ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma,
 n. 2 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo  unico
 delle  leggi  concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione
 degli stipendi, salari e  pensioni  dei  dipendenti  dalle  pubbliche
 Amministrazioni), in relazione all'art. 545, quarto comma, del codice
 di procedura civile, ordinanza emessa il 5 luglio 1989 dalla Corte di
 appello di Roma nel procedimento civile vertente tra la S.p.a. I.D.M.
 e  Napoli  Vincenzo, iscritta al n. 338 del registro ordinanze 1992 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  27,  prima
 serie speciale, dell'anno 1992;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 19 novembre 1992 il Giudice
 relatore Francesco Guizzi;
                           Ritenuto in fatto
    La S.p.a. I.D.M. impugnava avanti la Corte d'appello  di  Roma  la
 sentenza  del  Tribunale  con  cui, ai sensi dell'art. 1 del d.P.R. 5
 gennaio  1950,  n.  180,   era   stato   dichiarato   inefficace   il
 pignoramento,  da  essa effettuato presso terzi, delle somme dovute a
 titolo  d'indennita'  di fine rapporto di lavoro al proprio debitore,
 Napoli Vincenzo, gia' dipendente del Comune di Roma.
    La Corte d'Appello rilevava che, nel frattempo, era intervenuta la
 declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  2,  primo
 comma,  n. 3, del citato d.P.R. "nella parte in cui, in contrasto con
 l'art. 545, comma quarto, codice di procedura civile, non prevede  la
 pignorabilita'   e  la  sequestrabilita'  degli  stipendi,  salari  e
 retribuzioni corrisposti  da  altri  enti  diversi  dallo  Stato,  da
 aziende  e  imprese  di  cui all'art. 1 dello stesso d.P.R. fino alla
 concorrenza di un quinto per ogni altro credito vantato nei confronti
 del personale" (sent. n. 89 del 1987). E, conseguentemente, sollevava
 la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma,
 n.  2  (rectius,  n.  3),  nella  parte  in  cui   non   prevede   la
 pignorabilita', negli stessi limiti e per gli stessi tipi di crediti,
 delle  indennita'  per  cessazione  del  rapporto di lavoro dovute ai
 dipendenti degli enti di cui all'art. 1 del d.P.R. gia' menzionato.
    Ha osservato la Corte remittente che la norma  contrasterebbe  con
 l'art.  3  della  Costituzione  in  considerazione della sopravvenuta
 dilatazione del settore pubblico, i cui  dipendenti  fruiscono  della
 normativa  dettata  dal  d.P.R.  n.  180  del 1950, onde sarebbe oggi
 ingiustificata la diversita' di  disciplina  tra  le  due  classi  di
 dipendenti  (privati  e pubblici) in ordine alla aggredibilita' delle
 loro retribuzioni. Si' che, per le medesime ragioni  enunciate  dalla
 Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  89  del  1987,  la  norma
 impugnata sarebbe  in  contrasto  con  il  principio  di  uguaglianza
 enunciato dall'art. 3 della Costituzione.
    La  rilevanza  della  questione  risiederebbe  nel  fatto  che  la
 societa'  appellante  e'  creditrice   ordinaria   e,   dunque,   non
 rientrerebbe  nelle  categorie  dei  soggetti  privilegiati  indicati
 dall'art. 2, primo comma, n. 2 (rectius, n. 3), del d.P.R. n. 180. Il
 giudizio  di  costituzionalita'  si  renderebbe  quindi   necessario,
 poiche' la norma - quantunque parzialmente modificata dalla Corte con
 la sentenza n. 89 teste' citata - non consentirebbe il riferimento ai
 corrispettivi  dovuti  ai dipendenti per il caso della cessazione del
 rapporto di lavoro.
                        Considerato in diritto
    1. - Viene all'esame della Corte, con riferimento all'art. 3 della
 Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 2,  primo  comma, n. 2 (rectius, n. 3), del d.P.R. 5 gennaio 1950, n.
 180, in relazione all'art. 545, quarto comma, del codice di procedura
 civile, nella parte in cui  esclude,  per  i  dipendenti  degli  enti
 indicati  nell'art.  1 dello stesso decreto, la pignorabilita', anche
 per ogni altro credito, delle indennita' di fine rapporto  di  lavoro
 spettanti ai detti dipendenti.
    2. - La questione e' fondata.
