ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 247 del decreto
 legislativo 28 luglio 1989, n. 271,  promossi  con  cinque  ordinanze
 emesse il 14 novembre 1989 dal Pretore di Torino, il 23 novembre 1989
 ed il 7 dicembre 1989 dal Pretore di Mondovi' ed il 1Πdicembre  1989
 (nn. 2 ordd.) dal Tribunale di Roma, iscritte ai nn. 24, 34, 35, 36 e
 37 del registro ordinanze 1990 e pubblicate nelle Gazzette  Ufficiali
 della Repubblica nn. 5 e 6, prima serie speciale dell'anno 1990;
    Visti  gli  atti  d'intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  21 marzo 1990 il Giudice
 relatore Renato Dell'Andro;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con tre ordinanze identicamente motivate emesse dal Pretore
 di Torino il 14 novembre 1989 (Reg. ord.  n. 24/90) e  dal  Tribunale
 di Mondovi' il 23 novembre ed il 7 dicembre 1989 (Reg. ord. nn. 34/90
 e 35/90)  e'  stata  sollevata,  in  riferimento  all'art.  3  Cost.,
 questione   di   legittimita'  costituzionale  dell'art.   247  delle
 disposizioni d'attuazione del nuovo codice di procedura penale, nella
 parte  in  cui  limita  l'ammissibilita'  del  giudizio abbreviato ai
 procedimenti in cui non siano state compiute le formalita' d'apertura
 del dibattimento di primo grado.
    Osservano  i  giudici  a  quibus che i nuovi istituti del giudizio
 abbreviato e dell'applicazione della pena su  richiesta  delle  parti
 prevedono  da  una  parte  una  diversa  e  piu'  rapida procedura di
 definizione del processo e dall'altra una rilevante diminuzione della
 pena   ed   altre  conseguenze  giuridiche  piu'  favorevoli  al  reo
 (esclusione dell'applicazione delle pene accessorie, delle misure  di
 sicurezza  e  della  condanna  al  pagamento delle spese processuali,
 estinzione del reato). E' pertanto evidente che  i  c.d.  nuovi  riti
 speciali   -   poiche'   non  si  limitano  soltanto  a  disciplinare
 l'accertamento della notitia criminis e le attivita'  processuali  ma
 incidono    direttamente    sulla    quantificazione    della   pena,
 sull'applicabilita' di pene accessorie e di  misure  di  sicurezza  e
 sull'estinzione  del  reato  -  hanno  natura  penale sostanziale. In
 particolare, la  riduzione  della  pena  e  gli  altri  benefici  che
 conseguono dai procedimenti previsti dagli artt. 438 e 444 del codice
 di procedura penale hanno natura sostanziale mentre le norme  che  ne
 disciplinano le forme di esperimento hanno natura processuale.
    A parere dei giudici a quibus, dai primi tre commi dell'art. 2 del
 codice penale s'evince che il  nostro  sistema  penale  accoglie  non
 tanto  il  principio  della  irretroattivita',  bensi'  il  principio
 superiore che al reo e' assicurato il trattamento piu' favorevole tra
 quelli  stabiliti dalla legge a partire dalla commissione del fatto e
 sino alla sentenza irrevocabile. Tale principio  superiore,  ispirato
 al  favor  libertatis,  si specifica poi in quello d'irretroattivita'
 nel primo comma, in  quello  della  retroattivita'  (anche  oltre  la
 sentenza  irrevocabile)  nel  secondo  comma ed in quello della legge
 piu' favorevole nel  terzo  comma.  Anzi,  dalla  degradazione  della
 irretroattivita'  a  semplice corollario d'un principio superiore, si
 e'  da  alcuni  dedotto  che  l'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  ha
 implicitamente accolto non solo il principio d'irretroattivita' della
 legge penale ma anche  il  principio  piu'  generale  che  ne  e'  il
 fondamento.
