ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 30 novembre 1955, n. 1335 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione tra gli Stati partecipanti al Trattato Nord Atlantico sullo Statuto delle loro Forze armate, firmata a Londra il 19 giugno 1951), e dell'art. 2 (rectius: art. 1) del regolamento approvato con d.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666 (Approvazione del regolamento relativo all'applicazione dell'art. VII della Convenzione fra gli Stati aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo "status" delle loro Forze armate, firmata a Londra il 19 giugno 1951), promosso con ordinanza emessa il 30 dicembre 1989 dal Giudice istruttore presso il Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Lee Nance Reginald, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1990; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 26 giugno il Giudice costituzionale Mauro Ferri. Ritenuto in fatto 1. - Il Giudice istruttore presso il Tribunale di Roma, con ordinanza del 30 dicembre 1989, ha giudicato rilevante, e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 25, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 30 novembre 1955 n. 1335, e dell'art. 2 (rectius: art. 1) del regolamento approvato con d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666, nella parte in cui conferiscono al Ministro di Grazia e Giustizia la facolta' di rinuncia alla giurisdizione nei confronti di militari appartenenti a Corpi Armati della NATO di stanza in Italia. 2. - Nel corso di un procedimento penale nei confronti del militare della NATO Lee Nance Reginald, ritenuto responsabile dei reati di detenzione di eroina, resistenza a pubblico ufficiale, uso abusivo di uniforme e rifiuto di indicazioni sulla propria identita' personale, il Giudice istruttore provvedeva ad interrogare l'imputato e ad informare il Dipartimento della marina militare degli Stati Uniti, che manifestava la volonta' di perseguire esso stesso il militare; detto Dipartimento domandava inoltre, in base all'art. VII della Convenzione di Londra istitutiva del Patto Atlantico (reso esecutivo in Italia con legge 30 novembre n. 1335 ed applicato mediante il regolamento di cui al d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666), al Ministro di Grazia e Giustizia di rinunciare alla giurisdizione: quest'ultimo, in data 16 giugno 1989, concedeva il suo assenso. 3. - Dopo aver rammentato che la questione e' stata gia' affrontata dalla Corte con sent. n. 96 del 1973, il giudice a quo ritiene che gli argomenti allora portati per pervenire ad una dichiarazione di infondatezza non possano definirsi soddisfacenti, se esaminati alla luce del divenire dei rapporti internazionali. Secondo una secolare e consolidata tradizione, afferma l'ordinanza di rimessione, le norme internazionali vanno distinte in due principali categorie: le consuetudini e le norme pattizie; le consuetudini prevalgono su queste ultime, data la particolare struttura dell'ordinamento internazionale nell'attuale fase storica. L'art. 10 della Costituzione stabilisce l'automatico adeguamento dell'ordinamento italiano alle norme internazionali generalmente riconosciute: e' evidente che tale articolo intende riferirsi esclusivamente alle consuetudini, che pertanto non necessitano del c.d. ordine di esecuzione per operare in Italia: non altrettanto puo' dirsi riguardo alle norme pattizie, che sottostanno al regime ordinario. Tutto cio' premesso - prosegue il giudice remittente - appare problematico affermare l'esistenza, a tutt' oggi, di una consuetudine che sancisca la giurisdizione esclusiva di uno Stato sui propri Corpi Armati di stanza all'estero. Tale principio, che pure ha avuto applicazione fino al secondo conflitto mondiale, risulta nell'ultimo quarantennio praticamente ignorato dalle Convenzioni che hanno istituzionalizzato la presenza di Corpi di truppa stranieri negli Stati aderenti a singoli accordi difensivi. Al contrario, nella prassi internazionale piu' recente si assiste alla formazione di una consuetudine diretta ad