ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale del combinato disposto
 formato dall'art. 87 del decreto del Presidente della  Repubblica  10
 gennaio  1957,  n.  3  (Testo unico delle disposizioni concernenti lo
 statuto degli impiegati civili dello Stato) e dall'art. 276 del regio
 decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) promosso con
 ordinanza emessa il 24 maggio 1991  dalla  Sezione  disciplinare  del
 Consiglio Superiore della Magistratura, nel procedimento disciplinare
 a  carico  di  Giuseppe  Renato Croce iscritta al n. 661 del registro
 ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 5 febbraio 1992 il Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nel corso  di  un  procedimento  disciplinare,  instaurato  a
 seguito  di  un  annullamento  con  rinvio  operato  dalla  Corte  di
 cassazione - Sezione unite civili nei confronti di una  pronunzia  di
 inammissibilita'  di  un'istanza  presentata dal magistrato d'appello
 Giuseppe Renato  Croce  per  ottenere  la  riabilitazione,  ai  sensi
 dell'art.  178 c.p. o dell'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957, rispetto
 a una decisione di condanna inflittiva della sanzione della  censura,
 la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha
 sollevato  questione  di legittimita' costituzionale - in riferimento
 agli artt. 3, 101, secondo comma,  104,  primo  comma,  e  105  della
 Costituzione - avverso il combinato disposto formato dall'art. 87 del
 d.P.R.  10  gennaio  1957,  n.  3  (Testo  unico  delle  disposizioni
 concernenti  lo  Statuto  degli  impiegati  civili  dello  Stato),  e
 dall'art.  276  del regio-decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento
 giudiziario), nell'interpretazione datane dalla Corte  di  cassazione
 nella  formulazione  del  principio  di  diritto  espresso in sede di
 rinvio.
    Piu'  precisamente,  secondo quanto riferisce il giudice a quo, la
 Corte di cassazione ha affermato che "poiche',  ai  sensi  del  terzo
 comma dell'art. 276 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511 (recte: R.D. 30
 gennaio  1941, n. 12), sono applicabili ai magistrati le disposizioni
 generali relative agli impiegati dello Stato, che non siano contrarie
 ai  regolamenti  dell'Ordinamento  giudiziario,  la   riabilitazione,
 prevista dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e' applicabile
 ai  magistrati, costituendo un istituto di carattere generale che non
 si pone in contrasto ne' con le norme  dell'Ordinamento  giudiziario,
 ne'  con lo status riconosciuto ai giudici". Su questa base, continua
 il giudice rimettente, la stessa Corte di cassazione ha  operato  una
 "interpretazione  adeguatrice",  volta  a  dare una "concreta portata
 giuridica" alle disposizioni impugnate,  a  seguito  della  quale  la
 Sezione  disciplinare del C.S.M. dovrebbe eventualmente dichiarare la
 riabilitazione  del  magistrato  dopo  aver  chiesto  il  parere  del
 Consiglio giudiziario, in luogo della qualifica di "ottimo" richiesta
 dal ricordato art. 87 per gli impiegati statali.
   Il  giudice a quo - tenuto conto della vincolativita' del principio
 di diritto per il giudice di rinvio e tenuto conto del fatto che,  in
 ragione della consolidata estensione ai magistrati di norme di favore
 dettate   dal  legislatore  per  i  procedimenti  disciplinari  degli
 impiegati civili dello Stato (ad es., le norme sulla  revisione,  sul
 condono),  si  e'  di  fronte a un vero e proprio "diritto vivente" -
 dubita che, tra  i  possibili  significati  riferibili  al  combinato
 disposto  impugnato,  quello  accolto dalla Corte di cassazione possa
 essere viziato d'incostituzionalita': a) "per contrasto con gli artt.
 101, comma secondo, 104, comma primo, e 105 della Costituzione, nella
 parte  in  cui,  mediante  adattamenti  procedimentali,   attribuisce
 competenza  al Consiglio giudiziario ad emettere un parere vincolante
 per  un  organo,  quale  la  Sezione  disciplinare,   avente   natura
 giurisdizionale";  b) "per contrasto con l'art. 3 della Costituzione,
 nella   parte   in   cui   la   predetta   interpretazione   equipara
 irragionevolmente situazioni profondamente diverse".
    In  linea generale, il giudice a quo precisa che l'interpretazione
 formulata dalla Corte di  cassazione  muove  dalla  premessa  che  la
 lacuna   derivante  dalla  mancata  previsione  della  riabilitazione
 nell'ordinamento giudiziario possa essere  colmata,  non  gia'  dalle
 omonime figure speciali previste dal codice penale (artt. 178 e 179),
 dal  codice civile (art. 466) e dalla legge fallimentare (artt. 142 e
 145 del r.d. n. 267 del  1942),  ma  dalla  riabilitazione  delineata
 dall'impugnato  art.  87  del d.P.R. n. 3 del 1957, che, ad avviso di
 quella Corte, e' un "istituto di carattere  generale".  Ed  e'  sulla
 base  di  tale presupposto che, in sede di rinvio, la predetta lacuna
 e' stata considerata colmabile in via interpretativa, anziche' essere
 ritenuta, anche nelle  particolari  forme  di  valutazione  implicate
 (giudizi  relativi  alla  qualifica  annuale),  la logica conseguenza
 della strutturazione dell'ordinamento  giudiziario  in  relazione  ai
 particolari  valori  costituzionali  rispetto  ai  quali  deve  esser
 improntato lo status del magistrato.