    A  parere  delle  autorita'  remittenti,  anche se non puo' essere
 condivisa la tesi secondo cui le norme dell'art. 2 del codice  penale
 siano  materialmente  costituzionali,  deve tuttavia ritenersi che il
 principio dell'applicabilita' della legge piu' favorevole, posto  dai
 primi  tre  commi del detto art. 2 del codice penale, incidendo sullo
 status libertatis  e  sui  diritti  fondamentali  del  cittadino,  ha
 rilevanza costituzionale; sicche' la sua eventuale deroga deve essere
 giustificata da ragioni aventi pari rilevanza costituzionale.
    Orbene,  poiche'  i  riti speciali di cui agli artt. 438 e 444 del
 codice  di  procedura  penale   costituiscono   disposizioni   penali
 sostanziali  piu'  favorevoli  all'imputato,  deriva  che,  ai  sensi
 dell'art. 2 del codice penale, la loro applicabilita' non va limitata
 ai  procedimenti  iniziati successivamente al 24 ottobre 1989 ma deve
 essere estesa a tutti i procedimenti pendenti in tale data.
    Il nuovo codice di procedura penale, sempre a parere dei giudici a
 quibus,  ha   invece   accolto   solo   parzialmente   il   principio
 dell'applicabilita'  del trattamento piu' favorevole al reo. Infatti,
 gli artt. 247 e  248  delle  disposizioni  d'attuazione  da  un  lato
 estendono  i  riti speciali ai procedimenti in corso ma dall'altro ne
 limitano l'ammissibilita' ai soli procedimenti nei  quali  non  siano
 state ancora compiute le formalita' d'apertura del dibattimento.
    Ora,  tale  limitazione  non  appare ne' ragionevole ne' diretta a
 tutelare un interesse avente pari rilevanza  costituzionale.  Non  e'
 invero  esatta  l'opinione secondo cui, poiche' nel nuovo processo il
 giudizio abbreviato e l'applicazione della  pena  a  richiesta  delle
 parti  hanno  la  funzione  di giungere ad una rapida definizione dei
 processi e la riduzione della pena costituisce solo un incentivo  per
 l'imputato  affinche'  chieda tali riti, sarebbe stato ingiustificato
 estenderne l'ammissibilita' ai procedimenti pendenti, il cui iter con
 l'apertura  del dibattimento - sia giunto ad un punto tale da rendere
 non piu' apprezzabile il beneficio d'una loro rapida definizione.  Ed
 infatti, se e' vero che i riti speciali hanno tale funzione, cio' non
 toglie che essi hanno tuttavia  attribuito  all'imputato  un  vero  e
 proprio  diritto  soggettivo  di  chiedere  tali riti e d'ottenere la
 conseguenziale riduzione  della  pena  indipendentemente  dalla  loro
 adozione.  L'art.  448  prevede,  in caso di dissenso del P.M. che il
 giudice ritenga ingiustificato, che la  riduzione  della  pena  possa
 essere  concessa  anche  nel  giudizio  d'impugnazione.  Cio'  prova,
 secondo le citate ordinanze di rimessione, che anche nel caso in  cui
 il  sistema  processuale  non  abbia  tratto alcun beneficio dal rito
 speciale, in quanto si e' gia' celebrato interamente il  giudizio  di
 primo grado e quello d'appello, ugualmente l'imputato conserva il suo
 diritto d'ottenere la riduzione della pena e l'esclusione delle  pene
 accessorie  e delle misure di sicurezza. Questa conseguenza, a parere
 dei giudici a quibus, e' giustificata dalla considerazione che i riti
 speciali,   se  sono  esaminati  dal  lato  del  sistema  processuale
 costituiscono un mezzo  per  giungere  alla  rapida  definizione  del
 processo,  mentre  se sono visti dal lato dell'imputato costituiscono
 un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere la  riduzione  della
 pena.  Non  e'  quindi ragionevole la giustificazione secondo cui gli
 artt. 247  e  248  delle  disposizioni  d'attuazione  del  codice  di
 procedura  penale avrebbero limitato l'ammissibilita' ai procedimenti
 pendenti in  cui  non  siano  state  ancora  compiute  le  formalita'
 d'apertura  del  dibattimento per la considerazione che, oltre questo
 termine,  il  sistema  processuale  non  ne  avrebbe   tratto   alcun
 beneficio.  Questa  giustificazione,  oltre  ad essere infondata, non
 tiene conto che il principio dell'applicabilita' della  legge  penale
 piu'  favorevole  al  reo,  stabilito  dall'art. 2 del codice penale,
 incidendo sullo status libertatis  e  sui  diritti  fondamentali  dei
 cittadini  ed  essendo  stato  recepito  dall'art. 25, secondo comma,
 Cost., ha rilevanza costituzionale.
