ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt. 1, primo
 comma, del decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25 (Norme in materia  di
 assistenza   ai   sordomuti,   ai   mutilati   ed   invalidi   civili
 ultrasessantacinquenni), convertito nella legge 21 marzo 1988, n. 93,
 26  della  legge  30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti
 pensionistici  e  norme  in  materia  di  sicurezza  sociale),   come
 modificato  dall'art.  3  del  decreto-legge  15 febbraio (rectius: 2
 marzo) 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n.  114  e
 dall'art.  3  della  legge 3 febbraio (rectius: giugno) 1975, n. 160,
 promossi con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza  emessa  il 5 marzo 1990 dal Pretore di Genova nel
 procedimento civile vertente tra  Fugazza  Antonietta  e  l'I.N.P.S.,
 iscritta  al  n.  341  del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  24,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1990;
      2)  ordinanza  emessa  il 14 marzo 1990 dal Pretore di Prato nel
 procedimento  civile  vertente  tra  Bucchi  Stefano  e   l'I.N.P.S.,
 iscritta  al  n.  383  del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  25,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1990;
    Visti   gli  atti  di  costituzione  dell'I.N.P.S.  e  di  Fugazza
 Antonietta,  nonche'  gli  atti  di  intervento  del  Presidente  del
 Consiglio dei ministri;
    Udito   nell'udienza  pubblica  dell'8  gennaio  1991  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
    Uditi  l'avv.  Pasquale  Vario  per  l'I.N.P.S. e l'Avvocato dello
 Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso di un giudizio civile per il conseguimento della
 pensione sociale promosso  nei  confronti  dell'I.N.P.S.  da  Fugazza
 Antonietta dopo che la sua richiesta di pensione d'invalidita' civile
 era stata respinta perche' lo stato d'invalidita' (al  100%)  le  era
 stato  riconosciuto  solo  dopo  il compimento del sessantacinquesimo
 anno di eta', il Pretore di Genova, con ordinanza del 5  marzo  1990,
 ha sollevato due questioni di legittimita' costituzionale, e cioe':
  a)  dell'art.  1, primo comma, del decreto-legge 8 febbraio 1988, n.
 25, convertito, con modificazioni, nella legge 21 marzo 1988, n.  93,
 per  contrasto  con  gli artt. 3, 38, primo comma, 24 e 113 Cost.; b)
 dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n.  153  -  come  modificato
 dagli  artt. 3 del decreto-legge 15 febbraio (rectius: 2 marzo) 1974,
 n. 30 (convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114) e 3 della legge
 3  febbraio  (rectius:  giugno)  1975,  n.  160 - in riferimento agli
 artt. 3, 29, primo comma, 31 e 38 Cost.
    1.1.  -  L'ordinanza muove da una ricognizione della disciplina in
 materia di pensione d'invalidita' e pensione sociale, rilevando  come
 l'originaria  parificazione tra i due istituti quanto alle condizioni
 reddituali richieste per il loro conseguimento era  venuta  meno  per
 effetto  degli  artt. 1 della legge n. 29 del 1977 e 14 septies della
 legge n. 33 del 1980,  che  ai  fini  dei  trattamenti  d'invalidita'
 avevano, in particolare, escluso il cumulo dei redditi tra i coniugi.
 La prassi amministrativa poi instauratasi di riconoscere  il  diritto
 alla  pensione  sociale  -  in  conversione  di quella d'invalidita',
 peraltro mai goduta  -  ai  soggetti  riconosciuti  invalidi  dopo  i
 sessantacinque  anni  ed  alle  condizioni  reddituali  previste  per
 quest'ultima, era stata ritenuta illegittima dai giudici ordinari  ed
 amministrativi;  ed  il  successivo decreto-legge 9 dicembre 1987, n.
 495,  che  si  proponeva  invece  di  convalidarla,  non  era   stato
 convertito  in  legge. Era poi intervenuto il citato decreto-legge n.