    2. - Venendo  alle  singole  questioni  di  costituzionalita',  il
 giudice  a  quo  osserva  che,  per  quanto possa spingersi in avanti
 l'applicazione dell'analogia e della interpretazione adeguatrice, non
 e'  comunque  possibile  oltrepassare  la   linea   che   separa   la
 giurisdizione   dalla  normazione:  l'art.  101  della  Costituzione,
 infatti, nel disporre la "riserva di giurisdizione", mentre,  per  un
 verso,  impedisce  di  invadere  lo  spazio idealmente riservato alla
 giurisdizione, per altro verso, vieta a quest'ultima  di  assumere  i
 connotati  sostanziali  della normazione e di eludere, in tal modo, i
 principi della soggezione del giudice alla  legge  e  della  funzione
 meramente  applicativa della giurisprudenza. E, continua il giudice a
 quo, sebbene tali principi, a seconda del  settore  in  cui  operano,
 oscillino  da  una  "stretta  legalita'"  (es.  campo  penale)  a una
 posizione  che  attribuisce  al   giudice   un   ruolo   di   ricerca
 dell'equilibrio  tra  gli interessi in gioco (es. diritto sindacale o
 di famiglia), non  va  dimenticato  che  in  materia  di  ordinamento
 giudiziario  e  di  status  dei giudici l'art. 108 della Costituzione
 prevede una riserva di legge. Sicche', quando la Corte di  cassazione
 interpreta  gli  articoli  impugnati  affermando  che  alla qualifica
 annuale di "ottimo" (ed evidentemente anche al parere  del  Consiglio
 di  amministrazione  e  a  quello  della  Commissione di disciplina),
 prevista  come  elemento  procedimentale  per  l'applicazione   della
 riabilitazione  agli  impiegati  civili  dello  Stato,  debba  essere
 equiparato, con riferimento  ai  giudici,  un  parere  del  Consiglio
 giudiziario,  richiesto  dalla  Sezione  disciplinare  del  Consiglio
 Superiore della Magistratura su istanza  di  parte  o  d'ufficio,  si
 sarebbe   realizzata,  ad  avviso  del  giudice  a  quo,  un'indebita
 integrazione normativa in una materia la cui disciplina e'  riservata
 al legislatore.
    Questa  invasione  del  campo  riservato  al legislatore comporta,
 sempre  secondo  il  giudice  a  quo,  una  serie  di   incongruenze.
 Innanzitutto,  l'interpretazione della Corte di cassazione verrebbe a
 conferire  una  competenza  in  materia  disciplinare   ai   Consigli
 giudiziari,  che  sono organi ausiliari del Consiglio superiore nella
 sua veste di organo  investito  di  funzioni  amministrative,  organo
 rispetto  al  quale,  come  ha riconosciuto codesta Corte, la Sezione
 disciplinare gode di una sua propria autonomia. In secondo luogo,  il
 parere   del   Consiglio   giudiziario  prefigurato  dalla  Corte  di
 cassazione si porrebbe in contrasto con il principio  di  completezza
 del  sistema  disciplinare previsto per i magistrati, in relazione al
 quale eventuali integrazioni sono possibili, in forza degli artt.  32
 e   34   del  R.D.L.  31  maggio  1946,  n.  511  (Guarentigie  della
 magistratura), soltanto attraverso il rinvio alle norme del codice di
 procedura penale approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398
 (rinvio che, se mai, imporrebbe di chiedere solamente il  parere  del
 Procuratore  generale). Infine, la Corte di cassazione, quando prende
 atto che non si possono  riprodurre  per  i  magistrati  gli  effetti
 previsti  per  la  riabilitazione  degli impiegati civili dello Stato
 (modifica  dei  giudizi   riportati   a   seguito   della   sanzione,
 possibilita'  di  ottenere  le promozioni ritardate per effetto delle
 stesse, recupero degli scatti di anzianita' perduti) e quando precisa
 che, essendo l'efficacia generale dell'istituto della  riabilitazione
 quella   di  far  cessare  le  conseguenze  negative  delle  sanzioni
 disciplinari, dovrebbero venir meno nel caso di  specie  gli  effetti
 della  censura  (quali  l'ineleggibilita'  a componente del Consiglio
 Superiore  della  Magistratura  e  la  valutazione   della   sanzione
 disciplinare  in sede di progressione in carriera, di trasferimento e
 di conferimento degli incarichi direttivi), non procede,  secondo  il
 giudice   a   quo,   ad  esaminare  quali  siano  gli  effetti  della
 riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957 al fine
 di verificare se questi siano compatibili, ai sensi dell'art. 276 del
 r.d.  n.  12  del  1941, con lo status di magistrato, ma introduce in
 realta' un diverso istituto,  se  pure  recante  lo  stesso  nome  di
 riabilitazione,  dotato  di  effetti suoi propri, non rinvenibili nel
 citato art. 87. Tali "adattamenti" normativi, conclude il  giudice  a
 quo,  non sono consentiti alla Corte di cassazione (la quale non puo'
 oltrepassare i confini di un'interpretazione adeguatrice), ma possono
 rientrare,  in  certi  casi,  soltanto   nei   poteri   della   Corte
 costituzionale,  le  cui  sentenze,  secondo  il  giudice rimettente,
 entrano a pieno titolo tra le fonti del diritto sotto piu' profili.
