ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.24 del D.P.R. 19 marzo 1956, n.303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 29 aprile 1980 dal Tribunale di Siena nel procedimento penale a carico di Verdiani Bruno, iscritta al n. 448 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228 dell'anno 1980; 2) ordinanza emessa l'11 luglio 1980 dal Pretore di Pistoia nel procedimento penale a carico di Imbarrato Rino Bruno, iscritta al n. 648 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 304 dell'anno 1980; 3) ordinanza emessa il 18 giugno 1981 dal Pretore di Desio, nel procedimento penale a carico di Cassina Franco, iscritta al n. 608 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5 dell'anno 1982; 4) ordinanza emessa il 30 giugno 1984 dal Pretore di Nola, nel procedimento penale a carico di De Falco Antonio, iscritta al n. 1212 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65- bis dell'anno 1985; Visto l'atto di costituzione di Verdiani Bruno, nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 23 febbraio 1988 il Giudice relatore Ettore Gallo; Uditi l'avvocato Aldo Aranguren per Verdiani Bruno e l'Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale di Siena, con ordinanza 29 aprile 1980, il Pretore di Pistoia, con ordinanza 11 luglio 1980, Il Pretore di Desio, con ordinanza 18 giugno 1981, e il Pretore di Nola con ordinanza 30 giugno 1984, sollevavano questione di legittimita' costituzionale dell'art. 24 d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, in riferimento agli art.li 3, 25 e 70 Cost.: salvo il Pretore di Nola che, anziche' al parametro di cui all'art. 70, faceva riferimento a quello di cui all'art. 101 Cost. Si trattava di procedimenti penali contro imprenditori industriali imputati del delitto di lesioni colpose, aggravate dalla circostanza di cui al secondo inciso del terzo comma dell'art. 590 cod. pen, che rispondevano appunto di colpa specifica, in relazione alla contravvenzione di cui all'art. 24 impugnato, punita dall'art. 58 lett. b) dello stesso decreto presidenziale: e cio' per non avere adottato - come prescrive l'art. 24 impugnato - i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensita' di rumori dannosi prodotti dalle lavorazioni, cosi' cagionando ad alcuni lavoratori fenomeni patologici di ipoacusia. Riferendosi sostanzialmente all'ordinanza del Tribunale di Siena, i giudici rimettenti lamentavano la carenza nell'ordinamento di norme che stabiliscano i limiti massimi di tollerabilita' dei rumori negli ambienti di lavoro. Carenza dovuta all'omissione del legislatore, nonostante che la l. 23 dicembre 1978 n. 833 (Istituzione del Servizio sanitario) nell'ultima parte dell'art. 4 avesse delegato il Presidente del Consiglio a fissare, fra l'altro, i limiti massimi di accettabilita' delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro sottoponendoli a periodica revisione: e quantunque l'art. 24 successivo estendesse la delega al Governo per l'emanazione di un T.U. in materia di sicurezza del lavoro. Cio' dato, sostengono le ordinanze che non puo' il giudice supplire alla detta omissione del legislatore, arbitrandosi di stabilire egli stesso quei limiti, senza violare l'art. 70 Cost. che riserva alle due Camere la funzione legislativa. Singolarmente - come si e' detto - il Pretore di Nola riferisce invece questa asserita violazione all'art. 101 Cost. D'altra parte, l'art. 24 impugnato, nella sua estrema genericita', violerebbe il principio di legalita', anche sotto il profilo della determinatezza (art. 25, secondo co., Cost.) in quanto gl'imputati, non conoscendo i limiti di accettabilita', non sono in grado di adeguare la loro condotta alla volonta' della legge. Cio', d'altra parte, violerebbe anche il principio d'uguaglianza, in quanto i giudicabili verrebbero a trovarsi cosi' in una posizione deteriore rispetto a coloro che, invece, possono esattamente conoscere la chiara e precisa volonta' delle disposizioni normative. Per il Pretore di Nola, anzi, la disuguaglianza ingiustificata sarebbe rappresentata dal fatto che, in questo caso, s'imporrebbe all'imprenditore una vera e propria "fatica di Sisifo" per garantirsi l'osservanza del precetto penale, in quanto sarebbe costretto costantemente a inseguire il limite determinato dall'aggiornamento tecnologico. 2. - Le ordinanze sono state ritualmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale. Nel giudizio concernente la questione sollevata dal Tribunale di Siena si e' costituito innanzi a questa Corte l'industriale Bruno Verdiani, rappresentato e difeso dal prof. avv. Aldo Aranguren dell'Universita' di Firenze. Nello stesso giudizio, ma anche in quelli relativi alle questioni proposte dai Pretori di Pistoia e di Nola, e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale dello Stato. 