    Di conseguenza, concludono i giudici a quibus, gli artt. 247 e 248
 citati determinano un'ingiustificata disparita'  di  trattamento  tra
 gli  imputati  a  seconda che nei loro procedimenti siano o non siano
 state compiute le formalita' d'apertura del dibattimento.
    Quanto  alla  rilevanza  i  giudici  a  quibus  osservano  che nei
 procedimenti di cui si tratta, nei quali erano gia' state compiute le
 formalita'  d'apertura  del dibattimento prima dell'entrata in vigore
 del  nuovo  codice  processuale,  gli  imputati  hanno   chiesto   la
 definizione  del  processo  col  rito abbreviato e che l'accoglimento
 della questione  e'  certamente  rilevante  in  quanto  incide  sulla
 quantificazione della pena.
    2.  -  Con due ordinanze emesse il 1Πdicembre 1989 (Reg. ord. nn.
 36/90 e 37/90)  il  Tribunale  di  Roma  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'   costituzionale   dell'art.   247   delle  disposizioni
 d'attuazione del nuovo codice di  procedura  penale,  in  riferimento
 all'art. 3 Cost.
    Il  Tribunale si limita ad osservare che la disposizione impugnata
 "opera una disparita' di trattamento tra  sottoposti  a  procedimenti
 che  siano  addivenuti  al  giudizio dopo il 24 ottobre c.a. e quelli
 gia' chiamati a giudizio prima della detta data con giudizio di primo
 grado  non  ancora  concluso,  consentendo  ai primi e non ai secondi
 d'usufruire del giudizio abbreviato".
    3.   -  Nei  giudizi  -  ad  eccezione  di  quello  sollevato  con
 l'ordinanza  del  Pretore  di  Torino  (Reg.  ord.  n.  24/90)  -  e'
 intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
 questione sia dichiarata infondata.
    Osserva   l'Avvocatura  che  la  stessa  ordinanza  di  rimessione
 riconosce l'inaccettabilita', nel nostro ordinamento  a  costituzione
 rigida, di disposizioni a rilevanza costituzionale soltanto materiale
 quando non siano poste in essere da disposizioni  costituzionali.  E'
 pertanto     contraddittorio     affermare     che    il    principio
 dell'applicabilita' della legge penale  piu'  favorevole  abbia  tale
 rilevanza  e che ogni sua deroga debba essere giustificata da ragioni
 aventi pari  rilevanza  costituzionale.  Oltre  che  contraddittoria,
 l'affermazione  e' incongrua in quanto, se la norma fosse formalmente
 costituzionale, non basterebbero ragioni a rilevanza costituzionale a
 stabilirne  la  deroga,  perche' sarebbe sempre necessario che questa
 venga disposta  con  norma  formale  costituzionale.  Del  resto,  la
 sentenza  di  questa  Corte n. 164 del 1974 ha statuito che l'art. 25
 Cost. vieta la retroattivita' della  legge  penale  ma  non  concerne
 l'ultrattivita',  che  e' disciplinata dall'art. 2 del codice penale,
 in tal modo evidenziando la  distinzione  fra  la  valenza  meramente
 ordinaria  di  quest'ultima  disposizione  ed  il  diverso  contenuto
 normativo dell'art. 25 Cost.
    E'   quindi  evidente  l'infondatezza  della  sollevata  questione
 perche' il diritto soggettivo dell'imputato di chiedere i nuovi  riti
 speciali   e  d'ottenere  la  conseguente  riduzione  della  pena  e'
 riconosciuto nei limiti previsti dall'ordinamento e cioe' nei casi in
 cui,  con  ragionevole  valutazione  legislativa  che  tien  conto di
 esigenze di celerita' del processo penale, quei riti siano adottabili
 e   non   gia'   indipendentemente  dalla  loro  adozione.  A  parere
 dell'Avvocatura generale,  non  e'  quindi  violato  l'art.  3  Cost.
 poiche'  non v'e' eguaglianza delle posizioni iniziali; ed il diverso
 trattamento  e'  giustificato  da  apprezzabili  ragioni  d'interesse
 pubblico.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  ordinanze  in  epigrafe  trattano  un'unica questione e
 possono, pertanto, unificati i giudizi, essere  decise  con  un'unica
 sentenza.
