ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 63  del  d.P.R.
 26  ottobre  1972,  n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul
 valore aggiunto) e dell'art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.  600
 (Disposizioni  comuni  in  materia  di accertamento delle imposte sui
 redditi) promosso con ordinanza  emessa  il  26  gennaio  1991  dalla
 Commissione  tributaria  di  primo  grado  di  Pordenone  nel ricorso
 proposto da S.p.a. Arrital  Cucine  c/  Ufficio  Imposte  Dirette  di
 Pordenone  ed  altro iscritta al n. 425 del registro ordinanze 1991 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  25,  prima
 serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 20 novembre  1991  il  Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
                           Ritenuto in fatto
    1.  - Nel corso di un giudizio pendente di fronte alla Commissione
 tributaria  di  primo  grado  di  Pordenone,  sorto  a   seguito   di
 opposizione  ad accertamento fiscale, e' stata sollevata questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 63 del d.P.R. 26 ottobre  1972,
 n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), e
 dell'art.  33  del  d.P.R.  29  settembre  1973, n. 600 (Disposizioni
 comuni in materia di accertamento delle imposte  sui  redditi),  come
 modificati,  rispettivamente, dall'art. 7 e dall'art. 2 del d.P.R. 15
 luglio 1982, n. 463, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma,
 della Costituzione, in relazione all'art. 10, n. 12,  della  legge  9
 ottobre  1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica
 per la riforma tributaria).
    Il giudice a quo, in punto di rilevanza, precisa che,  nell'ambito
 di  un'ispezione,  autorizzata  dall'autorita' giudiziaria, svolta ai
 fini  dell'accertamento  delle  imposte  sui  redditi  e  sul  valore
 aggiunto,  la Guardia di finanza ha reperito documenti bancari, sulla
 cui base si e' attivata un'indagine di polizia giudiziaria, anch'essa
 autorizzata dal giudice, nel corso della quale sono  state  acquisite
 notizie  bancarie  di  rilievo  pure  per  il  predetto  accertamento
 fiscale. Dopo  che  l'autorita'  giudiziaria  titolare  dell'indagine
 penale aveva autorizzato l'utilizzazione a fini fiscali delle notizie
 cosi'   acquisite,   si  e'  proceduto  alla  notifica  dei  relativi
 accertamenti, dalla cui opposizione ha avuto origine  il  giudizio  a
 quo.
    A  seguito  di  una  specifica  eccezione preliminare proposta dal
 ricorrente nel processo a quo, la Commissione tributaria di Pordenone
 ha sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale  dei  citati
 artt.  63  e 33, sospettando un vizio di questi ultimi per eccesso di
 delega rispetto all'art. 10, n. 12, della legge n. 825 del  1971,  il
 quale  contiene  la  direttiva  rivolta  al  legislatore  delegato di
 stabilire  "l'introduzione,  limitata  a   ipotesi   di   particolare
 gravita',   di   deroghe   al   segreto  bancario  nei  rapporti  con
 l'amministrazione   finanziaria,   tassativamente   determinate   nel
 contenuto  e  nei  presupposti".  Secondo  il giudice a quo, con tale
 disposizione il legislatore ha inteso  sottolineare  che  il  segreto
 bancario  ha  trovato,  nell'ambito  della  riforma  tributaria,  uno
 specifico riconoscimento, nel senso che ha assunto  valore  di  norma
 avente  una  precisa  connotazione positiva e sistematica rispetto ad
 ogni  attivita'   ispettiva   e   di   verifica   posta   in   essere
 dall'amministrazione finanziaria.
    Sempre  ad  avviso  del  giudice  a quo, siffatta norma direttiva,
 mentre risulterebbe adeguatamente attuata dai non impugnati artt. 51-
 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 e 35 del d.P.R. n.  600  del  1973  (i
 quali  elencano i casi tassativi in cui l'amministrazione finanziaria
 puo' superare il segreto bancario nell'ambito della propria attivita'
 ispettiva),  sembrerebbe,  invece,  contraddetta  dalle  disposizioni
 impugnate.  Queste ultime, infatti, contengono una norma identica, la
 quale, dopo aver previsto che la Guardia di finanza coopera  con  gli
 uffici   delle   imposte  per  l'acquisizione  degli  elementi  utili
 all'accertamento e alla repressione delle violazioni connesse con gli
 obblighi tributari, stabilisce che  la  stessa  Guardia  di  finanza,
 "previa  autorizzazione  dell'autorita' giudiziaria in relazione alle
 norme che disciplinano il segreto istruttorio, utilizza  e  trasmette
 agli  uffici  documenti,  dati  e  notizie  acquisiti  nei  confronti
 dell'imputato  nell'esercizio  dei  poteri  e  facolta'  di   polizia
 giudiziaria e valutaria".