 25 del 1988, che all'art. 1 aveva disposto  la  corresponsione  delle
 pensioni  gia' liquidate in base all'anzidetta prassi, ma non erogate
 per il contrario orientamento giurisprudenziale (primo  comma)  e  la
 liquidazione,   nei   limiti   delle   disponibilita'   di   bilancio
 dell'I.N.P.S.,  delle  prestazioni  conseguenti  alle  delibere   dei
 comitati  provinciali  di  assistenza  e  beneficienza  pubblica gia'
 pervenute all'istituto alla data della sua entrata in vigore (secondo
 e  terzo  comma).  Questi  ultimi  due  commi  erano  peraltro  stati
 soppressi dalla legge di conversione n. 93 del 1988, che aveva invece
 aggiunto un secondo articolo del seguente tenore: "restano validi gli
 atti e i provvedimenti  adottati  e  sono  fatti  salvi  gli  effetti
 prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 9
 dicembre 1987, n. 495".
    Cio'  premesso,  il  Pretore  rimettente  esclude l'applicabilita'
 nella specie sia di quest'ultima disposizione, dato che nella vigenza
 del  decreto-legge  n. 495 o anteriormente non erano intervenuti atti
 aventi valore di riconoscimento del diritto a pensione  dell'istante;
 sia  dell'art.  1, primo comma, della legge n. 93 del 1988, in quanto
 esso concerne solo le pensioni gia' liquidate dall'I.N.P.S. alla data
 di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 25.
    Ravvisa,  pero',  un  contrasto  di tale disposizione con l'art. 3
 Cost., sostenendo che tale limitazione  (gia'  avvenuta  liquidazione
 della  prestazione alla data anzidetta) sarebbe irrazionale in quanto
 basata su un mero dato  temporale  riferito  all'andamento  dell'iter
 burocratico  di  accertamento dei presupposti del diritto a pensione.
 Sarebbero inoltre violati anche gli artt. 38, 24, e  113  Cost.,  "in
 quanto i soggetti nei cui confronti non si e' realizzato il requisito
 temporale di cui si e' detto sono, per questo motivo,  privati  della
 possibilita' di vedersi assicurati mezzi di sussistenza adeguati alle
 proprie necessita'  di  cui  avrebbero  astrattamente  diritto  e  di
 conseguire tale diritto attraverso provvedimenti giudiziali".
    1.2.  - Il problema di fondo - osserva peraltro il giudice a quo -
 sta  nella  divaricazione  di  condizioni  reddituali  tra   pensione
 d'invalidita'  e  pensione  sociale,  gia'  ritenuta  non coerente da
 questa Corte nella sentenza n. 769 del 1988;  ed  egli  lo  prospetta
 sotto  un profilo diverso da quello allora esaminato, nel presupposto
 che nel caso di specie l'attribuzione diretta della pensione  sociale
 sia stata preclusa dal cumulo dei redditi tra coniugi.
    La  previsione di tale cumulo - nell'art. 26 legge n. 153 del 1969
 e successive modificazioni - viola  a  suo  avviso  il  principio  di
 uguaglianza   (art.  3  Cost.)  in  quanto  discrimina  tra  soggetti
 coniugati e non coniugati e preclude ai  primi  la  pensione  sociale
 anche quando il loro reddito individuale consentirebbe di fruirne.
    Sarebbero  violati,  inoltre, gli artt. 29 e 31 Cost., dato che al
 cumulo "consegue anche una situazione di trattamento deteriore  della
 famiglia  "fondata  sul  matrimonio"  rispetto  ad  altre  formazioni
 sociali o comunita'  minori,  che  pure,  al  pari  di  quella,  sono
 caratterizzate dal vincolo solidaristico tra i partecipanti (famiglia
 di fatto, comunita' religiose o di fratelli)".
    Sarebbe  leso, infine, l'art. 38, ultimo comma, Cost., dato che il
 cumulo comporterebbe  il  trasferimento  sulla  famiglia  di  compiti
 assistenziali spettanti allo Stato.
    1.3.  -  La parte privata Fugazza Antonietta, costituitasi a mezzo
 degli Avv.ti C. Pozzi e V. Biogetti, sostiene che la prima  questione
 (  sub 1.1.) andrebbe risolta in via interpretativa, ritenendo che la
 disposta salvezza degli effetti del decreto-legge  n.  495  del  1987
 equivalga    a    legittimazione    della   gia'   ricordata   prassi
 amministrativa. In subordine,  chiede  l'accoglimento  della  seconda
 questione ( sub 1.2.).
