamente caratterizzata accezione e non in quella,  riduttiva,
 d'insieme   di   elementi  oggettivi.  La  "tipicita'"  (oggettiva  e
 soggettiva) del fatto (ovviamente, di regola, vengono richiesti nelle
 diverse  ipotesi  criminose,  ulteriori  elementi subiettivi, come il
 dolo ecc.) costituisce, cosi', primo, necessario "presupposto"  della
 punibilita'  ed e' distinta dalla valutazione e rimproverabilita' del
 fatto stesso.
    14.  -  Dal  collegamento  tra il primo e terzo comma dell'art. 27
 Cost.    risulta,    altresi',    insieme    con    la     necessaria
 "rimproverabilita'"    della    personale    violazione    normativa,
 l'illegittimita' costituzionale della  punizione  di  fatti  che  non
 risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto
 con i (od indifferenza ai) valori della  convivenza,  espressi  dalle
 norme  penali.  La  piena,  particolare  compenetrazione  tra fatto e
 persona implica che siano sottoposti a pena soltanto  quegli  episodi
 che,   appunto  personalmente,  esprimano  il  predetto,  riprovevole
 contrasto od  indifferenza.  Il  ristabilimento  dei  valori  sociali
 "dispregiati"  e  l'opera  rieducatrice  ed ammonitrice sul reo hanno
 senso   soltanto   sulla   base    della    dimostrata    "soggettiva
 antigiuridicita'" del fatto.
    Discende  che,  anche  quando non si ritenesse la "possibilita' di
 conoscenza  della  legge  penale"  requisito  autonomo  d'imputazione
 costituzionalmente  richiesto,  ugualmente  si dovrebbe giungere alla
 conclusione che, tutte le volte in  cui  entra  in  gioco  il  dovere
 d'osservare  le leggi penali (che, per i cittadini, e' specificazione
 di quello d'osservare le leggi della Repubblica,  sancito  dal  primo
 comma  dell'art.  54  Cost.)  la  violazione di tal dovere, implicita
 nella commissione del fatto di reato, non  puo'  certamente  divenire
 rilevante, e dar luogo alla pena, in una pura dimensione obiettiva od
 in una "subiettiva", limitata  alla  colpa  del  fatto.  Trattandosi,
 appunto,  dell'applicazione d'una pena, da qualunque teoria s'intenda
 muovere (eccezion fatta per  quella  della  prevenzione  generale  in
 chiave  di  pura deterrenza, che, peraltro, come s'e' gia' avvertito,
 non puo' considerarsi legittimamente utilizzabile per  ascrivere  una
 responsabilita'  penale) e dovendo la violazione del precitato dovere
 essere "rimproverabile", l'impossibilita' di conoscenza del  precetto
 (e,   pertanto,  dell'illiceita'  del  fatto)  non  ascrivibile  alla
 volonta'   dell'interessato   deve   necessariamente   escludere   la
 punibilita'.  Il  vigente  sistema  costituzionale  non  consente che
 l'obbligo di non ledere i valori  penalmente  garantiti  sorga  e  si
 violi  (attraverso  la  commissione  del  fatto di reato) senza alcun
 riferimento,  se   non   all'effettiva   conoscenza   del   contenuto
 dell'obbligo stesso, almeno alla "possibilita'" della sua conoscenza.
 Se l'obbligo giuridico si distingue  dalla  "soggezione"  perche',  a
 differenza  di  quest'ultima, richiama la partecipazione volitiva del
 singolo alla sua realizzazione, far  sorgere  l'obbligo  d'osservanza
 delle  leggi (delle "singole", particolari leggi) penali, in testa ad
 un determinato soggetto, senza la  benche'  minima  possibilita',  da
 parte  del  soggetto stesso, di conoscerne il contenuto e subordinare
 la sua violazione soltanto ai  requisiti  "subiettivi"  attinenti  al
 fatto di reato, equivale da una parte a ridurre notevolmente valore e
 significato di questi ultimi e, d'altra parte, a strumentalizzare  la
 persona umana a fini di pura deterrenza.
    Quanto  ora precisato gia' basterebbe a far ritenere l'art. 5 c.p.
 incostituzionale nella  parte  in  cui  impedisce  ogni  esame  della
 rimproverabilita'  e, pertanto, scusabilita' dell'ignoranza della (od
 errore sulla) legge penale. Anche quando non si sia  dell'avviso  che
 l'art.  5  c.p. operi nell'ambito della colpevolezza e lo si agganci,
 come  nel  codice  Rocco,  all'obbligatorieta'  della  legge  penale,
 ugualmente  lo  stesso  articolo, per le ragioni innanzi indicate, si
 dovrebbe ritenere contrastante con l'art. 27, primo  e  terzo  comma,
 Cost.,  nella  parte  in  cui esclude ogni rilevanza all'ignoranza od
 errore sul precetto dovute all'impossibilita' (non rimproverabile) di
 conoscerlo.
    15.  -  Ma  il  modo  piu' appagante per convalidare tutto cio' e'
 quello intrapreso, in tempi recenti, dalla dottrina  che  ritiene  la
 "possibilita'  di  conoscere  la  norma  penale" autonomo presupposto
 necessario  d'ogni  forma  d'imputazione  e  che  estende  la   sfera
 d'operativita'   di   tale   "presupposto"  a  tutte  le  fattispecie
 penalmente rilevanti, comprese le dolose. Considerando  il  combinato
 disposto  del primo e terzo comma dell'art. 27 Cost. nel quadro delle
 fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte soprattutto
 dagli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 73, terzo comma Cost. ecc., alla
 "possibilita' di conoscere la norma penale" va,  infatti,  attribuito
 un  autonomo  ruolo  nella  determinazione  dei  requisiti subiettivi
 d'imputazione costituzionalmente richiesti: tale  "possibilita'"  e',
 infatti,   presupposto  della  rimproverabilita'  del  fatto,  inteso
 quest'ultimo  come  comprensivo  anche  degli   elementi   subiettivi
 attinenti al fatto di reato.