    La sollevata questione di costituzionalita' non e' fondata.
    Diverse  ragioni  militano  a favore della costituzionalita' della
 limitazione, ex art. 247 delle norme di attuazione, di  coordinamento
 e  transitorie  del codice di procedura penale, approvate con decreto
 legislativo 28 luglio 1989, n. 271, dell'ammissibilita' del  giudizio
 abbreviato  (relativamente  ai  procedimenti  pendenti  alla  data di
 entrata in vigore del nuovo  codice  di  procedura  penale)  ai  soli
 procedimenti  per  i  quali non siano state compiute le formalita' di
 apertura del dibattimento.
    La     prima     delle    sopra    indicate    ragioni    consiste
 nell'inscindibilita' della disposizione impugnata:  questa,  infatti,
 in  tanto  consente  l'eventuale  riduzione di pena in quanto intende
 sollecitare  la  richiesta,  da  parte  dell'imputato,  del  giudizio
 abbreviato.   E   tutto   cio'  allo  scopo  d'assicurare  la  rapida
 definizione del maggior numero di processi; l'introduzione, nel nuovo
 codice di procedura penale, d'una pluralita' di procedimenti speciali
 tende, appunto, a realizzare il  predetto  scopo,  com'e',  peraltro,
 generalmente  riconosciuto,  e  come,  d'altra  parte,  ammettono gli
 stessi giudici a quibus.
   La   predetta   inscindibile   unita'   finalistica  dell'impugnata
 disposizione rende quanto meno discutibile la  doppia  considerazione
 del  giudizio abbreviato, il quale (come, invece, si assume da alcuni
 dei giudici a quibus) se  esaminato  sotto  il  profilo  del  sistema
 processuale,  costituisce  mezzo per giungere alla rapida definizione
 dei processi mentre, esaminato dal lato dell'imputato, costituisce un
 "vero e proprio" diritto subiettivo a chiedere il giudizio abbreviato
 e ad ottenere la riduzione della pena.
    Va,  invece,  osservato  che, reso impossibile, con l'apertura del
 dibattimento,  quel  beneficio,  per  il  sistema  processuale,   che
 giustifica  l'inclusione  del giudizio abbreviato (si badi: si tratta
 pur sempre di un procedimento speciale) nel sistema del nuovo  codice
 di  procedura  - non essendo, cioe', razionale consentire un giudizio
 abbreviato,  inidoneo  a  raggiungere   lo   scopo   unitario   della
 disposizione   impugnata   -   e'  conseguentemente  e  razionalmente
 impossibile all'imputato realizzare il c.d. "diritto" ad ottenere  la
 riduzione   di   pena.   Quand'anche   si   configurasse  un  diritto
 dell'imputato  ad  ottenere  la  riduzione  di  pena  qui  in  esame,
 l'utilita'   per   il  generale  sistema  processuale,  e,  pertanto,
 l'esperibilita' del giudizio abbreviato  costituirebbe,  pur  sempre,
 limite all'esercizio del predetto "diritto".
    2.   -   Si  badi:  il  legislatore,  che  ben  poteva  dichiarare
 applicabile il nuovo codice di procedura penale soltanto ai fatti per
 i  quali, alla data dell'entrata in vigore dello stesso codice ancora
 non fosse stato iniziato procedimento  penale,  ha  invece,  dettando
 apposite  norme  d'attuazione,  di coordinamento e transitorie (testo
 approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) ritenuto
 opportuno, al fine d'accelerare anche la definizione dei procedimenti
 pendenti e di conseguentemente permettere il funzionamento stesso del
 nuovo  codice,  estendere l'applicazione di alcuni istituti del nuovo
 codice anche ai procedimenti in corso alla data d'entrata  in  vigore
 dello stesso codice.