    1.4.  -  L'I.N.P.S.,  costituitosi,  osserva,  quanto  alla  prima
 questione, che  la  disposta  erogazione  delle  sole  pensioni  gia'
 liquidate  e'  giustificata da ragioni di copertura finanziaria e che
 la  violazione  del  diritto  di  difesa   va   esclusa   in   quanto
 l'ordinamento  offre gli strumenti per ottenere il sollecito disbrigo
 delle procedure amministrative.
    Quanto  alla seconda questione, l'I.N.P.S. osserva che la pensione
 sociale, in quanto tipico mezzo assistenziale, presuppone lo stato di
 bisogno,  cioe'  la  "mancanza dei mezzi necessari per vivere", e che
 percio' non puo' essere sindacata la discrezionalita' del legislatore
 quando  non  ne riconosca il diritto solo se il ristrettissimo nucleo
 familiare versi in situazione di indigenza e purche' il  coniuge  del
 richiedente  non  possa  col proprio reddito assolvere al suo obbligo
 giuridico di assistenza  morale  e  materiale  e  di  contribuire  ai
 bisogni della famiglia.
    1.5.  -  Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto per
 il tramite dell'Avvocatura dello Stato, osserva,  quanto  alla  prima
 questione,   che   la   legittimita'   di  trattamenti  previdenziali
 differenziati quanto  alla  data  dell'evento  trova  giustificazione
 nella  necessaria  gradualita'  dell'attuazione  legislativa  di tali
 diritti - specie ove essi comportino oneri di bilancio  -  e  che  lo
 stesso  fluire  del  tempo  e'  al  riguardo  sufficiente elemento di
 diversificazione.
    La   seconda   questione,   poi,  non  e',  secondo  l'Avvocatura,
 direttamente pertinente al caso di specie, dato che questo verterebbe
 sulla  concessione della pensione di invalidita' civile. Essa sarebbe
 comunque infondata, dato che la famiglia legittima comporta diritti e
 doveri  insussistenti  per  le  altre  formazioni  sociali, basate su
 vincoli religiosi, solidaristici o di mera convivenza.
   2.  -  Una questione di costituzionalita' dell'art. 1, primo comma,
 della legge n. 93 del 1988 analoga a quella esposta sub 1.1. e' stata
 altresi'  sollevata  dal Pretore di Prato, con ordinanza del 14 marzo
 1990, in riferimento ad un caso di diniego della pensione  sociale  a
 soggetto  ultrasessantacinquenne  riconosciuto invalido al 100%, dopo
 il compimento di tale eta', cui essa non  era  stata  liquidata  alla
 data  di entrata in vigore del decreto-legge n. 25 del 1988. Anche ad
 avviso di detto Pretore, la limitazione del beneficio basata sul dato
 meramente  estrinseco  ed  occasionale  dell'epoca della liquidazione
 violerebbe gli artt. 3 e 38 Cost.
    2.1.  -  Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto per
 il tramite dell'Avvocatura dello Stato anche  in  tale  giudizio,  ha
 chiesto  il rigetto della questione sostenendo che essa sarebbe stata
 gia' dichiarata non fondata con la sentenza n. 286 del 1990.
                         Considerato in diritto
    1.   -  Poiche'  le  ordinanze  di  rimessione  hanno  un  oggetto
 parzialmente identico, e' d'uopo riunire i relativi procedimenti.
    2.   -  La  complessa  vicenda  legislativa  dei  rapporti  tra  i
 trattamenti d'invalidita' e la pensione sociale, che  costituisce  la
 premessa  delle  censure  in  esame,  e'  gia'  stata  analiticamente
 ricostruita da questa Corte nella sentenza n. 769 del 1988.