   16.  -  Basilari norme costituzionali relative alla materia penale,
 mentre tendono a  garantire  al  cittadino,  ed  in  genere  ai  c.d.
 destinatari  delle  norme penali, la sicurezza giuridica di non esser
 puniti ove vengano realizzati comportamenti  penalmente  irrilevanti,
 svelano  la  funzione  d'orientamento  culturale  e di determinazione
 psicologica operata  dalle  leggi  penali.  Non  e',  infatti,  senza
 significato  che  il  principio di legalita', inteso come "riserva di
 legge statale" sia espressamente costituzionalizzato, in sede penale,
 dall'art.  25,  secondo  comma,  Cost.: trattandosi dell'applicazione
 delle  piu'  gravi  sanzioni  giuridiche,  la  Costituzione   intende
 particolarmente  garantire  i  soggetti  attraverso  la  praevia  lex
 scripta. I principi di tassativita' e d'irretroattivita' delle  norme
 penali  incriminatrici,  nell'aggiungere  altri  contenuti al sistema
 delle fonti  delle  norme  penali,  evidenziano  che  il  legislatore
 costituzionale   intende   garantire   i   cittadini,  attraverso  la
 "possibilita'"  di  conoscenza  delle  stesse  norme,  la   sicurezza
 giuridica delle consentite, libere scelte d'azione.
    E  tutto  cio' si chiarisce ancor piu' (come e' stato sottolineato
 in dottrina) ove si ricordi che, nel quadro dello "Stato di diritto",
 anche   il   principio  di  riserva  di  legge  penale  e  gli  altri
 precedentemente  indicati,  sono  espressione   della   contropartita
 (d'origine  contrattualistica) che lo Stato offre in cambio, appunto,
 dell'obbligatorieta'  della  legge  penale:  lo  Stato   assicura   i
 cittadini che non li punira' senza preventivamente informarli su cio'
 che e' vietato o comandato ma richiede dai singoli  l'adempimento  di
 particolari  doveri  (sui  quali  ci si soffermera' fra breve) mirati
 alla  realizzazione  dei  precetti  "principali"  relativi  ai  fatti
 penalmente rilevanti.
    17.  -  Va  qui,  subito,  precisato  che  le garanzie di cui agli
 artt.73, terzo comma e 25, secondo  comma,  Cost.,  per  loro  natura
 formali,  vanno svelate nelle loro implicazioni: queste comportano il
 contemporaneo adempimento  da  parte  dello  Stato  di  altri  doveri
 costituzionali:  ed  in prima, di quelli attinenti alla formulazione,
 struttura e contenuti  delle  norme  penali.  Queste  ultime  possono
 essere  conosciute  solo  allorche'  si  rendano  "riconoscibili". Il
 principio di "riconoscibilita'" dei  contenuti  delle  norme  penali,
 implicato  dagli  artt.  73,  terzo comma e 25, secondo comma, Cost.,
 rinvia, ad es., alla necessita' che  il  diritto  penale  costituisca
 davvero  la extrema ratio di tutela della societa', sia costituito da
 norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente
 formulate,   dirette   alla  tutela  di  valori  almeno  di  "rilievo
 costituzionale" e tali da esser percepite anche in funzione di  norme
 "extrapenali",  di  civilta',  effettivamente  vigenti  nell'ambiente
 sociale  nel  quale  le  norme  penali  sono  destinate  ad  operare.
 L'osservazione  dell'"istante"  in  cui  si  viola  la  legge  penale
 nell'ignoranza della medesima non puo'  far  dimenticare,  come  s'e'
 avvertito  all'inizio,  che,  "prima"  del  rapporto  tra  soggetto e
 "singola"  legge  penale,  esiste  un  ben  definito   rapporto   tra
 ordinamento  e soggetto "obbligato" a non violare le norme, dal quale
 ultimo rapporto il primo e' necessariamente  condizionato.  E'  stato
 osservato  e ribadito, esattamente, che un precetto penale ha valore,
 come regolatore della condotta, non per quello che e' ma per quel che
 appare  ai  consociati. E la conformita' dell'apparenza all'effettivo
 contenuto della norma penale dev'essere assicurata dallo Stato che e'
 tenuto   a   favorire,   al   massimo,  la  riconoscibilita'  sociale
 dell'effettivo contenuto precettivo delle norme.
    Oltre alle condizioni relative al rapporto soggetto-fatto, esiste,
 pertanto,  un  altro  "presupposto"  della  responsabilita'   penale,
 costituito,    appunto,   dalla   "riconoscibilita'"   dell'effettivo
 contenuto  precettivo  della  norma.  L'oggettiva  impossibilita'  di
 conoscenza del precetto, nella quale venga a trovarsi "chiunque" (non
 soltanto il singolo soggetto, particolarmente considerato)  non  puo'
 gravare  sul  cittadino  e costituisce, dunque, un altro limite della
 personale responsabilita' penale.
    18.  -  Ma  il  problema  centrale, per il nostro tema, attiene ai
 doveri "strumentali" di conoscenza delle leggi, incombenti  sui  c.d.
 destinatari  dei  precetti  penali e, conseguentemente, ai limiti dei
 predetti doveri.
    Il passaggio dall'oggettiva possibilita' di conoscenza delle leggi
 penali, assicurata dallo  Stato  all'effettiva,  concreta  conoscenza
 delle  leggi  stesse  avviene  attraverso la "mediazione", ovviamente
 insostituibile, dell'attivita' conoscitiva dei singoli soggetti.
    Supposta   esistente,   in   fatto,  l'oggettiva  possibilita'  di
 conoscenza  d'una  particolare  legge  penale,  i  soggetti  privati,
 divenendo diretti destinatari dell'obbligo (principale) d'adempimento
 del precetto oggettivamente conoscibile, devono operare la  predetta,
 insostituibile  mediazione.  A  questo  fine  incombono  sul privato,
 preliminarmente,  strumentali,  specifici  doveri  d'informazione   e
 conoscenza:  ed  e' a causa del non adempimento di tali doveri che e'
 costituzionalmente consentito chiamare a rispondere anche chi  ignora
 la  legge  penale.  Gli indicati doveri d'informazione, di conoscenza
 ecc. costituiscono diretta esplicazione dei  doveri  di  solidarieta'
 sociale, di cui all'art. 2 Cost. La Costituzione richiede dai singoli
 soggetti la massima, costante tensione ai  fini  del  rispetto  degli
 interessi  dell'"altrui"  persona  umana:  ed e' per la violazione di
 questo impegno di solidarieta' sociale  che  la  stessa  Costituzione
 chiama  a  rispondere  penalmente  anche  chi lede tali interessi non
 conoscendone positivamente la tutela giuridica.
