ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  56,  ultimo
 comma,  del  d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in
 materia di accertamento delle imposte sui redditi), in relazione agli
 artt. 60, 21, terzo comma e 22 della legge  9  (rectius:  7)  gennaio
 1929,  n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle
 leggi finanziarie), promosso con ordinanza emessa il 16  maggio  1990
 dal  Tribunale di Pistoia nel procedimento penale a carico di Natucci
 Mario,  iscritta  al  n. 757 del registro ordinanze 1990 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale,
 dell'anno 1991;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  20 marzo 1991 il Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza del 16 maggio 1990, il Tribunale di Pistoia  ha
 sollevato,  in  riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., una questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 56, ultimo comma, del d.P.R. 29
 settembre 1973, n. 600 - in relazione agli artt. 60, 21, terzo  comma
 e  22 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 - "nella parte in cui comporta
 che l'accertamento dell'imposta, divenuto  definitivo  a  seguito  di
 decisione  di  una  Commissione tributaria, vincoli il giudice penale
 nella cognizione del reato previsto dall'art. 56, primo  comma",  del
 medesimo d.P.R. n. 600 del 1973.
    Il Tribunale premette, in punto di rilevanza, che nella specie era
 contestato  il  reato  di  cui a quest'ultima disposizione per omessa
 presentazione della dichiarazione dei redditi per l'anno 1978  e  che
 l'accertamento  dell'imposta  evasa  (per. L. 5.684.000) era divenuto
 definitivo a seguito di decisione n. 355 del 1987  della  Commissione
 tributaria di primo grado di Pistoia, non impugnata dal contribuente:
 ditalche'  all'accertamento  contenuto in tale pronuncia esso giudice
 penale e' vincolato,  quanto  meno  in  ordine  alla  quantificazione
 dell'imposta evasa.
    Osserva,  inoltre,  che  la  "pregiudiziale  tributaria" posta nel
 citato ultimo comma dell'art. 56 deve ritenersi  tuttora  vigente  in
 relazione  al  reato  di  cui  al  primo comma che sia stato commesso
 anteriormente al 1› gennaio 1983, dato che solo in tali  limiti  essa
 e'  stata  abrogata dall'art. 13 della legge n. 516 del 1982; che per
 la stessa ragione e  negli  stessi  limiti  devono  ritenersi  ancora
 vigenti   le   altre  disposizioni  di  legge  su  cui  si  fonda  la
 vincolativita' dell'accertamento definitivo di imposta nei  confronti
 del  giudizio  penale  (combinato  disposto degli artt. 60, 21, terzo
 comma, e 22 legge 7 gennaio 1929, n. 4); e che tale  vigenza  perdura
 anche  nel  vigore  del  nuovo processo penale, dato che le questioni
 pregiudiziali previste da norme extra-codice sono fatte salve sia per
 il regime transitorio (artt. 246 disp. att. cod. proc. pen.) che  per
 quello ordinario (art. 2 cod. proc. pen.).
    Cio' premesso, il giudice a quo assume l'incostituzionalita' della
 norma   impugnata   nel   presupposto   che   "nel   caso  di  specie
 l'accertamento tributario e' stato effettuato, ai sensi dell'art. 41,
 2› comma del d.P.R. n. 600/1973, sulla base  di  elementi  presuntivi
 privi  dei caratteri di gravita', precisione e concordanza, tali che,
 non solo in applicazione dei principi dell'art.  192  cpp  vigente  e
 dell'art.  245,  2›  comma  lettera b) disp. att., ma anche secondo i
 tradizionali criteri della valutazione  della  prova  indiziaria  nel
 processo   penale   (e   non   solo   in   questo)   in  nessun  caso
 legittimerebbero  la  affermazione   della   responsabilita'   penale
 dell'imputato".
