ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 215 del codice
 penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il  18  maggio
 1990 dal Tribunale militare di Roma, nel procedimento penale a carico
 di Matteace Giacomo, iscritta
 al  n.  410  del  registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 26,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1990;
    Udito  nella  Camera di consiglio del 26 settembre 1990 il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza 18 maggio 1990 il Tribunale militare di Roma
 sollevava questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  215
 c.p.m.p. con riferimento all'art. 3 della Costituzione.
    Riferiva  l'ordinanza che si procedeva contro imputato di peculato
 continuato ed aggravato (artt. 81, secondo comma, codice penale e  47
 n. 2, 215 c.p.m.p), per avere lo stesso distratto a proprio profitto,
 utilizzandole  durante  cinque  giorni  consecutivi,  autovetture  di
 proprieta' dell'Amministrazione militare di cui aveva il possesso per
 ragione del suo ufficio di Aiutante maggiore presso l'8Π Battaglione
 Trasporti  "Casilina"  di  Roma: autovetture usate per recarsi a fini
 privati  nella  propria  abitazione  di  Pomezia   e   immediatamente
 restituite dopo l'uso.
    All'udienza,  pero',  l'imputato  - del resto, confesso - chiedeva
 procedersi a giudizio abbreviato, a'  sensi  degli  artt.  247  delle
 norme transitorie e 442 cod. proc. pen.
    La  richiesta veniva accolta e il procedimento si trasferiva nella
 Camera di Consiglio del Tribunale,  dove  il  difensore  eccepiva  la
 riferita   questione   di  legittimita'  costituzionale.  Essendo  le
 risultanze  pacifiche   ed   univoche   rispetto   alla   confessione
 dell'imputato,  il  Tribunale,  sentito  il  pubblico  ministero,  e,
 ritenuta  la  rilevanza  e  la  non  manifesta   infondatezza   della
 questione, rimetteva gli atti a questa Corte per la decisione.
    2.  -  Rileva  il  Tribunale  che  il legislatore, con la legge 26
 aprile 1990  n.  86  (Modifiche  in  tema  di  delitti  dei  pubblici
 ufficiali  contro  la  pubblica  amministrazione), ha sostanzialmente
 riscritto l'intero Capo I del Titolo II del secondo libro del  codice
 penale.  Nulla,  pero', ha disposto circa le corrispondenti, analoghe
 norme incriminatrici, contenute nella legislazione  penale  militare,
 benche'  queste  ultime,  e  in  particolare  l'art.  215  impugnato,
 presentino struttura perfettamente identica  alle  norme  del  codice
 comune, sulle quali sono state sostanzialmente ritagliate.
    Ebbene,  dall'art.  314  cod.  pen.  ( esattamente corrispondente,
 prima della riforma, all'art. 215 c.p.m.p.) l'ipotesi alternativa del
 "peculato  per  distrazione"  e'  scomparsa:  in  sua  vece, e' stata
 inserita al  secondo  comma  un'ipotesi  di  momentanea  distrazione,
 integrata dal cosidetto "peculato d'uso", che si verifica allorquando
 il colpevole abbia posto in essere la condotta di  appropriazione  di
 cui  al  primo  comma al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa
 posseduta per ragione dell'ufficio, immediatamente restituendola dopo
 l'uso.  In  tal  caso, la pena comminata va da sei mesi a tre anni di
 reclusione.
    Attualmente, percio', l'identica condotta, se attuata dal pubblico
 ufficiale civile, e' punita con la  mite  pena  indicata,  mentre  e'
 soggetta  alla  pena  da  due  a dieci anni se realizzata da pubblico
 ufficiale militare.
    Secondo   il   Tribunale   rimettente  un  siffatto  differenziato
 trattamento non trova alcuna giustificazione nel sistema;  ne'  sotto
 il profilo logico giuridico, uguali essendo i beni giuridici protetti
 (patrimonio della pubblica amministrazione e  correttezza  nell'agire
 del  pubblico funzionario) ne' sotto quello di particolari specifiche
 esigenze dell'amministrazione militare che, in questi casi,  sono  le
 stesse dell'amministrazione civile.
    Il   discrimine,   pertanto,  sarebbe  assolutamente  irrazionale,
 perche' dovuto soltanto "al cronico  disinteresse  normativo  per  il
 settore  dell'ordinamento  penale  militare".  Di  qui  la  sollevata
 questione: in relazione alla quale, anzi, il Tribunale, dovendosi  ad
 essa  limitare  per ragioni di rilevanza, sollecita tuttavia la Corte
 ad adottare, in ordine alle residue norme, le  conseguenze  d'ufficio
 ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Nessuno  e'  intervenuto ne' si e' costituito nel giudizio innanzi
 alla Corte.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  censure  del  Tribunale militare di Roma si riferiscono
 all'ingiustificata differenza di trattamento che viene a  verificarsi
 fra  pubblico  ufficiale civile e pubblico ufficiale militare dopo la
 modifica apportata all'art. 314 cod.pen. dalla legge 26 aprile  1990,
 n.  86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la
 pubblica amministrazione).