    3.- L'interpretazione delle norme impugnate da parte  della  Corte
 di cassazione comporta ulteriori profili di dubbia compatibilita' con
 la Costituzione.
    Sotto  l'aspetto  sostanziale,  il  giudice  a  quo osserva che la
 riabilitazione prevista  dall'art.  87  del  d.P.R.  n.  3  del  1957
 dovrebbe   farsi   rientrare   fra   i   provvedimenti  discrezionali
 appartenenti alla categoria della revoca per motivi di  opportunita',
 comportanti  una valutazione comparativa fra l'interesse del soggetto
 punito, la gravita' della violazione rispetto al  pubblico  interesse
 perseguito  dalla  pubblica  amministrazione  e le conseguenze che la
 riabilitazione  produrrebbe   sull'ordine,   la   disciplina   e   la
 produttivita'   del   lavoro   negli   uffici.  A  tale  valutazione,
 strettamente    legata    al    principio    del    buon    andamento
 dell'amministrazione  (art. 97 della Costituzione), sono funzionali i
 criteri  cui   devono   attenersi   i   pareri   del   Consiglio   di
 amministrazione  (massimo  organo  collegiale  dell'ordinamento delle
 singole amministrazioni) e della Commissione di  disciplina,  nonche'
 la  deliberazione  del  Ministro.  Tuttavia,  in considerazione della
 natura giurisdizionale dei provvedimenti della  Sezione  disciplinare
 del  Consiglio  Superiore della Magistratura, piu' volte riconosciuta
 dalla stessa Corte costituzionale, si deve ritenere che tale Sezione,
 dovendo applicare le regole  proprie  della  giurisdizione,  esercita
 poteri  palesemente  privi  di discrezionalita', tanto che in materia
 disciplinare le regole del giudizio richiamate sono  quelle  previste
 nel  codice  di procedura penale, per le quali si e' persino dubitato
 che possa parlarsi di vera e propria discrezionalita'giudiziale.
    Alla luce di queste considerazioni,  secondo  il  giudice  a  quo,
 l'interpretazione   fornita   dalla   Corte   di  cassazione  sarebbe
 portatrice  di  ulteriori  incongruenze.  Innanzitutto,  la   Sezione
 disciplinare  ritiene che, in caso di parere favorevole del Consiglio
 giudiziario,  ad  essa  non  resterebbe  altro   che   concedere   la
 riabilitazione,  salvo  il generale potere di rifiuto di applicazione
 per meri vizi di legittimita', dal momento che i contenuti del parere
 costituirebbero gli unici motivi da porre a  base  della  susseguente
 decisione.    In    tal    modo,    la   riabilitazione   configurata
 dall'interpretazione  della  Corte  di  cassazione  risulterebbe   in
 realta'  ben  diversa da quella prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3
 del  1957,  per  divenire,  piuttosto,  un   provvedimento   il   cui
 ottenimento,  in  analogia  con quanto previsto dagli artt. 178 e 179
 del codice penale, sarebbe il contenuto di un diritto  soggettivo  di
 chi   abbia   riportato   la   sanzione   disciplinare.  Inoltre,  in
 considerazione   del   carattere   amministrativo    del    Consiglio
 giudiziario,  la  Corte  di  cassazione,  allo  scopo  di  salvare la
 discrezionalita' del provvedimento di riabilitazione, avrebbe  dovuto
 riconoscere  in  materia  la  competenza  del  plenum  del  Consiglio
 Superiore della Magistratura. Ma, poiche' cio' e' sicuramente escluso
 dall'essere il "principio di diritto" indirizzato  al  giudice  della
 deontologia  dei magistrati e poiche', per le ragioni sopra indicate,
 quello del Consiglio giudiziario dev'esser configurato come un parere
 sul  merito  (in  senso  amministrativo)  di  tipo   vincolante,   ne
 risulterebbero   lese  sia  le  prerogative  spettanti  alla  Sezione
 disciplinare, sia l'indipendenza della  giurisdizione  e  dell'ordine
 giudiziario.
    Sotto i profili indicati, le norme impugnate, nel significato loro
 attribuito  dalla  Corte  di  cassazione,  sembrano  al giudice a quo
 contrastanti con: a) l'art. 101, secondo comma,  della  Costituzione,
 che  garantisce  l'indipendenza dei giudici come contenuto essenziale
 della soggezione degli stessi alla sola legge; b) l'art.  104,  primo
 comma,  della  Costituzione,  che tutela l'indipendenza ordinamentale
 della magistratura; c) l'art. 105 della Costituzione, che attribuisce
 in  via  esclusiva  al  Consiglio   Superiore   della   Magistratura,
 attraverso   la   Sezione  competente,  i  provvedimenti  in  materia
 disciplinare, i quali, pertanto, non possono essere vanificati ad op-
 era di un organo amministrativo.
    4. - Infine, l'interpretazione data dalla Corte di cassazione alle
 disposizioni impugnate  si  pone,  in  riferimento  al  principio  di
 eguaglianza  garantito  dall'art. 3 della Costituzione, non gia' come
 la conseguenza dell'eliminazione di un'ingiustificata  situazione  di
 disparita',  secondo  quanto mostra di ritenere quella Corte, ma come
 il  risultato  di   un'irragionevole   equiparazione   di   posizioni
 profondamente  diverse. Tale assunto del giudice a quo e' sorretto da
 un duplice ordine di argomentazioni.