    Rilevato  che  la mancanza di tali requisiti minimi differenzia la
 pregiudiziale  tributaria  da  ogni  altra  pregiudiziale  civile   o
 amministrativa,   il   Tribunale   sostiene   che   sarebbe  violato,
 innanzitutto, l'art. 3 della Costituzione, "perche' vengono  trattati
 in  modo 'irrazionalmente' diseguale gli imputati per reati tributari
 con accertamento divenuto definitivo in sede giurisdizionale e quelli
 per reati comuni, in relazione alla possibilita', esclusa per  questi
 ultimi  e  consentita  o  addirittura  imposta  per i primi di essere
 condannati sulla base anche  di  indizi  privi  dei  requisiti  della
 gravita' precisione e concordanza".
    Sarebbe,  altresi',  violato  il  diritto  di  difesa  perche'  le
 limitazioni   derivanti   dall'accertamento   induttivo,   se    sono
 compatibili  con  tale  diritto nella controversia tributaria, non lo
 sono nel processo penale, nel quale esso non deve essere condizionato
 da  altri  accertamenti  privi  di  effettivita'  sotto  il   profilo
 probatorio.
    Comparando,  inoltre,  le  situazioni  di  chi,  di  fronte  ad un
 identico accertamento  dell'imposta  evasa,  ricorra,  o  meno,  alle
 commissioni  tributarie,  ne  risulta  che per i primi l'accertamento
 dell'imposta evasa fa stato nel processo penale, ancorche' fondato su
 presunzioni semplici prive dei caratteri di  gravita',  precisione  e
 concordanza,  mentre per i secondi tale effetto non si verifica ed il
 giudice penale dovra' valutare le prove a carico  secondo  i  criteri
 dell'art. 192 cod. proc. pen. Sarebbero, percio', violati gli artt. 3
 e  24 Cost., dato che il contribuente si viene a trovare nella iniqua
 ed  irrazionale  alternativa,   o   di   far   diventare   definitivo
 l'accertamento   e   di   rinunciare  ad  ogni  tutela  di  carattere
 giurisdizionale   tributario,   per   lasciarsi   impregiudicate   le
 possibilita'  di difesa nella sede penale - e pero' con inammissibile
 sacrificio del diritto di difesa in ambito  tributario  -  oppure  di
 tutelare  i suoi diritti nella sede giurisdizionale tributaria, cosi'
 accettando il rischio di un giudizio penale conseguente,  fondato  su
 valutazioni di prova che violano nel contenuto sostanziale il diritto
 di difesa garantito dall'art. 24 della Costistuzione.
    Tutto   cio',   ad   avviso   del  giudice  a  quo,  non  potrebbe
 giustificarsi   con    l'esigenza    -    peraltro    non    tutelata
 costituzionalmente  -  di  assicurare  l'unita'  della giurisdizione,
 perche' essa da un lato non  puo'  giungere  fino  a  sacrificare  il
 contenuto  minimo  garantito  del  diritto  di  difesa, dall'altro e'
 sostanzialmente superata nel nuovo sistema processuale, improntato al
 contrario  principio  della  separazione  delle  giurisdizioni.   Ne'
 potrebbe opporsi che prima dell'accertamento definitivo dell'imposta,
 il  pubblico  ministero non potrebbe nemmeno formulare l'imputazione,
 mancando ogni possibilita' di determinare l'imposta evasa e quindi il
 superamento  della  soglia  di  punibilita',  poiche'  cio'  potrebbe
 giustificare  l'introduzione  di una condizione di procedibilita', ma
 non   che   tale   accertamento,   sia   pur   definitivo   in   sede
 giurisdizionale, faccia stato nel giudizio penale, non trattandosi di
 due aspetti necessariamente consequenziali.
    L'inammissibilita'  di  un sacrificio degli strumenti di difesa in
 base all'esigenza  di  unita'  della  giurisdizione  sarebbe  inoltre
 avvalorata  dalla  considerazione che nel processo tributario vige il
 divieto  di  assumere  testimonianza,  laddove  nello  stesso  codice
 previgente  era  previsto  (art.  21, secondo comma) che il giudicato
 civile o amministrativo non potesse fare stato  nel  giudizio  penale
 quando  la  legge  civile  pone  limitazioni  alla  prova del diritto
 oggetto della controversia.
