ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 118 (Attuazione delle direttive n. 81/602/CEE, n. 85/358/CEE, n. 86/469/CEE, n. 88/146/CEE e n. 88/299/CEE relative al divieto di utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica e ad azione tireostatica nelle produzioni animali, nonche' alla ricerca di residui negli animali e nelle carni fresche), promosso con ordinanza emessa il 1 ottobre 1992 dal Tribunale di Mantova nel procedimento penale a carico di Pedrazzoli Maria, iscritta al n. 14 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1993; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Uditi nella camera di consiglio del 5 maggio 1993 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello; Ritenuto che nel corso di un procedimento penale a carico di persona imputata del reato previsto dall'art. 440 del codice penale, per avere,in qualita' di titolare di azienda agricola, "corrotto ed adulterato sostanze destinate all'alimentazione, nella specie carni bovine, prima che venissero distribuite per il consumo, in particolare somministrando ai bovini del proprio allevamento sostanze estrogene ed anabolizzanti al fine di ottenere un illecito accrescimento ponderale e cosi' rendendole pericolose per la salute pubblica", il Tribunale di Mantova ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 118; che il tribunale remittente osserva: a) che, nel caso specifico, la condotta incriminata e' consistita nella somministrazione agli animali di dietilstilbestrolo (D.E.S.), sostanza stilbenica; b) che, secondo quanto riferito in sede di perizia, la suddetta sostanza e' universalmente riconosciuta, dalla scienza medica, come fattore ad elevatissima azione cancerogenetica; c) che la condotta in giudizio deve ritenersi attualmente sanzionata esclusivamente dal denunziato art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992, il quale punisce a titolo di contravvenzione, con la pena dell'arresto da uno a tre anni e dell'ammenda da dieci a cento milioni di lire per ciascun animale trattato, il fatto di somministrare ad animali "da azienda" (quali definiti nell'art. 1 dello stesso decreto legislativo: animali allevati per essere destinati all'alimentazione umana), sotto qualunque forma e per qualunque via, sostanze stilbeniche; d) che, pertanto, stante il principio di specialita' di cui all' art. 15 del codice penale, la disposizione incriminatrice applicabile al fatto e' quella recata dalla norma denunziata, giacche' la somministrazione di prodotti stilbenici ad animali destinati all'alimentazione umana rientrerebbe nell'ambito della generale condotta di adulterazione di sostanze destinate all'alimentazione prima della distribuzione per il consumo (art. 440 c.p.), di cui costituirebbe appunto una specificazione; che, sulla base di tali rilievi, il tribunale remittente ritiene che la norma denunziata si ponga in contrasto con il principio di eguaglianza: il legislatore, con essa, per un verso avrebbe riservato ad una condotta specifica un trattamento punitivo ingiustificatamente favorevole rispetto a quello previsto, per analoghe condotte, dall'incriminazione del codice penale, per altro verso avrebbe introdotto, con siffatto trattamento di favore, un elemento di evidente irragionevolezza, avuto riguardo alla spiccata nocivita' delle sostanze stilbeniche, a fronte del permanere di un trattamento sanzionatorio piu' severo con riguardo a condotte di adulterazione attraverso l'impiego di additivi meno dannosi del D.E.S.; che e' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, tramite l'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo una pronuncia di inammissibilita' - per i profili che saranno in prosieguo specificati - o di infondatezza della questione. Considerato che l'eccezione di inammissibilita' della questione, sollevata dall'Avvocatura erariale, va disattesa sotto tutti i profili dedotti; che, infatti, per un primo profilo la valutazione in termini di minore gravita' complessiva del trattamento punitivo introdotto con l'art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992, rispetto a quello delineato dall'art. 440 del codice penale, in rapporto alla fattispecie concreta e in riferimento alla regola dell'applicazione della legge penale piu' favorevole all'imputato, a norma dell'art. 2 del codice penale, costituisce un enunciato - implicito - di ordine interpretativo che, in quanto attinente alla rilevanza in concreto della questione, compete al giudice a quo e non e' sindacabile da questa Corte se non nell'ipotesi di manifesta arbitrarieta' dell'interpretazione offerta (ex plurimis, sentenze nn. 238 e 103 del 1993), il che non si verifica nella specie; che, sotto altro profilo, l'assunto dell'Avvocatura circa l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale per cui sarebbe una disposizione diversa dall'art. 440 del codice penale a venire in gioco quale termine di comparazione della lamentata incostituzionalita', risulta non conferente, tenuto conto del rinvio, nella giurisprudenza richiamata dall'Avvocatura, a fattispecie rela- tive alla commercializzazione di sostanze alimentari adulterate, mentre il