    Posto,  dunque,  che  lo Stato adempia ai suoi doveri, che esista,
 cioe', per l'agente l'oggettiva "possibilita'" di conoscere le  leggi
 penali,   residuano,   tuttavia,   ulteriori   problemi.  L'assoluta,
 "illuministica" certezza della legge sempre piu'  si  dimostra  assai
 vicina  al mito: la piu' certa delle leggi ha bisogno di "letture" ed
 interpretazioni sistematiche che (dato il rapidissimo  succedersi  di
 "entrate  in  vigore"  di  nuove  leggi  e di abrogazioni, espresse o
 tacite, di antiche disposizioni) rinviano, attraverso  la  mediazione
 dei  c.d. destinatari della legge, ad ulteriori "seconde" mediazioni.
 La completa, in tutte le  sue  forme,  sicura  interpretazione  delle
 leggi   penali   ha,  oggi,  spesso  bisogno  di  seconde,  ulteriori
 mediazioni:  quelle  ad  es.  di  tecnici,  quanto   piu'   possibile
 qualificati,   di   organi   dello   Stato   (soprattutto  di  quelli
 istituzionalmente  destinati  ad  applicare  le   sanzioni   per   le
 violazioni  delle  norme,  ecc.).  Specifici, particolari doveri, nei
 destinatari delle  leggi  penali  (di  richiesta  e  controllo  delle
 informazioni  ricevute,  ecc.)  discendono  da  un  sistema  di norme
 "strumentali", la violazione delle quali gia' denota quanto meno  una
 "trascuratezza" nei confronti dei diritti altrui, delle persone umane
 e, conclusivamente, dell'ordinamento tutto.
    D'altra  parte,  chi,  invece,  attenendosi  scrupolosamente  alle
 "richieste"   preventive   dell'ordinamento,   agli    obblighi    di
 solidarieta'  sociale  di  cui  all'art.  2  Cost., adempia a tutti i
 predetti doveri, strumentali, nella specie prevedi bili  e  cio'  non
 ostante venga a trovarsi in stato d'ignoranza della legge penale, non
 puo' esser trattato allo stesso modo di  chi  deliberatamente  o  per
 trascuratezza  violi  gli  stessi  doveri.  Come  e'  stato rilevato,
 discende dall'ideologia contrattualistica l'assunzione da parte dello
 Stato  dell'obbligo  di  non punire senza preventivamente informare i
 cittadini su che cosa e' vietato o comandato  ma  da  tale  ideologia
 discende   anche  la  richiesta,  in  contropartita,  che  i  singoli
 s'informino sulle leggi, si  rendano  attivi  per  conoscerle,  prima
 d'agire.  La  violazione  del  divieto  di commettere reati, avvenuta
 nell'ignoranza della legge penale,  puo',  pertanto,  dimostrare  che
 l'agente  non  ha  prestato alle leggi dello Stato tutta l'attenzione
 "dovuta". Ma se non v'e' stata alcuna violazione di quest'ultima,  se
 il  cittadino, nei limiti possibili, si e' dimostrato ligio al dovere
 ( ex art. 54, primo  comma  Cost.)  e,  cio'  malgrado,  continua  ad
 ignorare   la  legge,  deve  concludersi  che  la  sua  ignoranza  e'
 "inevitabile" e, pertanto, scusabile.
    Non  esiste,  e'  vero,  un "autonomo" obbligo di conoscenza delle
 singole leggi penali; non puo' disconoscersi,  tuttavia,  l'esistenza
 in testa ai c.d. destinatari dei precetti "principali", nei confronti
 di  tutto  l'ordinamento,  di  doveri  "strumentali",   d'attenzione,
 prudenza  ecc.  (simili  a  quelli  che caratterizzano le fattispecie
 colpose) nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi  di  "interessi
 altrui";  doveri gia' incombenti prima della violazione delle singole
 norme   penali,   mirati,   attraverso   il   loro   adempimento   e,
 conseguentemente,  attraverso  la raggiunta conoscenza delle leggi, a
 prevenire  (appunto   inconsapevoli)   violazioni   delle   medesime.
 Inadempiuti    tali   doveri,   l'ignoranza   della   legge   risulta
 inescusabile, evitabile. Adempiuti ai medesimi la  stessa  ignoranza,
 divenuta    inevitabile   e,   pertanto,   scusabile,   esclude,   la
 rimproverabilita' e, pertanto, la responsabilita' penale.
    19.  -  L'effettiva  possibilita' di conoscere la legge penale e',
 dunque, ulteriore requisito subiettivo minimo d'imputazione,  che  si
 ricava  dall'intero  sistema  costituzionale  ed in particolare dagli
 artt. 2, 3, primo e secondo comma, 73,  terzo  comma  e  25,  secondo
 comma,  Cost.  Tale  requisito viene ad integrare e completare quelli
 attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto e consente la
 valutazione    e,    pertanto,   la   rimproverabilita'   del   fatto
 complessivamente considerato.
    Non  si  creda,  peraltro,  che,  ricavandosi  il  requisito della
 "possibilita'" di  conoscere  la  legge  penale  dall'intero  sistema
 costituzionale  (ed  in  particolare dai precitati articoli) esso sia
 estraneo all'art. 27, primo  comma,  Cost.,  quasi  che  quest'ultimo
 comma  si  riferisca soltanto alle relazioni psichiche tra soggetto e
 fatto, e, in particolare, alla violazione, nelle ipotesi di colpa  in
 senso  stretto,  delle  norme  preventive che caratterizzano la colpa
 oltre, se mai, alla "rimproverabilita'" dell'autore del  reato.  Vero
 e'   che   l'art.   27,   primo  comma,  Cost.,  dichiarando  che  la
 responsabilita' penale  e'  personale,  non  soltanto  presuppone  la
 "personalita'"  dell'illecito  penale  (la  pena, appunto "in virtu'"
 della "personalita'" della responsabilita' penale,  va  subita  dallo
 stesso  soggetto  al  quale  e'  personalmente  imputato il reato) ma
 compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d'imputazione.