    Ai  fini  che  qui  interessano,  e' da ricordare che l'originaria
 disciplina della materia prevedeva: a) l'automatica trasformazione in
 pensione  sociale, al compimento del sessantacinquesimo anno di eta',
 delle prestazioni (pensione o assegno  d'invalidita')  attribuite  ai
 cittadini riconosciuti totalmente o parzialmente inabili tra i 18 e i
 65 anni di eta'; b)  la  parificazione  delle  condizioni  reddituali
 richieste  per  avere titolo a tali trattamenti (artt. 26 della legge
 n. 153 del 1969, 12, 13 e 19 della legge n. 118 del  1971,  10  e  11
 della legge n. 854 del 1973).
    Con  gli  artt.  1  della  legge n. 29 del 1977 e 14-septies della
 legge  n.  33  del  1980,  peraltro,  i  limiti  di  reddito  per  le
 prestazioni   d'invalidita'   furono   considerevolmente  elevati  e,
 soprattutto, fu disposto che a tali fini dovessero considerarsi  solo
 i  redditi  individuali:  con conseguente divaricazione rispetto alla
 pensione sociale, per la quale  continuava  a  vigere  il  precedente
 limite  dato  dal  cumulo  del reddito del richiedente con quello del
 coniuge. Di qui  l'instaurarsi  di  una  prassi  amministrativa  che,
 aggirando      tale     ostacolo,     riconosceva     ai     soggetti
 ultrasessantacinquenniil diritto ai trattamenti d'invalidita'  -  poi
 commutati  automaticamente  in  pensione  sociale  -  alle condizioni
 reddituali per essi previsti.
    Tale  prassi  fu pero' ritenuta illegittima sia dalla magistratura
 ordinaria che dal Consiglio di Stato (I sezione, parere  n.  463/1987
 del   3   aprile   1987),   che  preciso'  che,  ove  un  trattamento
 d'invalidita' non preesista al compimento dei sessantacinque anni, la
 pensione  sociale puo' essere attribuita solo ai soggetti fruenti dei
 redditi per essa stabiliti. Ed il successivo tentativo del Governo di
 convalidare,   anche  per  il  futuro,  detta  prassi  disponendo  la
 riconoscibilita'     dell'invalidita'     civile      anche      agli
 ultrasessantacinquenni  e  l'attribuzione  a  costoro  della pensione
 sociale in base ai limiti di reddito previsti per gli invalidi civili
 non  sorti'  effetto,  in quanto il decreto-legge 9 dicembre 1987, n.
 495 - che cosi' disponeva - decadde per mancata conversione.
    ll  successivo decreto-legge 8 febbraio 1988, n. 25, poi, e' stato
 convertito, con la legge 21 marzo 1988, n. 93, solo  nella  parte  in
 cui  prevede  che  "l'I.N.P.S.  e'  autorizzato  a  corrispondere  le
 prestazioni gia' liquidate in favore dei mutilati, invalidi civili  e
 sordomuti   anche   se  riconosciuti  tali  dopo  il  compimento  del
 sessantacinquesimo anno di eta'" (art. 1, primo  comma).  Sono  stati
 invece soppressi, in sede di conversione, i commi secondo e terzo del
 medesimo art. 1, che  invece  autorizzavano  l'I.N.P.S.,  nei  limiti
 della  disponibilita'  del  proprio bilancio, a liquidare ai minorati
 civili  ultrasessantacinquenni  le   prestazioni   conseguenti   alle
 delibere dei Comitati di assistenza e beneficienza pubblica pervenute
 a detto  istituto  alla  data  di  entrata  in  vigore  dello  stesso
 decreto-legge n. 25 del 1988.
    La  legge  di  conversione  ha,  infine, disposto (art. 1, secondo
 comma) la sanatoria delle posizioni gia' definite in forza del citato
 decreto-legge n. 495 del 1987.
    3.  -  Tanto il Pretore di Genova (ord. n. 341/1990) che quello di
 Prato (ord. n. 383/1990) dubitano della  legittimita'  costituzionale
 del  predetto  art. 1, primo comma, del decreto-legge n. 25 del 1988,
 cosi' come convertito,  in  quanto  limita  la  corresponsione  della
 pensione sociale ai soggetti riconosciuti invalidi dopo il compimento
 dei sessantacinque anni ai quali  tale  prestazione  sia  gia'  stata
 liquidata  alla  data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge
 (8 febbraio 1988), escludendola  per  coloro  nei  cui  confronti  la
 liquidazione  non  sia  avvenuta.  A  loro  avviso, tale disposizione
 contrasterebbe con gli artt. 3, 38, primo comma, 24 e 113 Cost.,  per
 la  ritenuta  irrazionalita'  di una discriminazione fondata sul dato
 estrinseco  dell'andamento  della   procedura   amministrativa,   cui
 conseguirebbe  la violazione del diritto all'assistenza sociale ed al
 suo conseguimento mediante provvedimenti giudiziali.