    2. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenuto tramite
 l'Avvocatura  dello  Stato,  osserva innanzitutto che la problematica
 sostanziale sottostante alla questione prospettata nella ordinanza di
 rimessione non e' circoscritta al sistema normativo in  vigore  prima
 del  1983,  dato  che  anche nel sistema di cui alla legge n. 516 del
 1982 -  pur  se  non  vi  e'  efficacia  vincolante  della  pronuncia
 giurisdizionale  tributaria  "pregiudiziale" - si discute, proprio in
 relazione  agli  accertamenti  c.d.  induttivi,   se   un   materiale
 indiziario  sufficiente  a  sorreggere  la  reiezione del ricorso del
 contribuente in sede di giurisdizione  tributaria  possa  bastare  ai
 fini della condanna penale.
   Cio'  premesso,  l'Avvocatura osserva che il giudice a quo ipotizza
 una riconsiderazione di quanto rilevato da questa Corte in precedenti
 sentenze (88 e 89 del 1982, 247 del  1983),  ed  assume  che  sarebbe
 "irrazionale  e  contraddittorio"  prevedere  la  necessita'  di  una
 pronuncia   necessariamente   "pregiudiziale"   (e   la   conseguente
 condizione  di  procedibilita')  ed  escludere  nel contempo che essa
 faccia  stato  nel  secondo  giudizio:  onde  la  questione   sarebbe
 inammissibile,  dato che il risultato con essa perseguito suppone che
 sia sollevata quella, diversa, dell'abolizione della pregiudizialita'
 della pronuncia tributaria.
    L'Avvocatura ammette, infine, che  la  norma  impugnata  non  puo'
 giustificarsi  col  principio  della  unita'  della giurisdizione; ma
 sostiene  che  la  questione  non  sarebbe   fondata,   non   essendo
 logicamente  corretto  denunciare una norma risalente sostanzialmente
 al 1929 ed applicabile solo ai fatti anteriori al 1983, ponendola  in
 relazione  ad  una  tendenza  della normativa "processuale" emersa in
 Italia solo con il nuovo codice di procedura penale.
                        Considerato in diritto
    1. -  La  c.d.  pregiudiziale  tributaria,  oggetto  del  presente
 giudizio,  e' stata introdotta nell'ordinamento, per i reati previsti
 dalle leggi sui tributi diretti, dall'art. 21 della legge  7  gennaio
 1929,  n.  4  (coordinato  con i successivi artt. 22 e 60) e ribadita
 nell'ultimo comma dell'art. 56 del d.P.R. 29 settembre 1973,  n.  600
 che,   con  formula  analoga  a  quella  precedente,  stabilisce  che
 "L'azione penale per i reati di cui  ai  commi  precedenti  non  puo'
 essere  iniziata  o  proseguita prima che l'accertamento dell'imposta
 sia divenuto definitivo": norma applicabile, tra l'altro, al reato di
 cui al primo comma  del  medesimo  art.  56,  che  punisce  con  pena
 detentiva chi ometta di presentare la dichiarazione dei redditi, o la
 presenti  incompleta o infedele, quando l'imposta relativa al reddito
 accertato e' superiore a cinque milioni di lire.
    Introducendo, con la legge 7 agosto 1982, n. 516  (di  conversione
 del  decreto-legge  10  luglio 1982, n. 429), un nuovo sistema penal-
 tributarioimperniato   su   ipotesi   criminose    sganciate    dalla
 determinazione  dell'entita'  dell'evasione, il legislatore ha, da un
 lato, abrogato l'intero art. 56  ora  citato,  ma  ne  ha  dall'altro
 disposto  la  sopravvivenza  -  anche  per  quanto  attiene  la norma
 processuale - limitatamente ai reati  commessi  anteriormente  al  1›
 gennaio 1983 (art. 13, primo e secondo comma, quest'ultimo sostituito
 dall'art.  2  del  decreto-legge 15 dicembre 1982, n. 916, convertito
 nella legge 12 febbraio 1983, n. 27).