    Tale  norma,  a parere del giudice a quo, comporterebbe un eccesso
 di delega, poiche', a fronte di una direttiva che  esige  deroghe  al
 segreto  bancario  limitate  a  ipotesi  di  particolare  gravita'  e
 tassativamente determinate nel  contenuto  e  nei  presupposti,  essa
 sarebbe,  invece,  priva  di  ogni  limite.  Le deroghe ivi previste,
 infatti,   sarebbero   soggette   al   solo   vincolo   della  previa
 autorizzazione  dell'autorita'   giudiziaria,   autorizzazione   che,
 peraltro,  non  ha  nulla  a  che vedere con considerazioni di indole
 tributaria, ma ha riguardo, piuttosto, all'eventuale opportunita'  di
 mantenere integro il segreto istruttorio.
    Ne',  sempre  secondo  il  giudice a quo, potrebbe condividersi la
 linea  interpretativa  adottata  da  talune  Commissioni  tributarie,
 secondo  cui  la  trasmissibilita'  delle informazioni da parte della
 polizia giudiziaria a favore dell'amministrazione finanziaria sarebbe
 limitata alle sole notizie di tipo non bancario, dal momento che tale
 interpretazione, oltre a non essere basata su  alcun  dato  testuale,
 andrebbe   incontro   all'inconveniente   di   portare  ad  escludere
 dall'accertamento tributario proprio il tipo di acquisizioni ritenute
 piu' significative.
    Del resto, conclude lo stesso giudice a quo, va ricordato  che  il
 recente  decreto-legge  4 gennaio 1991, n. 2, nel modificare le norme
 impugnate, estende la possibilita' che  la  polizia  giudiziaria  dia
 informazioni  all'amministrazione  finanziaria "anche al di fuori dei
 casi di deroga previsti dall'art.  51-bis"  (e  dall'art.  35,  prima
 citato):  questa  modifica,  insinua  il  giudice  a quo, sembrerebbe
 ammettere che la norma  ora  impugnata  esorbitasse  dalla  delega  e
 necessitasse, quindi, di una successiva legittimazione.
    2.  - Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri per chiedere che la questione sia  dichiarata  inammissibile
 e, in subordine, infondata.
    Sotto  il  primo  profilo,  l'Avvocatura  dello  Stato,  dopo aver
 accennato alla non chiarezza e alla inadeguatezza  della  motivazione
 dell'ordinanza   di   rimessione  sul  collegamento  dell'istruttoria
 fiscale con un'indagine penale, sostiene che la  questione  sollevata
 sia  irrilevante,  poiche'  i  militari  e  i  funzionari  procedenti
 all'accertamento avrebbero l'obbligo, penalmente sanzionato,  di  non
 trattenere  per  se'  le informazioni bancarie di cui siano giunti in
 possesso, obbligo che resterebbe in vigore pur se  fossero  annullate
 le disposizioni impugnate.
   Per quanto concerne il merito della questione di costituzionalita',
 l'Avvocatura  dello  Stato,  nel  sottolineare  che  la  ratio  delle
 disposizioni contestate e'  quella  di  evitare  che,  nel  caso  che
 un'istruttoria  penale  sia  affiancata da un'istruttoria fiscale, si
 arrechi pregiudizio alle indagini giudiziali in corso, afferma che le
 norme impugnate obbediscono alla regola fondamentale, e  di  generale
 applicazione, della non interruzione del flusso delle informazioni in
 materia  tributaria  e  della  loro  piena  utilizzabilita'  ai  fini
 dell'accertamento tributario da parte degli uffici finanziari che  ne
 siano  venuti  in  possesso.  L'Avvocatura  rileva, altresi', che non
 sussiste alcun collegamento tra le disposizioni contestate e i citati
 artt.  35  e  51-bis,  poiche'  solo  questi  ultimi  costituirebbero
 attuazione  del  principio  direttivo fissato dalla legge delega, nel
 senso  che  solo  essi  contengono  norme   sostanziali   limitatrici
 dell'utilizzabilita'  di  notizie  coperte  da  segreto  bancario. Le
 disposizioni  impugnate,  invece,  mirano  a  risolvere  soltanto  un
 problema  di  coordinamento  tra  istruttorie diverse, stabilendo una
 priorita' di tipo procedurale e  temporale  a  tutela  dell'attivita'
 inquirente del giudice.