    L'art.  545  del  codice  di procedura civile stabilisce, al terzo
 comma, che "le somme dovute da privati  a  titolo  di  stipendio,  di
 salario,  o  di  altre indennita' relative al rapporto di lavoro o di
 impiego, comprese quelle dovute a  causa  di  licenziamento,  possono
 essere  pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal
 Pretore". La disposizione prosegue, al quarto comma,  stabilendo  che
 "tali  somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i
 tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni,  ed  in  eguale
 misura per ogni altro credito". Le somme dovute dai privati datori di
 lavoro  a titolo di stipendio, di salario o di altre indennita' rela-
 tive al rapporto di lavoro sono  percio'  pignorabili,  nella  misura
 massima di un quinto, per ogni tipo di credito.
    Da  siffatto  regime  generale  si  discostava  tutto  il comparto
 dell'impiego pubblico (Stato, province, comuni, istituzioni pubbliche
 di assistenza e beneficenza  e  "qualsiasi  altro  ente  od  istituto
 pubblico   sottoposto   a   tutela,   od   anche   a  sola  vigilanza
 dell'amministrazionepubblica  e  le  imprese  concessionarie  di   un
 servizio  pubblico  di  comunicazione  o di trasporto"), per il quale
 l'art. 1 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, stabiliva la regola della
 normale  insequestrabilita',  impignorabilita'  e  incedibilita'   di
 stipendi,  salari,  pensioni ed altri emolumenti. Regola, questa, che
 conosceva soltanto le eccezioni stabilite dagli artt.  2  e  seguenti
 del decreto in esame.
    3.  -  I  limiti  al  pignoramento  degli emolumenti percepiti dai
 pubblici dipendenti hanno formato oggetto  di  numerose  pronunce  da
 parte  di  questa  Corte  che  ha volutamente allargato, in danno dei
 dipendenti pubblici, l'area dei crediti pignorabili.
   Una prima serie di interventi ha  riguardato,  in  particolare,  le
 retribuzioni  dei  pubblici  dipendenti.  La  sentenza n. 89 del 1987
 aveva aperto la breccia dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  2,  primo comma, n. 3, del d.P.R. n. 180, che, fissando il
 regime  di  ordinaria  impignorabilita'  e  insequestrabilita'  degli
 emolumenti  dei  dipendenti  pubblici, prevedeva l'aggredibilita' dei
 crediti da lavoro "fino alla concorrenza di  un  quinto  valutato  al
 netto  di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai
 comuni, facenti carico,  fin  dalla  loro  origine,  all'impiegato  o
 salariato".  E  pertanto  non  consentiva  -  contrariamente a quanto
 dispone, per il settore privato, il quarto comma  dell'art.  545  del
 codice di procedura civile - la pignorabilita' e la sequestrabilita',
 nella  stessa  misura, degli emolumenti dovuti da "altri enti diversi
 dallo Stato" per ogni altra  ragione  creditoria  diversa  da  quella
 fiscale.  La  successiva sentenza n. 878 del 1988 eliminava lo stesso
 privilegio ancora sussistente per i  dipendenti  dello  Stato.  E  la
 sentenza  n.  115  del  1990  affermava l'illegittimita' dell'art. 1,
 terzo comma, lettera b), della legge 27 maggio 1959, n.  324,  "nella
 parte  in  cui  non  prevedeva  la pignorabilita', sequestrabilita' e
 cedibilita' dell'indennita' integrativa speciale istituita  al  primo
 comma  dell'articolo,  fino  alla  concorrenza di un quinto, per ogni
 credito vantato nei confronti del personale" interessato.
    Una seconda serie di interventi (sentenze n. 1041 del 1988,  n.  5
 del  1987,  n.  209 del 1984) ha avuto ad oggetto, in particolare, le
 pensioni.
    In tale settore, d'indubbia peculiarita', la Corte:
       a)  ha  dichiarato  l'illegittimita'  delle  disposizioni   che
 escludevano  la  pignorabilita'  delle  pensioni, ma limitatamente ai
 crediti particolarmente qualificati, come quelli alimentari,  il  cui
 riconoscimento discende dall'art. 29 della Costituzione;
       b) ha tuttavia pienamente giustificato (sentenze n. 55 del 1991
 e  n.  231  del  1989) il regime generale dell'impignorabilita' delle
 pensioni, in tutti i settori lavorativi, in ossequio  alle  finalita'
 previdenziali che lo sorreggono.