    Stante  la  riserva contenuta nell'art. 2, primo comma, del codice
 di procedura penale  ed  il  dettato  dell'art.  246  delle  relative
 disposizioni  transitorie,  l'istituto  deve  ritenersi  vigente, nei
 predetti limiti, anche dopo il varo del nuovo codice di rito.
    Secondo la comune interpretazione, la  norma  cosi'  mantenuta  in
 vigore  non  contiene una mera condizione di procedibilita', ma ha la
 portata sostanziale di una pregiudiziale obbligatoria,  assolutamente
 devolutiva,  si'  che  l'accertamento effettuato in sede tributaria e
 divenuto definitivo fa stato nel processo penale.
    2. - Giudicando di un caso di  omessa  presentazione,  per  l'anno
 1978, delle dichiarazioni di redditi per un importo di poco superiore
 ai  cinque  milioni  di  lire,  nel  quale  l'accertamento - divenuto
 definitivo a seguito di decisione  della  commissione  tributaria  di
 primo  grado,  non  impugnata  -  era  stato effettuato sulla base di
 indizi privi dei caratteri di gravita', precisione e concordanza  (ai
 sensi  dell'art.  41,  secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973), il
 Tribunale di Pistoia dubita che il  citato  art.  56,  ultimo  comma,
 letto  anche  in  relazione  alle  soprarichiamate disposizioni della
 legge n. 4 del 1929 e riferito alla fattispecie di cui al primo comma
 del medesimo articolo, violi gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
    Il vincolo per il giudice  penale  derivante  da  un  accertamento
 definitivo   effettuato   con   le  predette  modalita'  in  sede  di
 giurisdizione tributaria  darebbe  luogo,  infatti,  a  irragionevole
 disparita'  di  trattamento tra imputati per reati comuni e per reati
 fiscali, condizionerebbe il pieno esplicarsi del diritto di difesa  e
 porrebbe  il contribuente nell'alternativa o di rinunciare al ricorso
 alle commissioni tributarie per avere pienezza di difesa nel giudizio
 penale,  o  di  accettare  le  limitazioni  del  diritto  di   difesa
 conseguenti alla pregiudizialita' della decisione tributaria.
    3.  -  Premesso  che  la  censura  non  investe  la  pregiudiziale
 tributaria nel suo aspetto processuale  -  e  cioe'  la  funzione  di
 condizione    di    procedibilita'    esplicata    dalla    pronuncia
 giurisdizionale tributaria definitiva - la questione  deve  ritenersi
 fondata.
    Tra  processo penale e processo tributario intercorrono, sul piano
 del regime probatorio, profonde differenze strutturali. Il  primo  e'
 ispirato  al  principio della ricerca della verita' materiale e della
 piu' ampia facolta' di prova  dei  fatti  oggetto  del  giudizio.  Il
 secondo, non solo soffre di consistenti limitazioni nell'accertamento
 dei fatti rilevanti (solo in casi limitati, ad esempio, e' consentita
 la deroga al segreto bancario: art. 35 d.P.R. n. 600 del 1973), ma si
 caratterizza per un largo impiego di presunzioni legali e presunzioni
 semplici:  le  quali  ultime,  talora  devono  essere qualificate dai
 requisiti di gravita', precisione  e  concordanza  (artt.  38,  terzo
 comma e 39, lettera d)), talaltra ne possono anche prescindere (artt.
 39,  secondo  comma  e  41  d.P.R. cit.). Non e' ammesso, inoltre, il
 ricorso al giuramento e, soprattutto, alla prova testimoniale.
    Tali limitazioni nel regime probatorio non inficiano  il  processo
 tributario in se' considerato, dato che e' giurisprudenza costante di
 questa  Corte  che  il  diritto  di  difesa  puo' essere diversamente
 regolato  a  seconda  delle  specifiche  peculiarita'   dei   singoli
 procedimenti.  Cio' che conta, pero', ai fini della conformita' della
 disciplina   ai   principi   costituzionali   in   tema   di   difesa
 giurisdizionale,  "e'  che vengano rispettate l'essenza e la funzione
 proprie  del  processo  in  quello  di  volta  in  volta   preso   in
 considerazione" (sentenza n. 560 del 1989).