    4. - La questione non e' fondata.
    La  disposizione  impugnata e' invero, nella sostanza - al pari di
 quella di cui al citato secondo comma dell'art. 1 della legge  n.  93
 del 1988, gia' scrutinata con la sentenza n. 286 del 1990 - una norma
 di sanatoria, con la quale il legislatore ha inteso circoscrivere  la
 convalida   degli   effetti   della   precedente  illegittima  prassi
 amministrativa, autorizzando l'erogazione delle sole prestazioni gia'
 liquidate  e  per  cio'  stesso  confermando implicitamente la regola
 generale  -  poi  ulteriormente  ribadita  nell'art.  8  del  decreto
 legislativo  23  novembre  1988,  n. 509 - secondo cui non puo' darsi
 riconoscimento dell'invalidita' oltre  i  sessantacinque  anni  e  la
 pensione  sociale  puo'  essere erogata solo alle condizioni per essa
 previste.
    Trattandosi  di  norma  derogatoria,  essa  non  puo'  fungere  da
 parametro ai fini del rispetto del principio di uguaglianza (cfr., da
 ultimo,  la citata sentenza n. 286 del 1990): e la fondatezza di tale
 principio balza evidente nel caso di specie, dato che accogliendo  la
 prospettazione  dei  giudici  a  quibus si perverrebbe al paradossale
 risultato di ritenere che il legislatore sia vincolato a  convalidare
 indefinitamente nel tempo prassi instaurate contra legem.
    Quanto  alle  altre censure, questa Corte, ha piu' volte precisato
 che il diritto all'assistenza sociale - e, quindi,  al  conseguimento
 in  via  giudiziale  delle  relative  prestazioni  -  non  puo' dirsi
 vulnerato da un sistema che prevede la corresponsione della  pensione
 sociale,  in  luogo  di  quella  d'invalidita',  nel  momento  in cui
 l'inabilita'  al  lavoro  cui  questa  mira   a   sopperire   diventa
 praticamente  indistinguibile  da  quella  presuntivamente  derivante
 dall'eta' e che provvede alle ulteriori esigenze  dell'invalido,  non
 correlate    all'incapacita'    lavorativa,    con    gli   strumenti
 dell'assistenza socio-sanitaria e dell'indennita' di  accompagnamento
 (cfr. le sentenze nn. 769 del 1988 e 286 del 1990).
    In realta' il problema resta quello - ripetutamente evidenziato in
 tali  decisioni  -  di  riequilibrare  i  requisiti  reddituali   per
 conseguire la pensione sociale e quella di invalidita', restituendo a
 coerenza un sistema, la cui sopravvenuta disomogeneita' non  solo  ha
 provocato  le  denunziate  distorsioni amministrative, ma finisce per
 determinare  serie  sperequazioni,  non  sempre  giustificabili,  con
 riflessi  negativi  su situazioni di effettivo bisogno. Nel segnalare
 ancora una volta l'esigenza che a tale incoerenza  si  ponga  rimedio
 con   un   appropriato   riequilibrio   che   realizzi   un  adeguato
 contemperamento degli interessi in gioco, la Corte  ritiene  doveroso
 sottolineare  che  tale  segnalazione  non  puo' intendersi come mero
 auspicio suscettibile di essere ulteriormente disatteso.
    5.  - Il Pretore di Genova dubita poi che l'art. 26 della legge 30
 aprile 1969, n. 153 - come modificato dagli artt. 3  della  legge  n.