    Del  resto,  continua  l'Avvocatura  dello  Stato,  se  si volesse
 riconoscere nelle disposizioni impugnate una regola  sostanziale,  la
 questione, prima che infondata, sarebbe inammissibile, poiche', oltre
 a  configurare  probabilmente  un'aberratio  ictus, comporterebbe una
 pronunzia additiva (che dovrebbe essere  estesa  anche  all'art.  12,
 secondo  comma,  del  decreto  legge  n.  429  del  1982),  diretta a
 prevedere un vincolo di inutilizzabilita' per gli accertamenti  degli
 uffici   finanziari  riguardo  alle  informazioni  bancarie  ad  essi
 pervenute al di fuori dei casi previsti dall'art. 51- bis del  d.P.R.
 n.  633 del 1972 e dall'art. 35 del d.P.R. n. 600 del 1973. Ma, ed e'
 questo  un  ulteriore  motivo  d'inammissibilita',   l'ordinanza   di
 rimessione  non  chiarisce  se  il caso di specie rientri o no fra le
 deroghe contemplate dalle norme da ultimo  menzionate  e  si  mostra,
 oltretutto, perplessa sulla interpretazione da dare alle disposizioni
 impugnate.  In ogni caso, conclude l'Avvocatura dello Stato, non puo'
 sostenersi  che  un  documento  bancario,  non piu' "segreto" perche'
 acquisito agli atti di un procedimento penale, dovrebbe  considerarsi
 come  se  fosse  ancora segreto, poiche' altro e' limitare la ricerca
 del materiale probatorio ai fini dell'istruttoria fiscale,  altro  e'
 non  poter  utilizzare  il  materiale  probatorio pervenuto e creare,
 cosi', segreti bancari laddove  questi  non  esistono.  Il  principio
 direttivo  contenuto nella legge delega (art. 10, n. 12) si riferisce
 soltanto al primo  degli  aspetti  accennati  (ricerca  di  materiale
 probatorio) e non puo' essere esteso, come pretenderebbe il giudice a
 quo, al secondo degli aspetti indicati (utilizzabilita' del materiale
 probatorio  pervenuto).  Se  cosi'  non  fosse,  nota la difesa dello
 Stato, si potrebbe dubitare della conformita' del principio direttivo
 contenuto nella legge delega rispetto all'art. 53 della Costituzione.
    3. - In prossimita' della Camera di consiglio  l'Avvocatura  dello
 Stato ha presentato un'ulteriore memoria, con la quale sottolinea, in
 contrasto  con  una  notazione  formulata  dal  giudice a quo, che la
 modifica apportata alla norma impugnata dall'art. 5,  quattordicesimo
 e  quindicesimo  comma,  del  decreto  legge  3  maggio 1991, n. 143,
 convertito dalla legge 5 luglio 1991, n. 197, elimina ogni incertezza
 interpretativa, nel senso che conferma che  la  Guardia  di  finanza,
 tanto  nelle  vesti di polizia tributaria quanto in quelle di polizia
 giudiziaria, deve trasmettere agli uffici finanziari i documenti,  di
 cui sia pervenuta in possesso, "anche al di fuori dei casi di deroga"
 al  segreto  bancario.  Nel  confermare cio', osserva la difesa dello
 Stato, le nuove disposizioni escludono l'eccesso di delega ipotizzato
 dall'ordinanza di rimessione riguardo alla legislazione delegata  del
 1982.
    L'Avvocatura  rileva,  inoltre,  che,  a  seguito di un piu' ampio
 riscontro dei documenti, si e' chiarito che l'accertamento riguardava
 un grave caso di evasione fiscale,  coinvolgente  profili  criminali,
 che  aveva  indotto  la  Procura  della  Repubblica  di  Pordenone ad
 affiancare un'istruttoria penale a quella fiscale,  nel  corso  della
 quale,   peraltro,   era   gia'  stato  raccolto  cospicuo  materiale
 probatorio  di  tipo  non-bancario.  Dai  documenti,  precisa  ancora
 l'Avvocatura,  risulta  che  i limiti posti dagli artt. 51- bis e 35,
 che   in   ogni   caso   non   riguardano   affatto   la   "ricaduta"
 sull'istruttoriafiscale dei dati acquisiti nel corso dell'istruttoria
 penale, erano stati ampiamente superati nella specie.
                        Considerato in diritto
   1.  -  La  Commissione  tributaria  di  primo grado di Pordenone ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art.  63  del
 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta
 sul valore aggiunto), e dell'art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.