    Tale  applicazione  e'  stata, tuttavia, razionalmente limitata ai
 soli casi in cui gli istituti stessi siano in grado di  mantenere  la
 loro fisionomia e finalita'.
    In  altre  parole: poiche' lo scopo dell'istituto del procedimento
 abbreviato e' quello  di  consentire  la  sollecita  definizione  del
 giudizio,  escludendo  la fase dibattimentale, e' del tutto razionale
 che, per i reati pregressi  e  per  i  procedimenti  in  corso,  tale
 istituto  sia  stato  reso  applicabile  soltanto quando il suo scopo
 possa essere ugualmente perseguito, e cioe' soltanto  quando  non  si
 sia ancora giunti al dibattimento.
    Anzi,  irrazionale  sarebbe  stata  un'applicazione  del  giudizio
 abbreviato oltre i predetti limiti. Infatti, in tanto e' riconosciuto
 il  "diritto"  dell'imputato di chiedere che il processo sia definito
 nell'udienza preliminare, ex primo comma dell'art. 247 delle norme di
 attuazione,  di  coordinamento  e transitorie del codice di procedura
 penale e di ottenere i conseguenziali  benefici,  in  quanto,  da  un
 lato,  si consente una rapida definizione del giudizio e, dall'altro,
 tal diritto funge, per cosi' dire, da corrispettivo  per  il  rischio
 che  assume  l'imputato d'essere giudicato allo stato degli atti e di
 rinunciare al dibattimento, dal quale potrebbe  anche  scaturire  una
 pronuncia  a  lui  piu'  favorevole.  Pertanto,  se  fosse  possibile
 all'imputato chiedere il  rito  abbreviato  anche  nel  caso  che  il
 dibattimento  sia  gia'  iniziato,  i  benefici  non  sarebbero  piu'
 giustificati ne' dallo scopo (ormai impossibile) d'eliminare la  fase
 dibattimentale ne' dal rischio assunto dall'imputato, il quale invece
 si troverebbe  nella  comoda  situazione  di  decidere  dopo  che  il
 Pubblico  Ministero ha gia' offerto le sue prove e comunque dopo aver
 potuto valutare l'andamento del dibattimento stesso.  Si  tratterebbe
 quindi d'una situazione ingiustificata ed irrazionale.
    Non e', pertanto, producente il confronto fra imputati per i quali
 il dibattimento sia stato o  non  sia  stato  ancora  aperto  proprio
 perche'  si  tratta  di situazioni oggettivamente diverse; l'apertura
 del dibattimento  rende  irrazionale  l'applicabilita'  del  giudizio
 abbreviato.
    Ugualmente  inconferente  e'  il  richiamo  all'art. 448 del nuovo
 codice ed alla possibilita' che  il  giudice  applichi  la  riduzione
 della  pena  dopo  il  dibattimento  quando ritenga ingiustificato il
 dissenso  del  Pubblico  Ministero.  Anche  questo   caso,   infatti,
 presuppone  pur  sempre  che  l'imputato  abbia  fatto  la  richiesta
 (assumendosi il relativo rischio) prima del dibattimento, mentre  nel
 caso  di  specie si tratterebbe di imputati che sarebbero autorizzati
 ad ottenere i benefici senza correlativi rischi.
    3.  - Di tutto cio' non possono non essere consapevoli i giudici a
 quibus. Il ricorso al principio dell'applicabilita' della legge  piu'
 favorevole al reo, di cui all'art. 2, terzo comma, del codice penale,
 che si  assume  recepito  dall'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,  va
 considerato,  infatti,  come ricerca d'un principio valido a superare
 le ragioni  che  militano  a  favore  della  costituzionalita'  della
 disposizione impugnata.
    In  questa sede, non e' consentito addentrarsi nell'esame del tema
 dell'appartenenza  o  meno,  alla  Costituzione,  del  principio   di
 retroattivita'    della    "posteriore"   legge   penale   favorevole
 all'imputato.