    Sotto un primo profilo, il procedimento disciplinare previsto  per
 i  magistrati  appare  sensibilmente  differente  rispetto  a  quello
 esistente  per  il  pubblico  impiego:  come  questo  e'  di   natura
 amministrativa  ed e' dotato di garanzie molto limitate, cosi' quello
 e'  assistito  da  un  rigido  garantismo,  tanto   che,   a   tutela
 dell'indipendenza    interna    ed   esterna   del   magistrato,   e'
 caratterizzato dalle forme e dai principi  del  processo  penale,  e'
 concluso  da  una  decisione  denominata sentenza, che e' soggetta ad
 impugnazione presso le Sezioni unite della Corte di cassazione e a un
 procedimento di revisione del tipo di quello disciplinato dal  codice
 di  procedura  penale.  Profondamente  diversi  sono,  inoltre, i due
 sistemi sanzionatori:  mentre  quello  stabilito  per  gli  impiegati
 civili dello Stato prevede varie sanzioni (riduzione dello stipendio,
 sospensione   della  qualifica,  destituzione)  come  conseguenza  di
 altrettante  e  determinate  violazioni,  quello  predisposto  per  i
 magistrati  e'  dato, invece, da un'unica norma (art.  18 della legge
 sulle guarentigie), per la quale, in dipendenza della gravita'  della
 violazione, possono seguire varie sanzioni.
    Tali differenze, continua il giudice a quo, attengono a ragioni di
 fondo,  che trovano espressione negli artt. 101, 107, 104 e 105 della
 Costituzione, concernenti la particolare configurazione del  rapporto
 di impiego del magistrato. Sotto questo profilo, viene in evidenza la
 netta  differenza tra il rapporto di servizio dei dipendenti pubblici
 e quello dei giudici, che  si  traduce  nel  diverso  fondamento  del
 relativo potere disciplinare. Il rapporto di pubblico impiego ha come
 norma  costituzionale di riferimento l'art. 97 della Costituzione, il
 quale,  oltre  ad essere compatibile con un'organizzazione gerarchica
 diretta   ad   assicurare   il   buon   andamento   della    pubblica
 amministrazione,     richiede     al    funzionario    amministrativo
 l'espletamento di una funzione di comparazione fra interessi diversi,
 che e' normalmente esclusa nell'esercizio della giurisdizione e,  nei
 rari  casi in cui occorre, avviene pur sempre fra interessi dei quali
 il giudice non e' in alcuna  parte  il  portatore.  Conseguentemente,
 continua  il  giudice  a  quo, mentre il potere disciplinare relativo
 agli  impiegati  pubblici  e'  fondato  sul  rapporto  di  supremazia
 speciale   spettante   all'amministrazionedi   appartenenza,   quello
 attinente ai magistrati non puo' avere lo stesso fondamento,  poiche'
 la  giurisdizione,  diversamente  dall'amministrazione,  non comporta
 affatto dipendenza e non afferma  un  fine  suo  proprio,  ma  tutela
 direttamente i valori dell'ordinamento giuridico generale.
    Cio'   spiega,   ad   avviso   del  giudice  a  quo,  le  numerose
 particolarita' degli  aspetti,  anche  sanzionatori,  concernenti  il
 procedimento  disciplinare  previsto  per  i  magistrati.  Fra queste
 particolarita' vanno  sottolineate  l'integrazione  giurisprudenziale
 dell'unica  fattispecie  sostanziale,  la relativa non sindacabilita'
 del merito dei provvedimenti adottati dalla Sezione disciplinare,  la
 rilevanza  data  al  trasferimento  d'ufficio,  alla  rimozione, alla
 destituzione  senza  colpa  in  funzione  della  credibilita'   della
 giurisdizione   e,  infine,  alla  sostanziale  assenza  di  sanzioni
 economiche e di carriera. E, soprattutto,  quelle  particolarita'  si
 riflettono,  per  quanto  riguarda  specificamente  la riabilitazione
 prevista dall'art.  87,  nella  (necessaria)  assenza  di  qualifiche
 annuali  per  i dirigenti degli uffici (funzionale, per i magistrati,
 al valore dell'indipendenza interna), qualifiche  che  sono,  invece,
 previste  per  gli  altri  impiegati  come  espressione  del rapporto
 gerarchico.
    Infine,  riguardo  alle  diversita'  delle  sanzioni  disciplinari
 ritenute   espressive   delle  diversita'  di  status  riferibili  ai
 magistrati e agli impiegati pubblici, il giudice a quo  individua  il
 piu'  rilevante  sintomo  dell'irragionevolezza  dell'interpretazione
 data  dalla  Corte  di  cassazione   alle   norme   impugnate   nella
 considerazione  degli  effetti collegati all'estensione ai magistrati
 della riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957.