affermare, in modo sempre piu' radicato, il principio del "locus regit actum", con rigorose limitazioni delle ipotesi eccezionali. Se quindi la norma immessa nell'ordinamento con l'art. 2 della legge 30 novembre 1955 n. 1335 ha natura pattizia, al pari del regolamento emanato con d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666, entrambe non possono trovare tutela costituzionale nell'art. 10 della Costituzione, e nemmeno nell'art. 11 della Costituzione, in quanto quest'ultimo fa esclusivo riferimento alle c.d. organizzazioni generali, mentre la NATO e' pur sempre un'organizzazione a carattere particolare. Anche in ordine all'art. 25 della Costituzione ed al principio del "giudice naturale precostituito per legge", ad avviso del giudice remittente, non appaiono condivisibili le argomentazioni svolte nella citata sentenza n. 96 del 1973. Cio' in quanto la norma impugnata non attuerebbe il trasferimento del processo da una giurisdizione ad un'altra, ma soltanto una rinuncia all'azione penale, con eventuale riinizio della stessa. Vi sarebbe quindi un'incidenza solo in senso negativo sulla competenza dell'organo giurisdizionale procedente e designato in via generale, senza che vi sia individuazione dell'organo che dovra' giudicare. Inoltre la sottrazione al giudice naturale avverrebbe in modo estremamente arbitrario, per la facolta', data al Ministro di Grazia e Giustizia, di scegliere l'organo piu' idoneo a "jurisdicere". Tale disciplina violerebbe quindi altri articoli della Costituzione: gli artt. 101 e 104, primo comma, in quanto il procedimento viene sottratto al giudice naturale con un atto del potere esecutivo, senza che l'organo giurisdizionale possa sindacare il merito del provvedimento, e inoltre l'art. 112, che introduce nell'ordinamento il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. 4. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato; ad avviso dell'Avvocatura non sussiste alcuna violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge in quanto il precetto costituzionale invocato presiede alla disciplina delle competenze dei giudici all'interno dell'ordinamento e non anche al coordinamento fra le giurisdizioni di diversi Stati. Ad analoghe conclusioni d'infondatezza l'Avvocatura perviene in ordine alle adombrate violazioni degli artt. 101, 102, 104, primo comma, della Costituzione. Il meccanismo attuativo dell'art. VII della Convenzione di Londra, afferma l'Avvocatura, si sostanzia in una rinuncia alla giurisdizione, ma tale situazione non integra di per se' alcuna violazione delle indicate norme, ne', di quella dettata dall'art. 25 cpv. della Costituzione, le quali, prescrivendo il principio di stretta legalita', statuendo l'autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario e la soggezione dei giudici soltanto alla legge, e riservando ai magistrati la funzione giurisdizionale, inibiscono interventi di organi del potere esecutivo che siano destinati a integrare o a sovrapporsi al precetto di legge, ovvero trasferiscano dal giudice al potere politico o amministrativo decisioni pertinenti all'esercizio della giurisdizione. Il potere di rinunciare alla giurisdizione esula completamente dall'area di operativita' delle predette disposizioni e non puo' quindi essere censurata la scelta legislativa di rimettere tale potere al Ministro di Grazia e Giustizia, quale organo cui e' funzionalmente affidata la rappresentanza dello Stato nei rapporti internazionali in materia di giustizia (e per le ineliminabili valutazioni di opportunita' che l'esercizio di tale potere richiede). L'atto con cui il Ministro della Giustizia si avvale di tale facolta' incide sul regime di procedibilita' del fatto-reato e, piu' precisamente, determina l'insorgere di un ostacolo a perseguire lo stesso; ostacolo che si configura nel nostro ordinamento come causa di improcedibilita' (o improseguibilita') dell'azione penale. La relativa richiesta di declaratoria di non doversi procedere da parte del pubblico ministero costituisce, per il nostro sistema, esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che