    Il  comma in discussione, interpretato in relazione al terzo comma
 dello stesso articolo ed in riferimento agli  artt.  2,  3,  primo  e
 secondo  comma, 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., svela non
 soltanto  l'essenzialita'  della  colpa  dell'agente  rispetto   agli
 elementi   piu'  significativi  della  fattispecie  tipica  ma  anche
 l'indispensabilita' del  requisito  minimo  d'imputazione  costituito
 dall'effettiva  "possibilita'  di conoscere la legge penale", essendo
 anch'esso   necessario    presupposto    della    "rimproverabilita'"
 dell'agente.  Il  principio della "personalita' dell'illecito penale"
 e' "totalmente" implicato dal principio della "responsabilita' penale
 personale" espresso, appunto, dal primo comma dell'art. 27 Cost.: che
 l'integrale contenuto di questo comma debba esser  svelato  anche  in
 base alla sua interpretazione sistematica nulla toglie od aggiunge al
 contenuto stesso.
    20.  -  A  questo  punto  va  precisata  l'interpretazione da dare
 all'art. 5 c.p. nel momento in cui lo si "confronta" con gli articoli
 della  Costituzione  innanzi  richiamati  e  con l'intero sistema, in
 materia  penale,  della  Carta  fondamentale.  Per   quanto   occorra
 allontanare  le  tentazioni di sopravvalutazione dell'art. 5 c.p. (e'
 quasi impensabile, infatti, che un soggetto "imputabile"  commetta  i
 c.d.  delitti  naturali nell'ignoranza della loro "illiceita'" mentre
 l'ignoranza  delle  norme  incriminatrici  dei  c.d.  reati  di  pura
 creazione  legislativa, tenuto conto del loro sempre crescente numero
 e del relativo "piu' intenso"  dovere  di  conoscenza  da  parte  dei
 soggetti che operano nei settori ai quali tali norme appartengono, si
 rivela, di regola,  inescusabile)  lo  stesso  articolo  costituisce,
 tuttavia,  norma  fondamentale nel vigente sistema delle leggi penali
 ordinarie. Le interpretazioni che dottrina e  giurisprudenza  offrono
 dell'art. 5 c.p., soprattutto allo scopo di distinguere l'irrilevante
 errore sul precetto dal rilevante errore sulla legge  extrapenale  di
 cui  all'art. 47, terzo comma, c.p., sono tanto varie e cosi' diverse
 tra  loro  che  e'  impossibile  tentarne  una   sia   pur   sommaria
 esposizione.
    Qui occorre prendere le mosse dalla "rigorosa" interpretazione che
 dello  stesso  articolo  danno  una  parte  della   dottrina   e   la
 giurisprudenza   di   legittimita'   (esclusa  la  "parentesi"  della
 rilevanza della buona fede nelle contravvenzioni).
    Non    e'    questa,   infatti,   la   sede   per   procedere   ad
 un'interpretazione "esaustiva" della norma  impugnata:  non,  essendo
 invero, possibile qui chiarire, con precisione, neppure l'oggetto sul
 quale cade il "vizio", che l'art.5 c.p. sottende ed in base al quale,
 ove  lo stesso articolo non esistesse, l'agente sarebbe scusato, vale
 qui riportarsi, in materia, alle dottrine che  risultano  in  accordo
 con   la   citata   "rigorosa"   interpretazione   dell'articolo   in
 discussione: tali dottrine sottolineano che, incidendo l'art. 5  c.p.
 sul  momento subiettivo dell'antigiuridicita', l'errore che, ai sensi
 dello stesso articolo, non scusa e' quello  che  cade  sul  precetto,
 sull'aspetto  determinativo del precetto, tenuto conto, peraltro, che
 valutazione e determinazione sono inscindibili nella norma penale.
    Per  nessuno  degli  aspetti  dai quali viene considerato l'art. 5
 c.p. si puo', infatti, qui partire  dalle  riduttive  interpretazioni
 che  dello  stesso  articolo  alcuni Autori offrono, pur nel lodevole
 tentativo di "mitigarne"  il  rigore:  non  foss'altro  perche'  tali
 interpretazioni non sono condivise dal diritto vivente.
    Vero  e' che il problema dei rapporti tra soggetto e legge penale,
 tra  soggetto  e  norma  penale,  vanno  impostati,  come  impone  la
 Costituzione,  nell'ambito  dell'autonomo  requisito "possibilita' di
 conoscenza della legge  penale"  sulla  quale  ci  si  e'  soffermati
 innanzi:  allorche'  s'ignori  la  legge  penale  e  l'ignoranza  sia
 inevitabile la mancata relazione tra soggetto e legge, tra soggetto e
 norma  penale,  diviene,  ai  sensi dell'art. 27, primo comma, Cost.,
 rilevante (risultando esclusa la  personalita'  dell'illecito  e  non
 essendo  legittima  la  punizione  in  carenza  del  requisito  della
 colpevolezza costituzionalmente richiesta)  mentre,  ove  l'ignoranza
 della  legge  penale sia evitabile, rimproverabile, la stessa mancata
 relazione tra soggetto e legge, tra  soggetto  e  norma  penale,  non
 esclude  la  punizione  dell'agente  che  versa  in errore di diritto
 (sempre che si realizzino tutti gli  altri  requisiti  subiettivi  ed
 obiettivi  d'imputazione)  giacche',  in  quest'ultima  ipotesi, tale
 mancata  relazione  gia'   rivela   quanto   meno   un'"indifferenza"
 dell'agente   nei  confronti  delle  norme,  dei  valori  tutelati  e
 dell'ordinamento tutto.
    Richiamato  l'art.  5  c.p.  alla logica dell'elemento subiettivo,
 della colpevolezza, che lo stesso  articolo  arbitrariamente  mutila;
 rilevato  il  contrasto  tra  l'articolo  in discussione e l'art. 27,
 primo  comma,  Cost.  (espressivo  quest'ultimo,  come  s'e'  innanzi
 chiarito,  dell'intero  sistema costituzionale in materia di elemento
 subiettivo    del    reato);    la    dichiarazione    di    parziale
 incostituzionalita' dell'art. 5 c.p. esclude, in ogni caso, che siano
 chiamati  a  rispondere  penalmente  coloro  che  versano  in   stato
 d'inevitabile (scusabile) ignoranza della legge penale.