    Nella   premessa  che  l'art.  215  c.p.m.p.  presenti  struttura,
 condotta  e  interesse  protetto  perfettamente  identici  a   quelli
 delineati  dall'art.  314  cod.pen.  prima della riforma, l'ordinanza
 rileva che il legislatore  ha  soppresso  da  quest'ultimo  l'ipotesi
 alternativa del peculato per distrazione, sostituendola nel capoverso
 con quella di una  momentanea  distrazione  integrata  dal  cosidetto
 "peculato   d'uso".  Questo,  infatti,  si  verifica  allorquando  il
 pubblico ufficiale utilizza momentaneamente a scopi privati  la  cosa
 posseduta per ragione dell'ufficio, restituendola immediatamente dopo
 l'uso. In tal caso la pena e' estremamente mite (da sei  mesi  a  tre
 anni di reclusione).
    Ne  consegue  che  attualmente la stessa condotta, se compiuta dal
 pubblico  ufficiale  civile,  incontra  le  dette  miti   conseguenze
 sanzionatorie,  mentre  e' punita con la reclusione militare da due a
 dieci anni se realizzata dal pubblico ufficiale militare.
    Ad avviso del Tribunale, cosi' grave differenza di trattamento non
 trova alcuna giustificazione nel  sistema,  nemmeno  in  ordine  alle
 particolari esigenze dell'amministrazione militare che sono le stesse
 di quella civile,  in  quanto  tendenti  alla  protezione  di  uguali
 interessi.   Il   Tribunale,   percio',   chiede  che  sia  eliminata
 l'irrazionalita' del denunziato discrimine.
    2. - Gia' da tempo questa Corte (sent. 14 gennaio 1974 n. 4) aveva
 riconosciuto  la  sostanziale  identita'  della  fattispecie  di  cui
 all'art. 314 cod. pen. con quella di cui all'art. 215 c.p.m.p. Aveva,
 infatti, avvertito  la  Corte  che  "i  due  reati  hanno  in  comune
 l'elemento  materiale  e  l'elemento psicologico. Identico e' il loro
 contenuto, in entrambi offensivo dello stesso bene che si  e'  voluto
 proteggere:  denaro  e  cose mobili appartenenti allo Stato; identica
 altresi' l'azione tipica delle  due  azioni  criminose  concretantesi
 nell'appropriazione o distrazione di beni da parte di soggetti attivi
 aventi una specifica qualifica (pubblico ufficiale  o  incaricato  di
 pubblico servizio, e militare incaricato di funzioni amministrative o
 di comando)". Ne' la Corte  ravvisava  particolari  ragioni  inerenti
 all'amministrazione  militare  che  potessero indurre a dare alle due
 fattispecie  una  valutazione  diversa:  tanto   che,   proprio   nel
 presupposto di tale identita', estendeva al peculato militare (previa
 declaratoria  d'illegittimita'  costituzionale  in  parte   qua)   la
 particolare  amnistia concessa dal legislatore, in presenza di talune
 condizioni, con l'art. 5, lett. c.,  del  D.P.R.  n.  283  del  1970,
 soltanto al peculato comune per distrazione.
    Del   resto,  la  fattispecie  ora  impugnata,  lungi  dall'essere
 considerata  dal  legislatore  in  termini  di  particolare  gravita'
 perche'   attinente   all'amministrazione   militare,   e'   valutata
 addirittura di piu'  lieve  entita'  di  quella  comune  stando  alla
 sanzione  che,  nel  minimo,  e'  inferiore  di  ben un anno a quella
 prevista per il peculato comune.
    Tale  essendo  la  considerazione  data alle due fattispecie dallo
 stesso legislatore, non e'  effettivamente  conforme  a  razionalita'
 che, riformando il peculato comune cosi' come si e' visto piu' sopra,
 analoga modifica non sia stata apportata a quello  militare.  Sicche'
 oggi  la  stessa condotta di momentanea distrazione a fini privati, e
 immediata restituzione dopo l'uso della cosa posseduta  dal  pubblico
 ufficiale  per  ragione del suo ufficio, e' sottoposta a pena di gran
 lunga piu' grave se compiuta da pubblico ufficiale militare (da due a
 dieci  anni  di  reclusione  militare). Il pubblico ufficiale civile,
 infatti, integrando con  la  medesima  azione  il  "peculato  d'uso",
 previsto  -  dopo  la modifica - dal secondo comma dell'art. 314 cod.
 pen. (inserito dalla legge n. 86 del 1990),  incontrera'  la  modesta
 sanzione che va da sei mesi a tre anni di reclusione.