    Sotto questo profilo, il giudice a quo  sottolinea,  innanzitutto,
 che  stabilire,  in  via  analogica,  che la Sezione disciplinare del
 Consiglio Superiore della Magistratura possa rimuovere,  in  sede  di
 applicazione   della   suddetta  riabilitazione,  gli  effetti  della
 ritardata    progressione    in    carriera    significa     produrre
 un'irragionevole  interferenza  sul  procedimento  di riesame per una
 nuova valutazione, previsto dall'art. 2 della legge n. 570 del 1966 e
 dall'art. 6 della legge n. 831 del 1973, che e' attribuito al  plenum
 del   Consiglio   Superiore   stesso,  previo  parere  del  Consiglio
 giudiziario (e non, come per gli impiegati pubblici, previo parere di
 organi  gerarchicamente   sovraordinati,   come   il   Consiglio   di
 amministrazione,  o di carattere amministrativo disciplinare, come la
 Commissione  di  disciplina).  Cio'  dimostra,  secondo  il   giudice
 rimettente,  che  nel  rapporto  d'impiego  dei magistrati sussistono
 strumenti analoghi a quello della riabilitazione piu' in  armonia  di
 quest'ultima con le particolarita' del relativo rapporto di servizio,
 sicche'  ove  anche  la  riabilitazione  fosse  estesa ai giudici, si
 produrrebbe  un trattamento di irrazionale maggior favore a vantaggio
 dei giudici stessi.
    In  secondo  luogo,  la  riabilitazione,  secondo   una   generica
 affermazione  della  Corte di cassazione, potrebbe incidere anche sul
 trasferimento di ufficio. Ma,  osserva  il  giudice  a  quo,  poiche'
 quest'ultimo   consegue   a   una   perdita   di  credibilita'  o  di
 affidabilita' che puo'  essere  connessa  tanto  alla  violazione  di
 regole di deontologia professionale, quanto ad altre cause non legate
 a  comportamenti  colpevoli,  prevedere  che  la riabilitazione possa
 rendere inefficace il trasferimento d'ufficio solo  se  derivante  da
 illecito   disciplinare,   e  non  negli  altri  casi,  comporta  una
 violazione del principio di eguaglianza, che preclude di trattare  in
 modo piu' grave situazioni in cui il magistrato non versi in colpa.
    Da  ultimo, il giudice a quo nega che si possa rinvenire una eadem
 ratio anche in ordine alla cancellazione  degli  effetti  conseguenti
 alla  sanzione  accessoria  della  ineleggibilita'  a  componente del
 Consiglio Superiore della Magistratura e in ordine all'incidenza  sul
 conferimento  di incarichi direttivi. Infatti, mentre quest'ultimo e'
 propriamente un munus che non rientra nel concetto di carriera  o  di
 status  e  che non ha riscontro nella pubblica amministrazione (tanto
 che l'incarico puo' cessare, di norma, solo per spontanea domanda  di
 tramutamento),  l'ineleggibilita', invece, non puo' essere paragonata
 agli effetti delle sanzioni relative al pubblico  impiegato,  poiche'
 essa  ha la sua razionale giustificazione nel mero fine di precludere
 al giudice che e' stato censurato l'accesso a un organo di  rilevanza
 costituzionale  che  ha  tra  i suoi compiti quello di riaffermare la
 correttezza deontologica dei magistrati.
                         Considerato in diritto
    1. - Investita  di  un  procedimento  disciplinare  a  carico  del
 magistrato   d'appello   Giuseppe   Renato  Croce  a  seguito  di  un
 annullamento  con   rinvio   di   una   sua   stessa   pronunzia   di
 inammissibilita'  operato  dalla  Corte di cassazione - Sezioni unite
 civili,  la  Sezione  disciplinare  del  Consiglio  Superiore   della
 Magistratura  ha  sollevato  questione di legittimita' costituzionale
 del combinato disposto formato dall'art. 87  del  d.P.R.  10  gennaio
 1957,  n.  3  (Testo  unico delle disposizioni concernenti lo statuto
 degli impiegati civili dello Stato) e dell'art. 276 del regio decreto
 30 gennaio 1941,  n.  12  (Ordinamento  giudiziario),  dal  quale  si
 desume,  secondo  la  Corte  di  cassazione,  il principio di diritto
 relativo    all'estensione    ai    giudici    dell'istituto    della
 riabilitazione,  come  previsto  in caso di condanna nei procedimenti
 disciplinari posti in essere a carico degli  impiegati  civili  dello
 Stato.   Piu'   precisamente,   ad   avviso   del   giudice   a  quo,
 l'applicabilita'  ai   magistrati   della   riabilitazione   prevista
 dall'art.  87  del  d.P.R.  n.  3  del 1957 - basata sul rilievo che,
 trattandosi di un istituto di carattere generale non contrastante con
 le norme dell'ordinamento giudiziario e con lo status riconosciuto ai
 giudici, rientrerebbe tra "le  disposizioni  generali  relative  agli
 impiegati  civili  dello  Stato",  estensibili  ai  giudici  ai sensi
 dell'art. 276, terzo comma, del regio decreto n. 12  del  1941  -  si
 porrebbe in conflitto con le seguenti disposizioni costituzionali:
       a)  art.  101,  secondo  comma,  della Costituzione, che, nello
 stabilire che i giudici sono soggetti soltanto  alla  legge,  dispone
 una "riserva di giurisdizione", la quale precluderebbe ai magistrati,