    La mancanza, nella Costituzione, d'esplicita menzione del predetto
 principio e l'approvazione dell'ordine del giorno Giovanni  Leone  ed
 altri, soppressivo della seconda parte del secondo comma dell'art. 20
 del progetto (dove costituzionalmente si  sanciva  la  retroattivita'
 della  legge  posteriore favorevole al reo: cfr. seduta antimeridiana
 del 15 aprile 1947 dell'Assemblea Costituente) sembra  dar  torto  ai
 giudici a quibus.
    Senonche',  i  lavori  preparatori  vanno studiati ed approfonditi
 nelle motivazioni che conducono alle conclusioni soppressive.
    In   tanto,  vale  preliminarmente  chiedersi  se  sia,  per  se',
 sufficiente, al fine  d'escludere  l'appartenenza  alla  Costituzione
 d'un    determinato    principio,    peraltro    sempre   appartenuto
 all'ordinamento  previgente,   il   silenzio   (e   non   l'esplicita
 esclusione).
    Ma,   di  piu',  v'e'  da  osservare  che  l'assoluta,  stragrande
 maggioranza  dei  Costituenti  non   ha   avuto   mai   dubbi   sulla
 costituzionalizzazione  anche  del  principio di retroattivita' della
 legge penale "successiva", favorevole al reo.
    Ed  infatti,  nella  seduta  antimeridiana  del  25  gennaio  1947
 dell'adunanza plenaria della Commissione per la  Costituente,  l'art.
 19  del  progetto  risultava  cosi'  formulato:  "Nessuno puo' essere
 distolto dal suo giudice naturale, precostituito per legge; ne'  puo'
 essere  punito se non in virtu' di una legge gia' in vigore prima del
 fatto commesso e con la pena in essa prevista,  salvo  che  la  legge
 posteriore sia piu' favorevole al reo".
    Va aggiunto che gran parte degli emendamenti proposti alla seconda
 parte del secondo comma dell'art. 20 (il contenuto dell'art.  19  era
 stato  intanto  parzialmente  trasferito  nell'art.  20 del progetto)
 ancora prevedevano come costituzionalizzato  anche  il  principio  di
 retroattivita'  della  legge  penale  "successiva"  favorevole al reo
 (cfr. verbali della ricordata seduta antimeridiana del 15 aprile 1947
 dell'Assemblea Costituente).
    L'accordo,  nell'ora  citata  seduta,  non  fu  raggiunto soltanto
 sull'ampiezza delle nozioni di leggi eccezionali e temporanee e cioe'
 sull'ampiezza  delle  deroghe  al  principio, in se' accettato, della
 retroattivita'  della  legge  "successiva"  favorevole  al  reo:   fu
 soltanto  per  il  mancato  accordo  su  tal punto che venne proposto
 l'ordine del giorno, approvato, soppressivo  dell'esplicita  menzione
 della  retroattivita'  della  legge penale "posteriore" favorevole al
 reo.
    Queste considerazioni non intendono, certo, giungere a respingere,
 in questa sede, l'opinione  tradizionale  in  materia  ma  valgono  a
 chiarire  da  una  parte che quasi tutti i Costituenti non furono per
 nulla  alieni  dal  costituzionalizzare   anche   il   principio   di
 retroattivita' della legge penale, successiva al fatto, favorevole al
 reo e d'altra parte che gli stessi Costituenti furono ben "attenti  e
 preoccupati"    delle   eccezioni   al   principio   della   predetta
 retroattivita'. Resta da vagliare - ma non e' questa la sede - se  la
 rimessione al legislatore ordinario della risoluzione delle questioni
 attinenti alla successione  di  leggi  penali  nel  tempo  (cosi'  si
 esprimevano  i  Costituenti)  esprima  disinteresse,  da  parte degli
 stessi Costituenti, per il tema,  con  la  conseguenza  dell'assoluta
 "liberta'",  in proposito, del legislatore ordinario oppure equivalga
 a concessione a quest'ultimo della sola discrezionale valutazione  in
 ordine  alle  leggi  eccezionali,  temporanee  (e finanziarie) uniche
 idonee a derogare al principio di retroattivita' delle  leggi  penali
 "posteriori" favorevoli al reo.