    21.  -  Allo  stesso  modo  non  e',  in  questa  sede, consentito
 riferirsi all'interpretazione dell'art.  5  c.p.,  secondo  la  quale
 quest'ultimo,   mentre   dichiarerebbe   irrilevante   la  conoscenza
 effettiva della  legge  penale,  nulla  disporrebbe  in  ordine  alla
 possibilita'  di tale conoscenza. Questa tesi e' degna di particolare
 considerazione in quanto riconosce rilievo autonomo alla possibilita'
 di conoscere la legge penale e fa derivare tale rilievo dall'art. 27,
 primo e terzo comma, c.p.: questo articolo, statuendo  la  necessita'
 di  considerazione  d'una  qualche relazione psicologica del soggetto
 con il disvalore giuridico del  fatto,  si  riconnette,  infatti,  ai
 principi  di  fondo della convivenza democratica a termini dei quali,
 si  ribadisce,  cosi'  come  il  cittadino  e'  tenuto  a  rispettare
 l'ordinamento  democratico,  quest'ultimo  e'  tale  in quanto sappia
 porre i privati in grado di comprenderlo  senza  comprimere  la  loro
 sfera   giuridica   con   divieti  non  riconoscibili  ed  interventi
 sanzionatori non prevedibili.
    Senonche',  alla  predetta  interpretazione  riduttiva dell'art. 5
 c.p. e' stato esattamente osservato che quest'ultimo, escludendo ogni
 efficacia  scusante  dell'ignoranza  della legge penale, non consente
 alcuna distinzione attinente alla causa dell'ignoranza,  in  modo  da
 ritenere  l'ignoranza scusabile, a differenza di quella inescusabile,
 suscettibile di diverso trattamento.
   D'altra  parte,  la proposta interpretazione "adeguatrice", ex art.
 27, primo e terzo comma, Cost., sarebbe in  stridente  contrasto  con
 l'interpretazione  che  il  diritto  vivente da' all'art. 5 c.p.: non
 solo non s'interpreta questo articolo,  soprattutto  da  parte  della
 giurisprudenza di legittimita' (tranne l'"eccezione" della buona fede
 nelle contravvenzioni) in maniera rigida ma, nel dare all'art. 5 c.p.
 la massima "espansione", si e', da parte della stessa giurisprudenza,
 finito, praticamente, con l'addivenire ad una interpretatio  abrogans
 dell'art. 47, terzo comma, c.p.
    22.  -  E poiche' anche il rilievo attribuito dalla giurisprudenza
 alla "positiva" buona fede nelle contravvenzioni non trova fondamento
 nell'attuale  sistema  del Codice Rocco (l'art. 5 c.p., statuendo, in
 ogni caso,  l'irrilevanza  dell'ignoranza  della  legge  penale,  non
 consente  di  distinguere  la  disciplina giuridica delle ipotesi che
 danno  luogo  all'ignoranza  "inqualificata"   da   quelle   che   la
 "qualificano"  per  esser  fondate  sulla  "positiva"  buona fede del
 soggetto; e poiche'  anche  le  diverse  interpretazioni  "evolutive"
 dell'art.  5  c.p.,  secondo  le quali lo stesso articolo statuirebbe
 soltanto una  presunzione  iuris  tantum  e  non  iuris  et  de  iure
 d'irrilevanza  dell'ignoranza  della  legge  penale (tutte, peraltro,
 degne   di   considerazione,   in   quanto   mirate   ad    attenuare
 l'incostituzionale rigore della statuizione in esame) contrastano con
 l'interpretazione che dell'articolo in  discussione  da'  il  diritto
 vivente;   non   resta,  dunque,  che  partire  qui  da  quest'ultima
 interpretazione.
    23.  -  Non  puo'  tacersi,  a  questo punto, che l'art. 5 c.p. ha
 natura "bifronte": da un canto nega efficacia scusante  all'ignoranza
 della  legge  penale  e  dall'altro esclude ogni rilevanza all'errore
 sull'illiceita' del fatto  e,  pertanto,  alla  consapevolezza  della
 stessa  illiceita'.  E'  stato,  invero,  in  dottrina, precisato che
 l'art. 5 c.p.  non  disciplina  l'ignoranza  della  legge  penale  in
 astratto  ma l'ignoranza (od errore) "essenziale", anche incolpevole,
 sull'illiceita' d'un concreto comportamento.
    Si  possono, e' vero, attenuare gli inconvenienti che si producono
 a seguito del disposto di cui all'art.  5  c.p.,  in  sede  di  dolo,
 sostenendo  essenziale  al  medesimo,  ex  art. 43 c.p., la coscienza
 della violazione dell'interesse tutelato ed assumendo  che  l'art.  5
 c.p.  renda  irrilevante soltanto la coscienza dell'illiceita' penale
 (= punibilita') del fatto. Ma per  le  ipotesi  colpose  il  soggetto
 agente  verrebbe  ad  esser  punito  senza  nemmeno  la  piu' lontana
 possibilita' (carenza incolpevole)  di  conoscere  la  "giuridicita'"
 delle  regole  di  diligenza,  prudenza  ecc. in base alla violazione
 delle quali lo stesso soggetto vien punito.
    Va  aggiunto che l'esistenza d'una norma, quale quella dell'art. 5
 c.p., diretta ad escludere ogni giuridico rilievo  all'ignoranza  (od
 errore)  sulla legge penale, presuppone la contrapposta possibilita',
 almeno teorica, che il  reo,  in  assenza  di  tale  norma,  pretenda
 scusarsi:  ed  il  reo,  in  tal  caso,  si  scuserebbe  adducendo il
 "turbamento", prodotto dall'ignoranza della legge penale sul processo
 formativo   della   volonta'  del  fatto.  Nell'ipotesi  prospettata,
 tuttavia, da un canto si dimostrerebbe assurda una "pretesa" d'essere
 scusati   (nell'inesistenza   dell'art.   5   c.p.)   sol   in   base
 all'ignoranza, anche inescusabile, della sola punibilita'  del  fatto
 (pur  essendo  coscienti  di ledere il bene tutelato) e d'altro canto
 sarebbe sempre l'errore  nella  formazione  della  concreta  volonta'
 dell'illecito,   al   quale   consegue   la   carenza   di  coscienza
 dell'illiceita' penale del fatto, anche se dovuta  all'ignoranza  (od
 errore)  sulla  legge  penale, a costituire la ragione della "scusa",
 che appunto, lo stesso articolo esclude.