 in sede di interpretazione e di applicazione delle leggi, di porre in
 essere  attivita'  sostanzialmente normative, contrariamente a quanto
 nel caso avrebbe  compiuto  la  Corte  di  cassazione,  allorche'  ha
 attribuito  ai  Consigli  giudiziari poteri nuovi e ha istituito sub-
 procedimenti non previsti dalle leggi;
       b) artt. 101 e  104  della  Costituzione,  che,  nel  garantire
 l'indipendenza  della  magistratura tanto come potere investito della
 funzione giurisdizionale quanto come ordine autonomo, vieterebbero di
 applicare ai magistrati un istituto, come la predetta riabilitazione,
 il quale avrebbe uno spiccato carattere discrezionale -  finalizzato,
 per  di  piu',  all'interesse  particolare  del  buon andamento della
 pubblica  amministrazione  -  e  comporterebbe,  cosi'  come  risulta
 delineato    nell'interpretazione    contestata,    che   un   organo
 giurisdizionale, la Sezione disciplinare, sia  sottoposto  al  parere
 praticamente  vincolante  di  un  organo amministrativo, il Consiglio
 giudiziario;
       c) art. 105 della Costituzione, il  quale,  nell'attribuire  al
 Consiglio  Superiore  della  Magistratura  il potere disciplinare nei
 riguardi  dei  giudici,  precluderebbe  di  riconoscere  ai  Consigli
 giudiziari  un  parere  praticamente  vincolante  in  relazione  alle
 decisioni della Sezione disciplinare a pena  della  violazione  della
 competenza in materia disciplinare attribuita alla Sezione stessa;
       d)  art.  3 della Costituzione, che, nel vietare ingiustificate
 disparita' di trattamento e irragionevoli parificazioni di  posizioni
 obiettivamente     differenziate,    impedirebbe    di    equiparare,
 contrariamente a quanto sostenuto nell'interpretazione contestata, la
 posizione  degli  impiegati  civili  dello  Stato  e  lo  status  dei
 magistrati,    status   che,   ad   avviso   del   giudice   a   quo,
 giustificherebbe,  in  ragione  delle   diversita'   attinenti   alla
 configurazione  del  procedimento  disciplinare  e  alla  natura  del
 rapporto di servizio relativi alle categorie considerate, la  mancata
 previsione   per   i   magistrati  di  un  istituto  del  tipo  della
 riabilitazione regolata dall'impugnato art. 87.
    2. - La questione va  accolta  in  riferimento  all'art.  3  della
 Costituzione,  dal  momento  che la specificita' costituzionale dello
 status  del  magistrato,  che  si  riverbera   sulla   configurazione
 legislativa  del  procedimento  disciplinare  e,  quindi,  sul regime
 normativo degli atti  incidenti  sulle  sanzioni  irrogate  con  quel
 procedimento,   impedisce   di  considerare  le  situazioni  poste  a
 confronto come omogenee e  preclude,  pertanto,  la  possibilita'  di
 un'automatica    estensione    ai    giudici    dell'istituto   della
 riabilitazione previsto per gli impiegati civili dello Stato.
    2.1. - Come questa Corte ha piu'  volte  affermato,  non  si  puo'
 negare  che  la  Costituzione,  anche  sotto  profili  attinenti alla
 materia sottoposta al presente giudizio, stabilisce principi  comuni,
 valevoli tanto per il pubblico impiegato quanto per il magistrato. In
 tema  di  responsabilita'  dei pubblici funzionari, questa Corte, sin
 dalla sentenza n. 2 del  1968,  ha  affermato  che  l'art.  28  della
 Costituzione  pone  principi  applicabili a tutti coloro che svolgono
 attivita' statali, inclusi i magistrati. E, con specifico riferimento
 al procedimento disciplinare, la stessa Corte (v. sent.  n.  145  del
 1976)  ha  affermato che, tanto per i funzionari statali quanto per i
 magistrati, quel procedimento dev'esser legislativamente  determinato
 sulla  base  di  una  valutazione  comparativa  di  due  contrapposti
 interessi: il prestigio della funzione esercitata e una giusta tutela
 dei diritti dei singoli dipendenti pubblici.
    Tuttavia,  nel  medesimo  tempo,  questa Corte ha precisato che il
 comune  aspetto  di  fondo,  dipendente  dal  fatto  che  ambedue  le
 categorie interessate sono legate da un rapporto di servizio pubblico
 con  lo  Stato  e  svolgono attivita' in nome e per conto dello Stato
 medesimo,  non  impedisce  e,  anzi,   impone   al   legislatore   di
 considerare,  nell'ambito di un esercizio non irragionevole della sua
 discrezionalita'  politica,  le  differenze  e  le  peculiarita'  che
 debbono  indurre  a disciplinare diversamente, sotto vari aspetti, lo
 status e i compiti dei  magistrati  rispetto  a  quelli  degli  altri
 dipendenti  pubblici.  Un  trattamento  differenziato dei giudici e',
 infatti, imposto dalla stessa Costituzione, la quale,  agli  articoli
 da  101 a 113, prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare, a
 garanzia dell'autonomia  e  dell'imparzialita'  di  una  funzione  di
 vitale  importanza  per  l'esistenza  e  l'attuazione di uno Stato di
 diritto,  la  piu'  ampia  tutela  dell'indipendenza   dei   giudici,
 considerati sia come singoli soggetti sia come ordine giudiziario.