3. - La difesa del Verdiani, che per prima aveva eccepito la questione fatta propria dal Tribunale di Siena, ne ha ribadito e sviluppato gli argomenti nella memoria di costituzione, fra l'altro sostenendo che l'art. 24 impugnato avrebbe natura di "norma in bianco", che soltanto il legislatore ormai potrebbe colmare data la riserva espressa nell'art. 4, secondo co., della l. n. 833 del 1978. Chiedeva, percio', la declaratoria d'illegittimita' costituzionale. 4. - Di diverso avviso l'Avvocatura Generale dello Stato secondo cui il precetto di cui all'art. 24 impugnato non e' ne' vago ne' indeterminato, essendovi un preciso riferimento ad una soglia rappresentata dal danno alla salute degli operai addetti a lavorazioni rumorose. Quanto poi ai valori di questa soglia, il giudice deve rivolgersi a quelli elaborati da organismi tecnici e scientifici in relazione alla osservazione statistica dei soggetti addetti a quelle lavorazioni. Non solo all'estero, ma anche in Italia esiste in proposito una vasta letteratura proveniente dal C.N.R., dai laboratori di igiene industriale delle Cliniche del lavoro delle Universita', e dalla Societa' italiana di Audiologia e Foniatria: organismi che, peraltro, tengono anche conto di esperienze internazionali, che hanno indicato un limite massimo accettabile (85 dBa) per esposizione non superiore ad otto ore giornaliere. D'altra parte, non e' questo certo il solo caso in cui - anche secondo l'interpetrazione che questa Corte ha dato dell'art. 25 Cost. - il giudice svolge e rende concreto il contenuto di riferimenti normativi a nozioni proprie dell'esperienza comune e della tecnica. Ne' si tratta - come si e' sostenuto dalle ordinanze - di assoluta discrezionalita', ma di prudente apprezzamento da parte del giudice di merito che, tenuto conto dell'omissione dei possibili accorgimenti suggeriti dalla tecnica per riportare il rumore al di sotto della soglia dannosa, stabilira' - secondo i comuni canoni interpetrativi - se sussista nesso causale tra i fenomeni patologici riscontrati e quelle omissioni. Che poi il legislatore si sia preoccupato di delegare l'Esecutivo a garentire ai lavoratori criteri di piu' sicuro e generale affidamento, elaborando e aggiornando tabelle di dati relativi alle dette soglie, cio' non esclude che frattanto la norma continui a dispiegare i suoi effetti attraverso la ordinaria interpetrazione giudiziaria, senza alcuna interferenza tra i poteri. Considerato in diritto 1. - Si sostiene da parte dei giudici rimettenti l'impossibilita' per l'interprete di dare un concreto contenuto alla norma impugnata, e quindi per il cittadino di desumerne una precisa regola di condotta, in quanto "non sussistono nell'ordinamento giuridico norme che fissino i limiti massimi di tollerabilita' della rumorosita' negli ambienti di lavoro". E si fa carico al legislatore di non avervi provveduto ne' con il d.P.R. 9 giugno 1975 n. 482, ne' a seguito della l. 23 dicembre 1978 n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale): legge che aveva espressamente previsto, al secondo comma dell'art. 4, che il Presidente del Consiglio (su proposta del Ministro della Sanita', sentito il Consiglio sanitario nazionale) avesse a fissare, con suo decreto, i limiti massimi delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro, abitativi e nell'ambiente esterno, periodicamente sottoponendoli a revisione. Da tale situazione si fanno derivare gravi conseguenze d'incompatibilita' costituzionale sia per il giudice che per i cittadini, nella specie imprenditori industriali, imputati di lesioni colpose aggravate per avere cagionato ad alcuni lavoratori fenomeni patologici di ipoacusia a causa delle forti emissioni rumorose nell'ambiente di lavoro. Per quanto attiene alla funzione del giudice - si dice - se questi azzardasse di supplire alla carenza, identificando il limite di tollerabilita' dei rumori, andrebbe a violare l'art. 70 Cost. (ma per il Pretore di Nola si tratterebbe, invece, dell'art. 101), in quanto si arrogherebbe poteri propri del legislatore. E per quanto riguarda il cittadino, l'omissione del legislatore frustrerebbe ad un tempo tanto il principio di legalita' quanto quello di uguaglianza. Il primo, perche' la norma impugnata, a causa della sua genericita' ed indeterminatezza, non consentirebbe di conoscere quale sia l'esatto comportamento imposto dalla legge. Il secondo, perche' l'imprenditore interessato e' posto cosi' in posizione di svantaggio a fronte di quanti, invece, in presenza di norma chiara e precisa, sono in grado di rispettare agevolmente la volonta' della legge. La questione non e' fondata. 