    Da  questo punto di vista, non v'e' dubbio che nel processo penale
 il diritto di difesa debba trovare  la  piu'  ampia  possibilita'  di
 esplicazione, dato che con esso si esercita nei confronti dei singoli
 la  piu'  penetrante  autorita' dello Stato e se ne mette in gioco la
 liberta' personale. Viceversa, l'efficacia vincolante della pronuncia
 giurisdizionale tributaria non solo preclude  che  -  agli  esclusivi
 fini della responsabilita' penale e della determinazione della pena -
 le risultanze dell'accertamento possano essere controllate con i piu'
 incisivi  strumenti  propri  del  processo  penale,  ma  non  di rado
 impedisce  all'imputato   di   poterne   contestare   e   contrastare
 efficacemente gli esiti. Basti pensare, per convincersene, che quando
 -  come  nel caso oggetto del giudizio principale - l'accertamento si
 fondi su presunzioni prive dei caratteri di  gravita',  precisione  e
 concordanza,  la  sua  efficacia  vincolante  si  pone  in  flagrante
 contraddizione con la regola propria del processo penale  (art.  192,
 secondo comma) secondo cui non puo' darsi valore ad indizi sprovvisti
 di tali requisiti.
    E'  percio'  evidente  che  solo  preminenti esigenze di tutela di
 altri valori di rilievo costituzionale potrebbero giustificare  cosi'
 gravi limitazioni del diritto di difesa.
    4.  -  Gia'  nel  sistema  dei  rapporti tra gli accertamenti e le
 pronunce di autorita' giurisdizionali diverse stabilito dal codice di
 procedura  penale  del  1930,  la  pregiudiziale  tributaria  era  un
 istituto  del  tutto eccezionale. Quel sistema era infatti improntato
 non solo alla preminenza dell'accertamento e del giudizio penale,  ma
 all'esclusione   -   salvo  che  nella  delicatissima  materia  delle
 questioni di stato delle persone (art. 19) - della  possibilita'  che
 le  sentenze  dei giudici civili o amministrativi facessero stato nel
 giudizio  penale  qualora  le  leggi  da  essi  applicate   ponessero
 limitazioni alla prova del diritto controverso (artt. 20 e 21).
    Per parte sua, la Corte aveva provveduto, nell'ambito del predetto
 sistema,  a  contenere  la  portata  della  pregiudiziale tributaria,
 escludendo, da un lato, che la pronuncia  giurisdizionale  tributaria
 potesse far stato nel processo penale nei confronti dei terzi che non
 avevano  potuto partecipare al relativo giudizio (sentenza n. 247 del
 1983); dall'altro, che  in  tale  processo  potesse  avere  efficacia
 vincolante  il  mero  accertamento amministrativo (sentenza n. 88 del
 1982): e cio', in entrambi i casi, per la constatata  violazione  del
 diritto  di  difesa.  Aveva  escluso,  inoltre,  che la pregiudiziale
 potesse  operare  quando  l'accertamento  del  reato  e'  del   tutto
 indipendente  dall'entita'  del tributo (sentenze nn. 89 del 1982 e 2
 del 1989).
    Residuavano le controversie a contenuto  estimativo,  che  secondo
 una  tradizionale  impostazione  si  volevano  sottratte  al  giudice
 penale: tant'e' che -  come  si  e'  detto  -  il  superamento  della
 pregiudiziale  obbligatoria  e'  stato essenzialmente perseguito, nel
 nuovo sistema penal-tributario, con la configurazione di  fattispecie
 che prescindono dall'entita' del tributo in contestazione.