 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui
 redditi),  che, a seguito delle modifiche apportate dagli artt. 7 e 2
 del d.P.R. 15 luglio 1982,  n.  463,  al  primo  e  al  terzo  comma,
 contengono  una  disposizione identica, in base alla quale la Guardia
 di finanza - nell'ambito di  un  rapporto  di  cooperazione  con  gli
 uffici   finanziari   per   l'accertamento  dell'imposta  sul  valore
 aggiunto, in un caso, e delle imposte sui redditi, nell'altro caso  -
 "previa  autorizzazione  dell'autorita' giudiziaria in relazione alle
 norme che disciplinano il segreto istruttorio, utilizza  e  trasmette
 agli  uffici  delle  imposte  documenti, dati e notizie acquisiti nei
 confronti dell'imputato  nell'esercizio  dei  poteri  e  facolta'  di
 polizia  giudiziaria  e  valutaria".  Secondo  il giudice a quo, tale
 disposizione violerebbe  gli  artt.  76  e  77,  primo  comma,  della
 Costituzione,  dal  momento  che  costituirebbe  l'esercizio  di  una
 funzione legislativa delegata svolta in contrasto  con  un  principio
 direttivo  contenuto nell'art. 10, n. 12, della legge 9 ottobre 1971,
 n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma
 tributaria), in  base  al  quale  il  Governo  e'  stato  delegato  a
 stabilire   "l'introduzione,   limitata   a  ipotesi  di  particolare
 gravita',  di  deroghe  al  segreto   bancario   nei   rapporti   con
 l'amministrazione   finanziaria,   tassativamente   determinate   nel
 contenuto e nei presupposti".
    L'Avvocatura generale dello Stato, per contro, oltre a  richiedere
 il   rigetto  della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  ha
 proposto numerose eccezioni di inammissibilita', alcune delle  quali,
 peraltro,  sono  state ritirate nello scritto difensivo depositato in
 prossimita' della Camera di Consiglio. Sulle  eccezioni  proposte,  e
 non ritirate, occorre, comunque, pronunziarsi in via preliminare.
    2. - Le eccezioni di inammissibilita' non possono essere accolte.
    Innanzitutto,  non  puo'  essere  condiviso  il rilievo in base al
 quale l'eventuale accoglimento della questione sollevata non  avrebbe
 alcuna influenza sulla possibilita' che la Guardia di finanza, previa
 autorizzazione  dell'autorita'  giudiziaria,  trasmetta  agli  uffici
 finanziari notizie o dati acquisiti nel corso di indagini di  polizia
 giudiziaria   o   valutaria,  dal  momento  che  rimarrebbe  comunque
 l'obbligo, a carico degli ufficiali e degli agenti di polizia, di non
 trattenere per se' le  informazioni  bancarie  di  cui  venissero  in
 possesso    nell'adempimento    delle    loro    funzioni.   Infatti,
 contrariamente a quanto suppone  l'Avvocatura  dello  Stato,  ove  la
 questione  proposta  con  il  presente  giudizio fosse accolta, fermo
 restando  l'obbligo  degli  ufficiali  e  degli  agenti  di   polizia
 impegnati   nelle   indagini   penali   di  comunicare  all'autorita'
 giudiziaria  le  notizie  acquisite,  verrebbe   comunque   meno   la
 possibilita'   della  ulteriore  trasmissione  delle  stesse  notizie
 all'amministrazione finanziaria ai fini degli  accertamenti  fiscali.
 Sulla  base  di cio', non si puo' dubitare che la questione sollevata
 dalla Commissione tributaria  di  Pordenone  sia  rilevante,  poiche'
 risulta  chiaramente  dall'ordinanza di rimessione che l'accertamento
 fiscale, cui si riferisce il giudizio a quo, e' in larga parte basato
 sulle informazioni  bancarie  che  l'amministrazione  finanziaria  ha
 avuto  dalla  Guardia di finanza, allorche' questa procedeva in veste
 di polizia giudiziaria  nell'ambito  delle  indagini  penali  avviate
 dalla Procura della Repubblica di Pordenone.
    Ne'  si  rivela fondata l'ulteriore eccezione di inammissibilita',
 basata sulla presunta perplessita' della ordinanza di  rimessione  in
 relazione all'interpretazione da dare alle disposizioni impugnate. Il
 giudice  a  quo,  infatti,  dubita  della legittimita' costituzionale
 delle disposizioni impugnate  partendo  dal  presupposto  che  queste
 ultime  debbano  esser  interpretate  nel  senso  che  permettono  la
 trasmissione agli uffici tributari di qualsiasi tipo di  informazione
 finanziaria  raccolta  dalla polizia giudiziaria, comprese le notizie
 bancarie.   Lo   stesso   giudice   riferisce,   poi,   una   diversa
 interpretazione  delle  norme impugnate, seguita da altre Commissioni
 tributarie, secondo la quale la trasmissione di notizie, cui le norme
 impugnate si riferiscono, sarebbe limitata alle informazioni di  tipo
 non  bancario.  Ma egli stesso giunge alla inequivoca conclusione che
 tale  interpretazione,  la  quale,  a  suo  avviso,  eviterebbe  ogni
 conflitto con la legge di delega, non puo' essere condivisa.