2. - E' evidente che i giudici rimettenti hanno enfatizzato il valore di quegli interventi normativi che si sostanziano nelle cosidette "tabelle", fino al punto da affermare impossibile, senza di esse, l'esercizio della loro funzione: e cio' proprio quando la tendenza generale si va manifestando, invece, in senso decisamente contrario. La stessa giurisprudenza di merito, infatti, ha rifiutato in piu' occasioni di attenersi a criteri numerici normativamente prefissati, ogniqualvolta e' parso che questi rappresentassero un limite alla liberta' di giudizio, in riferimento alla concreta realta' delle situazioni sottoposte all'esame del giudice. Ma anche questa Corte ha ormai superato l'inderogabilita' delle tassative indicazioni delle tabelle in materia di malattie professionali, ammettendo il lavoratore a provare sia l'esistenza di malattie dovute ad esposizioni lavorative diverse da quelle elencate, sia la loro insorgenza oltre i termini temporali previsti dalle tabelle (sent.ze 10-11-1987 n.i 179 e 206). Comunque, e' da escludere, intanto, che il legislatore potesse provvedere - come si pretende nelle ordinanze - mediante il d.P.R. 9 giugno 1975 n. 482. Questo decreto, infatti, aveva il solo scopo di apportare "modificazioni e integrazioni alle tabelle delle malattie professionali" gia' allegate al d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, che aveva approvato il T.U. per l'assicurazione obbligatoria contro gl'infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Come si puo' agevolmente rilevare dalle tabelle stesse, queste non fissano limiti di sorta ne' alle esalazioni ne' alle emissioni rumorose: e cio' perche', come le precedenti che modificano o integrano, sono dirette esclusivamente ad identificare le fonti di insorgenza di talune malattie professionali, ed il periodo massimo entro cui, dopo la cessazione dal lavoro, le malattie contratte sono ammesse al riconoscimento per la pensione d'invalidita'. E' vero, invece, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, il legislatore aveva demandato al Presidente del Consiglio di stabilire i limiti massimi di accettabilita' (fra l'altro anche) delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro. L'intento era quello - come risulta dal primo comma - "di assicurare condizioni e garenzie di salute uniformi per tutto il territorio nazionale". Cio' sta ad indicare che il legislatore era ben consapevole che il complesso normativo, fino a quel momento vigente, gia' assicurava condizioni e garenzie di salute ai lavoratori e ai cittadini in genere; si preoccupava, pero', di dare ad esse carattere di uniformita'. Ma il designato organo dell'esecutivo non se n'e' dato carico. 3. - A seguito di tale omissione le parti private hanno ritenuto di ravvisare nell'art. 24 impugnato una "norma penale in bianco" lacunosa ed inapplicabile, in quanto carente della concretizzazione del precetto da parte della pubblica amministrazione. Ma la disposizione impugnata non ha per nulla la struttura pretesa. Essa, infatti, lungi dal demandare ad alcun altro l'integrazione del comando, lo delinea compiutamente nell'ambito stesso della norma prescrivendo all'imprenditore che se le lavorazioni producono "...rumori dannosi ai lavoratori, devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuirne l'intensita'". L'imprenditore, percio', e' perfettamente consapevole del comportamento che la legge esige ove si verifichi la dannosita' dei rumori, perche' il precetto non postula l'intervento di alcuna altra autorita'. Vero e', invece, che la norma rimanda ai suggerimenti della tecnica, ma e' questa l'ipotesi dei cosidetti "elementi normativi della fattispecie" che si hanno ogniqualvolta il legislatore fa riferimento a concetti che hanno la loro fonte o in altre discipline dell'ordinamento o in altri settori dello scibile o addirittura in regole che vengono dal costume o dalla sensibilita' sociale. Un fenomeno normativo non infrequente, di cui esempi classici sono quelli del concetto di "osceno", o quello di "comune sentimento del pudore". Nella specie, vengono evocati dalla norma "i provvedimenti consigliati dalla tecnica": quella tecnica, peraltro, dove il giudice attinge suggerimenti e pareri ogniqualvolta, indipendentemente da un rinvio normativo, debba risolvere nel processo questioni che presuppongono nozioni tecniche. E vi attinge sia direttamente, attraverso la sua personale cultura o ricerca, sia indirettamente, attraverso l'ausilio del perito. Un procedimento consueto, dunque, alla formazione del giudizio, che i giudici hanno ben utilizzato nella specie durante oltre un ventennio, prima che il legislatore avesse esperito il tentativo di dare a giudici e cittadini un criterio di uniformita'. Ma non si comprende perche', in mancanza di tale criterio, dovuta ad omissione dell'organo di governo, la norma non debba continuare a svolgere quell'imperio che per tanti anni ha potuto regolarmente conseguire i suoi effetti. E' ben vero che, durante il corso di cosi' lungo tempo, e' pervenuta alla Corte di Cassazione qualche doglianza come quelle oggi sottoposte all'esame di questa Corte. Ma la Cassazione ha costantemente respinto anche i dubbi di legittimita' costituzionale adombrati. 