dovrebbero ritenersi del tutto infondate le perplessita' concernenti la pretesa violazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. L'Avvocatura in conclusione rileva che i termini della questione non sono sostanzialmente diversi, oggi, da quelli gia' esaminati nella sentenza n. 96 del 1973 della Corte. Considerato in diritto 1. - Il Giudice istruttore presso il Tribunale di Roma dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 25, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione, dell'art. 2 della legge 30 novembre 1955 n. 1335, nella parte in cui da' esecuzione all'art. VII della Convenzione di Londra del 1951 tra gli Stati aderenti al Trattato Nord Atlantico, e dell'art. 2 del regolamento approvato con d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666, nella parte in cui "attribuisce al Ministro di Grazia e Giustizia la facolta' di rinuncia alla priorita' nell'esercizio della giurisdizione nei confronti di militari appartenenti a corpi armati N.A.T.O. di stanza in Italia". Giova rammentare che l'articolo VII della citata Convenzione, disciplinando la materia dei possibili conflitti di giurisdizione tra autorita' dello Stato di origine e di soggiorno, delimita i casi di giurisdizione esclusiva e di giurisdizione concorrente, specificando, in quest'ultima ipotesi, le fattispecie rimesse alla priorita' giurisdizionale dell'uno o dell'altro Stato. In relazione a tale diritto primario di giurisdizione, appartenga esso allo Stato di soggiorno o di origine, e' prevista (al paragrafo 3, lettera c) la facolta' di rinuncia che puo' essere esercitata dallo Stato che e' titolare della priorita', o di sua iniziativa o su espressa richiesta da parte dell'autorita' dell'altro Stato. Con d.P.R. 2 dicembre 1956 n. 1666 e' stata approvata la disciplina applicativa del citato articolo VII ed e' stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia, inteso il Ministro degli Esteri, il potere di esercitare la detta facolta' di rinuncia. 2. - Per un evidente errore materiale il giudice a quo ha indicato tale ultima disposizione nell'art. 2 del d.P.R. n. 1666 del 1956, che disciplina invece l'ipotesi in cui il Ministro guardasigilli chieda alle competenti autorita' dello Stato di origine del militare di stanza in Italia, di rinunciare alla propria giurisdizione in favore dello Stato italiano, anziche' nell'art. 1 del medesimo d.P.R. che, regolando l'ipotesi inversa, attribuisce, come gia' detto, al Ministro la facolta' di accogliere le istanze di rinuncia presentate dalle autorita' dello Stato di origine. Nondimeno il provvedimento di rimessione e' inequivoco nel delineare correttamente la fattispecie oggetto della questione (nella quale si discute appunto della rinunciabilita' da parte dello Stato italiano al diritto di priorita' nell'esercizio della giurisdizione), nell'esporre il contenuto normativo della disposizione impugnata e nel motivare la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale ai fini della decisione finale; tanto basta per ritenere la questione inequivocabilmente riferita alla disposizione di cui all'art. 1 del citato d.P.R. n. 1666 del 1956 e, pertanto, l'indicazione della ordinanza puo' essere corretta dalla Corte (cfr. sentt. nn. 47 del 1962, 138 del 1986, 115 del 1990). 3. - La prima questione sottoposta all'esame della Corte riguarda la compatibilita' con l'art. 25, primo comma, della Costituzione, della norma di cui all'art. VII, par. 3, lett. c della Convenzione (resa esecutiva dall'art. 2 della citata legge n. 1335 del 1955), che prevede specificamente, in caso di concorso di giurisdizione tra lo Stato di soggiorno e quello di origine, la facolta' di rinuncia dello Stato cui e' riconosciuto il diritto prioritario, dietro richiesta dell'altro Stato. La questione e' gia' stata esaminata da questa Corte, e dichiarata non fondata con la sent. n. 96 del 1973; ma il giudice a quo, dopo aver diffusamente argomentato sulla non applicabilita' della tutela di cui all'art. 10, primo comma, della Costituzione alla norma impugnata, ritiene ora di riproporla sotto un differente profilo. In particolare, secondo il giudice remittente, la disciplina in esame non attuerebbe il trasferimento del processo da una giurisdizione all'altra ma soltanto una rinuncia all'azione penale con "riinizio eventuale" della stessa; vi sarebbe quindi un'incidenza solo in senso negativo sulla competenza dell'organo giurisdizionale procedente, e designato in via generale, senza che vi sia individuazione dell'organo che dovra' giudicare. Da qui la denunciata lesione del principio del giudice naturale precostituito per legge. 