    Senonche', a seguito della predetta osservazione, si ha la riprova
 che l'art. 5 c.p., nell'attuale vigore,  non  soltanto  determina  un
 uguale  trattamento  di  chi  agisce con la coscienza dell'illiceita'
 (totale o soltanto penale) del  fatto  e  di  chi  opera  senza  tale
 coscienza  ma  esclude ogni possibilita' di valutazione della "causa"
 della mancata  coscienza  (della  sola  punibilita'  o  dell'"intera"
 antiprecettivita'  del  fatto)  trattando  allo  stesso  modo  errore
 scusabile,   inevitabile   ed   errore    inescusabile,    evitabile,
 sull'illiceita'.  Punendo, in ogni caso, l'agente che versa in errore
 di diritto l'art. 5 c.p. presume,  iuris  et  de  iure,  comunque  si
 delimiti   l'oggetto  di  tale  errore,  la  "rimproverabilita'"  del
 medesimo. Vero e' che l'art. 5 c.p. rende incostituzionale  tutto  il
 sistema  ordinario  in  materia  di colpevolezza, in quanto sottrae a
 questa l'importantissima materia del rapporto tra  soggetto  e  legge
 penale  e, conseguentemente, tra soggetto e coscienza del significato
 illecito del fatto.
    Ma  l'art.  5  c.p.  "snatura",  togliendone  fondamento, anche la
 residua materia che non sottrae alla colpevolezza  (dolo,  colpa  del
 fatto ecc.). Allorche' l'agente ignora, del tutto incolpevolmente, la
 legge penale e, pertanto,  incolpevolmente  ignora  l'illiceita'  del
 fatto,   non   mostra   alcuna   opposizione   ai   valori   tutelati
 dall'ordinamento: puo' il suo dolo costituire oggetto  di  rimprovero
 ex art. 27, primo e terzo comma, Cost.? Certo, includendo nel dolo la
 coscienza dell'offesa (a parte  ogni  discussione  sulla  conseguente
 riduttiva  interpretazione dell'art. 5 c.p.) si attenuano gli effetti
 che, invece, discendono dalla rigorosa interpretazione  dello  stesso
 articolo.  Senonche', pur ammettendo che l'art. 5 c.p. sottragga alla
 colpevolezza soltanto  il  rapporto  tra  soggetto  e  coscienza  del
 significato  illecito  "penale" del fatto e non dell'intero disvalore
 antiprecettivo del fatto stesso (e sempre a prescindere dalla pratica
 "inoperativita'",  in  tal  caso,  dell'art. 5 c.p.) rimarrebbero del
 tutto "scoperte" le ipotesi colpose (contravvenzionali ad  es.).  Per
 assumere il
 soggetto  agente "in colpa" dovrebbe, invece, almeno essergli offerta
 la "possibilita'" di conoscere le norme penali che  "trasformano"  in
 doverose   le  regole  di  diligenza,  prudenza  ecc.  in  base  alla
 violazione delle quali, nella prevedibilita' ed evitabilita' concreta
 dell'evento,  si  viene chiamati a rispondere: se l'agente, del tutto
 incolpevolmente, ignorasse le predette norme penali, la  sua  "colpa"
 (del  fatto) non dovrebbe potersi ritenere rimproverabile ex art. 27,
 primo e terzo comma, Cost.
    La  colpevolezza prevista dagli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p. va,
 pertanto, arricchita, in  attuazione  dell'art.  27,  primo  e  terzo
 comma,  Cost.,  fino  ad  investire,  prima  ancora del momento della
 violazione  della  legge  penale  nell'ignoranza   di   quest'ultima,
 l'atteggiamento   psicologico   del   reo   di   fronte   ai   doveri
 d'informazione o d'attenzione sulle norme  penali,  doveri  che  sono
 alla base della convivenza civile.
    Ne'  si  tema che le conclusioni qui raggiunte delineino una forma
 di  "colpa  per  la  condotta  della  vita":  risalire  alle  "cause"
 dell'ignoranza  della  legge  penale, per verificarne l'evitabilita',
 costituisce  verifica  dell'esistenza,  in  concreto,   almeno   d'un
 atteggiamento  d'indifferenza,  da  parte  dell'agente, nei confronti
 della doverosa informazione giuridica. Tale  verifica  non  solo  non
 viola  il  principio  della  responsabilita'  penale  "per il singolo
 fatto" ma mira  a  cogliere  il  completo  disvalore  soggettivo  del
 particolare  episodio  criminoso  e  puo',  condurre, come piu' volte
 ribadito, all'esclusione della colpevolezza  per  il  singolo  fatto,
 nell'ipotesi d'inevitabilita' dell'ignoranza.
    24. - L'art. 5 c.p. viola, infine, anche l'art. 3, primo e secondo
 comma, Cost.
    In  ordine  alla  violazione  del primo comma dell'art. 3 Cost. va
 anzitutto ricordato (a conferma di quanto innanzi osservato in ordine
 all'uguale  trattamento  che,  ai  sensi dell'art. 5 c.p., riceve chi
 agisce con la coscienza dell'illiceita' del fatto e  chi  invece  con
 tale  coscienza  non  opera)  che,  come  ha  avuto  modo di rilevare
 recente, attenta dottrina, colui che commette un reato nell'ignoranza
 della  legge  penale dovuta ad impossibilita' di prenderne conoscenza
 vien punito con una pena che, rispetto  a  quella  cui  soggiace  chi
 commette  lo  stesso  reato  conoscendone  l'illiceita',  puo'  esser
 diminuita soltanto entro i limiti edittali ex art.  133  c.p.  o,  se
 mai,  ex  art.  62- bis c.p. La diversita' tra le predette situazioni
 (conoscenza effettiva ed  impossibilita'  incolpevole  di  conoscenza
 della  legge  penale)  e',  invece, notevole sia sotto il profilo del
 disvalore sia sotto quello  della  "sintomaticita'".  L'art.  5  c.p.
 viola, dunque, anche il primo comma dell'art. 3 Cost.
    Per quanto attiene alla violazione del secondo comma dell'articolo
 ora  citato  va  ribadito  che  il  non   poter   addurre   a   scusa
 dell'ignoranza  della  legge  penale l'obiettiva o la subiettiva (nei
 limiti  anzidetti)  impossibilita'  di  conoscere  la  stessa   legge
 equivale  a  far  ricadere  sul singolo tutte le colpe della predetta
 ignoranza.  Ben  e',  invece,  almeno  possibile,  come   s'e'   gia'
 sottolineato,   che   lo   Stato   non   abbia   reso  obiettivamente
 riconoscibili (o "prevedibili") alcune leggi;  oppure  che,  malgrado
 ogni    positiva    predisposizione    di    determinanti    soggetti
 all'adempimento dei predetti doveri strumentali d'informazione  ecc.,
 l'ignoranza  della  legge  penale  sia  dovuta alla mancata rimozione
 degli "ostacoli" di cui al secondo comma dell'art. 3 Cost.