    4.  -  Il  caso  di  specie  va  risolto  senza  ricorso all'esame
 dell'ampiezza, portata, e contenuti dell'art. 2 del codice penale.
    Questa disposizione entra in discussione, infatti, solo e soltanto
 ove vi sia stato un mutamento, favorevole al reo,  nella  valutazione
 sociale  del  fatto  tipico  oggetto  del  giudizio.  La dottrina e',
 invero, attenta a chiarire che ex art. 2, secondo e terzo comma,  del
 codice  penale,  non  e' consentito sottoporre a punizione (od a piu'
 grave punizione) un soggetto per un fatto che, nello  stesso  momento
 in  cui  vien perseguito, non riveste piu', per la coscienza sociale,
 quella  nota  d'illiceita'   per   la   quale   fu   legislativamente
 incriminato.
    Soprattutto  a  seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di
 procedura penale, occorrerebbe, pertanto, rileggere l'art. 2, secondo
 e  terzo comma, del codice penale e chiarire l'estraneita' all'ambito
 d'operativita'   dei   principi   enunciati   dai   predetti    commi
 (retroattivita'  della  legge  penale  successiva  abrogativa e della
 legge successiva modificativa in melius, salvo  il  giudicato)  delle
 ipotesi nelle quali non si sia verificato un mutamento, favorevole al
 reo, della valutazione della coscienza sociale rispetto ad  un  fatto
 penalmente illecito.
    Poiche'  e'  generalmente riconosciuto che indispensabile premessa
 dell'applicazione dei principi innanzi ricordati - sia che si  faccia
 ricorso  all'irrazionalita'  di  punire  (o  continuare  a  punire in
 maniera sfavorevole) alcuni soggetti  per  fatti  che  chiunque  puo'
 impunemente  (o  subendo  un trattamento piu' favorevole) commettere,
 nel momento stesso in cui i primi subiscono "pesanti"  condanne,  sia
 che  ci  si riferisca al favor libertatis, del quale irretroattivita'
 della legge penale creativa o modificativa in peius e  retroattivita'
 della legge penale abolitiva o modificativa in melius costituirebbero
 derivazioni - e' il mutamento (favorevole al reo)  della  valutazione
 sociale  rispetto  ad  un fatto che, appunto a seguito di tale mutata
 valutazione, la legge  penale  sanziona  in  maniera  piu'  lieve  od
 addirittura  (secondo  comma dell'art. 2 del codice penale) considera
 penalmente lecito: nelle ipotesi in cui  non  si  e'  verificata  una
 mutata valutazione sociale rispetto al fatto tipico incriminato si e'
 fuori dell'ambito d'applicabilita' dei principi in discussione.
    Or,  nel  caso in esame, la valutazione sociale negativa, rispetto
 ai fatti oggetto del processo penale, non e' mutata:  nulla,  invero,
 e'  variato  in  ordine all'illiceita' od alla disciplina giuridico -
 penale  dei  fatti  previsti  nel  codice  penale   sostanziale.   La
 possibilita' della riduzione di pena per chi richiede il procedimento
 abbreviato vale soltanto, come s'e' innanzi osservato,  a  stimolare,
 nei   limiti   dell'esperibilita'  del  procedimento  abbreviato,  la
 richiesta,  da  parte  dell'imputato,  dello   stesso   procedimento:
 l'intento  "stimolatorio" della richiesta del giudizio abbreviato non
 puo', pertanto, assurgere a  mutata  valutazione  sociale,  in  senso
 favorevole al reo, del fatto, oggetto del giudizio, previsto e punito
 dal codice penale sostanziale.
    Consegue  che  al caso in esame non puo' applicarsi il disposto di
 cui al terzo comma dell'art. 2 del codice penale.  Rimane,  pertanto,
 libero il legislatore di non far retroagire la disposizione impugnata
 a favore degli imputati i cui procedimenti abbiano, alla data del  24
 ottobre  1989,  gia'  raggiunto il dibattimento. Non risulta violato,
 pertanto, l'art. 3, primo comma, Cost., a causa,  come  s'e'  innanzi
 accennato,  della diversita' delle situazioni diversamente valutate e
 disciplinate dal legislatore.