    Ne',  infine,  merita accoglimento l'eccezione d'inammissibilita',
 secondo  la   quale,   poiche'   le   disposizioni   contestate   non
 conterrebbero  deroghe  al  segreto  bancario,  ma  si  riferirebbero
 soltanto al segreto istruttorio, sarebbe erroneamente  invocato  come
 parametro   di   costituzionalita'   il   complesso  di  disposizioni
 costituzionali sulla  delegazione  legislativa,  considerato  che  la
 norma  interposta,  contenuta nell'art. 10, n. 12, della legge delega
 n.  825  del  1971,  prevederebbe  principi   direttivi   in   ordine
 all'adozione  di  norme sostanziali limitatrici della utilizzabilita'
 di notizie coperte  dal  segreto  bancario,  e  non  gia'  in  ordine
 all'emanazione  di  norme  procedurali  relative al coordinamento tra
 istruttorie penali e istruttorie fiscali. In realta', pur  ammettendo
 che  l'interpretazione formulata dall'Avvocatura dello Stato riguardo
 alle disposizioni appena citate sia  quella  corretta,  non  si  puo'
 escludere,   in   via  generale,  che  la  previsione  relativa  alla
 possibilita' dell'amministrazione finanziaria di  giovarsi,  ai  fini
 dell'accertamento  tributario,  di  notizie  acquisite  nel  corso di
 indagini penali  e  ad  essa  trasmesse,  previa  autorizzazione  del
 magistrato  inquirente, dalla Guardia di finanza, agente come polizia
 giudiziaria, possa comportare un'incisione,  seppure  indiretta,  sul
 segreto  bancario.  Infatti,  una  volta  che  si  ammetta che con il
 segreto bancario possono essere coperti dati o notizie che la polizia
 giudiziaria puo' acquisire nel corso delle indagini finalizzate a  un
 giudizio  penale,  non si puo' negare, quantomeno restando nei limiti
 di una valutazione delibatoria, che vi possa  essere  un'interferenza
 fra  la disciplina sulle deroghe al segreto bancario previste ai fini
 dell'accertamento tributario e la possibilita' di trasmissione  delle
 notizie  confidenziali  sopra definita. Cio' e' sufficiente per poter
 affermare che il giudice a quo ha non  irragionevolmente  prefigurato
 l'ipotesi  di eccesso di delega nella forma di un possibile contrasto
 fra le disposizioni impugnate  e  il  principio  direttivo  contenuto
 nell'art. 10, n. 12, della legge n. 825 del 1971.
    3. - La questione di costituzionalita' sollevata dal giudice a quo
 non e' fondata.
    Con  il termine di segreto bancario si denota un dovere di riserbo
 cui sono tradizionalmente tenute le  imprese  bancarie  in  relazione
 alle operazioni, ai conti e alle posizioni concernenti gli utenti dei
 servizi da esse erogati. A tale dovere, tuttavia, non corrisponde nei
 singoli  clienti  delle  banche  una  posizione  giuridica soggettiva
 costituzionalmente protetta, ne', men  che  meno,  un  diritto  della
 personalita',  poiche'  la sfera di riservatezza con la quale vengono
 tradizionalmente circondati i conti e le operazioni degli utenti  dei
 servizi  bancari  e'  direttamente  strumentale  all'obiettivo  della
 sicurezza e del buon andamento dei traffici commerciali.  In  ragione
 di cio', il se, il quanto e il come della tutela del segreto bancario
 sono lasciati alla scelta discrezionale del legislatore ordinario, il
 quale,  in  tale  valutazione,  e'  tenuto  a  un  non  irragionevole
 apprezzamento dei fini di utilita' e di  giustizia  sociale  che  gli
 artt.  41,  secondo  comma,  e  42, secondo comma, della Costituzione
 prevedono a proposito della disciplina delle attivita'  economiche  e
 del  regime  delle appartenenze dei beni patrimoniali. Al livello dei
 principi  costituzionali  resta  fermo,  comunque,  che   le   scelte
 discrezionali del legislatore, ove si orientino a favore della tutela
 del  segreto bancario, non possono spingersi fino al punto di fare di
 questo ultimo un ostacolo all'adempimento di doveri  inderogabili  di
 solidarieta',  primo  fra  tutti  quello  di  concorrere  alle  spese
 pubbliche in ragione della propria capacita'  contributiva  (art.  53
 della  Costituzione),  ovvero  fino  al  punto  di  farne derivare il
 benche' minimo intralcio all'attuazione  di  esigenze  costituzionali
 primarie, come quelle connesse all'amministrazione della giustizia e,
 in particolare, alla persecuzione dei reati.