4. - La questione non e' fondata. Occorre rilevare che l'invocato principio costituzionale e' posto essenzialmente a garanzia della assoluta imparzialita' degli organi giudiziari ed esige che la loro competenza venga sottratta ad ogni possibile arbitrio attraverso la precostituzione per legge del giudice in base a criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controversie gia' insorte (cfr. sentt. nn. 77 del 1977 e 127 del 1979). Detto principio, presiedendo quindi alla disciplina delle competenze dei giudici all'interno dell'ordinamento, e' del tutto estraneo ad una fattispecie, quale quella in esame, che si propone invece di regolare il coordinamento tra le giurisdizioni di diversi Stati e dalla cui applicazione dipende non gia' quale giudice debba procedere, ma se vi debba essere un processo nello Stato italiano. Ne' puo' ipotizzarsi che il potere di rinunciare alla giurisdizione, in se' considerato, o, per altro verso, di stabilire che determinate condizioni concorrano perche' l'azione penale possa essere promossa o proseguita, sia vietato da alcun principio costituzionale o precluso al legislatore ordinario. Al contrario la Costituzione afferma agli artt. 10, 11 e 26 (ad es. circa le deroghe alla giurisdizione derivanti dall'immunita' diplomatica, alle limitazioni di sovranita' in condizioni di parita' con altri Stati, all'estradizione del cittadino: cfr. sentt. nn. 48 del 1979 e 14 del 1964) significativi esempi della disponibilita' dell'ordinamento alla cooperazione tra Stati sia in materia penale sia in ogni altro campo. 5. - Le ulteriori censure prospettate nel provvedimento di rimessione sono tutte rivolte avverso la norma contenuta nell'art. 1 del d.P.R. n. 1666 del 1956: sostiene infatti il giudice a quo che la sottrazione del procedimento avverrebbe "in modo estremamente arbitrario, in quanto e' conferita al Ministro di Grazia e Giustizia la facolta' di scegliere l'organo piu' idoneo a jurisdicere". Si verificherebbe quindi un'intromissione del potere esecutivo nel procedimento per mezzo di un atto non sindacabile da parte dell'organo giurisdizionale, in violazione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione, nonche' del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art. 112 della Costituzione (la violazione dell'art. 102, indicata nel solo dispositivo dell'ordinanza, non e' argomentata nella motivazione). 6. - La questione e' inammissibile, in quanto sollevata nei confronti di norma avente natura regolamentare. Tutti i suddetti rilievi sono infatti rivolti nei confronti non gia' dell'istituto della rinuncia alla giurisdizione (introdotto nell'ordinamento dall'ordine di esecuzione della Convenzione, e nei cui confronti e' stato prospettato specificamente il solo contrasto con l'art. 25 della Costituzione, prima esaminato) ma verso le disposizioni regolamentari che disciplinano il procedimento relativo all'applicazione dell'articolo VII della Convenzione di Londra. E' del tutto evidente come sia solo il regolamento in questione ad individuare l'organo competente a formare e manifestare l'intento di rinunciare, ed e' sempre e soltanto il regolamento che prevede l'obbligo del giudice penale italiano di emettere una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta rinuncia. Cio' comporta che il riscontro della legittimita' di dette norme regolamentari non spetta a questa Corte ma e' riservato, alla stregua di quanto e' stabilito per ogni atto amministrativo, al giudice chiamato ad applicarle.