    25.   -  In  conclusione:  oltre  agli  specifici  articoli  della
 Costituzione    indicati    in    precedenza,    l'art.    5    c.p.,
 nell'interpretazione  che del medesimo danno una parte della dottrina
 e soprattutto la giurisprudenza, viola, come s'e'  sottolineato  piu'
 volte,  lo  spirito  stesso  dell'intera Carta fondamentale ed i suoi
 essenziali princi'pi ispiratori. Far sorgere l'obbligo  giuridico  di
 non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento
 alla  consapevolezza  dell'agente,  considerare  violato  lo   stesso
 obbligo  senza  dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della
 legge penale e dell'illiceita'  del  fatto,  sottoporre  il  soggetto
 agente  alla  sanzione  piu'  grave  senza  alcuna  prova  della  sua
 consapevole  ribellione  od   indifferenza   all'ordinamento   tutto,
 equivale  a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico
 offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana,  facendola
 retrocedere  dalla  posizione  prioritaria  che  essa  occupa  e deve
 occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati.
    26.  - Non resta che accennare ai criteri, ai parametri in base ai
 quali  va  stabilita  l'inevitabilita'  dell'ignoranza  della   legge
 penale.   E',   invero,   di  gran  rilievo  impedire  che,  in  fase
 applicativa, vengano a prodursi, insieme alla  "vanificazione"  delle
 risultanze  qui acquisite, altre violazioni della Carta fondamentale.
    E'   doveroso,  per  prima,  chiarire  che,  ove  una  particolare
 conoscenza, da parte del soggetto agente,  consenta  al  medesimo  la
 possibilita'  di  conoscere  la legge penale, non e' legittimo che lo
 stesso soggetto si giovi d'un (eventuale)  errore  generale,  comune,
 sul   divieto.  Cio'  va  rilevato  non  perche'  si  disconoscano  i
 tentativi, per tanti  aspetti  meritevoli  di  considerazione,  della
 dottrina  mirati,  attraverso l'oggettivazione, per quanto possibile,
 dei criteri di misura della colpevolezza, a sottolinearne  l'aspetto,
 peraltro  fondamentale,  di  garanzia delle libere scelte d'azione ma
 perche' non e' desumibile dalla Costituzione  la  legittimita'  d'una
 concezione  della  colpevolezza  che  consenta di non rimproverare il
 soggetto  per  il  fatto  commesso  (ovviamente,  in   presenza   dei
 prescritti  elementi  subiettivi)  quando  esista,  in  concreto,  la
 possibilita', sia pur eccezionale (di fronte ad un  generale,  comune
 errore  sul  divieto)  per  il  singolo  agente di conoscere la legge
 penale e, pertanto, l'illiceita' del  fatto.  Ammettere,  allo  stato
 attuale  della  normativa  costituzionale  ed  ordinaria, il soggetto
 agente (che e' in errore  sull'illiceita'  del  fatto  per  ignoranza
 della  legge penale, pur essendo in grado di conoscere quest'ultima e
 di non errare sulla predetta illiceita') a giovarsi del comune errore
 sul divieto, determinato dall'altrui, generale, inevitabile ignoranza
 della legge penale, val  quanto  riconoscere  all'errore  comune  sul
 divieto   penale   il   valore   di   consuetudine   abrogatrice   di
 incriminazioni penali.
    27.  -  Da quanto innanzi osservato discende, in via generale, che
 l'inevitabilita'  dell'errore  sul  divieto   (e,   conseguentemente,
 l'esclusione  della  colpevolezza)  non  va  misurata alla stregua di
 criteri c.d. soggettivi puri (ossia di parametri che valutino i  dati
 influenti  sulla  conoscenza  del  precetto  esclusivamente alla luce
 delle  specifiche  caratteristiche  personali   dell'agente)   bensi'
 secondo  criteri  oggettivi:  ed  anzitutto  in  base a criteri (c.d.
 oggettivi puri) secondo i quali l'errore sul precetto e'  inevitabile
 nei  casi  d'impossibilita' di conoscenza della legge penale da parte
 d'ogni consociato. Tali casi attengono, per lo piu', alla (oggettiva)
 mancanza  di  riconoscibilita'  della  disposizione normativa (ad es.
 assoluta oscurita' del testo legislativo)  oppure  ad  un  gravemente
 caotico  (la misura di tale gravita' va apprezzata anche in relazione
 ai diversi tipi di reato) atteggiamento interpretativo  degli  organi
 giudiziari  ecc. La spersonalizzazione che un giudizio formulato alla
 stregua  di  criteri  oggettivi  puri  necessariamente  comporta  va,
 tuttavia, compensata, secondo quanto innanzi avvertito, dall'esame di
 eventuali, particolari conoscenze ed "abilita'" possedute dal singolo
 agente: queste ultime, consentendo all'autore del reato di cogliere i
 contenuti  ed  il  significato  determinativo  della   legge   penale
 escludono  che  l'ignoranza  della legge penale vada qualificata come
 inevitabile.
    Ed  anche  quando, sempre allo scopo di stabilire l'inevitabilita'
 dell'errore sul  divieto,  ci  si  valga  di  "altri"  criteri  (c.d.
 "misti")  secondo  i  quali  la  predetta  inevitabilita'  puo' esser
 determinata, fra l'altro, da particolari,  positive,  circostanze  di
 fatto   in   cui   s'e'   formata  la  deliberazione  criminosa  (es.