    Entro  questa  cornice  di principi costituzionali va collocata la
 legge  delega  invocata  come  norma  interposta  del   giudizio   di
 costituzionalita'   sulle   disposizioni  impugnate.  Il  legislatore
 delegato,  infatti,  e'  tenuto  a  dare  attuazione  alla  legge  di
 delegazione  interpretandone  i  contenuti normativi in armonia con i
 principi  costituzionali.  Sicche'  l'inquadramento  delle  direttive
 stabilite   dall'art.  10,  n.  12,  della  legge  n.  825  del  1971
 all'interno  delle  norme  costituzionali  di  riferimento  si  rende
 necessario  proprio  al  fine  di valutare la costituzionalita' delle
 disposizioni poste dal legislatore delegato in attuazione  di  quelle
 direttive.
    4.  -  Interpretata  nel  contesto dei principi costituzionali ora
 menzionati, la disposizione della legge delega  invocata  come  norma
 interposta  nel presente giudizio di costituzionalita' non puo' avere
 il significato ad  essa  attribuito  dal  giudice  a  quo.  In  altri
 termini,  la  norma  direttiva  contenuta  nell'art. 10, n. 12, della
 legge n. 825 del 1971 - per  la  quale  il  legislatore  delegato  e'
 tenuto  a  provvedere  alla  "introduzione,  limitata  a  ipotesi  di
 particolare gravita', di deroghe al segreto bancario nei rapporti con
 l'amministrazione   finanziaria,   tassativamente   determinate   nel
 contenuto  e  nei  presupposti"  -  non  puo' avere il significato di
 riconoscere il segreto bancario come principio  anche  nei  confronti
 dell'autorita' finanziaria procedente all'accertamento degli illeciti
 tributari,  principio  che  puo'  essere  derogato soltanto nei casi,
 tassativamente determinati, di illeciti di particolare  gravita'.  Se
 questo   dovesse  esserne  il  significato,  si  dovrebbe  seriamente
 dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 10, n. 12, della
 legge delega in  riferimento  ai  principi  costituzionali  affermati
 negli  artt.  2 e 53 della Costituzione e questa Corte non esiterebbe
 ad accogliere il suggerimento dell'Avvocatura dello Stato a sollevare
 di fronte a se stessa la questione di costituzionalita'.
    In realta', se  la  norma  di  delega  dev'esser  interpretata  in
 armonia  con la Costituzione e, piu' in particolare, con il principio
 che il dovere di riservatezza connesso con il  segreto  bancario  non
 puo'  coprire  illeciti  tributari  e  non  puo'  essere  di ostacolo
 all'accertamento dei medesimi illeciti, l'art. 10, n.  12,  non  puo'
 essere  visto  come  diretto  a riconoscere il principio del "segreto
 bancario", di fronte al quale gli interventi dell'autorita'  pubblica
 vo'lti  all'accertamento  degli  illeciti tributari siano configurati
 come "deroghe eccezionali" e, persino, "sospette", tanto  da  esigere
 determinazioni  tassative  e limitate ai casi di maggior gravita'. In
 altri termini, alla  riservatezza  cui  le  banche  sono  tenute  nei
 confronti  delle  operazioni dei propri clienti non si puo' applicare
 il paradigma di garanzia proprio dei diritti di  liberta'  personale,
 poiche'  alla  base  del  segreto  bancario  non ci sono valori della
 persona umana da tutelare: ci sono, piu'  semplicemente,  istituzioni
 economiche   e   interessi   patrimoniali,   ai   quali,  secondo  la
 giurisprudenza costante  di  questa  Corte,  quel  paradigma  non  e'
 applicabile (v. sentt. nn. 55 del 1968 e 22 del 1971).
    Cio'  significa  che  la  stessa  norma  di delega non puo' essere
 interpretata come una norma restrittiva dei  poteri  di  accertamento
 dell'amministrazione  tributaria di fronte al segreto bancario, tanto
 piu' che, quando l'art. 10, n. 12, fa riferimento  alle  "ipotesi  di
 particolare  gravita'"  che  legittimerebbero  l'accesso degli uffici
 finanziari ai dati riservati custoditi dalle  banche,  non  puo'  non
 ricomprendere  in  quelle  ipotesi tutti i possibili casi di illecito
 tributario per  evasione.  Alla  luce  dei  principi  costituzionali,
 infatti,  l'evasione fiscale costituisce in ogni caso una "ipotesi di
 particolare gravita'", per il  semplice  fatto  che  rappresenta,  in
 ciascuna  delle sue manifestazioni, la rottura del vincolo di lealta'
 minimale che lega  fra  loro  i  cittadini  e  comporta,  quindi,  la
 violazione  di  uno  dei  "doveri  inderogabili di solidarieta'", sui
 quali,  ai  sensi  dell'art.  2  della  Costituzione,  si  fonda  una
 convivenza  civile  ordinata  ai  valori di liberta' individuale e di
 giustizia sociale.