    Sotto il profilo costituzionale, a giustificare tale indirizzo non
 poteva, ne' puo' valere l'argomento della specialita' e del complesso
 tecnicismo  degli accertamenti a contenuto estimativo: altrimenti, la
 preclusione all'indagine ed al sindacato del giudice  penale  avrebbe
 dovuto  valere  anche  nei confronti dell'accertamento amministrativo
 non  seguito  da un giudizio tributario, cio' che la Corte ha escluso
 con la ricordata  sentenza  n.  88  del  1982.  Il  tecnicismo  degli
 accertamenti,  del  resto, comporta solo esigenze di specializzazione
 del magistrato penale, inquirente  e  giudicante,  non  dissimili  da
 quelle  che  si  riscontrano  in  varie altre materie che pur formano
 oggetto del giudizio penale senza particolari limitazioni.
    Nemmeno puo' sostenersi, come fa l'Avvocatura,  che  il  permanere
 della  pregiudizialita' processuale - che non e' qui in contestazione
 - comporti di  necessita'  il  mantenimento  di  quella  sostanziale.
 Altro,  infatti,  e'  subordinare  l'azione  penale  all'accertamento
 tributario definitivo, onde consentire al pubblico ministero di avere
 solidi elementi per iniziarla ed al giudice  di  tenerlo  nel  debito
 conto;  altro e' dire che quell'accertamento e' vincolante e non puo'
 essere in alcun modo sindacato pur se basato su  regole  di  giudizio
 estranee al processo penale.
    A  sorreggere il mantenimento della pregiudiziale tributaria nelle
 controversie  del  tipo  suddetto  ha  giocato,  invece,  "l'esigenza
 fondamentale  di  evitare  accertamenti  discordanti  anche a livello
 giurisdizionale dell'imposta dovuta" (sentenza n. 89  del  1982),  di
 impedire,   cioe',   la  formazione  di  giudicati  contraddittori  e
 salvaguardare cosi' il principio di unita' della giurisdizione.
    Questa base giustificativa  non  puo'  piu'  valere,  pero',  dopo
 l'entrata  in  vigore del nuovo processo penale, che ha profondamente
 eroso  la  portata  di   tale   principio,   introducendo   -   salvo
 limitatissime  eccezioni  -  un  regime  di reciproca separazione tra
 azione penale, civile ed amministrativa e di autonomia dei rispettivi
 procedimenti: privilegiando, con cio', le specificita' strutturali  e
 funzionali di ciascun tipo di giudizio anche a scapito della coerenza
 delle  relative  pronunce. In un sistema che contiene in limiti assai
 ristretti tanto l'ambito delle pregiudiziali -  escludendo  qualunque
 forma  di  devoluzione  obbligatoria  (art. 3) - quanto le ipotesi di
 sospensione (facoltativa) del dibattimento  penale  (art.  479);  che
 demanda in linea di principio allo stesso giudice penale di risolvere
 in  via  incidentale, e senza efficacia vincolante per altri giudizi,
 ogni questione da cui dipende la decisione (art. 2); che esclude  che
 nel  processo  penale  si osservino i limiti di prova stabiliti dalle
 leggi civili (salvo quelli concernenti lo  stato  di  famiglia  e  di
 cittadinanza:  art.  193);  e'  evidente  che  l'esigenza  di evitare
 giudicati  contraddittori   non   puo'   piu'   valere   a   ritenere
 costituzionalmente  lecita la vincolativita' per il giudice penale di
 pronunce tributarie che, pur se valide ai fini fiscali,  sono  basate
 su  regole  di giudizio estranee al processo penale e contraddittorie
 con la sua essenza, quali quelle di cui all'art. 41,  secondo  comma,
 del d.P.R. n. 600 del 1973.
    Poiche'  uno  dei  termini  del  bilanciamento cosi' effettuato ha
 ormai perso gran parte della sua pregnanza, non puo'  piu'  ritenersi
 consentita  la  compressione del diritto di difesa conseguente a quel
 vincolo.
    La  norma  impugnata  va  percio'  dichiarata   costituzionalmente
 illegittima  per violazione dell'art. 24 della Costituzione, restando
 con cio' assorbiti gli altri parametri investiti.