 114 del 1974 e 3 della legge n. 160 del 1975 - nella parte in cui, ai
 fini della determinazione del reddito massimo  per  il  diritto  alla
 pensione   sociale,  dispone  che  il  reddito  dell'interessato  sia
 cumulato con quello del coniuge, violi:
      l'art.  3  Cost.,  per  la discriminazione che cio' comporta tra
 soggetti coniugati il cui reddito individuale non  superi  il  limite
 previsto per i non coniugati, e questi ultimi;
      gli  artt.  29  e  31  Cost., per il deteriore trattamento cosi'
 riservato alla famiglia fondata  sul  matrimonio  rispetto  ad  altre
 formazioni  sociali  (famiglia  di  fatto,  comunita'  religiose o di
 fratelli);
      l'art.   38,   ultimo  comma,  Cost.,  operandosi  con  cio'  il
 trasferimento sulla famiglia di compiti assistenziali spettanti  allo
 Stato.
    La questione e' inammissibile.
    Innanzi  tutto  la  norma  impugnata  non  discrimina tra soggetti
 coniugati  e  non  coniugati,  ma  stabilisce  un  criterio,   quello
 dell'ammontare  del  cumulo  dei  redditi  dei coniugi, attraverso il
 quale escludere la (relativa) non abbienza del soggetto e  quindi  il
 diritto  al trattamento assistenziale; e del resto, la situazione del
 non coniugato e' diversa da quella del  coniugato,  dato  che  costui
 puo' contare, oltre che su una normale riduzione di spese per effetto
 della convivenza, anche e soprattutto sull'obbligo di assistenza  che
 incombe sull'altro coniuge.
    La  mancanza,  o  il diverso atteggiarsi dell'obbligo giuridico di
 assistenza diversificano, d'altra parte, la condizione della famiglia
 legittima  rispetto  ad  altre  comunita' (religiose, di fratelli) ed
 alla famiglia di fatto; ed il  raffronto  con  quest'ultima  e'  anzi
 precluso  in  radice  dal  fatto  che  essa  e'  tuttora  sfornita di
 disciplina, sia in generale, sia  in  riferimento  a  tale  specifico
 aspetto (cfr., per rilievi analoghi sulle due censure, la sentenza n.
 644 del 1988).
    Maggior  riflessione richiede l'ultimo dei suindicati profili, che
 investe il rapporto tra l'intervento dello Stato  nell'assistenza  in
 funzione  di  solidarieta'  generale  e  gli  obblighi  di assistenza
 nell'ambito della solidarieta' coniugale.
    Questa Corte ha gia' sottolineato, nella sentenza n. 769 del 1988,
 la validita' del principio del cumulo dei redditi dei coniugi, cui si
 ispira  il vigente sistema di attribuzione della pensione sociale; ed
 ha percio' evidenziato  la  singolarita'  di  una  soluzione  -  come
 quella,   peraltro   reversibile,   introdotta   per   i  trattamenti
 d'invalidita' - che fondi "il  ricorso  alla  solidarieta'  generale,
 sulla  considerazione  del  solo  reddito  individuale  del soggetto,
 prescindendo dall'intervento solidaristico delle collettivita' minori
 ed  in  particolare  dall'eventuale stato di abbienza del coniuge non
 separato".
    In  effetti,  in  un  sistema  costituzionale  che  richiede,  tra
 l'altro,  l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di   solidarieta'
 economica e sociale (art. 2) e sancisce il diritto al mantenimento ed
 all'assistenza sociale di chi sia inabile al lavoro e sprovvisto  dei
 mezzi  necessari  per vivere (art. 38, primo comma), l'apporto di chi
 abbia specifici doveri solidaristici e quello della collettivita'  si
 presentano  in  una  relazione  non di esclusione, ma di integrazione
 reciproca: sia nel senso che vi sono taluni  interventi  di  sostegno
 che  vanno  direttamente "predisposti" dallo Stato, sia nel senso che
 vanno da esso "integrati" quelli privati laddove questi non risultino
 sufficienti  alla liberazione dallo stato di bisogno (art. 38, quarto
 comma).