    In definitiva, la direttiva contenuta nell'art. 10, n.  12,  della
 legge n. 825 del 1971, vincola il legislatore delegato a conformare i
 rapporti  tra  le  imprese bancarie e i poteri di accertamento propri
 dell'amministrazione  tributaria  in  modo  che  quest'ultima   possa
 accedere  ai  dati relativi alle operazioni o ai patrimoni di singoli
 clienti, tenuti riservati dalle banche, purche' si tratti di  ipotesi
 e  di  modalita' prestabilite dalla legge. Infatti, poiche' in via di
 principio nessun documento o nessun dato, relativo  agli  utenti  dei
 servizi  bancari  e  detenuto  confidenzialmente  dalle  banche, puo'
 essere sottratto ai poteri di accertamento degli uffici tributari, il
 significato sostanziale della norma di delega ora esaminata e' quello
 di sottoporre tali poteri al principio  di  legalita',  di  modo  che
 questi   ultimi   non   possano   essere   svolti  arbitrariamente  e
 indiscriminatamente.
   5. - Ad avviso del giudice a quo, il legislatore  delegato,  mentre
 avrebbe  accuratamente  attuato  la predetta direttiva con l'art. 51-
 bis del d.P.R. n. 633 del 1972 e con l'art. 35 del d.P.R. n. 600  del
 1973,  ne  avrebbe,  invece,  violato il contenuto sostanziale con le
 disposizioni impugnate.
    I   ricordati   artt.   51-   bis  e  35,  nei  testi  introdotti,
 rispettivamente, dall'art. 5 e dall'art. 3 del d.P.R. 15 luglio 1982,
 n. 463 (che, peraltro, risultano ora abrogati dalla legge 30 dicembre
 1991, n. 413 art. 18, punto 2, lett. e) e punto 1,  lett.  h),  hanno
 predeterminato - l'uno in relazione all'imposta sul valore aggiunto e
 l'altro  in relazione alle imposte sui redditi - i fatti o gli indizi
 (omessa   presentazione   della   dichiarazione,   accertamento    di
 corrispettivi  o  redditi  reali  superiori  di una certa percentuale
 rispetto a quelli dichiarati, etc.), in presenza dei quali gli uffici
 finanziari sono abilitati ad accedere ai documenti, alle notizie e ai
 dati conservati dalle aziende e dagli istituti di  credito.  In  tali
 casi,  occorre  ricordarlo,  l'esercizio  del  potere di accesso alle
 predette  informazioni   riservate   e'   subordinato   alla   previa
 autorizzazione  del  presidente della commissione tributaria di primo
 grado  territorialmente  competente,  vale   a   dire   alla   previa
 autorizzazione  di  un  magistrato incaricato di presiedere un organo
 avente natura giurisdizionale.
    Le disposizioni impugnate - cioe' l'art. 63, primo comma,  seconda
 proposizione,  del  d.P.R.  n. 633 del 1972 e l'art. 33, terzo comma,
 seconda  proposizione,  del  d.P.R.  n.  600  del  1973,  nei   testi
 risultanti  dopo  le  modifiche  ad  essi apportati, rispettivamente,
 dagli artt. 7 e 2 del gia'  menzionato  d.P.R.  n.  463  del  1982  -
 prevedono  una via ulteriore e diversa attraverso la quale gli uffici
 finanziari,  pur  sempre  ai  fini  dell'accertamento  di   eventuali
 illeciti  tributari,  possono  avere  accesso  ai documenti e ai dati
 riservati tenuti dalle aziende o dagli istituti di credito.  In  base
 alle  citate  disposizioni,  infatti,  la  Guardia di finanza, previa
 autorizzazione dell'autorita' giudiziaria in relazione alle norme sul
 segreto istruttorio, utilizza e trasmette agli uffici  delle  imposte
 documenti,  dati  e  notizie  acquisiti  nei  confronti dell'imputato
 nell'esercizio dei poteri di polizia giudiziaria e valutaria. Secondo
 il giudice a quo, la previsione in  questa  disposizione  della  sola
 previa   autorizzazione   del   giudice   inquirente   e  la  mancata
 predeterminazione,in tal caso, delle ipotesi  legittimanti  l'accesso
 ai    dati    riservati   costituirebbero   motivo   d'illegittimita'
 costituzionale per violazione della norma  di  delega  esaminata  nel
 punto  precedente della motivazione. Tale assunto, tuttavia, non puo'
 essere condiviso.