    2.2. - A questi principi costituzionali, che comportano momenti di
 disciplina comune e momenti di differenziazione, il legislatore si e'
 essenzialmente   attenuto   allorche'  ha  regolato  il  procedimento
 disciplinare per i dipendenti civili  dello  Stato  e  quello  per  i
 magistrati.
    Il fondamento costituzionale di entrambi i procedimenti, come s'e'
 gia'   precisato,  e'  il  medesimo:  assicurare,  nel  rispetto  del
 principio di legalita', l'interesse  pubblico,  riconosciuto  in  via
 generale  dall'art.  97  della  Costituzione,  al  buon  andamento  e
 all'imparzialita' delle funzioni statali (v. sentt. nn. 86 del 1982 e
 18 del 1989)  in  bilanciamento  con  i  diritti,  costituzionalmente
 rilevanti,  dei singoli dipendenti (v. sent. n. 145 del 1976). Ma, in
 relazione ai magistrati, l'uno e l'altro  termine  del  bilanciamento
 assumono  una qualificazione ulteriore del tutto peculiare, dovuta al
 fatto  che,  per  un  verso,  l'interesse  pubblico  sopra  enunciato
 consiste  in  tal  caso  nell'assicurazione  del  regolare e corretto
 svolgimento della  funzione  giurisdizionale,  vale  a  dire  di  una
 funzione  che  gode  in  Costituzione  di  una  speciale  garanzia di
 indipendenza e di autonomia rispetto a ogni altra  funzione  pubblica
 (art.  101,  secondo  comma:  "I  giudici sono soggetti soltanto alla
 legge"; art. 104, primo comma: "La magistratura costituisce un ordine
 autonomo e indipendente da ogni altro potere"); e, per  altro  verso,
 l'interesse  costituzionale  alla  tutela  dei  diritti  dei  singoli
 dipendenti pubblici dev'essere commisurato,  nel  caso  dei  giudici,
 alla  salvaguardia  piu' rigorosa del dovere di imparzialita' e della
 connessa esigenza di credibilita' che si collegano  all'esercizio  di
 una  funzione  essenziale,  come quella che la Costituzione affida ai
 magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto  (v.  spec.
 sent. n. 145 del 1976, nonche' sent. n. 100 del 1981).
    Queste   peculiarita'  costituzionali  hanno  avuto  un'attuazione
 legislativa  attraverso  le  norme  che  regolano   il   procedimento
 disciplinare per i magistrati, le quali sono sostanzialmente difformi
 da quelle che regolano il procedimento disciplinare per gli impiegati
 civili dello Stato. Quest'ultimo, infatti, e' configurato dalle leggi
 vigenti  come  un  procedimento  amministrativo, che, sebbene tenda a
 riconoscere   uno   spazio   sempre   maggiore    a    principi    di
 razionalizzazione delle procedure ispirati ai modelli giurisdizionali
 (v.  sentt.  nn. 971 del 1988, nonche' sentt. nn. 40 e 158 del 1990),
 sfocia in un provvedimento di carattere non giurisdizionale, adottato
 da un'autorita' amministrativa superiore e soggetto al  regime  delle
 impugnazioni  proprio  degli  atti  amministrativi.  Il  procedimento
 disciplinare legislativamente  previsto  per  i  magistrati,  invece,
 consiste   in   "un   giudizio   che   si   svolge   secondo   moduli
 giurisdizionali", al quale sono applicabili, in  quanto  compatibili,
 le  disposizioni  sul  processo  penale  relative all'istruzione e al
 dibattimento; la cui decisione e' demandata a un collegio composto in
 prevalenza da "pari" ed espressione, comunque, di un organo, quale il
 Consiglio Superiore della Magistratura, appositamente istituito dalla
 Costituzione a tutela dell'indipendenza dei giudici e  dell'autonomia
 dell'ordine  giudiziario  (v.  sent.  n.  145  del  1976);  e  la cui
 pronunzia e' sottoposta a un regime di  impugnazione  costituito  dal
 ricorso  diretto  alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, oltre
 ad essere soggetta a revisione secondo modalita' e a  condizioni  non
 dissimili  da  quelle  previste  per  l'analogo  istituto processuale
 penale.
    In  definitiva,  la   scelta   legislativa   di   configurare   il
 procedimento  disciplinare  per  i  magistrati  secondo  paradigmi di
 carattere  giurisdizionale  mostra   chiaramente   che   quest'ultimo
 costituisce  un procedimento strutturalmente e funzionalmente diverso
 da quello previsto per gli impiegati civili  dello  Stato.  In  esso,
 infatti,  come questa Corte ha gia' avuto modo di precisare (v. sent.
 n. 145 del 1976), la  scelta  di  moduli  giurisdizionali  -  pur  se
 indebolita  nella legislazione vigente da una grande latitudine della
 previsione degli illeciti disciplinari e, consequenzialmente,  da  un
 ampio  margine  di  discrezionalita' dell'organo decidente - risponde
 "all'esigenza di una piu' rigorosa tutela del  prestigio  dell'ordine
 giudiziario,  che  rientra  senza  dubbio  tra  i piu' rilevanti beni
 costituzionalmente protetti".