    Cosi', considerando una situazione sotto questo profilo prossima a
 quella qui esaminata, quale la disoccupazione involontaria, la  Corte
 ha  escluso  che  il  diritto  alla  relativa  indennita' possa farsi
 mancare in ragione dell'obbligo alimentare  gravante  sul  datore  di
 lavoro  tenuto a fornire la relativa copertura assicurativa (sentenza
 n.  103  del  1968);  ed  ha,  per  altro  verso,  qualificato   come
 "sussidiario"  l'intervento  statuale  di  integrazione  dell'assegno
 ordinario di invalidita' (art. 4, legge  n.  222  del  1984),  avendo
 riguardo alla situazione "d'un invalido che, benche' privo di redditi
 propri  superiori  ai  limiti  di  legge,  versi  effettivamente   in
 floridissima   situazione   economico-finanziaria   a   causa   della
 convivenza con un coniuge assai abbiente" (sentenza n. 644 del 1988).
    Al  di  fuori  di  casi  di tal genere, che certo non giustificano
 l'apporto della solidarieta' collettiva, il problema  si  ripresenta,
 pero',  nelle  ipotesi  in  cui  l'inabile  sia  sprovvisto  di mezzi
 sufficienti, o addirittura inesistenti, ed il coniuge, dal canto suo,
 fruisca  di  redditi  modesti: perche' si tratta, qui, di stabilire i
 limiti che i doveri di solidarieta' dei privati incontrano in ragione
 dei  loro  concorrenti diritti a condurre un'esistenza dignitosa ed a
 godere dei frutti del proprio lavoro.
    Cosi'  come  l'intervento statuale non si rende necessario qualora
 la  consistenza  patrimoniale  del  coniuge  consenta   ad   entrambi
 condizioni  di  vita  agiate  o  comunque  pienamente dignitose, allo
 stesso modo la sua esclusione non potrebbe dirsi giustificata se,  in
 ragione  dell'apporto  fatto  gravare  su  di lui, il coniuge venisse
 ridotto in condizioni che si approssimino alla mera sussistenza.
    In   tal  caso,  il  diritto  del  lavoratore  (o  pensionato)  ad
 un'esistenza libera e  dignitosa  (art.  36)  verrebbe  ingiustamente
 sacrificato  per  l'inadempimento da parte dello Stato dei compiti di
 assistere i soggetti bisognosi (art. 38, primo e quarto comma)  e  di
 contribuire all'assolvimento dei doveri familiari (art. 31).
    La delicata opera di bilanciamento degli interessi in gioco spetta
 certamente  al  legislatore:  ma  la   discrezionalita'   delle   sue
 determinazioni incontra il limite dell'effettiva individuazione di un
 equo e ragionevole punto di equilibrio tra la solidarieta' collettiva
 e  quella  del  coniuge  (o,  se  del  caso, anche di altri familiari
 conviventi tenuti all'assistenza: cfr., in tema di pensione  sociale,
 la soluzione - peraltro sporadica - adottata con l'art. 2 della legge
 n. 140 del  1985).  Non  potrebbe  percio'  ritenersi  consentito  un
 assetto  che  escluda  l'intervento dello Stato quando l'accollo alla
 famiglia degli oneri assistenziali finisca per  comprimerne  in  modo
 intollerabile le condizioni di vita.
    La  questione  sollevata dal giudice a quo andrebbe esaminata alla
 stregua dei  suesposti  principi:  ma  nel  caso  in  esame  la  loro
 applicazione  non  risulta possibile, dato che il quesito investe non
 il (legittimo) principio del cumulo, ma i concreti livelli di esso  e
 la loro idoneita' ad escludere, o meno, la necessita' dell'intervento
 dello Stato attributivo della pensione sociale. Il giudice a  quo  ha
 infatti  omesso,  da  un lato, di individuare, tra le tante norme che
 nel tempo hanno via  via  adeguato  i  livelli  di  reddito  cumulato
 ostativi  alla  pensione  sociale,  quelle  che  hanno  concretamente
 regolato la  situazione  sottoposta  al  suo  esame;  dall'altro,  di
 specificare  quale  fosse,  in  questa,  la  concreta consistenza dei
 redditi  cumulati,  cio'  che  sarebbe  stato  necessario  per  poter
 apprezzare l'incidenza della decisione nel giudizio principale.
    La  questione  va  percio'  dichiarata inammissibile in quanto non
 risulta soddisfatto il requisito della sua rilevanza.