    3.  - Non e' esatto, pero', che il legislatore non si sia avveduto
 del grave divario di trattamento che veniva cosi'  ad  instaurare  o,
 peggio,   che   deliberatamente  lo  abbia  trascurato  "per  cronico
 disinteresse  normativo  per  il  settore   dell'ordinamento   penale
 militare", come sospetta il Tribunale rimettente.
    In realta', durante i lavori della Camera per la legge di modifica
 dei   delitti   dei   pubblici   ufficiali   contro    la    pubblica
 amministrazione, era stato proposto un articolo aggiuntivo (il 19bis)
 che abrogava gli artt. 215, 216, 217 e 218 del c.p.m.p. e  modificava
 l'art.  219.  Tutti  i gruppi si dichiararono favorevoli, e lo stesso
 Ministro, presente alla  discussione,  si  mostro'  concorde:   egli,
 pero', prego' il proponente di ritirare l'articolo aggiuntivo per non
 ritardare l'approvazione della legge (dato che in tal caso si sarebbe
 dovuto  sentire  il  parere  della  Commissione  Difesa), e anche per
 coordinare la norma - di cui si sollecitava autonoma proposta con  la
 riforma  del  codice penale militare allo studio presso quello stesso
 Ministero.
    Non solo, dunque, il riconoscimento di questa Corte sull'identita'
 delle due fattispecie e sulla necessita' che esse abbiano  a  seguire
 la  stessa  sorte,  ma esiste anche il riconoscimento dei compilatori
 della legge n.  86  del  1990  che  questa  "non  doveva  determinare
 disparita'  di  trattamento"  rispetto  alle  disposizioni del codice
 penale militare di pace, le quali altrimenti "non  si  sottrarrebbero
 ad  una  censura d'incostituzionalita'" (Atti parlamentari cit., p.2,
 col. di sinistra).
    Ciononostante   la   Corte   non   puo'   accedere  alla  proposta
 declaratoria d'illegittimita' costituzionale, giacche' vi si frappone
 una grave difficolta' che solo il legislatore puo' superare.
    Com'e'  noto,  la  declaratoria  predetta  non  determinerebbe  la
 depenalizzazione  della  fattispecie  giacche',  in  attesa   di   un
 intervento  razionalizzatore  del  legislatore,  anche piu' generale,
 spiegherebbe efficacia la corrispondente norma penale  comune,  cosi'
 come  modificata  dalla  legge piu' volte richiamata. Proprio questo,
 pero', rappresenta la cennata difficolta' in quanto, durante la  fase
 transitoria,  il  pubblico  ufficiale  militare, per l'ipotesi di cui
 alla prima parte dell'art. 314 cod. pen. (che e'  poi  quella  stessa
 dell'art.  215  c.p.m.p.),  resterebbe esposto all'aumento di un anno
 del minimo della pena, che non sarebbe piu' - come ora  -  da  due  a
 dieci  anni,  ma  bensi'  da  tre a dieci anni di reclusione. Effetto
 peggiorativo che la Corte non puo' determinare, e  che  per  di  piu'
 sarebbe in contraddizione con lo spirito che dovrebbe presiedere alla
 richiesta declaratoria d'illegittimita'.
    Ne'   ovviamente   la   Corte  potrebbe  procedere  ad  una  grave
 manipolazione quale quella d'inserire anche  nell'art.  215  c.p.m.p.
 quel  secondo  comma  che  la  legge  di  modifica  ha  apposto nella
 riformulazione dell'art. 314 cod. pen.
    4.  -  Appare  evidente, a questo punto, che soltanto i poteri del
 legislatore possono ovviare a siffatte difficolta'  adeguando  l'art.
 215  c.p.m.p.  al  nuovo  schema  dell'art.  314  cod.pen.,  e  cosi'
 ripristinando quell'identita' delle  due  fattispecie  che  la  Corte
 aveva riconosciuto con la richiamata sentenza n. 4 del 1974.
    La   Corte  Costituzionale  auspica  che  il  provvedimento,  gia'
 prospettato - come s'e' visto - nei lavori preparatori della legge n.
 86  del  1990, abbia ad essere emanato al piu' presto, ad evitare che
 cosi'  grave  ed  ingiustificato  divario  di  trattamento  abbia   a
 perdurare fino alla promulgazione del nuovo codice penale militare di
 pace, tutt'altro che imminente a quanto e' dato sapere.