 "assicurazioni erronee"  di  persone  istituzionalmente  destinate  a
 giudicare  sui  fatti  da  realizzare;  precedenti, varie assoluzioni
 dell'agente per lo stesso  fatto  ecc.)  occorre  tener  conto  della
 "generalizzazione" dell'errore nel senso che qualunque consociato, in
 via di massima  (salvo  quanto  aggiungiamo  subito)  sarebbe  caduto
 nell'errore sul divieto ove si fosse trovato nelle stesse particolari
 condizioni dell'agente; ma, ancora una volta,  la  spersonalizzazione
 del  giudizio  va compensata dall'indagine attinente alla particolare
 posizione del singolo agente che, in generale, ma soprattutto  quando
 eventualmente  possegga specifiche "cognizioni" (ad es. conosca o sia
 in  grado  di  conoscere  l'origine  lassistica  o   compiacente   di
 assicurazioni   di   organi   anche   ufficiali  ecc.)  e'  tenuto  a
 "controllare" le informazioni ricevute. Il fondamento  costituzionale
 della  "scusa"  dell'inevitabile  ignoranza  della  legge penale vale
 soprattutto per chi versa in condizioni soggettive  d'inferiorita'  e
 non  puo'  certo  esser  strumentalizzata  per  coprire  omissioni di
 controllo, indifferenze, ecc., di soggetti dai  quali,  per  la  loro
 elevata  condizione  sociale  e  tecnica,  sono esigibili particolari
 comportamenti realizzativi degli obblighi  strumentali  di  diligenza
 nel conoscere le leggi penali.
    28.  -  La casistica relativa all'"inevitabilita'" dell'errore sul
 divieto va conclusa con alcune precisazioni.
    E'  stato,  in dottrina, osservato che, realisticamente, l'ipotesi
 d'un soggetto,  sano  e  maturo  di  mente,  che  commetta  un  fatto
 criminoso  ignorandone  l'antigiuridicita'  e'  concepibile  soltanto
 quando si tratti di reati che, pur presentando un generico  disvalore
 sociale,  non  sono  sempre  e dovunque previsti come illeciti penali
 ovvero di reati che non  presentino  neppure  un  generico  disvalore
 sociale  (es.  violazione  di  alcune  norme  fiscali  ecc.).  E,  in
 relazione a queste categorie  di  reati,  sono  state  opportunamente
 prospettate  due ipotesi: quella in cui il soggetto effettivamente si
 rappresenti la possibilita' che il  suo  fatto  sia  antigiuridico  e
 quella in cui l'agente neppure si rappresenti tale possibilita'.
    Or   qui  occorre  precisare  che,  mentre  nella  prima  ipotesi,
 esistendo, in concreto (ben piu'  della  possibilita'  di  conoscenza
 dell'illiceita'   del   fatto)   l'effettiva   previsione   di   tale
 possibilita', non puo' ravvisarsi ignoranza inevitabile  della  legge
 penale  (essendo il soggetto obbligato a risolvere l'eventuale dubbio
 attraverso l'esatta  e  completa  conoscenza  della  (singola)  legge
 penale  o,  nel  caso  di  soggettiva  invincibilita'  del dubbio, ad
 astenersi dall'azione (il dubbio  oggettivamente  irrisolvibile,  che
 esclude  la  rimproverabilita' sia dell'azione sia dell'astensione e'
 soltanto quello in cui, agendo o non agendo,  s'incorre,  ugualmente,
 nella  sanzione  penale);  la  seconda ipotesi comporta, da parte del
 giudice, un'attenta valutazione delle ragioni per le quali  l'agente,
 che  ignora  la  legge penale, non s'e' neppure prospettato un dubbio
 sull'illiceita' del fatto. Or se l'assenza di tale  dubbio  discende,
 principalmente,    dalla   personale   non   colpevole   carenza   di
 socializzazione dell'agente, l'ignoranza della legge  penale  va,  di
 regola, ritenuta inevitabile.
    Inevitabile  si  palesa anche l'errore sul divieto nell'ipotesi in
 cui, in relazione a reati  sforniti  di  disvalore  sociale  e',  per
 l'agente,   socializzato   oppur   no,  oggettivamente  imprevedibile
 l'illiceita' del fatto. Tuttavia, ove (a  parte  i  casi  di  carente
 socializzazione  dell'agente)  la  mancata previsione dell'illiceita'
 del fatto  derivi  dalla  violazione  degli  obblighi  d'informazione
 giuridica, che sono, come s'e' avvertito, alla base d'ogni convivenza
 civile deve ritenersi che l'agente versi in  evitabile  e,  pertanto,
 rimproverabile ignoranza della legge penale.
    Come  in  evitabile,  rimproverabile  ignoranza della legge penale
 versa  chi,  professionalmente  inserito  in  un  determinato   campo
 d'attivita', non s'informa sulle leggi penali disciplinanti lo stesso
 campo.
    La  casistica non puo' esser qui approfondita: basta aver indicato
 che  (alla   luce   del   fondamento   costituzionale   della   scusa
 dell'inevitabile   ignoranza   della  legge  penale)  allo  scopo  di
 verificare,  in  concreto,  tale  inevitabilita',  da  un  canto   e'
 necessario  (per  garantire  la  certezza della liberta' d'azione del
 cittadino) far riferimento a criteri oggettivi c.d. "puri" e  "misti"
 e  dall'altro  canto  e'  doveroso  recuperare la spersonalizzazione,
 causata dall'uso preponderante di tali  criteri,  con  l'esame  delle
 particolari situazioni in cui eventualmente versi il singolo soggetto
 agente. La giurisprudenza va, infine, rinviata,  nell'interpretazione
 ed  applicazione del nuovo testo dell'art. 5 c.p. ai criteri generali
 che, in tema di responsabilita' a titolo di colpa  e  di  buona  fede
 nelle  contravvenzioni,  la  stessa  giurisprudenza e' andata via via
 adottando.
    Il   nuovo  testo  dell'art.  5  c.p.,  derivante  dalla  parziale
 incostituzionalita' dello stesso articolo che qui si va a dichiarare,
 risulta  cosi'  formulato:  "L'ignoranza della legge penale non scusa
 tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile".
    29.  - Non resta che sottolineare che spetta al legislatore (oltre
 all'eventuale  emanazione  di  norme  "di  raccordo")  stabilire   se
 l'ignoranza  evitabile  della  legge penale meriti un'attenuazione di
 pena, come per gli  ordinamenti  tedesco  occidentale  ed  austriaco,
 oppure  se il sistema dell'ignoranza della legge penale debba restare
 quello  risultante  a   seguito   della   qui   dichiarata   parziale
 illegittimita' costituzionale dell'art. 5 c.p.
    Ogni  altra  questione  sollevata  dalle  ordinanze  di rimessione
 rimane assorbita dalla predetta illegittimita' costituzionale;