4. - Ed, in realta', non puo' farsi questione di genericita' e indeterminatezza della fattispecie (art.25 Cost.) quando il legislatore fa riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica puo' dare in un determinato momento storico. Ne' per l'imprenditore, ne' per il giudice, puo' rappresentare un problema la consultazione della scienza, una volta che - come ha indicato l'Avvocatura dello Stato - esistono nelle Universita' cliniche del lavoro, fornite anche di laboratori di igiene industriale, nonche' una Societa' italiana di audiologia e foniatria e, in definitiva, anche una letteratura del Centro nazionale delle ricerche, aggiornata alle esperienze internazionali. D'altra parte, la doglianza dei giudici rimettenti non tanto s'appunta sui provvedimenti da assumere per diminuire l'intensita' del rumore, quanto sulla mancanza di indicazioni circa la soglia di tollerabilita', raggiunta la quale l'imprenditore ha il dovere di adottare i provvedimenti imposti dalla norma. Ebbene non e' nemmeno esatto che nell'ordinamento non vi sia alcuna indicazione in proposito. Al contrario, il d.P.R. 5 maggio 1975 n. 146, che disciplina le misure e le modalita' di corresponsione delle indennita' di rischio al personale civile e agli operai dello Stato, enumera le prestazioni di lavoro che comportano continua e diretta esposizione "a rischi pregiudizievoli alla salute o all'integrita' personale': e, fra queste, indica proprio quelle prestazioni che impongono l'esposizione "a rumori superiori a 95 decibel in luogo aperto o ad 85 decibel in luogo chiuso". Mentre poi giudica pericolose quelle lavorazioni "che comportano esposizione diretta e continua a rumori non inferiori a 80 decibel in luogo chiuso". Ce n'e' abbastanza perche' il giudice possa almeno orientare il suo giudizio ed esprimere il suo prudente apprezzamento, sia pure con l'ausilio di consulenza o perizia; cosi' come ce n'e' a sufficienza perche' l'imprenditore possa interpellare i tecnici per adottare ogni accorgimento atto a contenere la rumorosita' entro limiti innocui, come un'insonorizzazione che attenui la pressione del rumore. Ed e' poi senza pregio il rilievo secondo cui l'imprenditore, dovendo seguire i progressi della tecnica, sarebbe costretto costantemente ad inseguire il limite determinato dall'aggiornamento tecnologico, sottoponendosi ad una vera e propria "fatica di Sisifo". Infatti, allo stesso modo dovrebbe comunque comportarsi per inseguire quelle "periodiche revisioni" cui il Presidente del Consiglio dovrebbe sottoporre i limiti prefissati, se si desse attuazione al tanto invocato art. 4 della legge istitutiva del servizio sanitario. Il quale Presidente del Consiglio, peraltro, non potrebbe certo inventare a suo libito ne' i limiti ne' le revisioni, giacche' egli pure, a sua volta, dovrebbe rivolgersi ai suggerimenti della tecnica. Del resto, l'adozione di misure idonee a garentire la salute fisica del lavoratore e' materia di specifica obbligazione a carico dell'imprenditore (art. 2087 cod.civ. e 9 Stat. lavoratori), che l'art. 24 impugnato concreta nell'adozione di specifici provvedimenti idonei nelle situazioni contemplate dalla norma. Ne' e' possibile sfuggire a quegli imperativi adombrando il valore privatistico di quelle norme rispetto ad un preteso contenuto pubblicistico della disposizione impugnata. Infatti, quand'anche cosi' fosse, l'art. 32 della Costituzione tutela la salute sia come valore individuale sia come interesse della collettivita'. Alla fine, poi, va ricordato che questa Corte ha gia' avvertito in passato (sent. 27 maggio 1961 n. 27; 14 aprile 1980 n. 49) che il principio di legalita' "non e' attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria e all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato". La necessaria integrazione della norma operata dal prudente concreto apprezzamento del giudice che utilizza nozioni e concetti di comune esperienza o le indicazioni della tecnica, non comporta certo invasione dei poteri riservati al legislatore, trattandosi anzi di attivita' propria del processo interpetrativo, che del magistero giudiziario e' fondamentale espressione. E una volta chiarito che anche a fronte della norma impugnata la conoscibilita' del precetto non e' ne' diversa ne' inferiore alle altre norme, anche la pretesa violazione dell'art.3 Cost. mostra la sua inconsistenza;