    2.3.  -  Le  differenze  ora  sottolineate  sussistenti   tra   il
 procedimento disciplinare per i magistrati e quello per gli impiegati
 civili  dello  Stato  si  riflettono inevitabilmente sulla disciplina
 legislativa degli istituti, tra i quali  rientra  la  riabilitazione,
 destinati  a  incidere  sulle  sanzioni disciplinari al fine di farne
 cessare gli effetti.
    Nel regolare la riabilitazione a  favore  degli  impiegati  civili
 dello Stato colpiti da sanzione disciplinare, l'art. 87 del d.P.R. 10
 gennaio  1957, n. 3, attribuisce ad essa la configurazione di un atto
 amministrativo. La riabilitazione, infatti, e' adottata  con  decreto
 ministeriale,   sentiti   il   Consiglio   di  amministrazione  e  la
 Commissione di disciplina; puo' essere concessa all'impiegato rimasto
 in servizio a partire dal compimento del secondo anno successivo alla
 data  dell'atto  con  cui  fu  inflitta  la  sanzione   disciplinare,
 sempreche'  l'impiegato  abbia  riportato  negli  ultimi  due anni la
 qualifica di "ottimo"; puo' render nulli gli effetti della  sanzione,
 con esclusione di qualsiasi efficacia retroattiva, ed, eventualmente,
 puo'   comportare  la  modifica  dei  giudizi  complessivi  riportati
 dall'impiegato dopo la  sanzione  e  in  conseguenza  di  questa.  Si
 tratta,  insomma,  di un atto amministrativo di perdono, non legato a
 eventi  eccezionali  o  straordinari,  con   il   quale   l'autorita'
 amministrativa  di  vertice  nel  settore  considerato, in base a una
 valutazione complessiva dell'interesse della pubblica amministrazione
 da  essa  diretta,  decide  di cancellare gli effetti di una sanzione
 disciplinare   a   seguito   della    buona    condotta    dimostrata
 successivamente  dall'impiegato  che era stato colpito dalla sanzione
 stessa.
    Cosi' come e' regolata dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del  1957,  la
 riabilitazione  non  puo' essere automaticamente estesa alle sanzioni
 disciplinari irrogate ai magistrati in conseguenza  del  ben  diverso
 procedimento  previsto per questi ultimi. Considerata l'eterogeneita'
 della  disciplina  legislativa  dell'uno  e  dell'altro  procedimento
 disciplinare,  il  trapianto  della  riabilitazione  prevista per gli
 impiegati civili dello Stato nel sistema disciplinare stabilito per i
 magistrati da' luogo a un irragionevole innesto e, come tale, si pone
 in manifesto contrasto con il principio disposto  dall'art.  3  della
 Costituzione.
    3.  -  Del resto, se si puo' ammettere che la riabilitazione, come
 istituto in se' considerato, sia espressione di un principio generale
 e di un'esigenza che,  ancorche'  non  rispondenti  ad  alcuna  norma
 costituzionale,    possono   comunque   trovar   applicazione   anche
 all'interno  di  un  sistema  disciplinare   ispirato   a   paradigmi
 giurisdizionali, come quello previsto per i magistrati, cio' non puo'
 significare  affatto che la raffigurazione di quell'istituto generale
 sia perfettamente rispecchiata nella particolare fattispecie regolata
 dall'impugnato art. 87. Infatti, se e' ben vero che in ciascuna delle
 forme  di  riabilitazione   previste   nell'ordinamento   vigente   -
 segnatamente  sia  nella  riabilitazione  penale (art. 178 c.p.) e in
 quella civile (art. 466 c.c.), sia nella riabilitazione dei  pubblici
 impiegati (art. 87, del d.P.R. n. 3 del 1957) e in quella del fallito
 (artt.  142-145  del  regio  decreto  16  marzo  1942,  n.  267) - si
 riscontra un  nucleo  normativo  comune,  tanto  con  riferimento  ai
 presupposti per l'applicazione (decorso del tempo e valutazione della
 buona  condotta)  quanto  con riferimento agli effetti (estinzione di
 specifiche incapacita' giuridiche e  di  effetti  ulteriori  rispetto
 alla  sanzione  principale  della  condanna),  non  e'  meno vero che
 ciascuna delle forme  di  riabilitazione  indicate  costituiscono  un
 modello  a se', composto da una diversa combinazione e da una diversa
 determinazione degli elementi essenziali sopra ricordati. E non vi e'
 dubbio che la scelta di un modello ovvero di un altro e, persino,  la
 scelta  di  affidare  alla riabilitazione ovvero a meccanismi diversi
 l'eliminazione degli effetti ulteriori  della  condanna  disciplinare
 spettano  al  legislatore, il quale, nell'esercizio non irragionevole
 della sua discrezionalita' politica, deve valutare quale  istituto  o
 quale   modello   sia  piu'  coerente  con  il  sistema  disciplinare
 considerato.
    Le suesposte  considerazioni  portano,  dunque,  a  escludere  che
 l'art.  87  del  d.P.R.  n.  3  del  1957  possa  rientrare  tra  "le
 disposizioni generali relative agli impiegati  civili  dello  Stato",
 che,  in  quanto  non  contrarie  all'ordinamento  giudiziario  e non
 incompatibili  con  lo   status   riconosciuto   ai   giudici,   sono
 applicabili,  ai  sensi  dell'art.  276  del regio decreto 30 gennaio
 1941, n. 12, anche ai magistrati dell'ordine giudiziario.