    4.  - Chiamata ad affrontare per la prima volta la questione della
 sequestrabilita' e  pignorabilita'  della  cosiddetta  indennita'  di
 buonuscita, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 340 del 1990,
 non  ha  potuto  spingersi oltre i limiti del petitum. Trattandosi di
 decidere della questione di legittimita' costituzionale dell'art.  21
 del  d.P.R.  29  dicembre  1973,  n.  1032,  nella  parte  in cui non
 consentiva, negli stessi limiti stabiliti dall'art. 2, n. 1, del piu'
 volte citato d.P.R. n.  180,  la  sequestrabilita'  e  pignorabilita'
 dell'indennita'  di buonuscita erogata dall'ENPAS ai dipendenti dello
 Stato, per crediti alimentari, la Corte non e' andata al di la' della
 ratio posta a base delle  decisioni  in  materia  di  pignoramento  e
 sequestro delle pensioni, lasciando impregiudicata la questione della
 natura  retributiva o previdenziale delle, peraltro varie, indennita'
 di fine rapporto dei pubblici dipendenti.
    5. - La questione,  ora  chiaramente  proposta,  non  puo'  essere
 ulteriormente  differita.  Essa,  tuttavia,  trova una inequivocabile
 soluzione nella copiosa giurisprudenza di questa Corte.
    Ancora da ultimo, con le sentenze n. 63 del 1992, n. 319 del 1991,
 n. 86 del 1990, n. 471 del 1989, questa Corte  ha  ribadito,  invero,
 che  le  varie indennita' di fine rapporto del settore pubblico hanno
 natura mista: "retributiva, previdenziale e assistenziale".
    La parte, per cosi' dire, previdenziale e assistenziale,  "proprio
 per  tale natura, e' correlata a contribuzioni versate dai dipendenti
 e dalle stesse amministrazioni pubbliche" (sent. n. 86 del  1990)  e,
 come  tale,  non  e' assoggettabile ad imposta. Cosicche' la Corte ha
 potuto affermare, con le sentenze n. 877 del 1988, n. 400 del 1987, e
 n. 178 del 1986, che le indennita' di buonuscita erogate dall'ENPAS e
 dall'INADEL,  per  la  parte   afferente   in   via   virtuale   alla
 contribuzione dei dipendenti assicurati, non possono essere consider-
 ate  reddito  e,  quindi, non possono essere assoggettate ne' a IRPEF
 ne' ad imposta di ricchezza mobile o complementare. Una  conclusione,
 questa,   da  cui  consegue  che,  per  la  parte,  per  cosi'  dire,
 retributiva dell'indennita' di fine rapporto percepita dal dipendente
 pubblico, corrispondente al contributo  che  non  e'  a  suo  carico,
 l'imposizione fiscale e' pienamente legittima.
    Ora,   considerate  la  parvita'  della  componente  previdenziale
 dell'indennita'  di  fine  rapporto   rispetto   alla   sua   entita'
 complessiva, che pertanto assume sempre piu' le caratteristiche della
 retribuzione   differita,   e   la   limitata   misura   (un  quinto)
 dell'emolumento aggredibile con il sequestro  o  il  pignoramento  da
 parte  del  creditore  che agisce per il recupero del suo credito, si
 palesa in  tutta  la  sua  evidenza  l'ingiustificata  disparita'  di
 trattamento  fra  i dipendenti dei diversi comparti, a seconda che si
 applichi loro l'art. 2 del testo unico n.  180  del  1950  oppure  il
 quarto comma dell'art. 545 del codice di procedura civile. E, dunque,
 a seconda che si tratti di dipendenti pubblici o privati.
   Essendo    ormai   progressivamente   assimilabili   i   rispettivi
 trattamenti di fine rapporto - con la modesta eccezione di cui si  e'
 fatto  cenno - non v'e' piu' alcuna valida ragione giustificativa per
 mantenere la disparita' di trattamento in ordine alla  pignorabilita'
 ed  anche  alla  sequestrabilita'  della  indennita' di fine rapporto
 percepita dai lavoratori dei due comparti, accogliendo  la  questione
 di  costituzionalita'  dell'art.  2,  primo comma, n. 3, del d.P.R. 5
 gennaio 1950, n. 180 (cosi' integrando il petitum del remittente).