    In realta', le norme sospettate d'incostituzionalita' abilitano la
 Guardia  di  finanza  a  trasmettere  agli   uffici   delle   imposte
 informazioni,  dati  o  documenti,  rilevanti  per  l'accertamento di
 illeciti tributari, che siano stati acquisiti dalla stessa Guardia di
 finanza nell'esercizio delle funzioni di  polizia  giudiziaria.  Cio'
 significa  che quest'ultima ha originariamente accesso ai dati cui si
 riferiscono le disposizioni impugnate in relazione a ipotesi  che  la
 legge  penale  predetermina  come ipotesi di reato, in conformita' al
 principio di riserva  assoluta  di  legge,  stabilito  dall'art.  25,
 secondo  comma,  della  Costituzione. Inoltre, nella sua attivita' di
 polizia giudiziaria,  vo'lta  al  reperimento  o  alla  verifica  dei
 suddetti  dati,  la  Guardia  di  finanza  agisce,  oltreche' secondo
 modalita' stabilite dalla legge, sotto l'impulso, il controllo  e  la
 vigilanza  dell'autorita'  giudiziaria,  cosi'  come  e'  previsto in
 generale  per le attivita' di prevenzione e di repressione dei reati.
 Tutto  cio'  dimostra  che  l'accesso  ai  dati  riservati   cui   si
 riferiscono  le  disposizioni  impugnate  e'  sottoposto  a  rigorose
 condizioni di predeterminazione legale e di controllo giudiziario, le
 quali anzi, proprio perche' attengono alla  persecuzione  dei  reati,
 sono  definite persino in modo piu' preciso e garantistico rispetto a
 quelle stabilite dai ricordati artt. 51- bis e 35 per  l'accertamento
 degli  illeciti  tributari  da  parte  degli  uffici  delle  imposte.
 L'illimitata trasmissibilita' dei dati coperti da segreto bancario da
 parte  della  polizia  giudiziaria  a   favore   dell'amministrazione
 finanziaria  si basa, dunque, sul presupposto che il segreto bancario
 non  puo'  in  alcun  modo  sussistere  di  fronte  alla  (legittima)
 attivita'  di  prevenzione  e  di  repressione  dei reati (artt. 248,
 secondo comma, c.p.p.  e  255  c.p.p.).  E,  poiche'  tale  attivita'
 risponde   a  requisiti  di  legalita'  e  di  controllo  giudiziario
 particolarmente rigorosi, nessun ostacolo puo' sussistere affinche' i
 dati riservati (legittimamente) acquisiti per tale via possano essere
 comunicati  all'amministrazione  finanziaria  e  possano  essere   da
 quest'ultima  pienamente  utilizzati,  anche  al di la' delle ipotesi
 previste dai piu' volte citati artt.  51-  bis  e  35  (come  ora,  a
 definitivo   chiarimento,  stabilisce  l'art.  5,  quattordicesimo  e
 quindicesimo  comma,  del  decreto-legge  3  maggio  1991,  n.   143,
 convertito  dalla legge 5 luglio 1991, n. 197). Cio', del resto, come
 si e'  prima  accennato,  corrisponde  al  bilanciamento  dei  valori
 costituzionali,  in  base  al  quale  i valori collegati al dovere di
 riserbo sui dati bancari  sono  sicuramente  recessivi  di  fronte  a
 quelli  riferibili  al dovere inderogabile imposto dall'art. 53 della
 Costituzione  e,  a   maggior   ragione,   di   fronte   all'esigenza
 costituzionale primaria collegata alla persecuzione dei reati.
    L'unico  limite  che  occorre  rispettare  nella  altrimenti piena
 possibilita' della polizia giudiziaria  di  trasmettere  agli  uffici
 delle imposte gli anzidetti dati va individuato nella imprescindibile
 esigenza  che  a  quella  trasmissione non consegua alcun pregiudizio
 agli interessi protetti con il segreto istruttorio o, in genere,  con
 il segreto attinente alla fase delle indagini preliminari. Di cio', a
 ragione,   si   preoccupano   le   disposizioni  impugnate  allorche'
 subordinano la trasmissione agli uffici finanziari delle informazioni
 e dei documenti in possesso della  polizia  giudiziaria  alla  previa
 autorizzazione  del  giudice,  la quale e' espressamente giustificata
 dall'esigenza di salvaguardare l'efficienza e  il  buon  esito  della
 indagine  penale  e  di  tutelare  i diritti della persona sottoposta
 all'indagine medesima. Tale autorizzazione e' evidentemente diretta a
 regolare i confini e  le  possibili  interferenze  tra  l'istruttoria
 penale  e quella tributaria, sicche', contrariamente a quanto suppone
 il giudice a quo, non puo' essere posta sullo stesso piano dei poteri
 giudiziali di accesso  ai  dati  riservati,  che  sono  distintamente
 disciplinati dalle norme sulle indagini di polizia giudiziaria (artt.
 248,  secondo  comma,  e  255  c.p.p.)  e da quelle sull'accertamento
 tributario (artt. 51- bis e 35, prima ricordati).