giudice a quo ha riguardo ad una differente ipotesi di adulterazione di dette sostanze prima della distribuzione per il consumo; che, infine, neppure puo' essere condivisa la tesi dell'irrilevanza della questione sotto il profilo del rispetto, da parte della norma denunziata, dei principi recati dalla normativa delegante - art. 2, lett d) e art. 65 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 - cosicche' dovrebbe essere, secondo l'Avvocatura, quest'ultima ad essere sottoposta a scrutinio di costituzionalita': difatti tale asserzione non rileva nel senso della inammissibilita' della questione, che e' proposta contro la norma da cui, direttamente ed immediatamente, deriva il trattamento penale che il remittente as- sume lesivo del precetto costituzionale; che, quanto al merito della questione, la prospettazione del giudice a quo si basa sulla premessa per cui, in relazione alla condotta di somministrazione di sostanze stilbeniche ad animali destinati all'alimentazione umana, alla disposizione incriminatrice dell'art. 440 del codice penale sarebbe succeduta quella dell'art. 3,comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992, ond'e' che, in applicazione del principio di specialita' di cui all'art. 15 del codice penale, solo la seconda troverebbe applicazione rispetto a quella condotta; che, in tal modo, si sarebbe creata una disparita' di trattamento, essendo punito con minor rigore, a termini della norma denunziata, chi somministra ad animali da allevamento sostanze cancerogene, come quelle stilbeniche, rispetto a chi effettua la somministrazione di altre - in ipotesi meno pericolose - sostanze, ed e' assoggettato alle pene previste dall'art. 440 del codice penale; che la premessa intepretativa del giudice a quo non puo' essere condivisa da questa Corte, in quanto le ricordate disposizioni incriminatrici sono diverse e presentano differenti ambiti applicativi, e cio' in ragione dei connotati fondamentali delle fattispecie penali in parola; che, in particolare, oltre alla diversita' di tipo di illecito (delitto e contravvenzione, rispettivamente) e al conseguente diverso atteggiarsi dell'elemento soggettivo richiesto nei due casi, la differente struttura delle due ipotesi incriminatrici in argomento si manifesta in primo luogo nella delimitazione e specificazione del requisito della condotta, che, nella fattispecie contravvenzionale denunziata, e' individuata dal legislatore attraverso l'indicazione operativa dalla semplice "somministrazione" di sostanze stilbeniche, con il che il reato e' per cio' solo perfezionato, mentre nella previsione delittuosa dell'art. 440 del codice penale, presa a termine di raffronto, consiste nell'attivita' di "chiunque corrompe o adultera .. sostanze destinate all'alimentazione", onde la fattispecie comporta un effetto ulteriore di alterazione della natura genuina delle sostanze, rispetto alla sola somministrazione; che, inoltre, la distinzione tra i due illeciti si incentra, in stretta correlazione con il ricordato elemento della condotta punibile, sulla presenza del requisito costitutivo del reato consistente, nella disposizione dell'art. 440 del codice penale, nel pericolo concreto per la salute pubblica, elemento, questo, che non si riscontra nella fattispecie legale di reato introdotta dalla norma denunziata: con quest'ultima il legislatore, sulla base di una generica previsione di pericolo astratto, piu' coerente con una fattispecie contravvenzionale, ha arretrato la soglia della punibilita' di interventi su sostanze destinate all'alimentazione umana, alla somministrazione in se' considerata; che, pertanto, la relazione tra le due disposizioni, sul piano normativo, non puo' essere configurata ne' in termini di specialita', ne' di sovrapposizione o successione dell'una rispetto all'altra, bensi' di reciproca autonomia delle medesime; il che risulta coerente con il principio della "salvezza delle norme penali vigenti" (e tale e' l'art. 440 citato) posto nella disposizione delegante piu' sopra ricordata; che, alla luce di tali rilievi, da un lato viene meno in radice il presupposto interpretativo di identita' degli ambiti applicativi delle norme su cui si basa la prospettata questione di legittimita' costituzionale, e, dall'altro, la sottolineata diversita' delle previsioni legali messe a raffronto comporta altresi' il venir meno del presupposto della asserita disparita' di trattamento, giacche' le situazioni regolate sono diverse; che, pertanto, la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata; mentre esula dall'oggetto del giudizio di costituzionalita', perche' spetta al giudice rimettente (sent. n. 168 del 1987), la valutazione circa il concreto atteggiarsi della relazione tra le due norme - art. 440 del codice penale, e art. 3, comma 1, del decreto legislativo n. 118 del 1992 - in rapporto al fatto quale dedotto in giudizio, se in termini di concorso formale di reati ovvero di assorbimento della seconda fattispecie meno grave nella prima, ove risultino in concreto realizzati gli elementi di quella incriminata dall'art. 440 del codice penale. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.